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Autore: _EverAfter_    19/11/2018    6 recensioni
‒ Vuoi… vuoi che te la legga?
Non ribatté subito. Era rimasta sorpresa, ammutolita da quell'insolita domanda che non credeva potesse essere uscita proprio dalla bocca sempre malevola del compagno. E mentre lo sentiva dire: ‒ Non importa, lascia perdere ‒, la sua mano afferrò il braccio tonico del ragazzo, imbarazzandosi per la sua vicinanza.
‒ Sì, per piacere, ‒ replicò, felice, ‒ leggi per me, Vegeta.

Bulma e Vegeta sono amici d'infanzia.
Lei è dolce e solare, mentre lui è scorbutico e privo di tatto.
Un giorno come tanti, Bulma scopre di star lentamente perdendo la vista, cosa che la porterà per sempre a dire addio ai suoi amati libri.
In mezzo al buio di quell'orrendo destino, una pallida luce sembra far sbocciare un sentimento nuovo... un sentimento che Bulma non ha più bisogno di vedere.
[Terza classificata al Contest "Dai vita alla tua fantasia con i generi letterari!" indetto da 6Misaki sul forum di EFP.]
Genere: Fluff, Romantico, Sentimentale | Stato: completa
Tipo di coppia: Het | Personaggi: Bulma, Vegeta | Coppie: Bulma/Vegeta
Note: AU | Avvertimenti: nessuno
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Nome (EFP e Forum): _EverAfter_ (EFP); _Vintage_ (Forum).
Titolo della storia: Secondo atto, Quinta scena
Pacchetto scelto: Pacchetto 6 (con entrambi gli elementi extra)
Genere: Fluff, Romantico, Sentimentale
Rating: Arancione
Fandom: Dragon Ball
Note (facoltative): è un'AU in cui Vegeta e Bulma sono studenti liceali e amici d'infanzia.






Secondo-atto-Quinta-scena







But love is blind and lovers cannot see

The pretty follies that themselves commit...

Merchant of Venice







‒ Questo le potrebbe procurare un po’ di bruciore, ma non vi dia peso.

Altro che bruciore, quel maledetto collirio era davvero una tortura; ogni volta che sentiva le gocce incriminate premersi contro la sua cornea, doveva trattenersi dall’imprecare aspramente contro il malcapitato infermiere, la cui sagoma le appariva sempre sfocata a causa del dolore che le impediva di tenere gli occhi aperti.

Era ormai lì da una settimana, ma non aveva potuto constatare alcun progresso. I suoi genitori non facevano altro che farle domande sulla sua salute, ma il verdetto era ben lampante: da piccola riusciva a vedere perfettamente i contorni delle persone attorno a lei, poi iniziò a focalizzarle sempre di meno, fino a perdere parte della propria nitidezza. Quel che rimaneva della sua vista, al momento, erano solo le ombre e l’avvilente biancume di quell’ospedale, che le appariva ben più deprimente delle presenze che vedeva solo di sfuggita.

C’era solo un infermiere che si prendeva la briga di scambiare qualche chiacchiera, ma non ricordava neppure il suo nome – ammesso che glielo avesse mai detto. Non che le importasse, in realtà. Nonostante tutto, le piaceva la solitudine.

‒ Bulma, tesoro. ‒ La madre le si affiancò, porgendole un vassoio ricolmo di tristissimi manicaretti. ‒ Devi mangiare qualcosa.

‒ Non ho fame.

‒ Ma, Bulma…

‒ Non ho fame!

Non aveva fame davvero. Era tutto il giorno che provava una strana fitta allo stomaco, così intensa da procurarle la nausea. Se tentava di chiudere gli occhi, quell’ondata di malessere l’assaliva, ma se provava a tenerli aperti allora si ricordava di quanto potesse darle fastidio il collirio. In altre parole, per qualunque scelta avesse optato, sarebbe stata destinata a sentirsi male.

Cercò di concentrare i pensieri su altro che non fosse l’inettitudine del suo corpicino da quattro soldi, ma tutto sembrava congiurare contro di lei: sentì il rumore incessante di alcuni passi fare capolino dalla porta della stanza.

