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Autore: _Frame_    25/11/2018    2 recensioni
[Epilogo di “Siberian Cub”. Contiene spoiler!]
[LietPol Human!AU; Past!RusLiet; Fake!BelaLiet]
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La fuga da Londra è l’occasione che serve a Toris per tornare a inseguire la felicità che ha tanto desiderato assieme all’unica persona che abbia mai amato veramente, lontano dall’ombra di Ivan e dalla vita di strada che lo ha devastato durante gli anni trascorsi in Inghilterra. Ma i Siberian Cubs potrebbero aver influenzato in maniera permanente il suo destino, sottraendolo per sempre alla possibilità di vivere lontano dal passato che lo ha quasi ucciso e da quei traumi che ancora continuano a perseguitarlo.
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Estratto da “Chinese Cub”:
«Quello che c’è fra me e lui non ha niente a che vedere con quello che c’è fra me e te. Toris è il mio oppio, serve solo a stordirmi e a dimenticarmi del dolore che provo stando separato da te. Lui è solo una bambola di pezza in confronto a quello che significhi tu. Perché è debole, perché non conosce l’amor proprio, perché tiene sempre lo sguardo basso, e perché permette alle persone di usarlo come vogliono. È tutto quello che non sei tu.»
Genere: Malinconico, Romantico, Triste | Stato: completa
Tipo di coppia: Yaoi | Personaggi: Bielorussia/Natalia Arlovskaya, Estonia/Eduard von Bock, Lituania/Toris Lorinaitis, Polonia/Feliks Łukasiewicz, Ucraina
Note: AU, Lime | Avvertimenti: Spoiler!, Tematiche delicate
Capitoli:
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- Questa storia fa parte della serie 'London Cubs'
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3. Caro Feliks – Inverno

 

 

maggio 1986

Berlino Est, Repubblica Democratica Tedesca

 

Heinz batte la mano sul tavolo apparecchiato, fa traballare il suo calice di vino, e conclude la storia senza riuscire a contenere un sorrisino d’anticipazione. «E io a quel punto gli faccio: “Ma glielo sto dicendo da mezz’ora che lo sportello giusto era quello di destra!”»

La tavolata scoppia a ridere, Franz si copre con il tovagliolo e sogghigna, anche se lui sapeva già come andava a finire, e persino Natalia si sfila la forchetta dalle labbra per non sorridere con il cibo in bocca.

Linda porta la mano alla bocca per trattenere la risata più squillante, e le sue guance avvampano di rosso per tutto il vino che ha già bevuto durante il corso della cena. Riprende fiato e fa aria al viso accaldato, abbandona le spalle sullo schienale della sedia. «Oh, cielo, non puoi dirmi queste cose, sono già ubriaca.» Sopprime un altro singhiozzo di risata. Raccoglie il suo calice vuoto laccato di vino rosso, e lo sventola davanti a Sonja, verso Franz. «Sii gentile, tesoro, e versamene un altro.»

Franz posa il suo tovagliolo, raccoglie la bottiglia di Merlot accanto a una delle candele accese, e versa il vino alla moglie. Linda gli fa l’occhiolino e butta giù un ennesimo sorso, placa la risata che ancora le scuote il petto.

Rido anch’io, mi lascio sciogliere dall’atmosfera della serata, dal gusto delizioso della cena, dal tepore delle candele che decorano la tavola. Era da tanto che io e Natalia non ci concedevamo una sera libera per distrarci dal lavoro.

Sospiro, poso la forchetta, allento il bavero della camicia, e mi faccio raggiungere dall’aroma dei caffè che hanno ordinato quelli al tavolo affianco al nostro. Un cameriere mi passa dietro reggendo un vassoio con dei piatti di zuppa, incrocia il passo con quello che sta spingendo il vassoio dei dolci verso le cucine, e si porta in disparte per lasciar passare una coppia appena entrata nel locale.

Heinz rigira la forchettata di crauti nel sugo di Blutwurst e cetriolini, fa spallucce. «Ma cosa volete che vi dica, anche questi sono i rischi del mestiere.» Mangia il boccone, sventola la forchetta. «Avendo a che fare continuamente con persone diverse ogni giorno, ogni tanto capita anche di imbattersi in soggetti del genere.»

«Oh, ma le nostre signore non possono capirlo.» Franz affetta una delle sue polpette di carne e patate, annuisce a se stesso con aria assorta. «Svolgiamo mestieri talmente differenti, dopotutto. L’approccio umano è una nostra esclusiva.»

Linda sfila il calice di vino dalle labbra e sgrana gli occhi verso il marito. «Franz, questa è la cosa più scortese e cafona che potessi dire durante tutto il corso della serata.» Ma la bocca vibra ancora per la risata che l’ha scossa prima. Una ciocca castana scivola dalla presa delle forcine e ricade sulla guancia rossa come il vino.

«E perché?» sbuffa Franz. «Io non mi lamenterei nel svolgere un lavoro come il vostro. È più...» Mangia la fettina di polpetta. «Concreto rispetto a quello di segretario, dopotutto. I frutti si vedono subito, è un contributo solido a cui è molto più facile dare un valore.» Anche i suoi occhi seguono la camminata di uno dei camerieri che ci passa affianco. «Venite apprezzate decisamente più di noi, su questo non c’è dubbio.»

Sonja rimesta il cucchiaio nella zuppa di patate e funghi, e solleva il viso dal suo piatto. Inarca un sopracciglio, storce uno dei suoi mezzi sorrisi sarcastici, un po’ altezzosi, e gli occhi ristretti si fanno neri come i suoi capelli. «Guarda che noi non abbiamo bisogno dell’approvazione di nessuno per dare valore al nostro lavoro.»

Heinz ridacchia e si versa dell’altro vino. «Il compagno Toris può sicuramente capirci, non è vero?»

Arresto il movimento del coltello affondato nel fegato di vitello che giace nel mio piatto, tengo ferma la forchetta senza raccogliere la fettina appena tagliata, e rivolgo ad Heinz uno sguardo schivo, «I-io?», ancora spolverato di rosso per la risata di prima.

Heinz annuisce, sorseggia il vino che si è appena versato, e sposta lo sguardo accanto a me, sul profilo di Natalia. Distende il sorriso, socchiude le palpebre. «O fra te e tua moglie non sbocciano mai diverbi di questo genere?»

Sbircio Natalia di traverso, incrocio il suo viso basso, concentrato sulle mani che affettano lo stesso Blutwurst che ha ordinato Heinz, e mi tengo distante per non sorbirmi un’occhiataccia accondiscendente.

Torno anch’io al mio fegato di vitello, intingo la fettina già tagliata in un ciuffo di purè di patate bagnato dal soffritto di funghi. «Veramente, io e Natalia parliamo poco di lavoro.» Assaggio il boccone. È delizioso. «Non succede mai nulla di così interessante che valga la pena condividere.»

Linda pesca dal suo piatto una cucchiaiata di brodo su cui galleggiano pezzetti di verdure cotte, e la ferma davanti alle labbra. Sgrana gli occhi. «Ma davvero?» Le guance arrossate le danno un’aria ancora più esterrefatta. «Pur con un mestiere stimolante come il tuo?» Rimette il cucchiaio nella scodella, intreccia le mani e stiracchia le braccia sopra la testa, torna a stravaccarsi contro la seggiola foderata di velluto. «Aah, cosa darei io per svolgere un lavoro che mi permetta di starmene seduta tutto il giorno, in mezzo a libri e riviste, in un ufficio riscaldato...» Scioglie l’intreccio delle dita e rigira le mani davanti allo sguardo, gratta l’unghia del pollice sulle nocche. «Invece che rovinarmi le mani, sollevare pesi dalla mattina alla sera, e uscire dalla fabbrica ogni giorno con la puzza di tintura fra i capelli.»

Sonja raccoglie una fetta di pane dal cesto, ne strappa un pezzo e lo intinge nella sua zuppa di patate e funghi. I suoi neri occhi da incantatrice mi scrutano da dietro le fiammelle delle candele. «Sul serio tu e Natalia parlate poco di lavoro?»

Heinz ridacchia. «Non mi sorprende.» Passa un’altra forchettata di crauti nel sugo burroso del Blutwurst e sventola la posata in segno di rimprovero. «Toris, sei decisamente troppo silenzioso questa sera, amico mio.» Mangia la fetta di carne, rivolge lo sguardo a Natalia, e mi indica con un cenno del mento, ridacchiando a bocca chiusa. «O è sempre così?»

Natalia distende un sorriso sornione, sfila la forchetta dalle labbra dopo aver sgranocchiato un cetriolino, e alza gli occhi al soffitto. «Non hai idea.»

Franz ride. «Con una moglie come Natalia, anche io avrei poco da parlare.» Anche lui si rivolge a me, mettendomi all’angolo assieme all’occhiata pressante di Heinz, e ammicca con le sopracciglia bionde. «Mi stupisco solo che in tutti questi anni non ti abbia mangiato la lingua.»

