Il
Gioiello del Vaticano
Capitolo
6 - La Torre
Nei
Tarocchi, la carta della Torre che crolla è simbolo del materiale e
delle
debolezze umane, libera lo spirito. Rappresenta la presunzione,
l’idealismo
eccessivo, la megalomania. Lo spirito eccessivo di cupidigia che viene
punito.
I pregiudizi offuscano la ragione, ma anche colui che oltrepassa i
propri
limiti e vive al di là delle proprie forze può rovinare al suolo.
Al negativo, però, presuppone minacce dall’esterno, catastrofi non
preventivate
né previste.
«Forse,
prima di presumere che sia opera del Diavolo, dovremmo escludere cause
più
profane, non credete?», domandò Leonardo a Giuliano de’ Medici, con il
suo
tipico tono saccente ed arrogante.
Non
ricevendo
risposte diverse da uno sguardo confuso e smarrito, da Vinci proseguì
con le
sue ipotesi.
«Consideriamo
l’amanita panterina, un fungo, noto per causare allucinazioni e morte.
Oppure, i
ragni licosidi. Il morso velenoso della licosa causa uno stato di
movimento
isterico chiamato tarantismo», spiegò
l’artista.
Per
sua
sfortuna, uno dopo l’altro, tutti i funghi trovati dalle Guardie della
Notte
attorno al convento non corrispondevano a quanto cercato, così come i
ragni
nascosti negli angoli delle stanze.
«E
ora, scribacchino?», borbottò il capitano Dragonetti, con
un’occhiataccia
scettica.
Escluse
quelle
ipotesi, le possibili spiegazioni rimaste erano quasi inesistenti, e
senza
prove che la causa dell’epidemia fosse profana, e non demoniaca, le
conseguenze
sulla reputazione dei Medici sarebbero state devastanti.
«Andiamo
ad ammirare le opere d’arte», rispose invece da Vinci, salendo a grandi
passi
le scale che conducevano agli studi delle suore.
«Quale
contaminazione potrebbe mai esservi qui?», chiese Giuliano de’ Medici,
evidentemente seccato.
«Viste
le fiorite immagini di cui si circondano le sorelle e la tecnica
amatoriale di
questi supposti dipinti… non mi meraviglia che le suore colpite si
credano
possedute», rispose Leonardo, gironzolando tra le scrivanie ed
osservando
attentamente i quadri.
«Non
avete altre ipotesi, da Vinci?», insistette Giuliano, guardandosi
intorno.
«Il
cibo e le bevande, ad esempio», borbottò l’artista, piuttosto
infastidito da
tutte quelle proteste ed obiezioni. «Nico, ti dispiacerebbe aiutare con
quello?»,
domandò poi, in una domanda chiaramente retorica: un altro minuto con
il
fratello minore di Lorenzo e non avrebbe più risposto delle sue azioni.
«Certamente,
maestro», rispose diligentemente il giovane apprendista, incamminandosi
verso
un’altra sala con Giuliano al seguito.
Finalmente
solo, Leonardo tornò a concentrarsi completamente sui quadri delle
suore, tutti
caratterizzati da tinte scure e violente e da immagini dell’Inferno e
del
Diavolo. Si sporse più vicino ad uno in particolare e rimase qualche
secondo
immobile ad esaminarlo, prima di chinare il capo e leccarlo per tutta
la
lunghezza.
Fece
una
smorfia disgustata e sputacchiò qua e là, ma la sua attenzione tornò
subito sul
quadro, con un’espressione delusa e contrariata.
«Poteva
esserci troppo mercurio nei pigmenti, ma non è così…», mormorò
sottovoce,
ragionando tra sé e sé.
«E
voi sareste l'unico in grado di trovare il Libro?»
Da
Vinci
sobbalzò a quella voce, a maggior ragione rendendosi conto di essere
stato in
grado di riconoscerla all’istante. Si voltò subito verso la porta, e
per poco
il fiato non gli si fermò in gola vedendo la contessa Riario appoggiata
allo
stipite, con le braccia conserte al petto.
