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Autore: Adeia Di Elferas    20/11/2018    1 recensioni
Caterina Sforza, nota come la Leonessa di Romagna, venne alla luce a Milano, nel 1463. Si distinse fin da bambina per la sua propensione al comando e alle armi, dando prova di grande prontezza di spirito e di indomito coraggio.
Bella, istruita, intelligente, abile politica e fiera guerriera, Caterina passò alla storia non solo come grande donna, ma anche come madre di Giovanni dalle Bande Nere.
La sua vita fu così mirabolante e piena di azione che ella stessa - a quanto pare - sul letto di morte confessò ad un frate: "Se io potessi scrivere tutto, farei stupire il mondo..."
[STORIA NON ANCORA REVISIONATA]
Genere: Drammatico, Generale, Guerra | Stato: in corso
Tipo di coppia: Nessuna
Note: nessuna | Avvertimenti: Contenuti forti, Tematiche delicate, Violenza | Contesto: Rinascimento
Capitoli:
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Quella mattina da cielo scendeva una sottile patina gelata, come se i fiocchi di neve si fossero fatti tanto sottili da sembrare solo scaglie di ghiaccio.

Caterina si era svegliata presto e di pessimo umore. Quella notte, più per placare la rabbia che non la voleva lasciare che per altro, aveva cercato la compagnia di un soldato e, come ormai faceva sistematicamente, dopo averlo avuto, l'aveva cacciato dalle sue stanze a notte inoltrata, restando sola con i suoi fantasmi.

Aveva passato le poche ore di sonno che si era concessa immersa nei suoi consueti incubi e così, quando aveva finalmente deciso di lasciare il letto e far cominciare una nuova giornata, l'aveva fatto con un forte cerchio alla testa e la schiena a pezzi.

Era scesa nella sala dei banchetti, che a quell'ora era quasi deserta, e si era messa al suo solito posto. Aveva preso un po' di carne – come previsto, lo stufato fatto con il cervo cacciato da Galeazzo era durato giorni e non ne erano rimasti che pochi avanzi da usare per colazione – e del pane, assieme a un bicchiere di vino.

Distratta e ancora immersa nella sensazione sgradevole che le aveva lasciato il suo ultimo brutto sogno – durante il quale aveva rivissuto, dopo tanto tempo, la morte di Giacomo, colpito tante di quelle volte dall'essere ridotto a qualche lacero brandello di carne – la donna addentò un po' di pane, facendovi subito seguire un pezzo di stufato e il vino.

Masticò senza pensarci, ma poi, dopo aver deglutito, qualcosa la fece corrucciare. Assaggiò di nuovo il pane e si rese conto di non essersi sbagliata.

Aggrottando la fronte, afferrò un'altra pagnotta e, assicuratasi che non ci fosse alcuna differenza, inghiottì ancora qualche pezzetto di carne, finì il calice e lasciò la sala, diretta alle cucine.

“Questo pane è senza sale.” disse, non appena trovò la cuoca.

La donna, sola con una delle sguattere, stava già cominciando a preparare il necessario per il pranzo e per la cena e vedersi arrivare d'improvviso la Contessa nelle cucine la fece quasi saltare sul posto.

“Come dire, mia signora?” domandò, non avendo colto al primo colpo ciò che la Sforza le aveva detto.

La Tigre le porse il pezzo di pane e ribadì: “È sciapo. Del tutto senza sale.”

Solo a quel punto la cuoca comprese. Schiudendo le labbra, sotto lo sguardo un po' preoccupato della sguattera, prese dalle mani della Leonessa il cibo incriminato e annuì.

“Come mai?” chiese allora Caterina, che non aveva mai e poi mai autorizzato a lesinare sul sale in cucina.

“Ebbene, mia signora, noi credevamo che foste d'accordo...” prese a dire la cuoca, posando il pane sul tavolo e stringendosi le mani un po' rovinate l'una nell'altra: “Il Governatore, messer Ridolfi, ci ha detto di risparmiare sul sale, perché le riserve della città sono molto scarse. Noi gli abbiamo chiesto come avremmo dovuto fare di preciso e lui ci ha consigliato di non metterlo nel pane.”