Le guance di Linda diventano scarlatte come il Merlot che ha appena finito di sorseggiare. Lei schiude le labbra ancora sorridenti, trae un ansito scandalizzato, e gli batte una mano sulla spalla. «Franz!»

Anche la mia bocca tremola, le guance pizzicano come se mi avessero accostato le candele al viso, e un formicolio di timore e imbarazzo mi solletica le pareti dello stomaco. Placo tutto bevendo un sorso d’acqua.

Natalia assottiglia le ciglia, stira il sorriso tenendo le labbra strette, fulmina Franz con quell’occhiataccia che rimane in penombra, e affonda il coltello nel Blutwurst. La lama sprofonda nella carne, schizza il sugo sul bordo del piatto, e stride sul fondo di porcellana. Natalia pianta la forchetta nel boccone e mastica lentamente. Messaggio piuttosto crudo ed eloquente, ma in parte gliene sono grato. Nemmeno io riesco a farmi piacere commenti di questo genere nei suoi confronti.

Sonja assaggia un’altra cucchiaiata di zuppa e posa il cucchiaio, il suo sorriso spalmato di rossetto intiepidisce la tensione di ghiaccio congelata dallo sguardo di Natalia. «Sono sicura che stasera parla poco solo perché non si è ancora scaldato a dovere.» Raccoglie la bottiglia di Merlot, ormai mezza vuota. «Un goccio di vino, compagno?» Mi strizza l’occhiolino e la inclina già verso il mio calice. «Vedrai come ti scioglierà la lingua.»

Il vino oscilla nella pancia della bottiglia, il suo profumo corposo mi raggiunge, brucia attraverso il naso ed evoca un lieve senso di nausea che cancella il buon aroma di fegato alla piastra e purè di patate. Mostro un palmo per rifiutare. «No, ti ringrazio, ma non bevo molto. Preferisco solo l’acqua.»

Heinz porta una mano alla fronte, trae un sospiro melodrammatico. «Solo l’acqua! Ma sentitelo!» Fa oscillare il suo calice pieno e scuote il capo con aria grave. «Ahi, ahi, Natalia. Ma che razza di soggetto ti sei sposata?»

Linda arriccia il naso in una piccola smorfia che fa squittire la sua risata. «Oh, smettetela voialtri, siete dei bruti. Così non fate altro che metterlo a disagio.» Poggia i gomiti sul tavolo, accanto alla sua scodella di brodo di verdure, e raccoglie il viso fra le nocche. Flette il capo di lato e mi sorride, un sorriso che splende come gli orecchini d’argento che pendono dai suoi lobi. «Non hai idea da quanto aspettassimo di organizzare questa serata, Toris. Eravamo così impazienti di conoscerti. Natalia ci parla sempre così bene di te.»

Sposto lo sguardo, contengo un mezzo sorriso. «Allora deve trattarsi di certo di qualcun altro.»

Natalia mi dà un calcetto al piede.

Sonja finisce di mangiare un altro boccone di pane che ha affondato nella sua zuppa. «E...» Ci indica entrambi. «Da quanto siete sposati, avete detto?»

Mi coglie un sussulto, una scossetta che mi estranea e che mi riporta davanti ai ricordi di tutti gli anni trascorsi qua a Berlino. Persino io faccio fatica a credere che sia passato così tanto tempo. «Dieci anni.» Affondo la forchetta in un funghetto e lo intingo nel purè bagnato dal sugo di carne. «Sì, a marzo abbiamo festeggiato dieci anni. Ci siamo sposati poco prima di trasferirci qua a Berlino.»

Linda sospira, sognante, e poggia la guancia sul dorso della mano. I suoi occhi splendono, illuminati dal caldo riverbero delle candele. «Siete davvero una bella coppia, sapete?»

Il sorrisetto di Natalia trema, e lei lo maschera prendendo un sorso del suo vino. Il Merlot oscilla nel calice, spande riflessi scarlatti sulle sue guance lattee, fra le ciglia allungate dal trucco, e nelle iridi violacee, più scure nell’ambiente tenue del ristorante.

«E come mai avete deciso di trasferivi?» domanda Franz. «Così distanti dall’Unione Sovietica, poi...»

Esito, arresto il movimento del coltello nella fetta di fegato.

Io e Natalia ci guardiamo.

Lei pettina attorno all’orecchio una ciocca di capelli, scopre il lobo in cui ha pinzato gli orecchini di perla che le ho regalato io per il suo compleanno, e solleva un sopracciglio, rivolgendomi un’occhiata d’intesa. Un nastro di raso nero le avvolge il collo su cui ha spalmato della cipria per nascondere il tatuaggio, come fa sempre quando non può indossare maglie a collo alto o sciarpe. Una mantella di velluto nero ricade attorno alle spalle, sulle braccia nude, adorna l’abito da sera color blu notte che le sta d’incanto. Il nastro attorno al collo s’intona a quello che le tiene legati i capelli, più rigido, simile a un cerchietto che si chiude con un fiocco che cade sulla tempia sinistra. Natalia rinnova quel fine sguardo di complicità che dice esattamente quello che sto pensando io.

Sospiro e recepisco il messaggio.

Ci siamo. Via con le bugie. Io e Natalia abbiamo recitato così tante volte questo teatrino che non mi disturba più ripeterlo fino alla nausea. Ormai è come inserire una monetina in un distributore automatico. Le parole escono da sé.

«Veramente...» Mangiucchio il mio boccone di fegato. «È una storia un po’ lunga.» Nella tavolata scende il silenzio. Heinz separa le labbra dal suo calice di vino, fa oscillare quel che è rimasto fra le pareti di vetro, Franz si ripulisce la bocca con il tovagliolo ricamato e mi scruta con occhi attenti, Linda tiene il mento appoggiato sulle nocche, e anche Sonja smette di mangiare la fetta di pane che ha intinto nella zuppa. Natalia torna alla sua cena, affonda il coltello nel Blutwurst, e il cigolare della lama sul fondo del piatto si unisce al brusio del ristorante, al suono dei bicchieri che trillano, delle voci basse, di una risata soffusa, e del passo dei camerieri. Guadagno un profondo e proseguo cauto. Non posso sbilanciarmi troppo, in questo paese non ci si può fidare di nessuno, tantomeno di amici e colleghi. «Io in realtà sono nato a Vilnius. Quando ero giovane, io e la mia famiglia ci siamo trasferiti nella regione della Siberia, in cerca di lavoro. Dopo aver terminato gli studi, ho cominciato a lavorare in un cantiere edile, come mio padre prima di me, e lì ho conosciuto il fratello di Natalia, che era mio collega. È stato lui a farci conoscere.» Tengo la forchetta fra le punte dei denti, il sapore amaro dell’argento è simile a quello dei ricordi. Socchiudo le palpebre, e un dolore autentico mi stringe il cuore. Il disagio sul mio volto è reale. «Poi purtroppo c’è stato un incidente. Un crollo di una struttura in uno dei reparti. E il fratello di Natalia ha perso la vita assieme ad altri operai.»

Un pesante e freddo silenzio di cordoglio avvolge la tavolata. La luce delle candele rabbuia, e anche i rumori attorno a noi si dissolvono, isolandoci nel dolore trasmesso dalle mie parole.

Sonja china lo sguardo sulla sua zuppa, Franz tiene il tovagliolo accostato alle labbra e tossicchia. Linda stende un braccio attraverso il tavolo, fra il cesto di pane e la brocca dell’acqua, e raggiunge la mano di Natalia. «Cara.» Le strofina una carezza sul dorso, distende un sorriso dolce e comprensivo, la guarda con occhi commossi.

Natalia annuisce, non si sottrae al suo tocco. «È successo tanto tempo fa.»

Aspetto che un cameriere passi dietro la mia schiena, reggendo un vassoio con dei piatti di patate al burro che va a deporre sul tavolo affianco. Mi schiarisco la voce, spezzo questa grigia bolla di tristezza che ci ha avvolti. «Io e Natalia ci eravamo appena sposati, e dopo per noi si è rivelato difficile continuare a vivere in Unione Sovietica. Troppi ricordi. Così abbiamo deciso di trasferirci qui in Germania Est e di costruirci una nuova vita.» Mi stringo nelle spalle, rigiro la forchetta nel purè. «So che può sembrare un gesto di codardia, ma...»

«E perché mai?» interviene Franz. «Un dolore del genere non è cosa da poco. Avete fatto bene, davvero. Probabilmente anche io avrei reagito così.»

Heinz annuisce. «E qui c’è sempre bisogno di qualche mano in più, dopotutto. Poi i sovietici...» Raccoglie la forchetta e infilza l’ultima fetta di Blutwurst che gli è avanzata nel piatto. Il suo sguardo assume un’espressione assorta e compiaciuta. «Tutti grandi lavoratori, gente che si dà da fare, che sa rimboccarsi le maniche e sporcarsi le mani senza la minima lamentela. È rincuorante sapere che riponete così tanta fiducia anche verso noi tedeschi.»