‒ Ancora acida, la secchia? ‒ Quella voce era la sua, non c’erano dubbi.

‒ Nessuno ti ha chiesto di venire, oggi.

Il ragazzo non le rispose, e Bulma sentì l’improvviso sbattere dei libri sul tavolino al suo fianco. Sobbalzò, sorpresa.

‒ Ohi! ‒ lo sgridò. ‒ Mi hai fatto prendere un colpo!

‒ Mi avresti rotto i coglioni per tutta la giornata, se non ti avessi portato i compiti, ‒ ribatté il ragazzo, ‒ per cui suppongo che tu debba ringraziarmi. Ah, chiaramente sono illeggibili.

‒ Allora cosa diavolo li hai portati a fare?

Vegeta scrollò le spalle, poi rispose: ‒ Non avevo intenzione di dirtelo infatti, tanto non avresti potuto leggerli comunque.

Le scappò una risata. Già, era tipico dell’amico, ironizzare su un qualcosa di così tanto delicato. Stupida lei a scordarselo.

‒ Ah, dimenticavo, ‒ lo sentì dire poi, ‒ ti ho portato anche quella schifezza di libro che mi avevi chiesto.

‒ Si chiama Shakespeare, ignorante.

‒ Quello che è.

‒ Grazie, comunque.

‒ Prego.

Rimasero in silenzio per un po’ di tempo. Bulma cercava di mettere a fuoco la sagoma offuscata del compagno di classe, senza successo; aveva l’uniforme scolastica, questo riusciva facilmente a capirlo dal colore scuro della divisa che indossava, ma più non riusciva a dire. Per certi aspetti era davvero frustrante, vivere a quel modo.

Conosceva Vegeta fin dai tempi delle scuole elementari: era sempre stato un bullo, dacché riusciva a ricordare. Non l’aveva mai visto socializzare con nessuno, e tutti cercavano di stargli alla larga a causa del suo terribile caratteraccio. Non era nato per stare a contatto con le persone, questo era certo.

Erano diventati amici per sbaglio, quando la sensei l’aveva obbligata ad andare a trovarlo a casa sua per portargli i compiti delle vacanze invernali, dato che la febbre lo aveva costretto a letto. Da quel lontano giorno di tanti anni fa, il ragazzo le aveva dato la morte ogni singolo istante della sua vita: la prendeva in giro, la sbeffeggiava davanti agli altri, le dava della secchia e passava tutte le giornate attaccato alla sua gonna da liceale, infischiandosene degli altri intorno a loro.

Vegeta era un tipo complicato, ma da quando Bulma era in ospedale si era presentato ogni giorno lì, alla stessa ora: 15:15. Preciso come un orologio svizzero.

Ogni giorno se ne usciva con una scusa diversa: “Passavo di qui per caso”, poco importava che casa sua distasse almeno quindici chilometri da lì; “Credevo che il numero che mi ha chiamato fossi tu”, ma in realtà l’aveva salvata nella sua rubrica sotto la dicitura BulmAnatra; “Ti ho portato gli appunti”, quando a malapena distingueva la A dalla B.

La compagnia del ragazzo non le dispiaceva affatto, ma se ne riguardava bene dal confessarglielo: l’avrebbe presa in giro per mesi, e questo lei certo non poteva permetterlo.

‒ È vero, ‒ lo sentì dire, ‒ che stai diventando cieca?

Bulma si morse il labbro, prima di sorridere. Dannazione, Vegeta non riusciva proprio ad usarli, i mezzi termini. Questa parte di lui, prima di quella domanda, le piaceva.

‒ Già. ‒ Non riuscì a pronunciare altro. ‒ Già, è così.

‒ E cosa intendi fare?

Il ragazzo la stava guardando, ma lei non poteva saperlo. Non poteva sapere cosa si celasse dietro le sue iridi scure, ma se la sua vista le avesse permesso d’affinare lo sguardo, allora sì, avrebbe visto tutta la preoccupazione celata in quegli occhi, che erano così tanto abituati a farsi capire. Vegeta non riusciva mai a dirle ciò che pensava, cosa provava. Senza i begli occhi azzurri di Bulma, questo costituiva sicuramente un problema, perché lei non avrebbe più potuto leggerlo. E lui non avrebbe più potuto farsi capire.

