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Autore: Adeia Di Elferas    24/11/2018    1 recensioni
Caterina Sforza, nota come la Leonessa di Romagna, venne alla luce a Milano, nel 1463. Si distinse fin da bambina per la sua propensione al comando e alle armi, dando prova di grande prontezza di spirito e di indomito coraggio.
Bella, istruita, intelligente, abile politica e fiera guerriera, Caterina passò alla storia non solo come grande donna, ma anche come madre di Giovanni dalle Bande Nere.
La sua vita fu così mirabolante e piena di azione che ella stessa - a quanto pare - sul letto di morte confessò ad un frate: "Se io potessi scrivere tutto, farei stupire il mondo..."
[STORIA NON ANCORA REVISIONATA]
Genere: Drammatico, Generale, Guerra | Stato: in corso
Tipo di coppia: Nessuna
Note: nessuna | Avvertimenti: Contenuti forti, Tematiche delicate, Violenza | Contesto: Rinascimento
Capitoli:
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Cesare Riario era atteso in città entro il primo pomeriggio. Caterina avrebbe preferito saperlo in arrivo al mattino presto, o a sera. Nel primo caso, non avrebbe dovuto aspettare, mentre, nel secondo, avrebbe potuto dedicarsi per tutto il giorno ai suoi affari, permettendosi di accantonare quel pensiero almeno fino al sorgere del sole.

Invece, non sapendo di preciso a che ora suo figlio avrebbe varcato le porte della città, si era trovata con la giornata spezzata e aveva deciso di non perdere altro tempo e dedicarsi a Bianca, come si era ripromessa di fare già da tempo.

“Pesta quelle foglie, fallo con attenzione, devi cercare di farne uscire tutto il succo...” stava dicendo, indicando alla figlia il mortaio.

La giovane Riario, che da un paio d'ore stava coadiuvando la madre nel suo laboratorio alchemico, eseguiva gli ordini senza fiatare, stando attenta a mettersi bene in testa la sequenza esatta di tutto quello che stavano facendo, dato che la Tigre l'aveva avvisata che, a pozione pronta, l'avrebbe interrogata a fondo per vedere quanto aveva imparato.

La Sforza, mentre la figlia si dedicava alle foglie da pestare, si mise a ripensare alla missiva arrivata la sera addietro direttamente da Roma. Il Cardinale Raffaele Sansoni Riario le aveva scritto in via informale per ricordarle gli obblighi di suo figlio Cesare, per chiederle quando il ragazzo sarebbe stato finalmente pronto per andare a Roma e da lì a Pisa, dato che ormai la sua carica era ufficiale, e, infine, le consigliava una mossa anche troppo astuta, per essere una sua idea.

Le aveva riferito, con parole velate, ma abbastanza chiare per la Contessa, che secondo lui il papa aveva qualcosa in pentola. Non sapeva dirle cosa, ma temeva che presto ci sarebbero stati momenti difficili, per i signori della Romagna e dunque, visti i precedenti dissapori tra lei e il Santo Padre, riteneva opportuno da parte della Sforza un piccolo segno di buona volontà.

'La liberatione de deca prigionieri' aveva provato a suggerire, senza scendere in maggiori dettagli.

Dieci prigionieri a caso, per la Leonessa, non erano un gran prezzo, e, se fosse bastato rimettere in strada dieci ladruncoli o dieci rissosi, l'avrebbe fatto volentieri, pur di non dover annoverare anche il papa tra i suoi nemici.

Tuttavia non l'aveva ancora fatto e, per quanto non avesse voglia di discuterne, si era decisa a consultarsi prima con il castellano e con qualche Consigliere. Sentiti i loro pareri, avrebbe deciso chi liberare e in che modo.

Quando finalmente tutti gli ingredienti della pozione vennero mescolati ad arte e portati a ebollizione, la Contessa fece segno alla figlia di avvicinarsi. Versò parte dell'intruglio in una bottiglietta e parte in un'altra. Prese la prima e la chiuse con attenzione, usando anche la ceralacca, e chiese alla ragazza di sistemarla nella sua dispensina.

Poi, quando la Riario tornò al suo fianco, la Tigre le consegnò la seconda bottiglia, chiusa allo stesso modo e le disse: “Ripetimi come l'abbiamo fatta.”

Bianca, deglutendo di quando in quando, dimostrò di saper ripercorrere quasi alla perfezione ogni passaggio e così la Sforza poté ritenersi soddisfatta fin da subito. Prese allora il suo ricettario, in cerca della preparazione che avevano appena portato a termine e strappò la pagina senza troppi riguardi.