Porto alle labbra il mio bicchiere d’acqua, ma arresto la mano, senza bere. Un altro brivido di allarme si arrampica lungo il collo, pizzica sul lato sinistro, all’altezza del tatuaggio, e guizza fra i miei occhi ristretti. Tengo la voce bassa, «Siamo noi che dobbiamo ringraziarvi per averci accolti», e mi astengo dall’aggiungere altro. Prendo un piccolo sorso.

Linda sospira, ancora sognante, e rivolge lo sguardo al soffitto, verso le scintille cristalline provenienti dal lampadario. «Già dieci anni sposati, caspita.»

«Ma allora...» Sonja picchietta il tovagliolo all’angolo della bocca, per non togliersi il rossetto. «Come mai non avete ancora figli?»

Mi strozzo con il sorso d’acqua. Natalia affonda il coltello nella carne con un gesto più secco e violento, e la lama stride sul piatto.

Allontano il bicchiere, tossisco, batto due volte il pugno sullo sterno per guadagnare fiato, e le guance vanno a fuoco, il bruciore risale fino alle orecchie. «E-ecco, noi, veramente...» E ora cosa mi dovrei inventare? Non sarebbe credibile dire che io e Natalia non possiamo permetterceli: abbiamo entrambi un ottimo lavoro, lei potrebbe tornare alla fabbrica poco dopo aver partorito, e qua in Germania Est non dovremmo nemmeno pagare l’asilo nido, ci spetterebbe di diritto, e poi riceveremmo sussidi economici, quindi...

«Mio marito è sterile.»

Mi strozzo nuovamente con un ansito e mi giro di scatto verso di lei. «N-Natalia...» Il rossore sbiadisce, mi sento sbiancare.

Natalia non si scompone, posa la forchetta e il coltello, raccoglie il tovagliolo e ne picchietta una punta all’angolo delle labbra, come ha fatto prima Sonja per non sbavare il rossetto. Mantiene quell’espressione calma e solenne, illuminata dagli orecchini di perle e dai capelli biondi che ricadono dietro le spalle, lungo la mantella. È straordinario come lei sia sempre stata in grado di plasmare il suo carattere per adattarsi in qualsiasi ambiente sociale, per ammaliare chiunque e conquistare la fiducia di chi le vive affianco. L’ho sempre ammirata per questo. «Per un certo periodo ci abbiamo effettivamente provato, senza successo» continua a raccontare. «Dopo qualche tempo abbiamo cominciato a capire che c’era qualcosa che non andava nonostante i tentativi, così abbiamo fatto entrambi delle analisi e...» Sospira, tiene la punta del tovagliolo davanti alle labbra e inarca le sopracciglia in una soffusa espressione di dispiacere. Lascia intendere il resto.

La vampata d’imbarazzo si ritira, il cuore rallenta, e le guance smettono di bruciare. Quell’idea stuzzica anche me, fa sbocciare un sentimento di gratitudine e ammirazione nei confronti di Natalia.

Effettivamente, quella della sterilità potrebbe essere una buona scusa, ma se qualcuno di loro fosse davvero un collaboratore della Stasi, allora gli basterebbe poco per verificare se mentiamo. Basterebbe controllare le nostre analisi cliniche, le cartelle dell’ospedale, e scoprirebbe subito che non abbiamo mai effettuato esami simili. Tuttavia, se la Stasi ci tenesse d’occhio, se gli agenti avessero davvero installato microspie in casa nostra, allora sarebbero già a conoscenza del fatto che io e Natalia non abbiamo mai avuto rapporti da quando ci siamo trasferiti a Berlino Est, quindi la scusa del “ci abbiamo provato” non reggerebbe comunque. Piuttosto insolito per una coppia sposata e ancora giovane come noi.

Scuoto il capo, sospiro, e stringo il pugno sul tavolo. Strofino la fede sull’anulare sinistro per sciogliere questo formicolio di tensione.

In ogni caso, anche se fosse così, questo non servirebbe a incriminarci di nulla. Il fatto che stiamo mentendo sul non avere figli e sul non avere rapporti non influisce sulla nostra immagine davanti al regime socialista, non potrebbero accusarci di nulla. Poi io e Natalia non parliamo mai di Londra, della nostra vecchia vita all’Ovest, per evitare di essere intercettati e di essere incastrati. Se sentiamo il bisogno di discuterne lo facciamo sempre in inglese, a letto, a voce bassissima, per paura delle microspie. Natalia ha persino mantenuto il cognome “Arlovskaya”, quello che Ivan stesso le aveva fatto prendere a Londra per non coinvolgerla in qualche pericolo e per tenerla più lontana possibile dal Caso Braginski che ormai è chiuso da anni, anche per quanto riguarda l’Ovest. Non abbiamo nulla da temere. Io e Natalia siamo al sicuro. Nessuno ha intralciato le nostre vite per dieci anni, e di sicuro non cominceranno a farlo ora, non dopo tutti i nostri sforzi per proteggerci a vicenda.

Heinz sospira. «Uhm.» Stringe le braccia al petto, rilassa le spalle sullo schienale, e corruga un’espressione amareggiata. «È un vero peccato, non c’è che dire.»

Natalia posa il tovagliolo e sistema la mantella che ricade sulle braccia nude. «In realtà non ci è mai mancata la presenza di un figlio. Siamo entrambi molto assorbiti dal nostro lavoro, e abbiamo deciso di concentrarci su tutto il resto. Sul...» Mi sfiora con un’occhiata che è come la carezza di un’unghia sulla guancia. Batte le ciglia, affila il sorriso in una furba espressione ammaliatrice che riconosco solo io. «Sul nostro rapporto.» Posa la mano sulla mia e distende le dita. Il metallo della sua fede mi tocca, mi trasmette una scossetta, quasi a sottolineare il legame fittizio che ci lega e dal quale non possiamo separarci se vogliamo continuare a vivere nella tranquillità che abbiamo costruito dopo tanta fatica e tanti sacrifici. Natalia sorride. «E per noi è tutto ciò che conta.» Stringe le dita fra le mie.

Una fredda botta di colpevolezza mi schiaccia il petto. La mia mano trema sotto la sua, il tocco metallico della fede è come la punta di uno spillo sulla pelle.

Non è la prima volta che mi sento in debito nei confronti di Natalia. Se non fosse stato per me, se non fosse stato per il fatto che io ho deciso di seguirla a Berlino e di sposarla per coprirci le spalle a vicenda, ora lei avrebbe davvero potuto condurre una vita diversa. Avrebbe potuto trovare un marito che ama, avrebbe avuto dei figli, si sarebbe costruita una famiglia, invece che rimanere legata a me, a un’ombra di quel passato che lei sta cercando di dimenticare. L’ho reclusa in una vita di finzione. Continuo a essere quel piccolo intralcio che le impedisce di girare pagina definitivamente.

Franz china una spalla verso di me, si copre una guancia per non farsi sentire da Linda, e mi bisbiglia all’orecchio. «Ti sei risparmiato una rogna, lasciatelo dire.»

Sospiro, ignoro quel commento inappropriato e indesiderato, e le parole di Franz mi scivolano addosso come un alito di vento. Stringo il pugno sotto la mano di Natalia e mi lascio abbracciare da una tiepida ventata di malinconia che apre un senso di vuoto nel petto, una sensazione di mancanza che tocca entrambi e che non ci ha mai abbandonati, nonostante i dieci anni trascorsi dalla nostra fuga dalla Siberia e dalla morte di Ivan.

 

.

 

Sonja scende i gradini del ristorante accompagnata dallo schiocco ritmico dei tacchi sulla pietra, attraversa la luce dei lampioni, rabbrividisce sotto l’improvvisa vampata di aria fredda e umida, e si getta la pelliccia attorno alle spalle. «Che freddo fa qua fuori.» Infila le maniche e le arrotola attorno ai polsi, stando attenta che non rimangano impigliate nei bracciali.

Linda le trotterella dietro, compie anche lei le scale e rimbalza sul marciapiede, davanti alle uniche due auto parcheggiate sotto l’insegna del ristorante. «Eppure le serate dovrebbero cominciare già a scaldarsi.» Indossa il cappellino senza scompigliare i capelli castani che le ricadono sulle spalle, abbottona il cappotto scamosciato, e sfila i guanti dalla tasca. Indossa il primo. «Quest’anno la primavera non vuole proprio farsi sentire.»

Sonja sbuffa, infila anche lei una mano nella tasca della pelliccia ed estrae l’accendino e un pacchetto di sigarette. «Sarà colpa di quelle porcherie radioattive venute su dalla centrale in Ucraina che tappano i raggi del sole o che ne so.» Se ne accende una, le labbra spalmate di rossetto sporcano il filtro di rosso, e soffia una prima nuvoletta di fumo che si disperde sotto il fascio bianco del lampione. L’odore di tabacco sostituisce il dolce profumo al gelsomino che si è spruzzata al collo e che le ha sempre galleggiato attorno da quando ci siamo seduti a tavola.