‒ Ci sarà senz’altro un modo. ‒ Per qualche motivo, la voce del ragazzo le apparve più apprensiva del solito. ‒ Magari con la chirurgia, magari…

‒ Vegeta, ‒ lo chiamò, trattenendo un singhiozzo, ‒ non c’è più nulla da fare.

‒ Ma che cazzo! ‒ Si sentì scuotere, mentre sentiva il fiato del ragazzo sbattere contro la pelle del proprio viso. ‒ È davvero così che vuoi che finisca?

Bulma si zittì, percependo le lacrime inumidirle le guance. No, certo che non voleva che finisse a quel modo. Fosse dipeso da lei, il problema non sarebbe neanche sorto. Chi avrebbe mai voluto smettere d’osservare il mondo?

Sentì le mani ferree dell’amico diminuire la loro presa sulle sue spalle. ‒ Bulma, io...

‒ Fa niente, Vegeta, ‒ sospirò la turchina, lasciando cadere la testa sul cuscino. ‒ È così che deve andare.

Il ragazzo si sentì invadere da una nuova ondata di rabbia; stringeva i pugni nelle mani e intimava a sé stesso di non sbottare come un istante prima. Non ci era abituato, alla calma, eppure per quel volto così sconsolato davanti a sé avrebbe anche potuto fare un tentativo.

Si mise a sedere al fianco della giovane, afferrando con decisione il libro dai ghirigori dorati. Lo aprì, sfogliandone distrattamente qualche pagina. Era certo che la sua opera preferita fosse lì dentro, ma non riusciva a ricordarne il titolo.

‒ Ohi, Bulma, ‒ la chiamò, e si tranquillizzò al pensiero che la ragazza non potesse vedere il rossore dipinto sul suo volto, ‒ come diavolo si chiama quell’opera da quattro soldi che leggi sempre?

‒ Di quale parli?

‒ Ma sì dai, hai capito. Quella del venditore, di quella città italiana tutta a cazzi suoi, che è mezza sommersa dall’acqua…

La turchina scoppiò a ridere, mentre gli rispondeva: ‒ È il Mercante di Venezia.

‒ Potevi anche evitare di sogghignare come una scema ‒ replicò, incollerito.

Bulma rise ancora, prima di rimanere inebetita dalle parole che seguirono.

‒ Vuoi… vuoi che te la legga?

Non ribatté subito. Era rimasta sorpresa, ammutolita da quell’insolita domanda che non credeva potesse essere uscita proprio dalla bocca sempre malevola del compagno. E mentre lo sentiva dire: ‒ Non importa, lascia perdere ‒, la sua mano afferrò il braccio tonico del ragazzo, imbarazzandosi per la sua vicinanza.

Non si spiegava il perché lo avesse fatto, ma per qualche ragione la vicinanza di Vegeta sembrava distoglierla dall’ondata deprimente in cui era stata catapultata da una settimana. La trattava come sempre, pur non celando la sua manifesta preoccupazione. Ovvio, non poteva certo aspettarsi da lui un qualcosa di plateale, Vegeta non ne era proprio il tipo, non le avrebbe mai confessato quanto fosse stato in pena per lei, ma nonostante tutto andava bene così. Non sarebbe stato lui, altrimenti.

‒ Sì, per piacere, ‒ replicò, felice, ‒ leggi per me, Vegeta.

‒ Guarda che non sono spedito nella lettura, a volte m’impappino e dico cose a caso, ‒ tentò di giustificarsi il ragazzo, grattandosi nervosamente la nuca, ‒ se vedo che scoppi a ridere, chiudo tutto e me ne vado. Siamo intesi?

Bulma annuì. ‒ Intesi.



***




DUE MESI DOPO



… Ma Amore è cieco, e gli amanti non vedono le amabili follie cui s’abbandonano. Secondo atto, quinta scena¹.

‒ Perché diavolo non te lo leggi da sola, allora? ‒ sbottò infastidito. ‒ Ogni cazzo di volta che arrivo qui, te ne esci con questa frase.

