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Autore: Adeia Di Elferas    16/11/2018    1 recensioni
Caterina Sforza, nota come la Leonessa di Romagna, venne alla luce a Milano, nel 1463. Si distinse fin da bambina per la sua propensione al comando e alle armi, dando prova di grande prontezza di spirito e di indomito coraggio.
Bella, istruita, intelligente, abile politica e fiera guerriera, Caterina passò alla storia non solo come grande donna, ma anche come madre di Giovanni dalle Bande Nere.
La sua vita fu così mirabolante e piena di azione che ella stessa - a quanto pare - sul letto di morte confessò ad un frate: "Se io potessi scrivere tutto, farei stupire il mondo..."
[STORIA NON ANCORA REVISIONATA]
Genere: Drammatico, Generale, Guerra | Stato: in corso
Tipo di coppia: Nessuna
Note: nessuna | Avvertimenti: Contenuti forti, Tematiche delicate, Violenza | Contesto: Rinascimento
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“Ho incontrato un paio di giorni fa Niccolò Orsini, qui a Cesena.” disse Polidoro Tiberti, allungando un po' le gambe sotto al tavolo, gli occhi scentrati che indugiavano sul viso del fratello Achille: “E ha cercato di convincermi a passare dalla parte del Doge.”

L'altro, che era stato molto restio all'idea di tornare in quella città, che era stata casa sua per anni, ma che ora gli pareva ostile e sconosciuta, fece un mezzo sbuffo: “Immagino che il Conte di Pitigliano avesse ottimi argomenti, per convincerti... Ma vorrei ricordarti sono io il tuo garante presso la Tigre e, se per caso dovessi davvero passare dalla parte dei veneziani, sappi che avrai un fratello di meno, perché quella donna si rifarà su di me. Ti ha anche mandato a Roma, se ti ricordi, come suo uomo di fiducia. Immagina come sarebbe contenta, di vederti sul bucintoro di Barbarigo.”

Polidoro sollevò allora le mani e abbandonandosi contro lo schienale imbottito della sua sedia – un pezzo d'arredamento finissimo, come tutti quelli che si potevano trovare nel palazzo dei Tiberti – si premurò di dire: “Stai tranquillo, Achille. Non ho accettato e nemmeno intendo farlo. Però ho lasciato aperto uno spiraglio, almeno a parole.”

“Perché?” chiese l'altro, accigliandosi.

Non gli piaceva, quando suo fratello cercava di fare il doppiogiochista e, quella volta, a maggior ragione, sentì un brivido lungo la schiena, già immaginandosi la reazione della Sforza. Fino a quel momento la Contessa era stata con lui sempre fin troppo comprensiva e magnanima, ma se Polidoro si fosse rivelato un traditore...

“Avrai sentito anche tu che spirano venti di pace, al nord. Dicono che presto il Duca di Ferrara verrà formalmente incaricato di fare da mediatore tra Venezia e Firenze, per sedare la guerra nata per colpa di Pisa.” prese a dire Polidoro, facendosi più serio del suo solito: “Ebbene, anche gli alleati di Firenze dovranno cercare mediatori per la pace. Sappiamo tutti e due che la tua Sforza non è famosa per la sua calma. Se accettasse di usarmi come mediatore, anche il suo Stato ne gioverebbe.”

“Vuoi che sia io a fare il tuo nome?” chiese Achille, che conosceva anche troppo bene il tono del fratello, per non rendersi conto di essere stato chiamato a Cesena solo per sentirsi chiedere un favore.

“Se mi vuoi bene... Abbiamo lo stesso sangue, non scordarlo.” fece Polidoro, sollevando una mano e le spalle.

L'altro Tiberti si massaggiò la fronte qualche istante. Non sapeva nemmeno lui se fidarsi o meno.

“Le parlerò.” concesse alla fine: “Ma non ti posso garantire nulla.”

 

Da un paio di giorni il freddo sembrava aver allentato la sua morsa su Forlì. Caterina stava tergiversando, con Bianca: benché lei stessa le avesse proposto di passare insieme un po' di tempo nel suo laboratorio, ora che avrebbe avuto l'occasione di farlo, aveva preferito posticipare, adducendo scuse di vario genere.