Anche Heinz si sistema la giacca. Mi passa accanto scoccandomi un’occhiata interrogativa. «Sicuro di non voler venire a teatro assieme a noi? È presto per concludere la serata, no?»

Schivo il suo sguardo, rimbocco la sciarpa attorno al collo e ne sfioro la stoffa con le labbra. «Vi ringrazio, ma preferisco tornare a casa a riposarmi. Domani devo lavorare presto, e non vorrei rischiare di addormentarmi sulla scrivania.»

Franz ci raggiunge, mi passa di fianco, e si ferma a stringermi la spalla, a darmi una pacca sulla scapola. «È stato un vero piacere conoscerti, compagno.» Sorride. Gli occhi azzurri sfumano in una tinta più chiara sotto l’abbaglio del lampione rispetto alle luci tenui del ristorante. «Grazie per la splendida serata.»

Annuisco, ricambio anch’io con un sorriso sincero. «Grazie a voi per averci invitati.»

Linda batte le mani inguantate, la sua voce squilla d’entusiasmo. «Dovremmo decisamente rifarlo più spesso, almeno una volta al mese!»

«Certo» borbotta Franz, raggiungendola. «Tanto poi sono io a pagare la cena.»

«Oh, ma cosa dici?»

Natalia mi viene incontro, si sfila la borsetta dalla spalla e me la spinge fra le mani. «Reggimi questa un attimo.» La apre e ne estrae lo specchietto e il rossetto, concentra lo sguardo sul suo riflesso e passa un velo di trucco sulle labbra. «Non aspettarmi alzato, forse torno più tardi del solito.»

«Non ti preoccupare.»

Fermi sul ciglio della strada, lontani da noi, Franz, Heinz, Sonja e Linda chiacchierano fra loro, aspettano che Natalia li raggiunga. Linda ride ancora, Sonja risucchia altre nuvolette di fumo dalla sigaretta che brilla sulla punta, e Franz si sporge a guardare verso l’altro lato della strada deserta, senza nemmeno un’auto a percorrerla.

Sulle mie guance brucia di nuovo il rossore d’imbarazzo che mi ha aggredito prima a tavola davanti alle parole di Natalia. «Ehm.» Tossicchio, strofino una mano sulla nuca, tengo lo sguardo basso. «Senti, per quello che hai detto prima sul non avere figli...»

Natalia si sfila il rossetto dalle labbra e storce un sopracciglio, la sua occhiataccia mi attraversa. «Che c’è?» Richiude il rossetto con uno schiocco del tappo. «Non dirmi che te la sei presa. Ho detto “sterile”, non “impotente”. Non fare la lagna.»

Mi abbandono a un sospiro sconsolato. «Natalia...»

Lei mi ignora. Rinfila tutto nella borsetta. «Quando torni a casa sta’ attento a quello stronzo del piano di sotto.» La richiude e torna a infilarsela sotto la spalla, pettina i capelli all’indietro e sistema il nastro di raso attorno al tatuaggio. «L’altra settimana ha piantato un gran casino perché dice che le tubature dell’appartamento perdono e gli hanno aperto una macchia sul soffitto della cucina, quando non è vero un cazzo perché l’idraulico è venuto il mese scorso ed era tutto a posto. Se lo vedi, digli che la prossima volta che mi rompe ancora le palle le tubature gliele infilo su per il –»

«Ehm, ci...» La blocco prima che possa degenerare. «Ci penso io a rassicurarlo, non ti preoccupare.» Le rivolgo un’occhiata più apprensiva. «Tu però fai attenzione quando torni a casa.»

Natalia fa roteare lo sguardo, si rimbocca il cappotto, sistema lo scialle nero che ha passato attorno al collo, e arriccia una piccola smorfia per nascondere il sorrisetto sarcastico acceso dal rossetto appena spalmato. «E tu vedi di non cacciarti in qualche guaio.»

Le sorrido, sventolo la mano. «Divertiti a teatro.»

Linda trotterella accanto a Natalia, la prende a braccetto, si spinge al fianco di Sonja, e si gira a sventolare la mano inguantata verso di me. «Buonanotte, compagno.» Ridacchia. Le guance ancora rosse come quando scolava un calice di vino dietro l’altro.

Sonja le dà una spallata, nasconde un sorriso prendendo un’altra boccata di fumo dalla sigaretta, e cammina lasciandosi dietro una scia azzurrina al profumo di tabacco. I tacchi delle sue scarpe calpestano piccole chiazze di cenere piovute dalla punta rossa e traballante, una lucciola nella notte.

Tutti e cinque svoltano la strada, imboccano la via verso il teatro seguiti dal loro chiacchierare, e svaniscono assieme all’eco dei loro passi.

Traggo un sospiro profondo, distendo la pressione accumulata sulle spalle, massaggio il collo sotto la sciarpa, e strofino due unghiate attraverso il tatuaggio, dove la pelle brucia sempre quando si avvicina il maltempo o dopo un periodo piovoso. Sta diventando sempre più difficile passare le mie giornate a ingannare chiunque, a mentire sul mio passato, a recitare la parte del bravo compagno socialista, e a raccontare una bugia dietro l’altra per salvarmi la pelle e per tenere Natalia al sicuro. Prima sono stati tutti così affabili nei miei riguardi, ma chissà cosa penserebbero di me se sapessero che sono vissuto in Occidente, che ho un passato da tossico, e che quello fra me e Natalia è solo un matrimonio di copertura. Non mi rivolgerebbero più quegli sguardi rispettosi e ammirati, quei sorrisi gentili, e quelle parole comprensive. Ma sono contento di avere la possibilità di trascorrere queste serate tranquille che mi fanno dimenticare il mio passato e che mi danno l’occasione di sentirmi qualcuno di diverso, anche se solo per qualche ora.

Una bava di vento mi attraversa, scuote gli alberi piantati sul ciglio della strada, i rami che stanno mettendo le foglie ogni giorno più rigogliose. Una fresca aria di primavera s’innalza attraverso la strada ancora umida della pioggia di ieri, mi soffia addosso il profumo del parco qua vicino, il dolce aroma dei germogli e dei boccioli, dell’erba bagnata, e depone su di me una tristezza infinita, la stessa nostalgia che mi assale ogni primavera, quando passeggio attraverso i giardini in fiore, sotto i rami che mi sfiorano la testa, abbagliato dai raggi del sole appena risorto.

La malinconia mi schiaccia, trascina via le risate e i sorrisi che ci siamo scambiati durante la cena, e mi lascia addosso un’impronta fredda, il ricordo di Feliks evocato dal profumo dolce della primavera ma calpestato da quello di Ivan che è emerso tramite le mie parole e quelle di Natalia, tramite quelle false memorie con cui inganniamo sia gli altri che noi stessi.

Non voglio tornare subito a casa, a rintanarmi nel silenzio del nostro appartamento, e trascorrere la notte in balia di queste voci che l’inizio della primavera rende sempre più forti e dolorose.

Rimbocco la giacca, sistemo i lembi della sciarpa attorno alle spalle, e mi dirigo nella direzione opposta presa da Natalia e gli altri, distante anche dalla via verso casa. M’incammino verso l’Alexanderplatz.

 

.

 

Spingo la porta del bar sull’Alexanderplatz. «Buonasera.» L’interno del locale mi accoglie con un’atmosfera più calda rispetto all’aria esterna, con un profumo di fondi di caffè, di cenere di sigaretta, di schiuma di birra, di vecchie bottiglie di liquori, e di detersivo per piatti.

Richiudo la porta alle mie spalle, sbottono la giacca e allento la sciarpa tenendo però coperto il tatuaggio. Il tepore spande un piacevole formicolio attraverso le guance infreddolite e mi solletica la punta del naso. Attraverso l’entrata superando un uomo che siede da solo in un tavolo all’angolo, leggendo il Neues Deutschland, affianco allo scaffale con i quotidiani. Gli altri tavoli sono tutti vuoti, non c’è nessuno in giro a quest’ora. L’unica voce che risuona nel bar è quella del televisore acceso in un angolo del soffitto, al di là del bancone. Danno il notiziario.

Raggiungo il banco del bar e mi arrampico su uno sgabello, davanti alla vaschetta delle bustine di zucchero e quella delle salviette.

Il barman richiude il lavandino, raccoglie un canovaccio, si asciuga le mani e mi si avvicina con il suo profumo di detersivo. «Cosa le porto?» Strofina il panno fra le dita.

Mi sistemo sullo sgabello traballante e intreccio le mani sul bancone. «Solo una Club Cola, per favore.»

«Subito.» Il barman si china a raccogliere una bottiglietta e torna accanto al lavello, apre un cassetto e raccoglie un cavatappi dallo scomparto delle posate.

Rumore di carta che fruscia alle mie spalle, di una pagina di giornale che viene sfogliata.