Bulma si lasciò andare sul letto, mentre stringeva a sé il volumetto in pelle. ‒ Non ci posso fare niente, è la mia scena preferita.

‒ Cosa c’è di così emozionante in una tipa che si traveste da maschio per incontrarsi con un tizio di nome Lorenzo?

La turchina si volse verso la voce del ragazzo, ignorando il cinismo di quelle parole. Da due mesi, il suo mondo era ormai ridotto ad una scatola indistinta di suoni e odori: ciò che prima riusciva superficialmente ad intravedere dalle pupille distorte, in quel momento era come un ricordo anch’esso offuscato, vittima di quella cecità che l’aveva costretta a dire addio ai colori, alla luminosità, a quel mondo che aveva amato e dal quale non sarebbe mai più tornata.

In quella disperazione, la voce di Vegeta che leggeva le appariva come la più folgorante delle luci viste in passato. Era stonata e gutturale, troppo profonda per recitare le parti femminili, eppure le piaceva: per quanto facesse finta che non gli importasse leggere per lei, la ragazza riusciva a percepire dal cambio di tonalità il modo in cui si sforzava di caratterizzare i personaggi. Per certi aspetti era davvero divertente, anche se non s’era mai azzardata a ridergli in faccia.

Il suo fare brutale e meschino era comunque la riprova che, tra loro, non era cambiato niente.

‒ Jessica è davvero una stupida, scappare così dal proprio padre, ‒ disse il ragazzo, scuotendo la testa con fare pensoso, ‒ e Lorenzo è davvero un idiota, io non sarei mai fuggito in quel modo.

‒ Ah, no?

‒ No, mai.

‒ Neanche se Jessica fosse davvero stata la donna che amavi? ‒ gli chiese infine Bulma, sogghignando.

‒ Perché mai dovrei amare una sciacquetta del genere? ‒ ribatté piccato il giovane, sedendole al fianco. ‒ Mi fa ribrezzo anche solo pensarci.

‒ Che melodrammatico.

‒ Bulma…

‒ Sì?

Voltò la testa verso di lui, e rimase sorpresa dallo strano tepore sulle proprie labbra, mentre sbarrava lo sguardo, incapace di vedere ciò che stava accadendo. Non che avesse bisogno di guardare, per capire.

Erano le labbra di Vegeta, quelle premute contro le proprie. Ed era la sua mano che le sfiorava il collo, le carezzava la guancia, la stessa che scorreva delicata lungo i ciuffi azzurri che le cadevano alla rinfusa sulle spalle.

Era il suo odore, la cosa più vicina che sentiva. Nulla di così penetrante e particolare: era pulito, di quei deodoranti che ti buttano appresso durante le promozioni al supermercato. Qualcosa di semplice, qualcosa che ancora una volta le faceva tornare alla mente la serenità della routine quotidiana. Ancora una volta, Vegeta le stava dimostrando quanto fosse facile trattarla normalmente.

Si staccò da lei, leggermente inebetito da quell’atteggiamento improvviso e incauto. Neanche se lo spiegava, il motivo che l’aveva spinto a baciarla. Era una cosa che desiderava fare, e l’aveva fatto. Tutto qui.

In quello sguardo che non poteva guardarlo, Vegeta vi scorse tutto l’imbarazzo e lo sgomento per quella situazione, ingestibile per lei. Forse non aveva mai baciato nessuno prima di quel momento, e lui era stato così stupido d’afferrarla di prepotenza, senza neanche chiederle il permesso. Che razza d’idiota.

‒ Vegeta… ‒ provò a chiamarlo, ma il giovane la interruppe.

‒ Non è forse questo, il genere di cose che ti piacciono? ‒ le domandò semplicemente, tentando di giustificarsi alla bell’e meglio. ‒ Forse non è bello come nei tuoi romanzi, ma…

Bulma cercò a tentoni il suo viso, sfiorandogli infine il volto affilato, sorridendogli con quella bocca ch’avrebbe sciolto un iceberg. Vegeta si sentiva esattamente come un ghiacciolo pronto ad evaporare, e nonostante ciò non le avrebbe mai dato la soddisfazione di vederlo imbarazzato. A volte la cecità della giovane gli appariva davvero una fortuna.