Una, l'unica che la figlia aveva sentito come sincera, era proprio legata al miglioramento temporaneo del clima. La madre, infatti, le aveva detto che intendeva sfruttare quella tregua dalla neve e dal freddo per portare Galeazzo a caccia con sé.

La Riario, in effetti, sapeva anche troppo bene quanto suo fratello ci tenesse, a quei momenti e così aveva subito sorriso, dicendo alla Tigre che per lei non c'era nessun problema.

La Sforza e il figlio avevano allora lasciato la rocca di mattina presto, prima che sorgesse il sole, e si erano inoltrati nella riserva. Sarebbero tornati prima del mezzogiorno, come aveva preannunciato la Contessa, perché la donna non poteva permettersi di restare lontana dalla città troppo a lungo, in quei giorni, ma a Galeazzo andava bene anche solo qualche ora: l'importante era stare con lei.

Benché il tempo fosse migliorato, però, nel bosco le prede ancora scarseggiavano. Qualche coniglio striminzito e qualche uccello, che però tanto la Leonessa quanto il figlio preferirono lasciar scappare.

L'occasione per una buona caccia arrivò solo quando intravidero tra il fogliame ancora coperto di brina le corna di un cervo. Era da solo e quando fece qualche metro in più, apparve chiaro a entrambi quanto fosse spaesato. Probabilmente stava cercando del cibo e dell'acqua, ma il fatto che fosse tutt'altro che magro lo rese una preda molto appetibile. Con una bestia di quelle dimensioni, le cuoche della rocca avrebbero preparato uno stufato che sarebbe durato per giorni.

Acquattata accanto a Galeazzo, dietro un fitto cespuglio di sterpi, la Sforza indicò la bestia al figlio e gli fece capire che spettava a lui ucciderlo.

Il Riario annuì e, prendendo dalla faretra una freccia, con lentezza e precisione, cominciò subito a prendere la mira. Quando incoccò, il cervo ebbe una sorta di presentimento, come se quel rumore, così sottile e impalpabile, portasse con sé un grido di morte.

Tuttavia, Galeazzo si dimostrò rapido e molto abile, riuscendo a far partire il colpo prima che l'animale facesse in tempo a fuggire. Non l'aveva centrato nel collo, dove sperava di colpirlo, ma nel torace. Tuttavia il cervo crollò in terra all'istante, morto, con un tonfo sordo che fece sollevare in volo qualche uccellino nascosto nelle fronte secche degli alberi.

Caterina si mise in piedi e, allungando l'occhio verso la bestia, disse: “Ben fatto.”

Il ragazzino, orgoglioso per l'approvazione della madre, la seguì fino alla carcassa, per controllare il risultato della sua azione. Dalla ferita sgorgava un rivolo di sangue chiaro che, a contatto con l'aria fredda, si stemperava in una colonnina di vapore. Gli occhi del cervo erano vitrei, la lingua era scivolata fuori dalle labbra e le quattro zampe giacevano inerti in posizione scomposta.

“Avanti...” fece a quel punto la Contessa, indicandogli la freccia che svettava tra le carni: “Tirala fuori e poi aiutami a macellarlo.”

Galeazzo provvide subito a riprendere la freccia. La punta, se ne rese conto mentre la infilava nella faretra, si era un po' incrinata. Nel penetrare l'animale, doveva aver incontrato un osso.

Poi, dando fondo a tutte le sue forze, aiutò la madre a legare la carcassa e un ramo robusto. Una volta appeso, il cervo si mostrò in tutta la sua magnificenza. Era un esemplare abbastanza grosso e dalle corna si capiva che non fosse nemmeno giovanissimo.

“Prendi il tuo coltello. Adesso lo scuoiamo...” fece la Contessa, facendo cenno al ragazzino di avvicinarsi.

Per un po', nel silenzio del bosco, madre e figlio restarono in silenzio, intenti a lavorare sul cervo che avevano appena cacciato. L'odore della carne e del sangue entravano nelle narici del giovane Riario dandogli quasi un senso di vertigine. Sentire sotto le dita il calore della vita che se n'era appena andata era qualcosa che lo colpiva, come la prima volta che gli era capitato di farlo, e per quanta attenzione stesse mettendo nell'osservare e copiare i gesti della madre, era la consapevolezza di aver ucciso lui quell'animale a soggiogarlo.