La figlia, abituata a vedere la madre trattare la sua raccolta di esperimenti con massima cura, trasecolò nel vederle fare qualcosa di tanto improvviso.

“Questa è una pozione – iniziò a spiegare la donna, porgendole il foglio – a cui ho lavorato per parecchio tempo e credo che adesso sia abbastanza efficace. Serve a evitare di avere figli indesiderati.”

A quell'ultima precisazione, Bianca arrossì con violenza e provò a balbettare qualcosa, ma Caterina la frenò subito.

“Non sto dicendo che ti serva adesso, non voglio nemmeno sapere se è così. Voglio solo che, se mai ti servisse, tu ne abbia a disposizione e sia anche in grado di prepararla, se necessario.” fece la Contessa, evitando gli occhi blu scuri della figlia: “Su quella pagina troverai scritto come e quando usarla.”

La Riario annuì, mettendo il foglio al sicuro nel tascone del suo abito, e poi guardò la madre, che si stava già affaccendando per mettere a posto gli attrezzi che avevano usato: “Madre, vi ringrazio, ma volevo farvi sapere che...”

“Ti ho detto che non voglio sapere nulla.” la interruppe di nuovo la Leonessa, con la precisa intenzione di evitare il più possibile un argomento che lei stessa aveva sollevato per prima: “Sono più tranquilla, così, lo capisci?”

Sentito ciò, la ragazza annuì, e, mettendosi ad aiutare la madre, ribatté: “Sì, madre, lo capisco.”

Quando ormai avevano rimesso tutto in ordine, sul far del mezzogiorno, Bianca prese la bottiglia che la madre le aveva voluto dare e si era ritirata nelle sue stanze per sistemarla. Caterina, volutamente, non l'aveva etichettata, per evitare eventuali pettegolezzi da parte delle serve, e aveva anche pregato la figlia di custodirla in un posto che fosse noto solo a lei.

Poco dopo, giusto quando la Tigre aveva deciso di andare a mangiare qualcosa, un soldato era arrivato di corsa per dire di aver avvistato sulla strada la colonna di uomini che scortava Cesare Riario verso Forlì.

Stringendo le labbra, più irritata per il pranzo che avrebbe dovuto rimandare che per altro, la Contessa ringraziò il soldato e chiamò a raccolta i figli – eccezion fatta per Bernardino, che non si era fatto trovare, dopo aver saputo che Cesare stava per ritornare a Forlì – per dare il benvenuto al fratello appena rientrato a casa.

 

Avvolto nel suo mantello spesso, Cesare Borja guardava in silenzio le fiamme che sembravano danzare nel camino. Fuori nevicava, forte e senza sosta, in un modo che a Roma non aveva mai conosciuto. La Francia, per lui, si stava trasformando nel paese più inospitale della Terra.

Anche se ai banchetti e agli incontri faceva sorrisi e battute, sfoggiando una presenza di spirito invidiabile, appena restava solo ripiombava in una malinconia e in una tristezza che gli rendevano difficile perfino il più piccolo gesto.

Stava aspettando di essere convocato per il pranzo. Non si era ancora cambiato, perché tanto sapeva che da quando fossero andati a cercarlo al reale orario del pasto sarebbe trascorsa come minimo un'altra ora.

Non ne poteva più. Aspettare che le trattative per il suo matrimonio si concludessero e che da suo padre arrivassero le notizie sperate era una tortura. Si sentiva un martire. Un martire della cristianità, ecco, così anche il papa ne sarebbe stato felice.

Si grattò distrattamente una delle croste che erano ricomparse sul suo viso. La recrudescenza della sua malattia dei giorni addietro era stata una delle scuse usata da Luigi XII per ritardare ulteriormente i maneggi per farlo sposare.

Uno sposo, aveva detto, non può presentarsi all'altare febbricitante e coperto di piaghe. Cesare gli aveva dato ragione, ma poi, quando era stato solo nei suoi alloggi, l'aveva maledetto.

Le sue orecchie, tese come quelle di un gatto, sentirono subito i passi felpati del suo servo. Quel ragazzino lo disprezzava, su questo non aveva dubbi, eppure continuava a servirlo, docile e disponibile. Forse lo faceva solo perché aveva paura di lui. Aveva sentito già più volte sulla sua pelle di cosa era capace il figlio del Santo Padre, per punirlo, e questo doveva avergli fatto capire che era meglio non farlo arrabbiare.