Si stupì della dolcezza con la quale la turchina cercava ancora una volta le sue labbra; sentì nuovamente i suoi sensi frastornati, mentre la stringeva per la minuscola vita, dimenticandosi del suo amor proprio e affogando in quel bacio salato, che aveva il sapore delle lacrime della ragazza stesa al suo fianco.

‒ Bulma, ‒ la chiamò, con la voce più confusa che lei avesse mai sentito, ‒ perché diavolo stai piangendo?

La turchina trattenne un singhiozzo, prima di cercare ancora una volta la bocca del ragazzo ed imprimergli tanti piccoli baci intorno alle labbra spigolose.

‒ Scusa, Vegeta, ‒ la sentì dire, mentre cercava di riacquistare il controllo di sé, ‒ io non… non avrei dovuto, io…

‒ Bulma. ‒ La strinse a sé, maledicendosi ancora una volta per non essere in grado di darle alcuna certezza. ‒ A me non frega un cazzo, se sei cieca.

‒ Eh?

‒ Hai capito benissimo, ‒ mugugnò, in preda al nervoso, ‒ non m’importa. Se mi fosse davvero importato di una cosa così stupida, non avrei perso il mio tempo a leggere di quella fottutissima Jessica e del suo trombamico ogni santo giorno, ok? Se l’ho fatto, Bulma, è perché io…

Ti amo. Non gliel’avrebbe mai detto, non ci sarebbe mai riuscito. Eppure, voleva farlo, perché solo così lei avrebbe potuto capire ciò che prima le sarebbe bastato guardare: non le aveva mai mentito, fino a quando aveva potuto vedere i suoi occhi neri. E in quel momento, l’unica cosa che voleva era che lei lo capisse, senza il bisogno di parlare, esattamente come faceva una volta.

Si riappropriò ancora delle labbra di lei, frustrato all’idea di non essere abbastanza per la ragazza, all’altezza dei suoi sogni pieni di dolcezza. Non la meritava, perché per quanto potesse starle accanto, sarebbe sempre stato molto lontano da lei, da quel suo modo gaio di pensare, un estraneo a quegli occhi incapaci oramai di vedere, e che tuttavia ancora sembravano leggergli dentro.

‒ Se tu potessi guardarmi, ‒ le sussurrò, dimentico per un istante d’esser Vegeta, ‒ lo capiresti, Bulma. Capiresti tutto.

Sentì le labbra di lei sulle proprie, incresparsi in un tenero sorriso.

Fu un pomeriggio lungo, quello durante il quale i due giovani amanti rimasero abbracciati sul letto, mentre tornavano a cercarsi insaziabili, spaesati e febbricitanti, conoscendosi l’un l’altra in quella veste estranea e del tutto nuova.

Vegeta le sbottonò la blusa che celava le sue forme ancora acerbe, inebriato dal calore del suo piccolo corpo tremolante. Forse lei aveva paura, forse lui stava correndo, eppure non riusciva a frenare l’impulso che aveva di poterla avere per sé, anche solo per quella sera. Non era mai stato un tipo molto paziente.

‒ Fa’ piano ‒ le sentì dire, mentre annullava con estrema lentezza la distanza che li teneva ancora separati.

Credette per un istante di sentirla gridare, mentre la vedeva trattenere il fiato per il dolore dell’ormai violata integrità. Ma tutto quello che uscì dalla sua piccola bocca arrossata dai troppi baci, fu un singolo sospiro. Lungo, interminabile. Caldo, tanto da sciogliere la corazza che perfino in quel momento si portava addosso, mentre la sentiva abituarsi alle sue spinte, al rovente abbraccio che li avvinceva.

Fin quando avrebbe potuto sentirla a quel modo, a Vegeta non sarebbe importato nulla del resto. Perché tutto ciò che stavano vivendo, non era qualcosa che si poteva guardare con gli occhi.

Forse era davvero quella, la ragione per cui anche l’Amore era cieco.