Volto lo sguardo.

L’uomo vestito in impermeabile che legge il Neues Deutschland mi squadra con occhi scuri da dietro le pagine, la fronte corrugata e un’ombra a celare quell’espressione dura e fredda. Solleva il giornale davanti a sé, gli dà una scrollata, e sfoglia un’altra pagina. Sul suo tavolo, accanto al gomito, giace un bicchiere sporco di un liquido bruno, forse un liquore, che lui ha già prosciugato.

Mi torno a voltare, dandogli la schiena, stringo le mani intrecciate sul bancone e spingo le gambe a trascinare lo sgabello di un saltello lontano dal suo sguardo. Mi rimbocco la sciarpa e premo la stoffa sul lato sinistro, tappo il tatuaggio in un gesto inconscio, anche se lui non può vederlo. Quelle occhiate mi rimangono addosso come una serie di impronte di ghiaccio, bruciano sulla pelle e lasciano scivolare lungo la schiena una sensazione viscida e appiccicosa, dandomi i brividi. Non posso permettermi di abbassare la guardia, chiunque potrebbe essere una spia. Solo due settimane fa un mio collega è sparito. Nessuno ha fatto domande, nessuno si sta chiedendo che fine abbia fatto e quando tornerà a comparire, semplicemente sono cose che succedono e noi non possiamo fare altro che assecondarle per non finirci in mezzo. Forse stanno indagando anche su di me. Forse quest’uomo sapeva già che io non sarei andato a teatro assieme agli altri, questa sera. Magari deve averglielo detto proprio uno di quelli che erano a cena con me e Natalia, deve essere stato spedito da loro per seguirmi. Oppure sono io che vedo minacce dove non ce ne sono, ma è questo paese che ti spinge a dubitare del tuo migliore amico, di un tuo fratello, della tua stessa moglie. Devo essere cauto come lo sono stato fino a ora.

Il barman cava il tappo di alluminio dalla bottiglietta di Club Cola – fsssh! –, dispone un bicchiere davanti a me, e versa la bibita schiumante. «A lei.»

Riprendo a respirare, sfilo la mano dal collo e annuisco, ringrazio con un tiepido sorriso. «Grazie.» Prendo un primo dolce sorso di cola e rivolgo un’ultima occhiata di striscio all’uomo col giornale che siede in fondo al bar. Lui sfoglia un’altra pagina e legge a fronte bassa, senza badare a me. Sospiro, sollevato, e bevo ancora, lasciando che il sapore fresco e frizzante della bibita stenda i nervi.

Il barman si rimette a lavare le stoviglie, ma il suono dell’acqua che scorre non è così forte da coprire le parole notiziario provenienti dal televisore incastonato all’angolo del soffitto. La voce del presentatore continua indisturbata.

«... e da questo grafico abbiamo un chiaro panorama dell’attuale situazione in Europa. Anche a distanza di un mese, la nube tossica continua a spostarsi velocemente verso nord, diretta verso le regioni scandinave, e per ora interessa maggiormente l’area della Finlandia.»

La parola “Finlandia” mi solletica l’orecchio. Sfilo il bordo del bicchiere dalle labbra e sollevo lo sguardo verso il televisore.

Una mappa dell’Europa riempie lo schermo, contrassegnata in basso a destra dall’insegna della Aktuelle Kamera. Una soffusa chiazza verde nasce poco sopra Kiev, accanto all’insegna “URSS”, si espande verso nord, ingloba Mosca, Leningrado, fino a raggiungere Helsinki e dilatarsi su tutta la Scandinavia, Norvegia compresa.

La voce fuoricampo continua a dettare il servizio.

«Il presidente Gorbačëv ha tenuto un nuovo discorso alla stampa, mettendo chiarezza sull’accaduto e sulla reale entità dei danni provocati dalla fusione del nocciolo nel reattore della centrale nucleare.» La mappa scompare, sostituita da vecchie riprese di Gorbačëv che parla in conferenza stampa. La bocca del presidente si muove a vuoto, l’audio manca, si sente solo la voce del presentatore del notiziario. «E conferma il fatto che saranno presi doverosi provvedimenti nei confronti della popolazione che sta già venendo evacuata nelle zone più a rischio di contaminazione.»

Le immagini cambiano ancora: riprese di supermercati svuotati e di persone che camminano fra gli scaffali con i cestini della spesa.

«Il pericolo tuttavia è ancora presente in gran parte dell’Europa Est, e tutti sono chiamati a prendere le dovute precauzioni, a partire dall’alimentazione. Non è consigliabile consumare latte confezionato dopo l’incidente, e nemmeno le uova sono un alimento sicuro. Se pensate di possedere degli alimenti a rischio, non consumateli, non conservateli e non gettateli nella spazzatura, ma sotterrateli. Assicuratevi di fare scorta di cibi non deperibili. Non bevete assolutamente acqua piovana e cercate di non venirne nemmeno in contatto, in quanto la nube tossica non si è ancora completamente dissolta dall’atmosfera.»

La mappa che hanno mostrato prima, e che tante altre volte ho visto sia in televisione che sui giornali nelle ultime settimane, torna a lampeggiare nella mia mente assieme alle parole del presentatore.

L’incidente è avvenuto in Unione Sovietica. Forse Katyusha potrebbe essere in pericolo, potrebbe essersi trasferita in una zona più sicura o potrebbero aver evacuato anche il suo paese. E la nube si sta spostando sempre più a nord, verso la Finlandia.

Le parole che Eduard mi ha rivolto dieci anni fa si sovrappongono a quelle del presentatore, suonano come un eco lontano. “C’è un mio vecchio amico che può nascondermi in Finlandia. Lui ora vive a Copenhagen, ed è meglio così, perché non voglio metterlo in pericolo, ma può comunque aiutarmi. Ha una vecchia casa proprio a confine con l’Unione Sovietica, poco più su di Leningrado, dove di solito va a trascorrere solo le vacanze. Io e Raivis andremo a stare là per un po’.”

Stringo le mani sul bicchiere, e le unghie stridono sullo strato di condensa formato sul vetro dalla bibita fredda. Tremori di timore mi scuotono le braccia, un nodo di frustrazione mi pesa sul cuore. Non posso rischiare di contattare Eduard, sarebbe troppo pericoloso sia per lui che per me, ma il fatto di non sapere se lui e Raivis siano al sicuro mi lascia comunque un pastoso senso di amaro in bocca. Spero solo che non gli sia accaduto niente di brutto.

«E ora le notizie degli ultimi giorni.» L’immagine salta ancora. Sullo schermo compare lo studio televisivo, il presentatore seduto al bancone con un paio di fogli fra le mani. L’uomo solleva lo sguardo verso la telecamera, continua con lo stesso tono di voce. «Giungono altre ottime notizie riguardo il primo modulo della stazione spaziale Mir, in orbita dallo scorso febbraio.» Compare la fotografia della stazione spaziale in orbita e l’immagine della Terra in sottofondo. «Gli esperti stimano che entro il prossimo anno l’assemblaggio modulare potrà accogliere anche il progetto Sojuz, con la prima spedizione che prevederà un equipaggio di cosmonauti a bordo del veicolo spaziale. Tre cosmonauti infatti sosteranno nella stazione per incrementare le ricerche scientifiche volte a un’esplorazione sempre più ampia del nostro universo.» Un’altra fotografia – tre cosmonauti vestiti in uniformi spaziali che sventolano la mano, galleggiando in un labirinto di tubi, in un ambiente che sembra fatto di carta stagnola. «Un traguardo importantissimo e motivo di orgoglio per tutta l’Unione Sovietica, e un nuovo faro di speranza per la corsa al cosmo che continua sempre rapida e agguerrita...» Passa un’altra immagine. Un’esplosione a forma di razzo che schizza lapilli incandescenti su un cielo azzurro terso. «Anche dopo l’incidente di gennaio avvenuto negli Stati Uniti, quando lo Space Shuttle Challenger è esploso pochi momenti dopo la partenza dalla stazione di Kennedy Space Center.»

L’immagine sparisce, torna il presentatore seduto al bancone con i fogli fra le mani e lo sguardo rivolto alla telecamera.

«E ora torniamo in Germania. Non cessano i disagi a Berlino Ovest, dove la settimana scorsa si è verificato un grave attacco terroristico in una discoteca della città.»

Lo sostituiscono riprese di Berlino Ovest. Ragazzi che corrono per le strade celate dal buio della notte, alcuni che lanciano bottiglie infiammate, nascosti da bandane strette sul viso, e altri che fuggono davanti alle forze dell’ordine.

«Il clima della Germania Federale non è mai stato così pesante. Il numero dei crimini è in aumento, il tenore di vita è problematico, e l’ordine è spesso fuori controllo, con conseguenze disastrose che si riversano su tutti gli abitanti, soprattutto verso le generazioni più giovani...» Immagini di ragazzi portati via dai furgoni della polizia, di gambe che attraversano i bagni della stazione, e di un braccio disteso su un pavimento piastrellato, inerme affianco a una siringa svuotata. «Che si ritrovano a crescere in un ambiente ingestibile e caotico, ben diverso dall’ordine e dalla sicurezza che invece regnano nella Repubblica Democratica.»