Separati i visceri dalla pelliccia e dalle carni nobili, la Sforza si ripulì un po' le mani nello straccio che portava sempre con sé, quando andava a caccia, e poi si decise, finalmente ad affrontare il discorso che l'aveva portata a chiedere a suo figlio di seguirla nei boschi.

Galeazzo, gli occhi verdi che ancora a tratti indugiavano sui resti del cervo, ripulì a sua volta il proprio coltello, e, poi, usò lo stesso pezzo di stoffa della madre per cercare di levarsi il sangue dalle mani.

“Dimmi come schiereresti un esercito in una battaglia in campo aperto.” fece la donna, con voce bassa, riprendendo lo straccio.

Il Riario deglutì e poi rispose alla richiesta, dando così inizio a una lunga interrogazione della madre che, più domandava, più restava ben impressionata dalla preparazione teorica del figlio.

Mentre discutevano, tolsero ciò che restava del cervo dal ramo e poi si sedettero l'uno accanto all'altro vicino all'albero, scegliendo il piattone di una grossa pietra che, per quanto fredda, almeno non era umida come il suolo.

“Sai perché, in caso di battaglia in campo aperto, bisogna cercare di schierare in prima linea i soldati più giovani e inesperti?” chiese la donna, osservando il profilo del figlio.

Galeazzo, dal viso lungo com'era stato quello del padre, ma dai tratti che ricordavano a Caterina quelli dei suoi fratelli Alessandro e Carlo, ci ragionò su un po' e poi provò a rispondere, con poca sicurezza: “Perché sono più veloci..?”

La Tigre sollevò un sopracciglio, abbozzando un sorriso e scosse il capo: “Per quanto suggestiva, non è la motivazione corretta.”

Siccome il figlio pareva in difficoltà, nel dare quella risposta, la madre decise di non lasciarlo sulla graticola, dando lei stessa la soluzione.

“In prima linea vanno schierati i più giovani e inesperti, perché bisogna sfruttare il loro entusiasmo, bisogna esaltarli con promesse di gloria, di onore, facendo, insomma, leva sul loro orgoglio. E poi, se vanno alla carica per primi – soggiunse la Contessa, spostando lo sguardo dal figlio al suolo – è meglio, perché si ha minor rischio che si paralizzino per la paura. In terra non ci sono ancora cadaveri, non hanno ancora visto uomini morire, non hanno ancora sentito le grida di dolore dei feriti... In pratica, non gli si dà il tempo di capire in che mattanza si sono infilati.”

Galeazzo si strinse un po' nelle spalle, il mantello di lana che odorava di umidità a circondarlo, ma non parve troppo scosso da quel discorso. Teneva le mani allacciate attorno a un ginocchio, la gamba piegata, e non si era reso conto di come lo sguardo della madre continuasse a cadere sulle sue dita affusolate ed eleganti. Per quanto le unghie fossero sporche di sangue e la pelle paresse arrossata per il medesimo motivo, era impossibile non notare la loro bellezza.

La Sforza ricordava anche troppo bene la mani di suo padre, il Duca di Milano. La cura ossessiva che quell'uomo aveva per loro era stata al palazzo di Porta Giovia il soggetto di miriadi di pettegolezzi. Era vero che Galeazzo Maria Sforza si premurava di curare le proprie mani con creme e attenzioni di ogni tipo – quasi mai, per esempio, cavalcava senza guanti, perfino in estate – ma c'era da sottolineare come fossero molto belle già di natura. Come quelle del suo omonimo nipote.

“E sai perché in fondo all'esercito si dovrebbero mettere i veterani più esperti?” chiese Caterina, senza però, aspettare questa volta un tentativo di risposta: “Perché se la battaglia si dovesse davvero fare critica, allora non resta che affidarsi all'esperienza dei veterani. I triari dell'antica Roma. Te ne ha parlato il tuo precettore, giusto?”

Il Riario annuì e confermò: “Sì, madre.”