“C'è una lettera per voi, mio signore.” disse il ragazzo, avvicinandosi al divanetto imbottito su cui era accoccolato Cesare: “Da Roma.”

“Dammi qua.” fece subito il giovane Borja, scattando in piedi e strappandogli di mano la missiva.

Il servo rimase al suo posto, come faceva sempre, in attesa di sapere se vi fosse una risposta immediata da rimandare al mittente. Di norma, Cesare non vi faceva caso, ma quella volta c'era qualcosa nel suo servetto che lo impensierì.

Erano un paio di giorni, si rese conto, che non lo osservava, e adesso lo trovava pallido, un po' sudato, leggermente malfermo sulla gambe, come se avesse la febbre e non stesse troppo bene.

Prima di aprire la lettera, il Borja si concentrò sul ragazzino. Gli prese il mento tra le mani, voltandogli il viso di profilo, come per studiarlo meglio. Gli occhi del servo saettarono pieni di paura verso di lui, ma Cesare non si lasciò distrarre. Già a quel breve tocco, sentì la pelle del giovane incandescente.

Ci ragionò sopra un paio di minuti e poi capì. Si rivedeva troppo in lui, per non riconoscere quello strascicato malessere. Il mal francese, alla fine, era arrivato a lambire anche la sua giovane carne.

Qualche settimana addietro, in effetti, aveva notato una macula particolare, vicino alle sue labbra, ma aveva deciso di non farci caso. Adesso, però, che lo scopriva in quello stato, quel dettaglio assumeva un peso molto diverso.

“Fatti visitare da un dottore.” gli disse, andando a cercare qualche moneta nella scarsella che teneva accanto al camino: “Magari sarà in grado di farti passare la febbre. Se superi il primo momento, poi ci convivi.”

Il servo deglutì e prese la moneta, senza dire nulla. Ci volle un gesto secco del suo padrone per convincerlo finalmente a levarsi di torno.

Rimettendosi sul divanetto, il Borja sospirò. Si sarebbe trovato un altro passatempo. Non gli piaceva accompagnarsi a gente ammalata. Avrebbe trovato un nuovo coppiere per soddisfare le sue voglie e poi, Dio piacendo, sarebbe tornato a Roma.

Aprì la lettera con fare stizzoso, ancora indispettito per lo scarso tempismo avuto dal suo servo nel farsi contagiare, e cominciò a leggere.

Si era atteso una lettera piena di promesse e politica, e invece si trattava di un messaggio di sua madre, Vannozza. Parlava di Lucrecia.

Il Borja lesse tutto con gran fretta, puntellato sul bordo del divano, gli occhi che inseguivano le parole vergate dalla mano saggia di sua madre. Lo metteva a parte della gravidanza di Lucrecia, del suo incidente a cavallo, di come avesse perso quel figlio che era stato una promessa di pace tra il papato e Napoli, e poi, quasi con riluttanza, soggiungeva che i due sposi si stavano impegnando già per ridare speranza alle loro famiglie.

Finiva poi augurandosi un suo pronto ritorno a casa, suggerendo come Sua Santità stesse sistemando gli ultimi dettagli per il suo trionfale ingresso a Roma.

Cesare finì di leggere con l'amaro in bocca. Ricordava anche troppo bene il modo in cui sua sorella guardava e sfiorava di continuo Alfonso d'Aragona. Immaginarli assieme a letto, mentre si amavano, con i respiri spezzati e i corpi che si intrecciavano...

Con uno scatto d'ira, l'uomo si alzò in piedi, strappò in mille pezzi la lettera e la gettò nel fuoco.

Doveva tornare a Roma presto, il prima che si potesse. Maledisse la sua malattia, che aveva indotto il re a ritardare le sue nozze con quell'inutile donna di nome Charlotte d'Albret, e cominciò a vestirsi da solo per il pranzo.

Sarebbe arrivato al salone per primo, avrebbe discusso con chi di dovere e avrebbe fatto tutto ciò che era in suo potere per accelerare tutto. Doveva tornare in Italia. Non solo per soddisfare i desideri di suo padre, che lo voleva un novello Giulio Cesare, ma anche e soprattutto per risolvere la questione di Lucrecia.

“La gelosia è una brutta bestia – gli aveva detto una volta suo padre – ti divora e ti acceca senza che tu possa far nulla per placarla. Puoi solo assecondarla e, più lo fai, più ti distrugge.”