Un’ondata di sudori freddi mi aggredisce. Un groppo di nausea stringe alla bocca dello stomaco, il sapore della Club Cola rimonta e brucia attraverso la gola, acido come una spremuta di limone. Le braccia pizzicano, la sensazione degli aghi nelle vene torna a conficcarsi nella carne, il tatuaggio prude, e attorno al collo si arrotola il dolore del filo spinato, di nuovo stretto e soffocante come un cappio.

Distolgo lo sguardo dal televisore, da quelle immagini così reali e vicine che mi colpiscono come tanti schiaffi sulle guance, come se ritraessero me stesso, come se ci fossi io al posto di quei ragazzi, come se appartenessi ancora al loro mondo.

Allento la sciarpa, infilo la mano sotto la stoffa e gratto il tatuaggio fino a lasciare profondi solchi rossi attraverso l’orologio. Erano anni che non sentivo il bisogno di prenderlo a unghiate in questa maniera, assalito dall’urgenza di strapparmelo dalla pelle. Ma va tutto bene.

Guadagno lenti e profondi respiri che rallentano il battito del cuore.

Io ormai sono salvo, sono fuggito dall’Inferno, non corro più alcun rischio di morire in quella maniera, non appartengo più a quella realtà che ha rischiato di uccidermi. Va tutto bene.

La porta del bar si apre, entra una zaffata d’aria fredda, e si materializzano tre figure che varcano la soglia accompagnate da voci maschili.

«Sì, è già tornata al lavoro la settimana scorsa.» Il primo uomo strofina le scarpe sullo zerbino d’ingresso. «Sarebbe stato inutile aspettare più a lungo, poi ha recuperato in fretta.»

Uno dei due che lo accompagna fa un cenno al barman dietro il bancone. «Salve.»

Seguito anche dall’altro che si sbottona il bavero della giacca. «Sera.»

Il barman rimette a posto una fila di boccali appena lavati e accoglie tutti e tre con un cenno del capo. «Buonasera.»

I miei occhi cadono sulle giacche dei tre uomini che vestono alla stessa maniera. Uniformi verdi, musi appuntiti da mastini in caccia, fasce del Partito al braccio. Polizia del Popolo.

Un guizzo di paura mi punge la nuca. Torno a stringermi nelle spalle, a chiudere le ginocchia sotto il bancone, e a spingere lo sgabello lontano dai tre uomini. Tengo comunque lo sguardo girato da sopra la spalla, non li perdo di vista, e tendo l’orecchio sui loro discorsi.

Tutti e tre si avvicinano al bancone, senza sedersi, e uno di loro appoggia un gomito sul ripiano, passa la mano fra i capelli brizzolati. «E pensare che è stata dimessa dall’ospedale solo due settimane fa. Tua moglie è un carro armato.»

L’altro gli risponde con un’alzata di spalle. «È già la terza gravidanza, poi la piccola è già stata ammessa al nido, e Bruno è così bravo che ci aiuta sempre quando in casa c’è bisogno.»

«Non è già nei Pionieri, lui?»

«Dallo scorso anno, sì.»

«Come il mio.» Il terzo di loro sistema la vaschetta delle bustine di zucchero che ha urtato quando ha incrociato le braccia sul banco, fa tamburellare le dita sul legno e ridacchia. «Fosse per lui si cucirebbe la divisa addosso.»

«Sono più in gamba di noi, cosa vuoi farci.»

Il barman si approccia ai tre dopo aver finito di sistemare le posate asciutte, si getta il panno sulla spalla. «Cosa vi porto?»

L’uomo con il gomito poggiato sul ripiano solleva due dita. «Due vodka lisce e un Eismint, grazie.»

Uno degli altri due strabuzza gli occhi, lo guarda con stupore. «Eismint a quest’ora?»

L’altro risponde con un sospiro sconfortato, alza gli occhi al soffitto. «Devo consolarmi.» Infila due dita sotto il bavero della giacca e allenta la pressione attorno alla gola. «La prossima settimana passa di qua mia suocera.»

«Ooh.» Il terzo di loro si gira ad appoggiare la schiena al bancone, il suo sguardo s’illumina. «Quella delle banane!»

«Si tenga le banane.» L’uomo stringe il pugno sul banco, dà un’altra strofinata ai capelli, grattandosi la nuca, e picchietta un piede a terra. «Che me ne faccio delle banane? Crede davvero che qua si viva male senza le banane?» Aggrotta la fronte. «Tanto non mi sono mai piaciute.»

«Ma tre anni fa non ti ha mandato anche la cioccolata e i dolci italiani? Quelli non era male, no?»

«Fossero quelli i problemi...»

Il barman spacca tre cubetti di ghiaccio dalla vaschetta estratta dal congelatore e li fa cadere con un trillo dentro il bicchiere vuoto. Svita la bottiglia di Eismint, rovescia lo sciroppo verde sul ghiaccio, spandendo un dolce e piacevole profumo di menta, e fa scivolare il bicchiere davanti all’uomo.

Lui riacquista un mezzo sorriso, nonostante la ruga d’irritazione che ancora gli stropiccia la fronte. «Grazie, compagno.» Butta giù un sorso.

Il barman dispone altri due bicchieri davanti agli uomini. Pesca la bottiglia della vodka dallo scomparto degli alcolici e stappa anche quella.

L’odore esplode, rapido e violento come un colpo di proiettile alla tempia. Un bruciore ghiacciato mi penetra le narici, l’ondata di gelo risale la testa, discende la gola e mi soffoca, facendomi ingoiare il fiato. Sgrano gli occhi e incasso quella botta di dolore che mi strappa il respiro dal petto. Uno spazio nero inghiotte il bar, mi trascina in un ambiente buio e silenzioso. Le voci degli uomini e del televisore si fanno soffuse, si trasformano in un assordante rumore bianco a cui si sovrappone solo il martellare del mio cuore gonfio di panico.

Mi chiudo nelle spalle, serro le cosce sotto il bancone, e schiaccio la mano attorno al bicchiere, facendo stridere le unghie sul vetro bagnato di condensa. Il tatuaggio ricomincia a bruciare, doloroso come una corona di aghi conficcati nella pelle.

Abbasso la sciarpa e mi gratto di nuovo, fino a tastare la sensazione umida e calda di sottili rivoletti di sangue che scorrono lungo la gola. Sollevo una manica della giacca e graffio anche il braccio, sotto l’incavo del gomito, scortico via quella sensazione come se si trattasse di strapparmi di dosso una maglia bagnata di acqua gelida.

Porto la mano davanti alla bocca e al naso, trattengo il respiro per non inalare di nuovo l’odore della vodka, strizzo gli occhi per isolarmi dal buio che ha inghiottito le pareti del bar. Violenti tremori mi scuotono fino alle ossa.

Assieme al profumo di vodka riaffiora il sapore dei suoi baci, la consistenza dura e fredda della sua bocca premuta sulla mia, il formicolio del suo respiro fra le labbra e sulla gola, la pressione delle sue mani sul mio corpo, le carezze fra i capelli, il tocco dietro l’orecchio, lungo il collo, attraverso la schiena inarcata, e sulle mie gambe tremanti allacciate a lui, in quell’abbraccio soffocante.

Scuoto il capo, strofino le braccia e le spalle da sopra la giacca, spremo via le scosse di gelo e disagio che mi fanno accapponare la pelle. Il battito accelera, il respiro sibila fra le labbra socchiuse, lacrime di sudore gelato rigano la fronte e bruciano fra le ciglia strizzate, la testa trottola facendo sorgere uno sciame di vertigini che mi dà l’impressione di essere sospeso nel vuoto.

Non è qui. Non è qui, Toris, non è qui perché è morto. Ivan è morto dieci anni fa, non fa più parte della tua vita, e devi farlo uscire anche dalla tua testa.

«Sono morto perché tu non significavi abbastanza per me, altrimenti sarei scappato con te in Siberia, invece che rimanere a Londra e rischiare la vita per una causa ormai persa.»

Quella voce mi ghiaccia il sangue. Un anello di nausea stringe attorno alla testa, stride nelle orecchie, sorgendo in un’ondata di vertigini che mi dà l’impressione di finire inghiottito nel pavimento.

Mi volto, vado incontro alla voce che mi ha raggiunto come una pugnalata al cuore.