***


Sarebbe stato meglio se non l’avesse mai accompagnata. A lui di tutte quelle stronzate non fregava niente, eppure era lì, sommerso da una folla di gente indistinta che continuava a spintonarli da una parte all’altra degli stand. Stava sempre attento a tenere ben salda la mano che cingeva la piccola vita di Bulma, preoccupato all’idea che uno scossone troppo forte potesse farle perdere l’equilibrio.

Sbuffò, in preda al nervoso. ‒ Ricordami dove siamo.

‒ Uffa, Vegeta! ‒ sbottò la turchina, stringendo ancor di più la mano del ragazzo. ‒ Te l’ho detto diciotto volte almeno! È il Festival del Libro!

‒ Sarà per questo motivo che tendo a dimenticarmene.

La sentì ridere, mentre la scortava intorno alle varie esposizioni. Era stato costretto ad accompagnarla perché lei gli aveva detto che, anche se lui non ci fosse stato, sarebbe andata da sola. Non appena aveva sentito quelle parole, il suo cervello era andato in crisi, ad immaginare tutti i possibili scenari in cui la sua ragazza rimaneva coinvolta in rapimenti, omicidi e truffe. La decisione di accompagnarla, dunque, era stata falsamente pilotata fin da principio.

Camminavano tranquilli, nonostante il traffico di quei piedi che correvano veloci accanto a loro per accaparrarsi le collane di libri appena usciti, le edizioni limitate, i gadget più convenienti. A loro di tutto quello non sembrava importare, mentre si facevano largo in mezzo alla folla, godendosi il momento di un pomeriggio passato insieme.

Era evidente che Vegeta non gliel’avrebbe mai detto, quanto era felice di essere con lei. Poteva solo sperare – come sempre – che la giovane lo capisse da sé. Era ormai abbastanza brava, per quel genere di cose.

‒ Ohi, Vegeta, ‒ si sentì chiamare, mentre sentiva Bulma afferrarlo delicatamente per la manica della giacca, ‒ guardati in giro, dovrebbe esserci uno stand sulla letteratura classica.

‒ Cosa?! ‒ Era sorpreso, non c’erano dubbi. Come diavolo faceva a sapere quale fosse? ‒ Che aspetto ha?

‒ Non ha un aspetto! ‒ puntualizzò la turchina, sospirando. ‒ Devi leggere i titoli dei libri che sono esposti.

‒ Non ho la minima idea di cosa tu stia parlando.

‒ Tu leggi i titoli e basta, al resto penso io.

Iniziarono a girovagare per le bancarelle del festival; Vegeta pronunciava indeciso il nome dei titoli che leggeva, ma ogni volta Bulma non faceva altro che scuotere la testa, certa che non fosse lo stand giusto. Il ragazzo avrebbe volentieri gettato la spugna, se non fosse stato per il volto entusiasta della giovane accanto a lui: quegli occhi azzurri, la cui luce era ormai opacizzata ed incapace di guardare altro che non fosse l’oscurità della sua malattia, sembravano volergli comunicare che era felice, nonostante tutto. A lui, anche solo quella misera consapevolezza bastava e avanzava per continuare a leggere titoli di libri di cui non gliene fregava niente.

‒ Ehi, Bulma, ‒ la chiamò infine, mentre il suo sguardo si soffermava su uno dei titoli di quello strampalato autore inglese, ‒ Romeo e Giulietta non è di quel tizio?

‒ Shakespeare non è un tizio, Vegeta ‒ lo rimbeccò la turchina, ormai certa che il ragazzo fosse irrecuperabile.

S’avvicinò con fare cauto al tavolo davanti a loro, stando ben attenta a non sbatterci contro. Quando avvertì il legno sotto le sue dita, fece scivolare la mano lungo la superficie, in cerca dei libri presenti. Doveva ancora abituarsi a tutto quello, ma non era più così spaventata come all’inizio, e la cosa sembrava tranquillizzarla.

Il venerando anziano che stava dall’altra parte del bancone le sorrise, senza che lei potesse vederlo.

‒ Signorina, ‒ la chiamò, ‒ cerca qualche libro in particolare?

‒ In verità sì ‒ gli rispose subito, sorridendogli.

‒ Mi dica pure.