Fatta
eccezione
per l’espressione scettica e vagamente disgustata, con ogni probabilità
causata
dall’averlo visto leccare un dipinto, l’artista ricordava ogni singolo
dettaglio del suo aspetto, anche il più piccolo. Non poté negare una
nota di
disappunto per la divisa del Vaticano, decisamente meno stuzzicante
dell’abito
che aveva indossato al banchetto, ma perfino in quelle vesti era
terribilmente
affascinante.
Anche
se, per i
suoi gusti, c’erano decisamente troppi strati di stoffa a fasciarle il
corpo:
la camicia dal collo alto, la sciarpa di seta elegantemente annodata,
la giacca
con il simbolo della Chiesa cucito sul petto, i guanti di pelle, i
pantaloni e
gli stivali… Tutto rigorosamente nero come la notte.
Avrebbe
voluto
dirsi che quelle vesti così maschili, combinate con i capelli raccolti,
minavano alla sua bellezza, ma dovette ricredersi anche su quello:
niente di
tutto ciò avrebbe mai potuto compromettere il suo fascino, né avrebbe
spento la
sua scintilla, che riconobbe immediatamente nei suoi occhi.
«Contessa»,
mormorò, recuperando una postura quanto meno composta.
«Artista»,
rispose Gemma, abbandonando la sua espressione perplessa solo per
tornare al
suo caratteristico sguardo, vispo e furbo.
«Posso
chiedervi, contessa, come mai vi trovate da queste parti?», domandò
Leonardo,
sperando che la perplessità nel tono della sua voce mascherasse
l’apprezzamento
rivolto alla sua presenza.
«Potrei
farvi la medesima domanda, artista», ribatté la giovane donna, muovendo
qualche
passo nello studio, le mani elegantemente congiunte davanti a sé. «Non
sapevo
foste un seguace del Signore».
«Non
lo sono, infatti», obiettò lui prontamente, con espressione diffidente.
«Cercavate
qualcosa da assaggiare?», domandò allora Gemma, indicando con un cenno
del capo
il dipinto che l’artista aveva leccato poco prima.
Da
Vinci invece
si chiese se non stesse avendo anche lui delle allucinazioni, perché
avrebbe
giurato che quell’assaggiare fosse
stato deliziosamente impregnato di malizia, quasi un… invito.
Dovette
sbattere più volte le palpebre per riacquistare abbastanza lucidità da
proseguire
nella conversazione.
«Sto
cercando di capire la causa di questa epidemia», spiegò, con quanta più
professionalità possibile.
«Leccando
i quadri?», chiese ancora la contessa, con il medesimo scetticismo.
«Controllavo
se contenessero o meno mercurio. I sintomi dell’intossicazione da
mercurio sono
molto simili a quelli che presentano le suore colpite».
«Allora
avete omesso di essere anche un medico, nella vostra ricca
presentazione al
banchetto», commentò Gemma, riacquistando tutta la sua malizia, nel
tono della
voce come nello sguardo. «Ricordate?», domandò poi, con una perplessità
palesemente finta, tutta volta a stuzzicarlo. E la gola improvvisamente
secca
di Leonardo ne fu una conferma.
«Mi
diletto nella medicina alle volte, ma non mi considero un medico»,
mormorò
l’artista, con la voce all'improvviso flebile.
Non
doveva
pensarci. Non doveva pensare a quell’abito, a quei capelli lasciati
sciolti, a
quanto fosse arrivato vicino al suo viso… Non doveva e basta.
«Avreste
potuto parlarmi anche di questo», rispose Gemma, rincarando così il
colpo. «Qualcosa
vi ha distratto, per caso?»
E
da Vinci
dovette mordersi la lingua per non rispondere Sì
all’istante.
La
sua unica
via di salvezza era spostare la conversazione su di lei, per quanto gli
sarebbe
piaciuto continuare quel gioco di provocazioni. Razionalmente, la
priorità più
impellente era capire il motivo del suo arrivo nel convento.
«Anche
voi ora apparite distratta. Avete dimenticato di rispondere alla mia
domanda»,
osservò l’artista. «O forse non volete farlo?», aggiunse, incrociando
le
braccia al petto e studiandola attentamente. «State forse tentando di
sviarmi
di proposito?»