“Il Governatore ha detto che salare il pane è l'ultimo dei nostri problemi.” si intromise la sguattera, tacendo all'istante, non appena la sua capa l'ebbe guardata in tralice.

“Perdonatela...” fece la cuoca, con un sorriso imbarazzato: “Sapete, è giovane e non ha ancora imparato a tenere a freno la lingua...”

“Non importa.” minimizzò la Sforza, che aveva ben altri pensieri, che non una serva dalla parola troppo sciolta: “Quello che mi interessa è sapere quando il Governatore ha dato un simile ordine.”

Prima che qualcuno potesse dire qualcosa, dalla porta arrivò Sforzino. Quando si accorse della madre, fu tentato di scappare via, ma la sguattera gli fece segno di avvicinarsi.

Sotto gli occhi verdi della Leonessa, che non capiva che ci facesse suo figlio lì a quell'ora, il ragazzino si avvicinò al tavolo e prese un pacchettino che era lì evidentemente in sua attesa. Con il malloppo tra le bracciotte grasse, il Riario lanciò un ultimo sguardo alla madre e poi corse via, goffo e lento.

“Sono avanzi della spongata di ieri...” spiegò la cuoca, un po' in imbarazzo, leggendo tutte le domande inespresse che correvano sul viso della sua padrona: “Gli piace tanto e noi li avremmo dovuti usare per cucinare altro e non è facile... Almeno così non vanno sprecati e Sforzino è contento.”

“Quand'è che il Governatore vi ha chiesto di risparmiare sul sale?” chiese di nuovo la Contessa, quasi facendo finta di non aver nemmeno visto suo figlio entrare in cucina all'alba per farsi dare delle briciole di torta.

“Ieri, mia signora.” rispose la serva, schiarendosi la voce e tornando serissima.

Caterina sospirò e poi, dopo averci ragionato su appena qualche secondo, si scusò con le due donne e lasciò le cucine, diretta al palazzo in cui era andato a vivere Simone.

“Perdonatemi se vi ho fatta attendere...” fece Ridolfi, presentandosi nel salone dopo quasi mezz'ora dall'arrivo della Tigre: “Non ero ancora alzato... Certo che da voi si fanno orari da soldato voi, eh?”

La Sforza non ribatté, abbastanza avvezza ai modi poco concilianti di Simone. Ricordava come Giovanni, i primi tempi in cui aveva cercato di farglielo digerire, le avesse detto più volte di non dar peso al suo modo di esprimersi, ma alla sostanza delle sue azioni, e la donna voleva imporsi di fare così anche in quel momento. Tuttavia, voleva fare chiarezza.

“Avete ordinato voi alle mie cuoche di non mettere sale nel pane?” chiese la Tigre, restando nel centro della stanza, mentre Simone vagava attorno al mobiletto su cui stava una caraffa piena fino all'orlo di prunello.

Il Governatore strinse gli occhi, poi, dopo essersi passato una mano tra i lunghi capelli castani che tendevano al rosso, si versò due dita di liquore e rispose, con tono noncurante: “Sì, ho consigliato io di levare il sale dal pane.”

“Perché?” domandò allora Caterina, mentre l'uomo beveva il liquore tutto d'un fiato, come se stesse cercando invano una scossa che potesse risvegliarlo.

Simone la guardò per un lungo istante. Era stata una notte molto difficile, per lui. Aveva ricevuto la sera prima una lettera da sua moglie, con cui lei cercava, forse, di riappacificarsi. Erano poche righe, molto semplici, in cui gli chiedeva come stesse, gli raccontava gli affari di campagna e, sul finale, tastava il terreno, in modo estremamente velato, per capire se lui fosse ancora disposto ad averla lì a Forlì o meno.

L'uomo, dopo una giornata passata a immergersi nel lavoro proprio per non pensare a Lucrezia, leggendo le sue parole aveva finito a trascorrere l'intera notte insonne interrogandosi su cosa volesse davvero.

Così, chiamato all'ordine dalla Contessa a quell'ora, stanco come se avesse vangato dieci campi da solo, tanto abbattuto da non aver la minima voglia di fare alcunché, Simone era tutto fuorché collaborativo.