Era vero, era tutto vero, ma il Borja non poteva permettere che Alfonso restasse impunito. Già aveva accettato con il mal di stomaco di saperlo sposo di Lucrecia, ma sentire che, perso un figlio, già stavano cercando di averne un altro, l'aveva fatto uscire di testa.

Lucrecia era sua, sua soltanto. Così come l'aveva dovuto capire Juan, l'avrebbe capito anche l'Aragona. Era solo questione di tempo.

 

Finita la breve cerimonia con cui la Sforza aveva accolto suo figlio Cesare alla rocca di Ravaldino, la folla si era diradata a una velocità sorprendente, e la Tigre ne era stata felice.

Appena non aveva avuto più tanti testimoni, aveva abbandonato il sorriso affettato con cui aveva salutato il giovane Riario e si era scusata, a mezza bocca, dicendo: “Perdonatemi, devo andare a palazzo, adesso. Ho un impegno.”

Appena la donna si allontanò, Bianca, che portava in braccio Giovannino, fece un cenno con il capo a Cesare e poi si ritirò dentro la rocca, dicendo che fuori faceva troppo freddo per il piccolo.

Galeazzo, approfittando della defezione della sorella, dedicò un rigido saluto al fratello e poi seguì Bianca.

Sforzino, un po' indeciso, alla fine sorrise a Cesare, ma non disse nulla, sparendo a sua volta, in cerca di un camino davanti al quale scaldarsi.

Ottaviano, invece, rimase per qualche istante ancora nel cortile. Spostò il peso da un piede all'altro, ma sembrava non riuscire a decidere che fare.

Cesare lo osservò con attenzione, trovandolo diverso, da come lo ricordava. Nelle settimane che aveva passato in viaggio, nella sua mente Ottaviano era tornato il ragazzino secco e nervoso che l'aveva portato sulla strada del peccato più grande che si potesse commettere: l'omicidio.

Ai tempi, il primogenito della Tigre aveva gli occhi inquieti, ma un viso regolare e piacevole, una fisionomia già ben definita, che prometteva di renderlo un bell'uomo, da adulto. Adesso, invece, che aveva quasi vent'anni, era curvo nelle spalle, il profilo viziato da un ventre rigonfio degno di un ubriacone da osteria, gli occhi erano sempre inquieti, ma con un velo di paura costante che li rendeva privi di qualsiasi interesse.

Allo stesso modo, Ottaviano stava osservando Cesare. Se lo ricordava da bambino, già serio come un prete, ma abbastanza tranquillo. Anzi, scavando nelle memoria, riusciva a rivederlo affettuoso e quasi dolce.

Adesso, invece, che aveva diciotto, quasi diciannove anni, tutto nel suo profilo era asciutto, dal naso lungo alla figura della sua persona. I vestiti da religioso lo facevano quasi sembrare un fantasma, le sue guance tanto magre da essere rientranti ricordavano quelle di un teschio e i suoi occhi incavati erano accesi da una luce che a Ottaviano metteva quasi i brividi.

Non trovando nulla da dire il Riario più vecchio allacciò le mani dietro la schiena e, scurendosi il viso, borbottò un vago: “Ci vediamo dopo...” e si eclissò pure lui.

Cesare era rimasto un po' spiazzato dall'accoglienza fredda dei fratelli, mentre invece non si risentì più di tanto, dinnanzi al comportamento sfuggente della madre e, anzi, ne approfittò per seguire subito il cancelliere Cardella, che, proprio su ordine della Contessa, doveva mostrargli i documenti arrivati da Roma e spiegargli il da farsi.

Lasciatasi alle spalle Ravaldino, Caterina aveva puntato dritto verso il palazzo. Era stata tentata di passare davanti alla barberia di Bernardi, per vedere se se ne fosse già andato davvero, come le aveva fatto sapere, ma alla fine preferì non fare deviazioni.

Arrivata al palazzo, rese noto alle guardie che presidiavano la porta che avrebbe atteso Polidoro Tiberti in una delle sale al piano terra. Aveva deciso di attendere mezz'ora, non di più. Se il fratello di Achille non si fosse presentato per tempo, sarebbe stato peggio per lui.

Polidoro, però, istruito a dovere dall'altro Tiberti, arrivò nel giro di dieci minuti, presentandosi con un ossequioso inchino e una serie di parole studiate ad arte per ingraziarsi la Sforza.

Questa, ben lungi dall'essere impressionata da qualche sofisma, la Tigre gli chiese di parlarle di quello che avrebbe fatto, concretamente, come tramite tra lei e la Serenissima.