«Chi?
Io? Non oserei mai», rispose con naturalezza la contessa, per nulla
turbata.
«Eppure
esitate a rispondere alla mia domanda», ribatté Leonardo.
«La
badessa del convento ha inviato una richiesta di aiuto al Vaticano»,
disse
Gemma con calma e semplicità, iniziando a gironzolare per lo studio. «E
io, in
quanto nipote del papa e umile servitrice di Dio, non potevo certo
negarle la
mia assistenza», aggiunse con la più ingenua delle espressioni, mentre
lentamente iniziava a sfilare uno dei suoi guanti di pelle dalla mano.
Se
non l’avesse
conosciuta a quel banchetto, se non avesse visto quanto un suo sguardo
fosse
capace di destabilizzarlo completamente, avrebbe anche potuto crederle,
ma gli
fu sufficiente ricordare il velo di malizia che lo aveva colpito fin
dal primo
secondo per capire che, in quel preciso istante, la sua aria pura ed
innocua
era solo una finta.
«Certo,
certo», commentò, con non poco sarcasmo. «Prima qualcuno avvelena
queste povere
suore, poi voi arrivate qui con la scusa di porgere i vostri servigi
alla
badessa», ragionò a voce alta. «Se il mio prima era solo un sospetto,
con la
vostra presenza qui è diventato una certezza».
A
Gemma quasi
scappò un sorriso a quelle parole. Se davvero l’artista pensava che per
spaventarla fosse sufficiente un’accusa impregnata di veleno, aveva
ancora
molto da imparare.
«Sono
un'anima candida ed innocente, azioni del genere non sono da me»,
rispose la
giovane donna, portando la mano libera dal guanto all’altezza del
cuore, come
se quelle parole l’avessero appena ferita.
«Strano,
mi avete dato esattamente l’idea opposta», mormorò l’artista, con un
mezzo
sorriso per quella scenetta.
Anche
la
contessa si sentì vagamente divertita e, per dissimulare, iniziò a
guardarsi
intorno per la stanza. Lo sguardo le cadde su una piccola ciotola di
legno
colma di quella che, a un rapido sguardo, sembrava una crema di frutta.
«Il
nostro precedente incontro mi ha portato a farmi un’idea-...», disse
l’artista,
ma non arrivò mai a concludere la frase, perché Gemma aveva sfiorato
con un
dito quanto contenuto nella ciotolina e poi lo aveva portato alle
labbra.
Leonardo
si
dimenticò di qualsiasi altra cosa presente in quella stanza, la sua
attenzione
catturata solo ed esclusivamente dal gesto compiuto da Gemma, lo
sguardo fisso
sulle sue labbra, il crescente desiderio di raggiungerla e di avere lui
il
piacere di compiere quell’assaggio.
Per
la contessa
fu davvero difficile trattenere un sorriso divertito, ma mantenne
imperterrita
una maschera di indifferenza e finta perplessità.
«Prego,
continuate pure. Vi sto ascoltando», mormorò, con aria innocente.
Ma
in risposta
non ottenne nulla di più di qualche monosillabo balbettato, né riebbe
lo
sguardo del fiorentino sui suoi occhi, invece che sulle sue labbra.
«Ehm…»,
mormorò Leonardo dopo un certo lasso di tempo, sbattendo velocemente le
palpebre per recuperare il contatto con la realtà.
«Qualcuno
vi ha morso la lingua, artista?», chiese Gemma, con uno sguardo
malizioso.
«Potete
rifarlo?», disse l’artista di getto, senza avere il tempo di chiedersi
quanto
fosse consona una richiesta del genere.
«Mordervi?»,
domandò lei con aria perplessa, e Leonardo colse l’occasione al volo
pur di
uscire da quello stato di ipnosi.
«Temo
che finirei avvelenato dal vostro sarcasmo», rispose prontamente.
Eppure,
Gemma
lo sorprese di nuovo, assumendo un’espressione vagamente dispiaciuta.
«Peccato.