Ivan siede accanto a me, le braccia conserte sul bancone, un bicchiere di vodka fra le dita, come se il barman l’avesse versata anche a lui, e un’aura di solennità a circondarlo, a rendere l’ambiente più tetro. Volta lo sguardo su di me. La guancia appoggiata al dorso della mano, la sciarpa ad avvolgergli il collo e a ricadergli sulle spalle, gli occhi fini e glaciali identici a quelli che ancora regnano nei miei ricordi. «Non sei riuscito a salvarmi, vero, Toris?» Mi sorride. Un sorriso dolce e crudele allo stesso tempo. «E non sei riuscito a salvare nemmeno te stesso. Non ti sei mai liberato della mia ombra, anche dopo tutti questi anni trascorsi a isolarti e a punire te stesso.»

Tengo gli occhi sbarrati sulla sua immagine. Lo sguardo vacilla ma non si sposta, quasi sperando di vederlo scomparire. «Non...» Deglutisco. «Non è vero.» Non è vero e tu non sei reale, sei morto, non puoi essere qui, me lo sto solo immaginando.

Ivan sfila la mano dal bicchiere, tende il braccio verso di me e mi tocca la guancia. Le dita gelide discendono il collo, s’infilano sotto la stoffa della mia sciarpa e indugiano sul tatuaggio dei Siberian Cubs, soffocanti come se avessero impugnato il guinzaglio che ancora mi tiene legato a lui. China le spalle, accosta la bocca al mio orecchio, posa un bacio che brucia come una spalmata di neve. Il suo respiro gelido mi travolge con il profumo rovente di vodka, mi paralizza come una scarica elettrica. Le labbra di Ivan si inarcano in un sorriso. «La mia bambolina.»

Salto all’indietro, scivolo dallo sgabello, batto i piedi a terra, e mi sottraggo a quel tocco di ghiaccio. Il cuore gonfio di terrore ma gli occhi che non riescono a separarsi dallo sguardo di Ivan. Arretro di un passo e sbatto sul bancone, il gomito urta il bicchiere vuoto, e il vetro sbatte contro la vaschetta dei tovaglioli. Il trillo spacca la bolla di buio che mi ha avvolto e isolato, mi riporta alla realtà, fa emergere un’altra voce che risuona fra le pareti del bar.

«Ho chiesto una birra vera, maledizione, non questo piscio sovietico!»

Scatto di nuovo, quel sussulto mi scuote e mi scaraventa fuori dal buio, sbattendomi di nuovo sotto le luci del bar e sotto il riverbero del televisore che si specchia sul bancone.

Rimango a bocca aperta, le labbra secche, la lingua pietrificata, la gola incapace di soffiare anche solo una sillaba.

Questa voce... non è possibile. Ma forse è un’altra allucinazione. Ho ancora le allucinazioni, sono le vertigini di paura che me la fanno immaginare, non può essere reale, non lui, non qui, non dopo tutti questi anni.

«E credevo che almeno qui potessimo permetterci qualcosa di meglio!» La voce continua a sbraitare contro il barman, batte anche sulle mie orecchie, solida e reale, inconfondibile. Anche se è la prima volta che lo sento parlare tedesco, non potrei mai sbagliarmi. È la sua. È una voce più autentica rispetto a quando parlava in inglese, gli appartiene di più, come un grido dell’anima. «O non contrabbandate abbastanza? Che credete che non lo sappia?»

Stringo il pugno ancora schiacciato sul bancone, volto il capo, mi giro verso la sua sagoma, e mi sembra di star andando incontro all’ennesimo fantasma.

Quell’ombra spalanca un braccio verso la porta del bar. «Che poi perché mai?» continua a lamentarsi, a graffiare l’aria con le sue esclamazioni. «Quando mai potremmo permetterci qualcosa di meglio in questo paese del cazzo che non sa nemmeno da che parte girare la faccia?»

Schiudo le labbra che mi sembrano fatte di gesso, senza sapere se troverò fiato. «Gil...» Soffio il suo nome, «Gilbert?», proprio come se stessi evocando uno spirito del passato.

Gilbert raggela, irrigidisce il braccio spalancato verso la porta e pietrifica la bocca in una mezza esclamazione che s’incastra in gola con un gemito. Gira la coda dell’occhio, i nostri sguardi s’incrociano. Sgrana le palpebre, sobbalza, sbatte la schiena sul bancone e si aggrappa con le mani all’orlo, come per non precipitare a terra. Ora sembra lui quello ad aver visto un fantasma. «No.» La sua faccia sbianca come una presa di sale. «T...» Apre e richiude le labbra a vuoto, riguadagna una sorsata di fiato. «Tu? M-ma cos...» Si guarda attorno. «Dove? Quando...» Tentenna, le ginocchia tremano, la mano aggrappata al bancone stringe la presa. Gilbert si dà uno schiaffetto alla guancia. «Non è possibile.» Apre una mano davanti alla bocca, alita contro il palmo, e tira su col naso. «Sono già ubriaco?»

«C-ciao, Gilbert.» La scossa di stupore si ritira, mi lascia addosso un’intensa e inaspettata ondata di nostalgia che rende le guance tiepide e il cuore più dolorante. «Quanto tempo.»

Gilbert rilassa la mano attorno all’orlo del bancone, sbatte le palpebre e torna a guardarmi negli occhi. Le sue labbra si schiudono in un sospiro. «Non ci posso credere.» Si stacca dal banco, urta uno sgabello, e compie un passo verso di me. Mi viene incontro col suo sguardo ancora sconvolto, con il suo viso più asciutto e invecchiato su cui ricadono ciocche di capelli sfoltiti e in disordine, ma con gli stessi intensi occhi rossi di quando era ragazzo a Londra, senza però l’ombra della tossicodipendenza ad annebbiarli. «Sei proprio tu?»

Annuisco.

«E sei ancora vivo?»

Tengo anch’io le labbra socchiuse, incapaci di far scomparire questa espressione spaesata. «Anche tu.»

«M-ma cosa...» Gilbert si guarda ancora attorno, intercetta l’occhiataccia sbieca del barman, quelle acute dei tre uomini della Polizia del Popolo, e quella in ombra dell’uomo che sta leggendo il giornale all’angolo del locale. Ha abbassato le pagine per spiarci. Gilbert si avvicina di un altro passo a me, abbassa il tono. «Cosa ci fai qua?»

Faccio per rispondergli ma mi blocco e mi guardo attorno anch’io, catturato dagli sguardi delle altre cinque persone che occupano il bar, ammutolite da questo nostro incontro. Solo il televisore continua a parlare e a dettare le previsioni del meteo.

Ci sono troppi occhi che guardano, troppe orecchie che ascoltano, non possiamo rimanere qui.

Sarà una lunga notte.

 

.

 

Gilbert impenna la sua bottiglia di birra verso il cielo notturno e alza la voce per terminare la battuta. «E il sole gli risponde: “Baciami il culo, ormai sono a ovest del Muro.”» Riabbassa il braccio, mi punzecchia con una serie di gomitate alla spalla, e gracchia un’altra risata inasprita dall’alcol. «Capita, no? Perché il sole tramonta a ovest. A ovest!»

Alzo gli occhi al cielo, mi scosto di un passo di lato per sottrarmi alle sue gomitate, e scuoto il capo, senza riuscire a forzare nemmeno un piccolo sorriso di accondiscendenza. Sempre meglio delle storielle di Heinz, ma se Gilbert la raccontasse alla persona sbagliata poi non avrebbe più così tanta voglia di ridere.

Gilbert tiene le labbra inarcate in quell’aguzzo ghigno di soddisfazione e sospira, come se si fosse liberato di un peso. «Aah, non hai idea di quanto morissi dalla voglia di raccontarla a qualcuno.» Getta il capo all’indietro e scola altre due sorsate di birra.

Gli cammino affianco tenendomi accostato al marciapiede, nonostante le strade siano deserte e non scorra nemmeno un’auto. Tamburello le unghie sulla bottiglia di Berliner Weisse che pende dalle mie dita e che non ho ancora bevuto. Usciti dal bar ci siamo fermati in un altro locale subito dietro l’Alexanderplatz, e ora stiamo passeggiando verso il parco di Friedrichshain. Non ho preso nemmeno un sorso dalla mia birra, solo l’odore mi fa venire la nausea, mentre Gilbert ha già quasi prosciugato la sua, nonostante non sia la prima della serata. Non riesco ancora credere che sia vivo dopo tutti questi anni. E che sia ancora libero, considerando che ora vive in Germania Est e considerando che la sua bocca larga non sembra essersi acquietata rispetto a quando abitavamo a Londra.

Sospiro. «Da quanto tempo sei qui a Berlino Est?»