Il discorso del cesenate filava abbastanza liscio e Caterina, per quanto involontariamente ancora distratta dal pensiero di suo figlio Cesare, lo seguì senza perdere una virgola, fermando il suo interlocutore quando lo sentì dire: “Perché voi sapete che la famiglia Tiberti vi è in tutto serva e che quindi io non potrei mai far nulla che vada a vostro svantaggio, per quanto Venezia potesse cercare di tentarmi...”

“La famiglia Tiberti non mi è serva se non in minima parte.” lo contraddisse lei, incrociando le braccia sul petto: “Tanto per dirne una, vostro fratello Palmerio è al soldo di Venezia.”

“E mio fratello Achille è al soldo vostro.” fece notare Polidoro, gli occhi scentrati che cercavano quelli verdi della Contessa.

La donna si morse il labbro. Si rendeva conto che quell'uomo potesse essere un buon mediatore, per lei. Anche se l'ufficialità di un progetto di pace tra Firenze e Venezia ancora mancava, era certa che prima o poi si sarebbe giunti a un compromesso. I fiorentini iniziavano a essere allo sbando, e Venezia faticava a tenere le posizioni. Una tregua sarebbe convenuta a tutti e due.

Polidoro l'aveva servita egregiamente quando era stato a Roma, non poteva negarlo. Però, questa volta, si trattava di parlamentare con il Doge, un uomo che già aveva al proprio servizio Palmerio Tiberti.

“So che a gennaio avete fatto vendere del frumento delle campagne di Cesena a Firenze.” disse piano la Contessa, per vedere come l'altro avrebbe gestito quella che poteva essere una semplice costatazione, un'accusa o un plauso.

Nel sentire le parole della Leonessa, Polidoro cominciò subito a sudare freddo: “Lo so che anche Forlì cercava frumento, ma io... Ecco, insomma, Firenze dava più garanzie di pagamento, e poi non sono state avanzate proposte chiare, quindi l'offerta fatta dalla Signoria... So che non avrei dovuto vendere a loro, ma insomma, il raccolto era pronto e quindi...”

Caterina attese qualche minuto, lasciando che Tiberti si impantanasse da solo nel suo affastellare scuse e poi, con voce calma, ribatté: “Firenze è nostra alleata. Non vedo perché dobbiate dire che non dovevate vendere a Firenze il frumento. Una coalizione funziona solo se ogni suo componente è forte. Forlì era in difficoltà, ma Firenze la era di più. Avete fatto bene a preferire loro a noi.”

Il cesenate sentì la bocca seccarsi. Si era reso conto troppo tardi di essere caduto nella trappola della Sforza. La sua reazione, lo si vedeva dall'espressione di lei, le aveva fatto pensare che lui fosse in malafede, che avesse la coda di paglia.

Se, al contrario, avesse semplicemente confermato ciò che la Contessa aveva detto, non avrebbe destato nessun sospetto.

“Per la questione di Venezia, dunque, mia signora, cosa mi dite?” chiese Polidoro, dopo il lungo silenzio che era seguito alle ultime frasi della donna.

Questa sospirò e, passando distrattamente una mano sul bordo del camino spento, trovandolo coperto di polvere, riassunse in breve ciò che si sarebbe attesa da lui, nel caso lo avesse davvero incaricato di rappresentarla presso il Doge.

“Ma quelle che state avanzando voi sono proposte da uno che la guerra l'ha vinta, non da uno che cerca una pace indolore per tutti!” si oppose Tiberti, quando la Tigre ebbe finito il suo elenco.

“Se credete di non essere capace di portare a casa i risultati che vi chiedo – tagliò corto la Sforza, che non cercava pretesto migliore per liquidare Polidoro – allora significa che avrò bisogno di cercare un'altra persona per questo compito.”

“Perdonatemi, mia signora, ma le vostre richieste a Venezia sono veramente troppo...” iniziò a ribadire l'uomo, il freddo della stanza che gli stava penetrando nelle ossa molto più di quanto non avesse fatto quello che l'aveva accompagnato lungo la strada tra Cesena e Forlì quella mattina.

“La restituzione dei terreni che mi sono stati sottratti, l'indennizzo per i danni subiti e un risarcimento per i raccolti persi mi sembrano il minimo, invece.” lo zittì Caterina, che cominciava davvero a essere stanca di vedersi davanti il brutto viso del cesenate: “E quindi ripeto: cercherò qualcuno più intraprendente di voi.”