La Tigre posò la mano ancora rossa per il sangue ripulito solo superficialmente sulla spalla del figlio e gli chiese, con tono quasi mesto: “Galeazzo, ti devo chiedere una cosa e voglio che tu mi risponda con sincerità. Se la risposta fosse un no, non devi vergognartene. Ricordati che la prima regola di un soldato è quella di valutare le proprie forze e sottrarsi, se non fosse in grado di fare il suo dovere, perché un soldato incapace di fare quello che deve è solo un pericolo per i suoi compagni.”

Quella premessa mise sull'attenti il ragazzino che, raddrizzando la schiena, si voltò un po' verso la madre, sentendo la sua stretta sulla spalla farsi più salda: “Va bene, madre.”

Annuendo un po' tra sé la Sforza si fece coraggio e gli chiese: “Te la sentiresti di accettare una condotta, se io te la procurassi?”

Galeazzo schiuse appena le labbra. Gli tornò alla mente il giorno in cui aveva aiutato i soldati di Forlì a difendersi dall'aggressione dei veneziani. Non aveva avuto un ruolo importante, si era limitato a passare le pietre a chi le lanciava dalle mura, però era stato un assaggio di cosa fosse una battaglia.

Vedendolo visibilmente spaventato, la Contessa pensò di aver commesso un errore. Suo figlio non era pronto, era stata una sciocca a pensare che potesse esserlo. Era troppo giovane, troppo inesperto e non sarebbe mai riuscito a far fronte a un simile impegno.

“Posso farlo.” disse invece Galeazzo, appena prima che la donna ritrattasse la sua proposta.

Caterina quasi trattenne il fiato e chiese, per conferma: “Ne sei sicuro? Sai cosa comporterebbe?”

Il Riario deglutì e poi, con un soffio, confermò: “Sì, madre.”

La donna fece un paio di respiri pesanti e poi sottolineò: “Andare in guerra significa accettare l'idea di uccidere e di poter essere uccisi.”

“Lo so.” annuì il figlio, deglutendo.

“Ed è una cosa che ti spaventa?” indagò la Leonessa, per quanto la risposta le paresse scontata.

Il ragazzino annuì, ma aggiunse: “Ho imparato da voi che è quando si ha paura che si ha l'occasione di mostrare il proprio coraggio. Se vi fidate di me al punto dal volermi procurare una condotta, allora non vi deluderò.”

Poche volte come in quel momento la Sforza aveva sentito quel figlio come sangue del proprio sangue. Si poteva specchiare nel fuoco che ardeva nei suoi occhi, sentiva nella sua voce lo stesso fremito che aveva avvertito nella propria quando era stata messa davanti a decisioni drastiche e che richiedevano coraggio.

“Voglio poter portare le vostre insegne, se avrò una condotta mia.” fece Galeazzo, fissando la madre con un velo di timore, come se avesse paura di vedersi negato quello che nella sua ottica era il più alto dei privilegi.

“No.” disse subito la madre, tamponando all'istante la delusione che si stava dipingendo sul viso del figlio spiegando: “Porterai le insegne degli Sforza Riario, non solo le mie. Non devi vergognarti del cognome che porti. Tu non sei tuo padre e so che tu risolleverai il nome che porti e un giorno i tuoi figli saranno fieri di essere dei Riario.”

“Sforza Riario.” la corresse lui.

Il sentore pressante della carcassa del cervo e quello onnipresente del bosco si mescolarono con quello familiare della madre si mescolarono nelle narici di Galeazzo, quando la donna lo strinse a sé con forza, quasi non volesse lasciarlo andare più.

Sciolto l'abbraccio, Caterina gli accarezzò la guancia, arrossata per l'emozione e per il freddo, e gli sussurrò: “Cercherò di farti avere una condotta che ti permetta di farti un nome. Non so se ci riuscirò subito, ma...”

Con un sospiro, la Contessa si alzò e porse la mano al figlio, per aiutarlo a fare altrettanto.