“Ebbene, mia signora – fece Ridolfi, cercando di mantenere la calma – le scorte di sale della città non sono infinite e dato che mi avete ordinato di riorganizzare le scorte in vista di possibili momenti di isolamento...”

“Ci sono altri modi per razionare il sale.” lo interruppe Caterina che non era arrabbiata per la decisione di risparmiare in quel modo quella preziosa risorsa, ma per il modo in cui il fiorentino aveva agito, ovvero senza prima chiedere il suo espresso consenso.

“Che diamine!” sbottò il Governatore, scrutando irritato la donna che aveva davanti: “A Firenze il pane non si sala mai, eppure non ne è mai morto nessuno!”

“Ma qui non siamo a Firenze!” il ringhio che uscì dalle labbra della Tigre mise a tacere per qualche istante Ridolfi.

Poi, schiarendosi la voce, l'uomo soggiunse: “Me ne sono accorto.”

“Attento a voi, Simone.” lo riprese la Sforza, sollevando un dito: “Se non vi punisco per il vostro tono, lo faccio solo per rispetto a mio marito Giovanni.”

Il fiorentino sollevò le sopracciglia. Avrebbe voluto dirle che, per rispetto a suo marito Giovanni, come diceva lei, avrebbe fatto meglio a chiudersi in camera da sola, la notte, invece di essere sulle labbra di tutti per la facilità con cui cambiava amante senza nemmeno più provare a dissimulare la sua liberalità.

Però si trattenne, conscio di quello che rischiava, e provò a dire, con voce abbastanza misurata, mentre il prunello che aveva nello stomaco vuoto cominciava subito a girargli nel sangue: “Ebbene, mia signora, non mi era parso di commettere un errore, ma se così è me ne scuso.”

“Rimediate subito. E prima di prendere altre iniziative, di qualsiasi genere, vi prego di chiedere direttamente a me.” rimarcò la Contessa, facendo già un paio di passi verso la porta.

“Credevo mi aveste chiamato qui a Forlì per fare il Governatore, non per essere un semplice funzionario.” fece Simone, un po' mesto, ricordandosi come non mai gli avvertimenti di sua moglie Lucrezia, che gli aveva domandato con insistenza se si rendesse conto del vero motivo per cui la Sforza lo aveva richiamato accanto a sé, mettendo a Imola un altro uomo.

“Vi sia chiaro che io non vi ho certo chiamato qui a Forlì per farvi fare i vostri comodi! Io vi ho chiamato qui perché non...” la voce si spense, nella gola della Leonessa, quando si accorse di essere sul punto di scoprire troppe carte.

Simone avrebbe voluto incalzarla, per indurla a concludere la frase, ma il modo in cui lo stava guardando gli fece intendere che fosse davvero il caso di mollare l'osso.

Così, con la scusa di cambiare discorso, l'uomo chiese: “Volevo domandarvi da un po' il permesso di vedere Ludovico.” si morse il labbro e e riprese: “In fondo, suo padre voleva che fosse il mio figlioccio.”

“Se vi fa stare più tranquillo, potete venire a vederlo quando volete.” fece la Contessa, presa un po' alla sprovvista da quel repentino virare della conversazione: “Comunque ci tengo a ricordarvi nuovamente che adesso si chiama Giovanni, come suo padre.”

Ridolfi stava per soggiungere qualcosa, quando uno dei suoi servi arrivò sulla porta del salone e annunciò: “Governatore, c'è il Capitano Francesco Numai che desidera incontrare la Contessa e anche voi.”

Simone gli fece cenno di lasciare entrare il Capitano, e anche quella volta la Sforza inghiottì l'irritazione provata nel sentirsi scavalcare. Così come il fiorentino, anche lei aveva capito dal tono del servo che dovesse esserci qualcosa di serio, perciò rimase in silenzio e attese l'arrivo di Numai.

Il Capitano, dopo un profondo inchino a lei e un cenno di saluto a Ridolfi, disse in fretta: “Mia signora, Governatore... Alla rocca è appena giunta la notizia dell'arresto di Dionigi Naldi.”

“Come?” chiese Caterina, trasecolando: “Chi l'ha arrestato? E perché, poi?”