Tiberti, vedendo la Leonessa allungare una mano e indicargli la porta, capì di essersi bruciato ogni possibilità. Gli era parsa la decisione più semplice e più comoda, cercare un impiego diplomatico a Forlì che gli permettesse, al contempo, di farsi bello con il Doge. E invece quella donna impossibile gli stava precludendo quella strada.

Con un inchino molto rigido, Polidoro la salutò e, prima di lasciarla, soggiunse: “Vi auguro davvero di trovare chi vi aiuti. Per quanto mi riguarda, sarete voi a dover abbassare le pretese, se non vorrete che Venezia chiuda una guerra con Firenze e ne apra una contro di voi.”

Caterina gli indicò di nuovo la porta e finalmente l'uomo uscì. Pensosa, ancora incapace di valutare quanto la sua decisione fosse stata corretta, la donna andò alla finestra, e guardò Tiberti andare nel mezzo della piazza.

Suo fratello Achille lo stava aspettando, intabarrato in un mantello spesso e scuro, nuvolette di vapore denso che uscivano dalle narici larghe del suo naso grosso e adunco. I due si parlarono un po', all'inizio Polidoro scuoteva la testa, mentre l'altro cercava di calmarlo posandogli una mano sulla spalla, ma, alla fine, e la Tigre lo notò con una punta di rabbia, anche Achille agitava la testa e pareva molto contrariato.

Quando gli uomini, forse sentendosi osservati, sollevarono a tempo lo sguardo verso il palazzo, la donna si era già celata dietro il tendone. Li aveva visti, però, aveva visto lo sguardo che aveva acceso il viso disarmonico di entrambi, e non le era piaciuto.

Attese che i due se ne andassero e poi, tornata alla rocca, chiamò a sé il Mongardini, Rossetti e Francesco Numai e mise in chiaro: “Achille Tiberti, da questo momento, non deve prendere alcuna decisione autonoma. Tenetelo d'occhio e qualsiasi mossa strana gli vedrete fare, esigo che veniate subito da me a riferirla.”

I tre uomini annuirono e quando il Capitano Mongardini, mettendo in mostra i piccoli denti color perla, chiese: “C'è qualche motivo in particolare? Dobbiamo prestare attenzione a qualche suo contatto di preciso? C'è qualcosa a cui dobbiamo fare caso più nel dettaglio?” la Tigre sospirò.

Guardando i soldati che si stavano addestrando nel cortile della sua rocca, si chiese di quanti di loro si potesse realmente fidare. Poi, però, si disse anche che poteva permettersi di dubitare di qualche fante o di qualche recluta, ma non di un Capitano.

“Controllate ogni cosa. Voglio che sappiate con chi si vede e perché, con chi parla, perfino cosa pensa o quante volte uso il vaso da notte.” disse a voce bassa la Contessa: “E appena ci sarà qualcosa che non vi torna, anche la più piccola, dovrete dirmelo all'istante.”

I tre Capitani annuirono di nuovo, poi si scambiarono uno sguardo d'intesa e solo a quel punto la Tigre si permise di rilassarsi un po'.

Erano stati i racconti che le facevano da piccola, sui suoi nonni, a farle capire quanto fosse importante essere apprezzati dall'esercito, e quanto lo fosse potersi fidare dei propri uomini. Vedere le espressioni fiere e sicure di quei tre Capitani le lasciava intendere che, seppur con qualche scivolone lungo il percorso, lei stava riuscendo in quello che suo nonno considerava il più grande traguardo per un comandante.

 

Castrocaro era a poche ore di cammino da dove Giovanni da Casale aveva deciso di far fermare i suoi uomini.

Il Moro gli aveva affidato mille fanti, cento armigeri e cento cavalieri. Era un'armata di tutto rispetto, la migliore che il Duca gli avesse mai concesso, eppure Pirovano non riusciva a godersi quello che era a tutti gli effetti un salto di qualità.

Il piano era abbastanza semplice: dovevano occupare Castrocaro e Modigliana e respingere le eventuali incursioni dei veneziani. Secondo Ludovico Sforza la guerra tra Firenze e Venezia sarebbe finita a breve, ma come sempre in quel genere di guerre, di certo gli screzi e le piccole battaglie sarebbero proseguite ancora per mesi.

Se per il resto della guerra Milano aveva cercato di tirarsene fuori il più possibile, prodigandosi in magniloquenti promesse e poi addossando alla Tigre di Forlì la colpa per l'inefficienza dei soldati del Ducato, almeno in quel finale il Moro voleva fare la parte dello splendido e dimostrare che i suoi avevano dato il sangue fino all'ultimo.