Il ragazzino, mentre andavano a prendere i cavalli e issavano il cervo su uno di essi, si chiese come mai sua madre avesse preso quella decisione con una guerra che lambiva da vicino il loro Stato. Più ci ragionava più non riusciva a capire se nelle sue intenzioni ci fosse quella di mandarlo a combattere al fronte, ma agli stipendi di una città più prestigiosa, rispetto a Forlì, o se invece volesse semplicemente trovare un modo per allontanarlo da casa e quindi da qualche pericolo più grande, che non la guerra.

Con ancora quel dubbio che l'attanagliava, Galeazzo montò in sella sullo stallone della Tigre, le redini nelle mani della Sforza, e cercò di godersi il più possibile in pace la lente cavalcata di ritorno.

Una volta a Ravaldino, lasciato il cervo ai servi e i cavalli agli stallieri, la donna lasciò il figlio libero di andarsi a ripulire in modo migliore dal sangue e cambiarsi, in vista del resto della giornata, mentre lei, prima di passare dalla propria camera, andò un momento dal castellano, per sapere se ci fossero novità.

“Manfredi è arrivato al campo da qualche giorno – riassunse il Feo, scartabellando nella corrispondenza di quella mattina – e tutto sembra tranquillo, poi vostro figlio Cesare è a pochi giorni da qui e Pino Numai ci fa sapere che aggireranno Faenza, per evitare incidenti.”

“Nient'altro?” chiese la Sforza, restando sulla porta.

Il castellano scosse il capo, poi, inavvertitamente, l'occhio gli sfuggì dai capelli un po' scompigliati della Tigre – sempre tenuti sciolti, nemmeno fosse una popolano qualsiasi – alle mani ancora rosse di sangue. Sapeva che si trattava di sangue animale, dato che la Contessa era stata a caccia, ma gli fece uno strano effetto comunque, vederla così.

“Ah, dimenticavo...” fece l'uomo, mentre la sua signora stava per andarsene: “Il Capitano Rossetti, tornato dal suo turno sulle mura mi ha detto che è passato in mezzo alla città per alcuni affari...”

“E?” lo incalzò Caterina, insofferente davanti a quegli inutili giri di parole.

“Ecco, non so se ne sapete qualcosa, ma ha notato che il Novacula stava chiudendo la bottega come se dovesse star via per un po'. So che è vostro amico, quindi immagino lo sapeste già, ma mi pareva gentile riferirvelo.” fece Cesare, guardandola di sottinsu, per carpirne la reazione.

La donna rimase di sale per qualche istante e poi farfugliò: “Avete... Avete fatto bene a dirmelo, grazie.” e detto ciò sparì.

 

“Forse è troppo presto.” sussurrò Alfonso, tenendo stretta a sé Lucrecia, che in quel momento gli pareva così indifesa e piccola da potersi rompere da un momento all'altro: “Dovremmo aspettare ancora un po'. Hai sentito quello che ha detto il medico di tuo padre.”

Benché lui fosse più giovane di lei, da quando la moglie aveva perso il loro tanto sospirato figlio, l'Aragona si sentiva investito di un nuovo ruolo, molto più importante e complicato di quello che aveva avuto fino a quel momento.

Siccome la giovane Borja era ancora ritenuta troppo debole per fare vita di società, Lucrecia passava gran parte delle sue giornate chiusa nei suoi appartamenti, spesso in compagnia delle sue amiche, ma, molto più sovente, del marito.

“Ci serve un erede, Alfonso.” sussurrò lei, premendosi contro il suo petto: “Non è troppo presto. Il medico di mio padre non sa nulla, di donne. Ho parlato con la levatrice che... Che mi ha... Che mi ha aiutata, e lei dice che se io me la sento, allora non ci sono altri problemi.”

Il giovane sospirò, scuotendo appena il capo: “Dopo quello che è successo, vedrai che le nostre famiglie saranno pazienti e capiranno. Ci daranno tempo.”

“Mio fratello tornerà presto dalla Francia. Non c'è tempo, non ce n'è nemmeno un po'.” lo contraddisse la Borja, trattenendo a stento un singhiozzo di paura.

Non era solo il pensiero di riavere accanto Cesare ad atterrirla, ma tutto quello che il suo arrivo avrebbe comportato. Non si interessava di politica, ma aveva capito che sarebbe arrivata una nuova guerra, molto più devastante di quella tra Firenze e Venezia. Non sapeva come Napoli intendesse porgersi nei confronti di suo padre il papa e vedeva nella nascita di un erede che unisse le loro stirpi l'unica via per non dover rinunciare ad Alfonso.