Francesco scosse appena il capo e rispose: “Sappiamo solo che lo hanno portato a Urbino, è stato preso dai feltreschi, ma di fatto è stato catturato mentre sfuggiva dai fiorentini.”

Lo sguardo della Tigre finì sul viso barbuto di Ridolfi senza che potesse far nulla per trattenersi.

“E come mai i fiorentini lo volevano arrestare? Siamo alleati! Lui era al loro campo!” perse la pazienza, la donna, anticipando i due uomini fuori, diretta a Ravaldino, pronta a indire un Consiglio di guerra straordinario durante il quale, se necessario, ridiscutere a fondo la loro alleanza con la Signoria.

“Per l'omicidio di Corbizzo Corbizzi...” spiegò Francesco Numai, mentre lui, la Sforza e Simone scendevano in strada e imboccavano la via più rapida verso la rocca.

Caterina fece una smorfia che tradiva sorpresa, oltre che rabbia: “Ma come possono dire che sia stato lui? Corbizzi è stato ucciso appena fuori Forlì, mentre lui era...”

“Dicono che abbia pagato dei sicari, e che l'abbia fatto su vostro ordine.” spiegò il Capitano.

La donna, a quelle parole, si bloccò di colpo. Ridolfi e Numai fecero altrettanto, riprendendo a camminare solo quando lo fece anche lei.

“Chi ha fatto avere la notizia di questo arresto?” chiese la Contessa, la voce graffiata dall'indignazione che quell'accusa le aveva portato.

“Mia signora, è stato Andrea Pazzi, l'ambasciatore di Firenze.” rispose Francesco, deglutendo.

“Prima di tutto, allora – decise Caterina, mentre Ravaldino si profilava all'orizzonte – mandate a dire ad Andrea Pazzi che ci spieghi come mai lui l'ha saputo prima di noi, dopodiché chiedetegli se sapesse delle accuse mosse da Firenze contro Naldi e quindi contro di me, e, in tal caso, come mai me la abbia taciute. Se si rifiuterà di rispondere a una delle due domande, o se lo farà in modo troppo evasivo, fategli sapere che non è più persona gradita alla mia corte.”

“Equivarrebbe a mettersi contro Firenze!” esclamò a quel punto Ridolfi, afferrando per una spalla la donna, per indurla a fermarsi e guardarlo, cercando di trovare una soluzione meno drastica.

La Leonessa, con uno strattone, si liberò dalla presa del Governatore e sbottò: “Andate al diavolo anche voi!” e ne fece seguire un paio di bestemmie pesanti, che attirarono anche l'attenzione delle due guardie che presidiavano il portone della rocca, per poi dire, appena più padrona di sé: “Non è inimicarsi Firenze, ma chiedere che ci mandino un ambasciatore differente.”

 

“E quando sarete da lei...” Ludovico Sforza fece un profondo sospiro, gli occhi tondi e un po' cerchiati da occhiaie scure che vagavano verso la finestra, scrutando perplessi la nebbia che, anche in quel finire di febbraio non voleva mollare Milano: “Non lasciatele mai intendere la reale situazione di Milano.”

“Ma mio signore...” fece Alessandro Orfei, lisciandosi il giubbetto di raso imbottito, un po' a disagio: “Se mi mandate da vostra nipote, la Contessa Sforza Riario, a discutere degli affari di guerra, come posso tacerle che...”

“Farete quello che vi dico, ne abbiamo già discusso, mi pare.” concluse freddo il Moro, che aveva voluto incontrare da solo il suo nuovo ambasciatore nelle terre di Caterina solo per potergli parlare in modo franco: “Mia nipote è testarda e sa essere molto più cattiva di me. Se pensasse che Milano è perduta, se capisse che il mio potere è davvero così a rischio, allora non mi sorprenderei di vederla imbracciare la lancia e venire a prendersi il Ducato che era di suo padre prima che lo facciano i francesi!”

Orfei preferì non commentare quell'immagine che, a modo suo, aveva un certo fascino, e passò a questioni molto più pratiche: “Non mi avete detto come comportarmi di preciso se dovesse avanzare di nuovo richieste per suo figlio Galeazzo.”