Vegeta non ascoltò il chiacchiericcio dei due, che sembravano davvero essersi trovati. Se ne stava muto, a qualche passo da loro, sfogliando flemmatico i libri davanti a lui. Diavolo, non riusciva proprio a capire cosa ci trovasse Bulma in quelle storie così strappalacrime.

Fu un libro sorprendentemente grande, quello che attirò la sua attenzione. Lo afferrò con entrambe le mani, le sue pagine erano insolitamente più spesse di quelle degli altri volumi. Lo aprì, sorprendendosi di non scorgervi dentro alcuna parola che potesse comprendere. Forse era una lingua sconosciuta.

‒ Serve una mano? ‒ La venditrice dinnanzi a lui sembrava studiarlo attentamente, mentre gli concedeva un placido sorriso di cortesia.

Vegeta girò la copertina del libro verso di lei, poi chiese: ‒ Che razza di lingua è?

‒ Non è una lingua. È scritto in braille.

‒ In braille? ‒ ripeté confuso. ‒ Ossia?

‒ Praticamente è studiato apposta per gli ipovedenti e i non vedenti, ‒ gli spiegò, aprendo una pagina del libro, ‒ vede? Questi punti sono in rilievo, ogni combinazione di punti è una lettera. In questo modo anche chi non può vedere, attraverso il linguaggio tattile può avere lo stesso risultato.

‒ Leggere un libro con le mani. ‒ Vegeta era davvero sbalordito, mentre inconsciamente una domanda uscì spaesata dalla sua bocca: ‒ Per caso, ha anche Il Mercante di Venezia scritto in questo modo?

La donna lo squadrò, sorridendogli per un istante. ‒ Sì, dovrei averlo da qualche parte.

‒ Può controllare?

Non era certo tipo da chiedere una cortesia; magari sarebbe stato più gentile dirle “per favore”, ma non rientrava nel suo vocabolario, di per sé già abbastanza sfornito. La vide trafficare in mezzo alla valanga di tomi intonsi, mentre alzava con entrambe le mani il volume ricercato.

‒ Eccolo qui. ‒ Glielo porse.

‒ Quanto costa? ‒ domandò il ragazzo.

‒ Beh, questo genere di libri costano un po’ di più, sa, ci vuole del tempo per la preparazione e…

‒ Le ho chiesto il prezzo, mica un saggio sull’editoria industriale.

La commessa rimase a fissarlo, scoppiando a ridergli in faccia. Vegeta si trattenne dal mandarla al diavolo proprio lì, nel bel mezzo del festival.

‒ Dev’essere davvero per una persona importante, ‒ constatò infine, placando la sua squillante risata, ‒ se vuole glielo incarto. In tutto fanno tremila e ottocento yen.

‒ Ok. ‒ Le passò velocemente l’importo, buttando distrattamente un occhio a Bulma, che non si era ancora accorta di niente.

Bofonchiò un saluto alla donna, che lo fissava andare via con dipinto addosso un malinconico sorriso: quel ragazzo doveva amare davvero tanto, la persona a cui avrebbe regalato quel libro.

Di ritorno verso casa, Bulma le apparve più silenziosa del solito.

‒ Bulma…

‒ Sì? ‒ La sua voce candida non sembrava piccata, perciò non era possibile che avesse compreso dov’era andato.

‒ Niente.

La vide fermarsi, mentre cercava le sue dita. ‒ Vegeta, cosa stai portando nell’altra mano?

‒ Perché mi fai questa domanda?

‒ Sento lo strofinio della busta di carta, ‒ gli rispose, facendo spallucce, ‒ allora?

Dannazione. Stupido lui a non pensarci: quando perdi un senso importante come la vista, gli altri s’affinano alla meglio, cercando di gestire il deficit. Come glielo spiegava, adesso?

‒ Ti va se ci sediamo un attimo? ‒ Non era solito fare simili richieste. La ragazza annuì.

Vegeta fece un profondo respiro, prima d’afferrarle le mani e piantarle sul grembo il pesante tomo.

‒ Cos’è? ‒ domandò la turchina, sfiorando con le dita la ruvidezza della carta che lo copriva.

‒ È per te, ‒ lo sentì mugugnare, ed era certa che, pur non vedendolo, fosse arrossito, ‒ aprilo.