Avrebbe potuto rivelarsi…», ma il suo sorriso malizioso non tardò a
ricomparire. «…piacevole», aggiunse, con voce bassa e vellutata.
«State
cercando di distrarmi, contessa?», chiese Leonardo, ma il suo sguardo
non si
era ancora mosso dalle sue labbra. «Sappiate che la vostra tattica non
ha
effetto su di me», continuò, ma più che un’affermazione suonava come un
tentativo di autoconvincimento.
«Oh,
no, non mi permetterei mai», rispose Gemma, un istante prima di
sfiorare
nuovamente il contenuto della ciotola con il dito e di portarselo alle
labbra,
facendo rischiare all’artista un attacco di cuore. «Specialmente…
quando non
riscontro alcun interesse dall’altra parte».
«No,
infatti, non ho il benché minimo interesse nei vostri confronti»,
mormorò
Leonardo, con la voce roca. «Questi trucchi su di me non hanno
effetto», eppure
la sua attenzione non dava segno di voler allentare la presa su di lei
o su
quel gesto provocatorio.
«È
un vero dispiacere», rispose la giovane donna, facendo spallucce.
«Perché sono
terribilmente brava. In questo e in molto, molto altro».
«Così,
per semplice curiosità…», iniziò l’artista, attingendo a tutte le sue
doti recitative
per fingersi disinteressato. «Come sarebbe continuata questa vostra
tattica
persuasiva?»
«Semplice
curiosità?»
«Semplice
curiosità».
«Non
mi sarei mai permessa di infrangere i limiti del consono», disse Gemma,
il suo
sguardo fisso negli occhi dell’artista mentre le mani armeggiavano per
togliersi
anche l’altro guanto. «Vi avrei semplicemente esposto i vantaggi e gli
svantaggi della mia offerta…», proseguì, avvicinandosi di qualche
passo. «…Le
spiacevoli conseguenze di un rifiuto…», e le sue lunghe ed affusolate
dita allentarono
delicatamente il nodo della sciarpa. «...e le ricompense di
un’alleanza»,
concluse, arrivando ad un soffio dal suo viso.
«Solo...
questo?», fu quanto Leonardo riuscì a dire, con un fil di voce.
«Per
quanto riguarda la comunicazione verbale», precisò Gemma, rincarando la
dose.
«Comunicazione…
verbale...», ripeté l’artista, senza preoccuparsi di celare con quanta
insistenza le stesse osservando le labbra. «Mi sembra un’ottima idea».
«Lo
credo anche io», concordò la contessa. «Nonostante io abbia un vero
debole per
tutto ciò che non prevede le parole», aggiunse, la voce ridotta ad un
roco
sussurro.
«Un
vero debole…», ripeté Leonardo nel suo ultimo barlume di lucidità,
prima di
dire addio a tutto il suo autocontrollo e sporgersi verso le sue
labbra, nessun
intento diverso dal baciarla.
Ma
all’ultimo
istante, Gemma si allontanò da lui lasciandolo, metaforicamente e
letteralmente,
a bocca asciutta.
«Ma
avete detto che niente del genere ha effetto su di voi, dunque…»,
ragionò ad
alta voce, con finta perplessità.
«Proprio
così…», mormorò Leonardo, approfittando di quell’allontanamento per
ridarsi un
contegno. Per quanto si fosse promesso di restare concentrato, aveva
ceduto,
proprio come un ragazzino alla sua prima cotta.
Spostando
lo
sguardo, però, la sua attenzione fu catturata dal braccio della
contessa, ormai
quasi completamente allontanata da lui e diretta altrove. Forse per
curiosità,
forse per l’orgoglio ferito, forse semplicemente ancora lontano dalla
lucidità
di cui aveva bisogno per evitare stupidaggini, ma non riuscì a
resistere.
Le
afferrò un
polso, attento a non farle male ma abbastanza deciso da fermarla
dov’era, e
l’attirò verso di sé, spingendola poi con la schiena contro la parete
più
vicina e bloccandole ogni via di fuga premendo il proprio corpo contro
il suo.