L'Aragona si mosse un po' tra le coperte, vagamente a disagio. Se avesse potuto seguire solo il suo istinto, avrebbe assecondato sua moglie senza batter ciglio, ma aveva sentito anche troppe brutte storie, sulle donne che avevano perso da poco un bambino e quindi non voleva fare nulla per metterla in pericolo.

Tuttavia, quando Lucrecia prese in mano la situazione, insistendo sempre di più, il napoletano non ebbe né la forza mentale, né la prontezza di sottrarsi davvero alle sue richieste.

Quando finalmente, dopo tutti quei giorni di ansie e dolore, i due si trovarono ancora accaldati e stretti l'uno all'altra, trovando nel tepore delle coperte un rifugio impagabile dal mondo, Alfonso trovò finalmente il coraggio di ribadire: “Speriamo che non sia troppo presto...”

“Non mi hai fatto male, se è questo di cui hai paura.” ribatté con voce leggera Lucrecia, stringendosi a lui sempre di più: “E se dovessi essere rimasta incinta, ebbene, è proprio quello che voglio.”

L'Aragona la teneva contro di sé, beandosi del suo calore. Anche se era pieno giorno, quel letto, nell'ombra cercata con i tendoni della finestra tirati, gli pareva l'unico posto al mondo in cui fosse per lui giusto stare.

Passarono i minuti e forse le ore e alla fine Lucrecia riuscì davvero a rilassarsi di nuovo. Nel dormiveglia, borbottò qualcosa. Il marito tese l'orecchio, ascoltando quel misto di italiano e spagnolo che usciva dalle labbra quasi chiuse della donna che amava.

Capì solo l'ultima parte, quella che sussurrò appena prima di assopirsi: “Dio mi ha strappato nostro figlio per punirmi per il mio Juanito... Ma adesso, adesso mi ripagherà di tutto il dolore che mi ha fatto soffrire...”

E anche se le parole arrivarono abbastanza chiare alle sue orecchie, Alfonso comprese solo in parte il loro significato. Il modo in cui sua moglie aveva detto 'mio Jaun' gli lasciò un dubbio non indifferente: si riferiva a suo figlio, chiamato Giovanni al secolo, ma da lei spesso appellato con quel diminutivo, o al suo defunto fratello Juan?

 

Quando la Sforza arrivò davanti alla bottega di Bernardi, lo trovò intento a sistemare le assi di legno sulla porta d'ingresso.

“State chiudendo? A quest'ora? Non vi pare un po' presto? Le strade sono ancora affollate, è pieno giorno.” gli disse, mentre l'uomo era ancora di spalle.

Sentendo la voce della Tigre, il Novacula si voltò lentamente e ricambiò quella sorta di saluto con il medesimo stile: “Oh, Contessa.... Ma è davvero da molto, molto tempo che non vi vedo qui. Che forse avevate dimenticato la strada?”

La stoccata del barbiere – che le ricordava molto quelle che si era permesso di lanciarle qualche tempo addietro, quando al suo fianco c'era ancora Giovanni – la mise un po' in difficoltà.

Sapeva di averlo trascurato moltissimo, negli ultimi mesi, e di non aver gestito in modo corretto quella che aveva sempre ritenuto una preziosa amicizia. Però si giustificava dicendosi che i tempi erano difficili e che Andrea era infantile, a prendersela tanto, se lei aveva diradato un po' le sue visite.

“Possiamo entrare un momento?” chiese la donna, indicando la barberia.

Bernardi strinse le labbra, fissandola. Nel trovarsela davanti a quel modo e nel sentirsi rivolgere quella richiesta, l'amarezza che aveva provato sempre più spesso nelle ultime settimane riaffiorò con tutta la sua forza.

Si era illuso di essere qualcosa di importante, per la Contessa. Le aveva salvato la vita, ben più di una volta, ed era sempre stato leale, con lei. In cambio cosa aveva ricevuto? Niente, se non impicci e problemi. Non aveva nemmeno più la consolazione di sentirsi utile.