“Sì, qui va bene.” confermò Giovanni, quando il suo secondo gli chiese se fosse il caso di piantare le tende: “Quella là in fondo credi che sia una locanda?” chiese poi il comandante al soldato.

Stringendo un po' gli occhi, l'uomo guardò verso il punto che Pirovano gli stava indicando. Si trattava di una lucina a qualche centinai di metri da loro. C'era già buio ed era difficile esserne sicuri, ma il fatto che non vi fossero vicino altre case lo lasciava presupporre.

“Immagino di sì, mio signore.” fece il giovane, con un'alzata di spalle.

Giovanni si morse le labbra e poi, colto da una voglia irrefrenabile di allontanarsi per un po' dalla truppa, rimontò a cavallo e disse: “Tornerò entro un paio d'ore. Non venitemi a cercare. E che nessuno lasci il campo.”

Mentre il comandante si allontanava, il suo secondo cominciò a gridare gli ordini ricevuti, e solo quando ebbe finito di dar fiato alla bocca un soldato gli si avvicinò e gli chiese: “Ma dove stava andando il nostro comandante?”

“Penso a quella locanda laggiù.” rispose l'altro, indicando la luce che si vedeva in lontananza.

“E a far cosa?” chiese il soldato curioso.

“Vorrà una donna e vorrà fare le cose tranquillo, senza che tutti al campo lo sappiano.” si intromise un terzo, che aveva origliato il discorso: “Anche se ne abbiamo di belle, al seguito, lo sappiamo tutti quanti che con quelle non ci va. È diventato raffinato, vivendo alla rocca della Sforza,”

Gli altri due risero, e il soldato che per primo aveva domandato, rincarò la dose soggiungendo: “E sì, il letto di una Contessa è troppo comodo, per sostituirlo con una branda da campo...”

Intanto Pirovano aveva attraversato i campi che lo dividevano dalla locanda e aveva legato fuori il cavallo. Entrato, venne investito dal calore e dall'odore del camino e del cibo.

L'oste, in piedi dietro al bancone, lo guardò per un lungo istante, indeciso se vedere nelle armi che Giovanni portava addosso una minaccia o no.

“Desiderate?” chiese l'uomo, mentre il soldato si guardava attorno, notando come vi fossero sì e no mezza dozzina di avventori che mangiavano.

“Sono Giovanni da Casale, al servizio del Duca di Milano.” si presentò Pirovano: “I miei uomini si sono accampati qui vicino.”

L'oste annuì: “Sì, ce ne siamo accorti.”

Il milanese fece un mezzo sorriso, rendendosi conto di come quella colonna di oltre mille uomini non potesse restare inosservata, e soggiunse: “Sono stanco del cibo da accampamento. Servitemi del vino e della carne cotta come si deve.”

“Abbiamo solo birra.” spiegò il locandiere, indicandogli un tavolo vicino al bancone: “Costa meno e vende meglio.”

“Quello che c'è va bene.” tagliò corto Giovanni, sedendosi.

Mentre aspettava che la sua birra e la sua carne fossero pronte, Pirovano si perse nei suoi pensieri.

Castrocaro era vicinissima a Forlì. Anche a piedi avrebbe potuto raggiungere la città in un lampo.

Si era premurato, come da espressa volontà del Moro, di evitare Imola e Faenza, scendendo verso Castrocaro, prediligendo strade più scomode, ma più sicure della via Emilia. Adesso, però, che era così vicino, resistere alla tentazione di andare anche solo per un'ora e rivedere Caterina.

E poi pensava a Manfredi. Lui, di sicuro, era ancora a Ravaldino, accanto a lei, passando le notti con lei. Chissà se lo nominavano mai, probabilmente il faentino, se lo faceva, lo faceva solo per denigrarlo e mostrarsi alla Tigre come un'alternativa molto più valida.

Immaginare Manfredi tra le braccia della Contessa, per Pirovano, era troppo. La sua unica consolazione era sperare che la guerra finisse presto. Libero da quella condotta capestro che il Duca gli aveva imposto, sarebbe tornato da lei e l'avrebbe convinta a prenderlo con sé, anche solo come soldato di ronda.

Quando fu servito, fece segno all'oste di sedersi un attimo con lui. Per convincerlo, gli mostrò una moneta d'oro e, a quell'invito, l'uomo non poté rifiutare.

“Come vanno le cose a Forlì?” gli chiese, a voce molto bassa.