A
malapena
scorse una scia di sorpresa nella sua espressione, e vide solo uno
sguardo
soddisfatto che lo stava tacitamente sfidando. Sapeva che quella mossa
era in
tutto e per tutto un errore, perché le stava dando esattamente ciò che
lei
voleva: la conferma di avere un potere su di lui, un potere per niente
controbilanciato.
«E
su di voi ha effetto, invece?», le sussurrò, ad un soffio dalle sue
labbra.
«Voi
che ne pensate?», ribatté Gemma, senza alcuna traccia di turbamento, e
Leonardo
riconobbe immediatamente l’amaro sapore della delusione in bocca.
«Che
siamo più simili di quanto potrebbe sembrare a prima vista», mormorò
l’artista,
muovendo alcuni passi indietro e lasciando definitivamente la presa su
di lei.
«Peccato.
Si dice che siano gli opposti ad attrarsi», commentò la contessa,
studiando
attentamente la sua reazione.
«Anche
gli animi affini, però, hanno una certa complicità», rispose da Vinci,
sforzandosi di cacciare indietro la delusione e tornando su un terreno
più
familiare: le provocazioni.
«Mi
credete un’anima a voi affine?»
«Certamente.
Perseguiamo gli stessi obiettivi, ed entrambi non abbiamo intenzione di
fermarci davanti a niente pur di raggiungerli», spiegò Leonardo, il suo
sguardo
fisso in quello della contessa.
«Su
questo vi do ragione», convenne Gemma, annuendo, e la mente
dell’artista fu
libera di tornare a concentrarsi sul vero motivo che lo aveva portato
in quel
convento.
«Invece,
riguardo al vostro coinvolgimento in questa presunta possessione
demoniaca?
Negherete di essere a parte di questo piano?», domandò lui, anche se
già
conosceva la risposta.
«Assolutamente no».
E
per
l’ennesima volta, Leonardo rimase a dir poco sorpreso.
«Dunque
ammettete di sapere quale sia la vera causa dell’epidemia?», tentò
nuovamente,
scegliendo con cura le parole con la convinzione che sarebbero state
troppo estreme
per ricevere una risposta affermativa.
«Lo
confermo», rispose tranquillamente Gemma, e l’artista era ad un passo
dallo
spalancare la bocca per la sorpresa.
Vedendolo
così
sorpreso, la contessa proseguì da sola la conversazione.
«Sembrate
avere molto a cuore la sorte di queste povere vittime. Il minimo che io
possa
fare è offrirvi una possibilità di salvarle», aggiunse con estremo
zelo, mentre
si spostava dalla parete e si appoggiava di schiena ad uno degli
scrittoi.
Nonostante
fosse dannatamente tentato di crederle, grazie anche a
quell’espressione
all’apparenza così sincera, da Vinci si costrinse a pensare con
oggettività, e a
ricordarsi che stava parlando con la nipote di papa Sisto.
«E
in cambio cosa volete?», domandò lui, incrociando le braccia al petto.
«La
chiave», fu la sua risposta, priva di esitazioni, e a Leonardo scappò
una
risata divertita.
«Prevedibile»,
commentò, riconoscendo finalmente le vere intenzioni che si celavano
dietro a
quell’offerta.
«Determinata»,
lo corresse subito lei, con un sorriso fiero. «Non perdo di vista
l’obiettivo
così facilmente».
«E
quale sarebbe il vostro obiettivo finale?», domandò da Vinci, le
braccia ancora
conserte mentre muoveva qualche passo verso di lei. «Me o la chiave?»,
proseguì, con un sorrisetto compiaciuto.
«Il
Libro delle Lamine», ribatté immediatamente Gemma. «E trovarlo,
sfortunatamente, richiede sia la chiave che le vostre conoscenze»,
proseguì,
con finto dispiacere.
«Quindi
ammettete che io vi servo», tentò nuovamente Leonardo.
«Mi
servono le vostre conoscenze. Devo ripeterlo una terza volta?», chiese
la
giovane donna, con un atteggiamento così saccente da avvalorare la tesi
dell’artista che le loro fossero anime molto affini. «Credetemi, se
trovassi il
modo di esorcizzarle da voi, farei volentieri a meno della vostra
fastidiosa
presenza».