Il Duca, a quelle parole, si morse per qualche istante l'unghia del pollice. Caterina gli aveva scritto lasciando intendere in modo molto vago che stesse cercando una condotta per quel suo figlio, e si intuiva che si aspettasse di vedersela offrire proprio da suo zio.

Ludovico aveva indagato, ricostruendo come suddetto Galeazzo fosse appena un ragazzino e come, probabilmente, Caterina lo avrebbe mandato a Milano approfittandone per liberarsi almeno di un altro dei suoi figli – probabilmente quello nato dal suo amante stalliere – come coppiere o scudiero.

Insomma, come la gatta selvatica che era, stava cercando di alleggerire il peso che le tirava il collo, un po' come aveva fatto nell'affidare il suo secondogenito Cesare a Santa Madre Chiesa.

“Voi ditele che...” il Moro deglutì un paio di volte e poi fece: “Aggiustiamola così. Se ve ne dovesse parlare, o se dovesse chiedere esplicitamente qualcosa in merito a Galeazzo, voi prendete tempo. Ditele che dovete scrivermi e che dovete aspettare la mia risposta...”

Ludovico aveva deciso di mandare un nuovo ambasciatore a Forlì all'unico scopo di tenere calma sua nipote e tirarla dalla sua parte. Non sopportava più di ricevere sue lettere quasi ogni giorno, tanto meno stava tranquillo nel pensarla così vicina al confine veneziano. Sapeva che la figlia di Caterina, Bianca, era ancora formalmente sposata con Astorre Manfredi e si chiedeva quanto, realmente, quella strana donna rifiutasse l'idea di allinearsi con Faenza e passare agli stipendi del Doge.

In fondo tutti, nelle file fiorentine, cominciavano a essere scontenti di come la Signoria stava gestendo le varie condotte. Perfino Paolo Vitelli, dicevano, sembrava paralizzato per protesta nei confronti di chi lo pagava.

La Tigre, inutile negarlo, per quanto al Duca rodesse ammetterlo, aveva un esercito invidiabile.

Perfino Tranchedini, il suo ambasciatore a Bologna, gli aveva di recente scritto un paio di volte per sottolineare come le truppe di Caterina fossero ben note in Romagna e non solo e come fossero ritenute incredibilmente preparate e ben equipaggiate. Tanto, sosteneva, da poter far impallidire i temibili picchieri svizzeri.

Se solo Ludovico avesse potuto mettere le mani su quei soldati... Aveva pensato più e più volte di mandare suoi emissari a reclutare gli uomini di sua nipote, per convincerli con i soldi a passare al Ducato di Milano. Tuttavia le sue velleità si erano spente sul nascere, perché, come Tranchedini, tutti quelli con cui aveva provato ad accennare una simile soluzione – compreso il suo prezioso Giovanni da Casale – l'avevano smontato, spiegandogli che l'esercito della Leonessa era fedele a lei e a lei sola.

Dunque, se lo Sforza voleva quegli uomini al suo comando, doveva a tutti costi avere in pugno Caterina.

“Avete altro da ordinarmi?” chiese Orfei, dopo aver osservato per qualche minuto il viso del Moro, notando come la sua fronte si stesse imperlando di sudore e i suoi occhi si stessero riempiendo di panico, man mano che i suoi silenziosi pensieri lo trascinavano chissà dove.

Ridestandosi dalle sue congetture, il Duca di Milano si schiarì la voce e rispose, burbero: “No, no, per il momento nulla. Ma prima che partiate, voglio incontrarvi ancora una volta, intesi? Quando sarete pronto, venite da me e ne discuteremo.”

 

La discussione riguardo l'incarcerazione di Vincenzo Naldi si era trascinata per un paio di giorni, tanto che anche il Consiglio cittadino di quella mattina l'aveva messo come primo punto da discutere.

Gli animi si erano accesi in un lampo e Caterina non aveva ancora preso la parola per sedare l'animosità dei suoi Consiglieri. Lei stessa non era ancora venuta a capo di nulla, se non di rimandare a Firenze Andrea Pazzi, che, con la spocchia di chi pensa di non rischiare nulla, aveva risposto al freddo invito ad andarsene della Tigre dicendo che sarebbe tornato in patria non appena fosse stato pronto.

“Il nostro Stato non può pagare un riscatto, al momento.” disse con fermezza uno, alzandosi in piedi.