“Possiamo parlare anche qui.” fece lui, voltandole di nuovo le spalle e tornando a sistemare la porta della sua bottega: “Perché siete venuta a cercarmi? Che vi serve questa volta?”

L'ostilità nelle parole del Novacula era tanto marcata che la Leonessa fu tentata di chiudere subito la conversazione e andarsene. Tuttavia non poteva farlo. Era chiaro, come le aveva riferito il castellano, che Andrea stesse preparando la sua barberia per un periodo di chiusura e la Contessa doveva saperne il motivo.

Bernardi sapeva troppo, su di lei e sulla città, per rischiare di averlo a piede libero e senza sapere dove. Se quell'insoddisfazione, così palpabile nelle sue parole, l'avesse portato a cercare una sorta di vendetta per la freddezza della Sforza, ebbene lei doveva saperlo per tempo e, in caso di pericolo, arrivare anche a fermarlo.

“Come signora di questa città, devo sapere tutto sui miei sudditi – prese a dire la donna, posando lo sguardo su alcuni forlivesi che, passando accanto a loro proprio in quel momento, li stavano osservando straniti – quindi se avete intenzione di chiudere la vostra attività o di lasciare Forlì, dovete dirmelo.”

“In tutta onestà, mia signora – ribatté il Novacula, tornando a concentrarsi su di lei, le braccia incrociate sul petto – non pensavo che vi interessasse sapere qualcosa di me.”

Caterina scosse piano il capo, trattenendosi a stento da una reazione violenta. Era stanca, in quei giorni, e preoccupata e sentire un presunto amico parlarle così stava per farle saltare i nervi.

Con un respiro lento, per richiamare a sé la calma necessaria, la donna ripeté: “Voglio sapere cosa state facendo.”

Il barbiere si strinse un po' nelle spalle, guardò il cielo grigio e poi, sollevando uno sbuffo di vapore con un sospiro, spiegò: “Sto andando a Bologna per qualche giorno.”

“Cosa andate a fare, a Bologna?” indagò all'istante la Tigre, avvicinandosi di un passo, incurante degli sguardi dei passanti che si fissavano sempre più spesso su di lei.

La domanda era uscita dalla gola della Sforza quasi come un ringhio, tanto che Andrea per poco non se ne spaventò.

Accigliandosi, non capendo tanta aggressività, rispose: “Ho degli affari di famiglia in sospeso. I miei fratelli vivono ancora tutti là. Non ci vediamo da anni e certe nostre questioni sono arrivate al dunque e quindi devo per forza andare di persona.”

Quella spiegazione placò all'istante la donna. Quello che diceva il Novacula sui suoi fratelli era vero. In passato lui stesso le aveva raccontato di come avesse litigato con tutta la sua famiglia, che da generazioni produceva costruttori degni di nota, proprio perché lui non aveva voluto seguire il mestiere del padre. Così, molto giovane, aveva lasciato la sua terra natia, Bologna, per imparare un mestiere, ed era finito a Forlì, dove, solo, ma libero, aveva aperto la sua bottega, dedicandosi anche alle sue amate cronache.

“Vi sta bene?” chiese Bernardi, in parte soddisfatto di essere riuscito a far tacere la sua signora, e in parte desideroso di scoprire cosa lei avesse pensato, per farsi tanto rabbiosa nei suoi confronti.

“Certo, certo...” fece la Tigre, schiarendosi la voce: “Anzi, vi auguro un viaggio agevole.”

Il barbiere annuì, ma poi, vedendo come la Contessa fosse già in procinto di allontanarsi senza nemmeno salutarlo, lasciò che il proprio rancore parlasse ancora una volta: “Comunque, mia signora, invece di farvi tanti scrupoli per quello che fa un pover'uomo come me, dovreste curare di più i vostri figli.”

“Come..?” fece Caterina, tornando sui suoi passi, più sperando che avvicinandosi l'uomo abbassasse la voce, che non altro.