«Ma
fino a quando non troverete questo modo, sarete costretta ad usufruire
anche
del mio corpo», rispose lui prontamente, sollevando le sopracciglia con
malizia.
In
tutta
risposta, Gemma prese a torturarsi il labbro inferiore con i denti,
minando
quel briciolo di autocontrollo che Leonardo aveva appena ritrovato.
«Vi
ho mai accennato agli innumerevoli
modi in cui si può zittire un essere umano?», domandò lei, abbassando
il tono
della voce.
«Io
ne avrei in mente uno in particolare», mormorò da Vinci, la voce
ridotta ad un
bisbiglio mentre accorciava nuovamente le distanze.
«Non
funzionerebbe», rispose prontamente la contessa, e non c’era modo che
quella
frase fosse qualcosa di diverso da una provocazione, ben lontana dai
limiti del
consono.
«E
come fate ad esserne così certa?», indagò lui, la mente già lontana e
persa in
scenari tutt’altro che casti ed innocenti, le mani guidate da una forza
tutta
loro mentre lentamente stringevano Gemma a sé, cingendola all’altezza
della
vita.
«Avete
un debole per le minacce, artista?», chiese la contessa, con finta
sorpresa.
«Dipende
dal tipo di minacce, contessa», ribatté lui, studiando con molta
attenzione
ogni dettaglio del suo viso.
«Non
avete ancora risposto alla mia offerta», gli fece notare la giovane
donna, chinando
di poco la testa di lato, mentre le sue dita giocavano lentamente con
il
cordoncino che Leonardo aveva al collo.
«Non
la trovo del tutto equa, forse dovreste provare ad essere più
convincente»,
mormorò l’artista, scivolando con lo sguardo fino alle rosee labbra di
lei.
Nessuna
parola
giunse alle sue orecchie, in risposta, ma in compenso sentì fin troppo
chiaramente
la mano di Gemma scendere fino alla chiave e proseguire. Lentamente.
Fin troppo
lentamente, in una tortura straziante.
Nemmeno
lui, la
mente più geniale d’Europa, riuscì a spiegarsi cosa lo stesse
trattenendo
dall’annullare definitivamente quella distanza e riprendere da dove si
erano
interrotti al banchetto. Il motivo più plausibile era la crescente
aspettativa,
mentre sentiva molto bene quale percorso stessero seguendo le dita
della
contessa, ben lontane dall’intenzione di fermarsi al limite del
consono. E non
si fermarono, non fino al loro obiettivo.
E
a quel punto
all’artista si blocco il respiro in gola.
Lo
sapeva
Leonardo e lo sapeva Gemma. Lo aveva in pugno. In tutti i sensi.
E
poi, senza
alcun preavviso, lei strinse la presa. Non tanto da fargli male, ma
abbastanza
da farlo sussultare per la sorpresa, lasciando così la stretta attorno
al suo
corpo.
«Detto
io le condizioni, da Vinci», mormorò Gemma, ad un soffio dalle sue
labbra,
prima di allontanarsi ed uscire dalla stanza.
Angolo
dell’autrice
Flirtare
come
spudorati in un convento di suore… al limite del sacrilegio, no? Ma
intanto la stanza
stava per andare a fuoco, to say the
least.
Buonsalve
a
tutt*!
Gettate
le
maschere e messi sul tavolo i veri nomi e, soprattutto, le vere
intenzioni, i
giochi possono avere inizio. Comprendano minacce o meno, non ha
importanza.
Che
Gemma fosse
una provocatrice si era già intuito in passato, ma qui è stato
esilarante dar
sfogo a tutta la sua perfidia. Un po’ mi spiace che ci sia andato di
mezzo
Leonardo (e il suo appetito, per dirlo nel modo più velato possibile),
ma anche
i più arroganti hanno bisogno di un degno avversario ogni tanto, no?
Come
sempre,
spero di averti piacevolmente intrattenuto.
Ci
rivediamo
tra due settimane.
Un
bacione
Amy
W. Gildeary