“E sapete quanto gliene importa a loro!” sbottò un altro, alzando la voce con sdegno: “Non ci hanno certo chiesto denaro! Vogliono solo tenere in ostaggio un nostro uomo per indebolirci!”

La Sforza, seduta sul suo scranno a capotavola, osservava i forlivesi accapigliarsi, perdendo tempo a rimbeccarsi a vicenda, piuttosto che a proporre idee costruttive. Il salone del palazzo dei Riario aveva ancora in sé quel senso di trascuratezza di un luogo disabitato e il tempo grigio che aleggiava fuori dalla finestra chiudeva quel deprimente ritratto.

A rendere nero l'umore della Tigre, poi, ci si era messa una missiva di Pino Numai che le annunciava il ritorno di Cesare entro il giorno seguente. Non aveva alcuna voglia di rivedere il suo secondogenito e temeva le sue stesse reazioni, nel vederselo di nuovo davanti.

“Il vero problema è che Faenza adesso dice che, se davvero siamo stati noi a ordinare la morte di Corbizzi, allora chiuderanno il passaggio ai nostri carriaggi!” fece Golfarelli, battendo una mano sul tavolo.

“Non lo fanno per quello.” lo contraddisse Luffo Numai, scuotendo il capo, mentre gran parte dei Consiglieri si tacitava per sentire che avesse da dire: “Faenza ha usato come scusa ufficiale i dissapori tra Forlì e Bologna. Tutti noi sappiamo che Astorre Manfredi è il nipote di Giovanni Bentivoglio e che suddetto Bentivoglio è adirato con noi sia per la questione dei bagagli di suo figlio Annibale, sia per il ritardo nella traduzione di madonna Bianca a Faenza dal suo sposo.”

Siccome Luffo aveva, arrivato all'ultima parte della sua dichiarazione, posato lo sguardo sulla Tigre, la Contessa si sentì in dovere di intervenire: “Proverò a trattare con Faenza. Se non vogliono lasciar passare le armi, almeno che ci permettano di far arrivare dal nord i rifornimenti alimentari che abbiamo comprato. Altrimenti leggeremo la loro decisione come un'aggressione. Non i migliori presupposti, per mantenere una distensione e permettere a mia figlia di andare in sposa ad Astorre.”

Quella costatazione sollevò un altro vespaio di commenti e ingiurie verso Faenza, fino a che in molti cominciarono a chiedersi a gran voce quando Ottaviano Manfredi sarebbe tornato dal fronte e avrebbe portato a termine ciò che aveva promesso.

“Prima – spiegò l'Oliva, che era stato da poco nominato in maniera ufficiale dalla Contessa suo notaio personale, guadagnandosi un seggio al Consiglio Cittadino – messer Ottaviano Manfredi deve saldare alcuni conti con Firenze. La Signoria non lo sta pagando, almeno così sostiene lui, e dunque finché non avrà i soldi necessari...”

“Firenze, più che un'alleata, si sta dimostrando una serpe in seno!” si infervorò il cancelliere Cardella: “La Signoria non ha dato nemmeno a noi i soldi che ci erano stati promessi!”

Era tanto raro sentirlo prendere posizioni nette, che il silenzio ripiombò sulla sala consiliare come se a parlare fosse stato un oracolo.

“Ho mandato da tempo un mio uomo di fiducia a Firenze, a perorare la nostra causa.” fece a quel punto Caterina, raddrizzandosi sulla sedia e sospirando: “In questo genere di affari non bisogna peccare di fretta.”

“E chi avreste mandato, mia signora?” chiese Luffo Numai, trasecolando.

“Francesco Fortunati.” rispose la donna, che avrebbe preferito non parlarne, più per gli scarsi risultati fino a quel momento ottenuti dal piovano che non per altro.

Sentire quel nome rese perplessi metà dei Consiglieri, e indusse l'altra metà a scambiarsi occhiate di intesa che la Leonessa conosceva anche troppo bene. Aveva sentito, giusto qualche giorno addietro, alcuni uomini chiacchierare in un'osteria e citare Fortunati.