‒ Per me? ‒ ripeté, scettica. ‒ Vegeta, tu non mi fai mai re…

‒ Aprilo e basta, stupida!

‒ Va bene, va bene, stai calmo! ‒ Era inutile, con un ragazzo irascibile come lui c’era poco da fare. Fece come le era stato ordinato, e sentì alcuni piccoli punti in rilievo.

È una scritta in braille, pensò. Basterà decifrarla. Quando le sue dita lessero al posto degli occhi l’amato titolo, spalancò la bocca, troppo sorpresa per poter dire nulla che avesse un senso compiuto.

‒ Non ti piace? ‒ Fu l’unica cosa che riuscì a sentire, prima che le lacrime le ovattassero perfino le orecchie.

Gli si gettò al collo, scoppiando a piangere. Vegeta la strinse, preoccupato. ‒ Se vuoi lo andiamo a cambiare, non pensavo che…

‒ È perfetto, ‒ s’affrettò a dire, tra un singhiozzo e l’altro, ‒ è davvero perfetto.

Portò le sue labbra su quelle del ragazzo, che si lasciò cullare dalla gaia sensazione d’essere riuscito a farla felice. La premette dolcemente contro il suo petto, assaporandone la bocca umettata di lacrime, ammaliato dal profumo dolciastro di quei capelli che adorava, mentre prendeva a baciarle le palpebre schiuse e tremolanti, delicate porte di quegli occhi ch’erano ancora lì, come gocce d’acqua cristallina.

Dio, quanto la amava. Neanche riusciva a dirlo a sé stesso, figuriamoci a Bulma. Si staccò da lei, riprendendo fiato.

‒ Forse comincio a capirli ‒ le sussurrò, mentre le parole s’imprimevano sulle labbra della turchina.

‒ Chi?

‒ Quei due.

Bulma rise, immersa ancora nelle proprie lacrime. ‒ Jessica e Lorenzo?

‒ Non avrei mai comprato un libro del genere, prima, ‒ s’affrettò a dire, rigettando l’imbarazzo del momento, ‒ non farci l’abitudine.

La ragazza rimase in silenzio, mentre portava le piccole mani intorno al collo del ragazzo. Si strinse a lui, immaginando di poterlo vedere ancora una volta, bello ed energico come sempre.

‒ Vorrei vederti, Vegeta ‒ disse solo, lasciandosi cullare dalle calde braccia che l’avvolgevano.

‒ Non ne hai più bisogno, Bulma ‒ si sentì rispondere, mentre le narici della giovane si riempivano ancora una volta del penetrante odore di lui, che ancora cercava la sua bocca, insaziabile come un pellegrino assetato.

Era per quel motivo che Vegeta le aveva regalato quel libro, per ricordarle che perdere la vista non significava poi tanto, fin quando poteva contare su di lui. Perché sarebbe stato i suoi occhi, la sua voce, i suoi colori, la sua tiepida e sempiterna luce. Questo le sarebbe bastato, sempre.

… Ma Amore è cieco, e gli amanti non vedono le amabili follie cui s’abbandonano ‒ gli sussurrò all’orecchio.

Lui le sorrise sghembo. Quel trucco, ormai, lo conosceva.

‒ Secondo atto, quinta scena ‒ le rispose trionfante, annullando ancora una volta la distanza tra le loro bocche.

Ti amo, Bulma.








¹: Nella traduzione italiana, questa frase viene detta da Jessica nella scena 5 del Secondo Atto, mentre nell'originale inglese tale frase viene detta durante la scena 6.







ANGOLO AUTRICE:

Sperando che questa one-shot abbia potuto allietarvi un pochettino! :D Non ho mai scritto granché sulla coppia Vegeta/Bulma perché ho notato che la loro storia preferisco leggerla piuttosto che scriverla, ma ogni tanto si può fare uno strappo alla regola!

Che dire, aspetto un vostro parere, e ringrazio con tutto il cuore il contest Dai vita alla tua fantasia con i generi letterari di 6Misaki, mi ha dato la possibilità di scrivere finalmente qualcosa di nuovo! Grazie!

A presto!


_EverAfter_










  
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