L'altro sollevò le sopracciglia e poi, con un sospiro disse: “Per quello che dicono i viandanti che passano di qui, come al solito. Anche se...”

“Anche se?” lo incalzò Giovanni, bevendo qualche sorso di birra e restando in ascolto.

“Anche se ho sentito tanti mercanti lamentarsi del fatto che Faenza sta impedendo loro di raggiungere Forlì passando dalla via Emilia.” rispose il locandiere.

“E...” Pirovano deglutì, infilzando con il proprio coltello un pezzo di stufato che dall'odore pareva di cervo: “Ecco... Avete notizie di messer Manfredi? Ottaviano Manfredi, intendo.”

L'uomo si guardò nervosamente alle spalle, quasi temesse di vedersi piombare addosso qualche armigero pronto a metterlo in catene: “Se è per quella storia di Corbizzi, io non so nulla. Solo perché la mia locanda è sulla via, non significa che...”

Giovanni, che nel sapore nello stufato di cervo stava rivivendo i pasti a Ravaldino, dove la carne di selvaggina non mancava mai, si accigliò e chiese chi fosse quel Corbizzi di cui parlava.

Sorpreso nel vedere il suo ospite ignaro di quel fatto di cronaca che aveva fatto sparlare anche chi non amava le chiacchiere, il locandiere gli spiegò tutto, da come Corbizzo fosse stato ucciso mentre tornava a Castrocaro, a come i sospetti tutt'ora ricadessero per certi su Ottaviano Manfredi e per altri su Dionigi Naldi che, per quanto ne sapeva, era anche stato arrestato.

Disse, senza darvi eccessivo peso, anche che Manfredi era stato promesso a Bianca Riario, a patto che, ovviamente, togliesse di mezzo l'attuale marito di lei, con il fine ultimo di creare un'alleanza stabile con lo Stato dei Riario.

Giovanni sorvolò su quell'ultimo punto, dato che, conoscendo un po' la Leonessa, era abbastanza sicuro che quel genere di maneggio non avrebbe comunque tolto di mezzo Manfredi: sarebbe certamente rimasto un amante della Tigre, anche se marito di Bianca. Così preferì tornare a indagare sulla questione che meno gli era chiara.

“E quindi adesso Manfredi è sotto la protezione della Contessa Sforza?” si informò Pirovano, ribollendo di gelosia all'idea di come sicuramente Caterina lo stesse tenendo al sicuro nelle viscere della sua rocca.

L'oste scosse il capo e, mentre uno degli avventori lo chiamava per avere ancora da bere, rispose in fretta: “Ma no, ma no... Messer Manfredi è ripartito per la guerra qualche giorno fa, anzi, ormai sarà anche una settimana o due, non saprei dirvi con esattezza.”

Giovanni rimase immobile, mentre il locandiere si alzava per servire il cliente e, ricominciando a mangiare con un velato sollievo nel cuore – il pensiero che Manfredi fosse al fronte e non nel letto della Tigre lo sollevava molto più di quanto avrebbe avuto il coraggio di dire – cercò di farsi un'idea più precisa in merito a tutte le informazioni appena ottenute.

Finito il cervo e prosciugata la birra, Pirovano pagò e uscì di nuovo al freddo, sotto al cielo buio di quella che ormai era una notte gelida di fine febbraio.

Prese il cavallo e arrivò al campo senza farsi notare troppo. Il suo attendente gli chiese se volesse da mangiare, ma lui rifiutò e andò subito nel suo padiglione.

Steso nella branda, la cena che si rimescolava piacevolmente nello stomaco, l'uomo si passò una mano sulla barba scura, che si era fatta folta, e valutò come potesse evolvere quella situazione.

Sentendosi in colpa, ma solo un po', sperò con tutto se stesso che Manfredi morisse in battaglia, magari perfino coprendosi di gloria con un'azione eroica – non augurava a nessun soldato una morte da codardo o inutile – e che lui, a guerra finita, potesse tornare da Caterina, consolandola per la perdita del suo prezioso amante faentino.

Non erano pensieri onorevoli, e solo qualche mese prima si sarebbe vergognato anche solo di sfiorarli, ma incontrare la Tigre aveva spostato tutti i suoi confini e, pur di averla di nuovo, pur di provare a essere per lei l'unico, anche a costo di sgomitare per farsi spazio tra i suoi mille amanti occasionali, avrebbe fatto di tutto, accettato ogni compromesso.

Con quella nuova consapevolezza nel petto, Giovanni si rigirò sul fianco e, con un sospiro pesante, prese sonno.

 
 
   
 
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