Lei aveva fatto finta di nulla, ma quando aveva sentito uno di loro ridacchiare e dire: “Altro che padre confessore... Quello l'assolverà anche, in chiesa, ma poi le preghiere gliele fa cantare in camera da letto!” si era quasi strozzata con il vino che stava bevendo e se n'era andata in fretta, prima di sentire altro e perdere la calma.

La riunione si chiuse poco dopo, praticamente senza aver concluso niente di utile, né di pratico, e la Contessa rimandò le decisioni a quella successiva.

Lasciò che uscissero tutti, restando nella sala per ultima. Andò alla finestra e osservò la piazza centrale di Forlì che brulicava di vita. C'erano mercanti, donne, bambini, e soldati, soprattutto soldati. La sua città, senza che quasi se ne accorgesse, era diventata un campo militare a cielo aperto. Era grigia, seria, non aveva quasi nulla che potesse definirsi ammantato di una bellezza fine a se stessa. Perfino la statua che raffigurava Giacomo, per quanto di fattura ottima, era stata creata per un fine diverso da quello della mera ricerca della bellezza.

Aveva ragione Ridolfi a dire che si vedeva benissimo quanto fossero lontani da Firenze.

Mentre ragionava su come, forse, negli anni le cose sarebbero potute cambiare, se avesse avuto al suo fianco Giovanni, sentì dei passi alle sue spalle e si girò di scatto, sulla difensiva.

Trovandosi davanti Achille Tiberti, preferì non mostrargli più la schiena, quasi non potesse fidarsi del tutto di lui e domandò: “Che volete?”

Il Capitano, che non biasimava la Tigre per il suo tono aggressivo, viste tutte le loro incomprensioni, si schiarì la voce e disse: “Mia signora, non volevo disturbarvi, ma ho un affare molto importante da proporvi.”

“Ditemi.” fece Caterina, avvicinandosi all'uomo che, con il grosso naso che fremeva e gli occhi puntati su di lei come quelli di una lince su una preda, la stava mettendo in ansia.

“Mio fratello Polidoro vorrebbe incontrarvi.” disse, una mano che correva nervosamente all'elsa della spada e l'altra che restava a penzolare lungo il fianco: “Riguardo la pace tra voi e Venezia.”

“Non può esserci pace, tra me e Venezia. Io sono alleata di Firenze.” fece la Sforza, accigliandosi.

“Presto Firenze e Venezia si pacificheranno, mia signora. Non aspettate l'ultimo momento per cercare un tramite per trattare una pace favorevole.” il tono di Achille era pacato, come quello di un amico che porge un sincero consiglio.

La Tigre avrebbe voluto ribellarsi, non sopportando quel modo di porsi da parte di un uomo che negli anni aveva sempre tradito le sue aspettative, dimostrandosi riottoso agli ordini e spesso falso nel promettere.

Però sapeva che aveva ragione e, anzi, trovava quell'appiglio un vero colpo di fortuna, dato che lei stessa si stava tormentando da un po' nel pensare a chi usare come interlocutore tra sé e i Serenissimi.

“Ditegli che lo potrò vedere domani, qui a palazzo, dopo che sarà arrivato in città mio figlio Cesare.” concluse lei, andando verso alla porta.

“E quando arriverà, vostro figlio Cesare?” chiese Tiberti, per farsi un'idea.

“Non lo so. Quando arriverà, arriverà. Meglio che vostro fratello sia pronto.” fece lei, uscendo dal salone con il Capitano che la seguiva a breve distanza: “Che c'è? Vuole fare il diplomatico, o mi sbaglio? Ebbene, che si abitui ad aspettare.”

Achille non osò contraddirla, anzi, chinando appena il capo, poco prima di dividersi da lei, che stava raggiungendo un'altra ala del palazzo, dove l'attendeva il suo notaio per alcuni affari, le assicurò: “Polidoro sarà qui al momento giusto, mia signora.”

Caterina lo squadrò per un solo istante. Avrebbe quasi voluto dirgli che quella era l'ultima volta che gli offriva la possibilità di riabilitarsi ai suoi occhi, ma poi lasciò perdere. Aveva cose più importanti da fare, quel giorno, piuttosto che perdere tempo con un cesenate che credeva di essere ancora il suo uomo di fiducia.

 

 

 
 
   
 
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