“A vostro figlio Ottaviano, tanto per cominciare. Da che è tornato, non c'è quasi notte in cui non lo sbattano fuori a forza da qualche bordello perché ha picchiato una delle ragazze o perché non vuole pagare. E da quando non c'è più in città il suo amico, messer Manfredi, la cosa è parecchio peggiorata, sapete? Almeno quel faentino lo teneva a bada. Credete che sia una bella immagine, per uno che si fa chiamare Conte Riario e pretende di essere il vostro erede?” fece Bernardi, avendo cura di parlare a voce molto bassa.

Voleva ferirla, ma non necessariamente dare scandalo. Nemmeno a lui piaceva il modo in cui i passanti li guardavano, indugiando più del dovuto nella speranza di carpire qualche frase interessante.

“Ottaviano non è il mio erede.” tagliò corto la Contessa, che pure non avrebbe voluto sentire certe cose.

Aveva mollato un po' la sorveglianza sul suo primogenito perché aveva cose più importanti a cui pensare, ma non poteva tollerare l'idea che quello che era ormai un uomo di quasi vent'anni potesse restare impunito per crimini del genere. Non poteva nemmeno rinchiuderlo, però, perché aveva troppi occhi puntati addosso. L'avrebbe fatto seguire da un suo uomo di fiducia. Magari sarebbe stato sufficiente, se non altro, a ridimensionarlo.

“Come dite voi, mia signora.” soffiò Andrea, sollevando le mani in segno di resa: “E di vostro figlio Bernardino, invece, che dite? Se in città scoppia un tafferuglio con dei ragazzini di mezzo, state pur certa che è lui ad aver alzato le mani per primo. Lo sapete che si fa chiamare Carlo, dai suoi scagnozzi?”

Che Bernardino fosse un attaccabrighe, purtroppo, la Sforza lo sapeva bene. Quell'ultimo dettaglio, però, la mise in guardia. Carlo era il nome che Giacomo aveva arbitrariamente scelto per lui, dopo aver ricevuto il titolo di Barone dal re di Francia, Carlo VIII, ma Caterina aveva sempre chiamato il figlio solo Bernardino.

Pensare che quel bambino avesse adottato autonomamente il suo secondo nome come nome di battaglia, diede una stretta allo stomaco della donna.

Le avevano detto in tutti i modi – da Lucrezia, sua madre, quando era ancora viva, fino alle recenti osservazioni di sua figlia Bianca – quanto Bernardino soffrisse la mancanza del padre, e quello, pensò la Tigre, ne era un segno tangibile.

Solo in quel momento, mentre la donna le stringeva a pugno lungo i fianchi, Bernardi si accorse che ella aveva le mani rosse di quello che doveva essere sangue.

Rabbrividì, chiedendosi se fosse sangue umano o animale e poi, la mente che tornava a tutte le brutture a cui quella donna bellissima e terribile si era abbandonata alla morte del suo secondo marito, si lasciò scappare un lapidario: “Ma in fondo sono figli vostri. Da una donna tanto violenta che altro poteva nascere?”

“Ognuno ha i suoi limiti.” concluse la donna, ferita più per la verità delle parole del Novacula, che non per la sua insolenza, sollevando un po' il mento, gli occhi verdi che si posavano glaciali su Bernardi: “Io non sono nata per essere una madre, così come voi non siete nato per fare lo storiografo, e infatti io sono un capo di Stato e voi un barbiere. Tutto il resto ci viene come capita.”

Punto nell'orgoglio, laddove faceva più male, Andrea strinse i denti ed evitò a stento di sottolineare come lui fosse uno storiografo molto più dotato di quanto non lo fosse lei come madre, riuscendo a dire solo: “Dato che vi interessa tanto quel che faccio, se vorrete vi farò sapere con esattezza quando partirò per Bologna e anche quando mi comoderà di tornare a Forlì.”

“Vi converrà farlo.” concordò la Tigre: “Perché Bologna non è più città che possiamo definire amica e tutti quelli che arrivano da là hanno bisogno del mio permesso per entrare in città.”

Il Novacula si profuse allora in un inchino eccessivamente marcato, e tutti i presenti si fermarono un istante a guardare la Leonessa che, come una belva, voltava i tacchi e se ne andava, tanto in collera da avere il viso simile a quello di un demone, più che a quello di una donna.

 

 
 
   
 
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