Gilbert stacca le labbra dalla bottiglia con uno schiocco. «Sono arrivato solo ieri, in realtà.» Strofina il fianco della mano sulla bocca e fa dondolare la bottiglia fra le dita, continua a camminare spostando lo sguardo fra i palazzi di cemento che si stagliano contro il cielo, oltre i fasci di luce dei lampioni. «Ora vivo a Neubrandenburg, con il mio vecchio. Lo aiuto a portare avanti un negozio di orologi, e immagino voglia lasciarmelo in eredità. Ce la caviamo, suppongo, e il lavoro non manca anche se non ce n’è mai quanto vorremmo. Di quello non posso lamentarmi.» Compie un altro passo e calcia un sasso che va a sbattere contro un bidone della spazzatura. Il sassolino rimbalza e rotola attraverso un parcheggio occupato solo da tre Trabant parcheggiate in fila. Gilbert risucchia un altro sorso di birra. Gli occhi rabbuiano, appaiono più rossi e stanchi, e la voce s’inasprisce. «Tempo fa, mio fratello aveva fatto richiesta di un visto valido un giorno per poter passare qua all’Est, come un turista, diciamo, per poter incontrarmi. Sembrava tutto in regola, e così ieri io e mio nonno siamo arrivati qui a Berlino ad aspettare che lo facessero passare.» Sospira, scuote il capo. «Ma niente.» Colpisce un altro sassolino. «Al Checkpoint gli hanno rifiutato tutto e lo hanno rispedito indietro. Probabilmente sapevano che voleva incontrare me, e devono anche aver saputo della vita che ho fatto prima, dei miei anni di Berlino Ovest, di quelli di Londra e di tutto il resto, e avranno creduto chissà cosa. Che volesse aiutarmi di nuovo a scappare o che stessimo complottando una sorta di fuga di massa, valli a capire.» Le dita stringono attorno alla bottiglia fino a sbiancare e le unghie stridono sull’etichetta. Gilbert fa schioccare la lingua, allontana lo sguardo, e i suoi occhi si riempiono di una rabbia cruda. «Comunisti di merda.» Calcia un altro sasso che va a sbattere sul marciapiede davanti al cancello di un condominio. «Non posso nemmeno tornare nella mia vera casa, non posso nemmeno vedere mio fratello che è stato l’unico a preoccuparsi veramente per me negli anni di Londra, e tutto per le loro stupide paranoie. Che mondo del cazzo.»

Sgrano le palpebre, gli rivolgo uno sguardo sorpreso. «Vivevi a Berlino Ovest, prima di Londra? Non lo sapevo.»

Gilbert sbuffa. «E dove credi che abbia iniziato a entrare nel giro?» Beve ancora e fa oscillare la bottiglia che emana riflessi bruni sotto l’abbaglio dei lampioni. «Qui all’Est sarà una merda per tutto quanto, ma almeno sono al sicuro da quel punto di vista. E non fraintendermi, la roba gira anche qua, se vuoi trovarla la trovi, tramite il mercato nero, ma è molto più difficile.» Gli occhi rossi appaiono più stanchi e vecchi, racchiusi fra palpebre cerchiate di nero e appesantite dal tempo. «E sono diventato così stanco di tutto, ormai.» Infila la mano sotto il bavero della giacca, raggiunge il punto dove so che il tatuaggio continua a marchiargli la pelle, a ricordargli il suo passato, e vi passa profonde unghiate. «Persino di autodistruggermi.»

Il suo profilo coronato dalle luci dei lampioni mi riporta indietro ai tempi di Londra. I capelli chiari che ora appaiono solo più sfoltiti e disordinati, gli occhi bronzei sfumati da un’ombra di stanchezza, i tratti spigolosi del suo volto, e la voce graffiante che ho subito riconosciuto. Un Gilbert più adulto, vestito con sobri abiti dell’Est invece che con il chiodo di pelle e i jeans dell’Occidente, ma sempre lo stesso. «Quand’è che sei andato via da Londra?»

Gilbert sospira, alza gli occhi al cielo. «Uhm, vediamo.» Ci rimugina picchiettando la bocca della bottiglia sulle labbra. «Ad aprile del Settantasei, se non ricordo male. Quasi subito dopo che è successo il fattaccio.» Beve ancora e mi scocca un’occhiata da sopra la spalla, percorre il mio profilo come se anche lui stesse rievocando il ricordo di quello che ero. «Tu da quanto qua nella vecchia Berlino?»

Allontano lo sguardo, scostandomi da quegli occhi rossi che paiono guardarmi dentro. «Anche io mi sono trasferito nel Settantasei, verso fine marzo. Ma sono fuggito da Londra a febbraio, dopo che...» L’ultimo sguardo rivolto a Ivan, l’ultimo suo sorriso, le sue ultime parole che mi promettevano ci saremmo rivisti. Lo stesso sconforto di allora torna a schiacciarmi il cuore. «Be’, lo sai.»

Gilbert annuisce. «Immaginavo che il Gran Capo vi avesse nascosti tutti, anche subito dopo l’arresto.»

«Sì, Ivan ci ha mandati in Unione Sovietica, in Siberia, da sua sorella maggiore. Poi abbiamo saputo che...» Riaffiora il ricordo di Natalia che scappa dalla cucina e che si copre gli occhi con il braccio per trattenere le lacrime. «C-che lui era...» Katyusha che si regge il viso fra le mani e che crolla in ginocchio sul pavimento, sorretta da Eduard che gli era corso incontro. La lettera che si adagiava fra le piastrelle, lo stemma dell’Ambasciata Britannica che mi aveva colpito come un pugno allo stomaco. Scrollo il capo, dissolvo il ricordo. «E allora io e Natalia siamo venuti a vivere qua.»

Gilbert strabuzza lo sguardo, si strozza con un sorso di birra. «Ma dai, non ci credo» esclama. «C’è anche la vecchia strega?»

«A quanto pare.»

Gilbert arresta il passo, le suole strusciano sull’asfalto. «Un momento...» Stende l’indice verso di me, socchiude una palpebra, inarca il sopracciglio, e mi rivolge uno sguardo stranito. «Voi due ora non sarete per caso...»

«Oh, no» mi affretto a rispondere. «Niente...» Sventolo un palmo e nascondo un lieve rossore che mi ha imporporato le guance. «Niente del genere. Però...» Stringo le dita, il metallo della fede pizzica contro il palmo. Abbasso lo sguardo, intreccio le mani reggendo la bottiglia di birra fra le falangi, e rigiro l’anellino d’oro attorno all’anulare su cui si è formato il segno. «Ufficialmente, io e Natalia ora siamo sposati.»

Gilbert sputa un sorso di birra, mi acchiappa per la giacca, tirandomi a sé, e mi guarda con occhi che sembra stiano per schizzare fuori dal cranio. «Che cooosa

Sobbalzo sotto quello strattone improvviso. «È solo...» Gli sfioro il naso con la mano che non regge la birra per tenermelo lontano. «Solo una copertura, nulla di più. È stato Eduard a procurarci un certificato di matrimonio falso. Ci ha permesso di avere subito diritto a un appartamento, altrimenti ci avrebbero sicuramente confinato negli alloggi pubblici e saremmo stati costretti a vivere separatamente.»

Gilbert storce un sopracciglio, non abbandona quella sua espressione scettica, quella scintilla scandalizzata che ha fatto tornare i suoi occhi rossi e incandescenti come un tempo. Rilassa la presa della mano e mi lascia andare, sorseggia dell’altra birra senza smettere di squadrarmi come se gli avessi detto che sono sposato a Honecker in persona.

Aggiusto la sciarpa e liscio la giacca nel punto dove Gilbert l’ha stropicciata. Riprendo a camminare. «Ora io e lei viviamo nello stesso Plattenbau. Viviamo...» Mi stringo nelle spalle. «Viviamo assieme, sì, e non stiamo male, abbiamo anche il riscaldamento. Siamo sereni così, immagino. Siamo riusciti a costruirci la nostra piccola tranquillità dopo...» Un sospiro mi svuota il petto, ma vi rimane un piacevole tepore, lo stesso che provo la sera quando mi addormento nel silenzio del nostro appartamento, sapendo di avere Natalia affianco e di non essere solo. «Dopo tutto il caos di Londra.»

«Uhmm.» Gilbert distende un sorriso ammiccante, torna a spremere la spalla contro la mia e mi punzecchia con un’altra serie di gomitate. «Mai consumato il matrimonio, quindi?»

Il cuore sobbalza, il viso brucia, e il calore scotta fino alle orecchie. «No. Non...» Mi scosto dalle sue gomitate, mi strofino il fianco dove lui mi ha punzecchiato. «Non mi permetterei mai.»

«Non ti permetteresti» specifica Gilbert, «o non lo vorresti

Faccio roteare lo sguardo e sospiro, senza nemmeno prendermela.

Non mi stupisco, Gilbert non cambierà mai, a prescindere dagli anni che passano e dalla lontananza con l’Ovest.

«Diciamo che...» Ignoro il suo commento e continuo a passeggiare lungo la strada senza badarci troppo. «Io e Natalia ci teniamo d’occhio a vicenda e abbiamo cura l’uno dell’altro in una maniera un po’ insolita. Per il primo anno io ho lavorato in un’acciaieria, Natalia invece in un’industria tessile. Non avevamo alternative, non conoscevamo la lingua e non potevamo permetterci un impiego migliore, ma il fatto di essere entrambi sovietici e di conoscere il russo ci ha aiutato molto.»

«Be’, parli bene tedesco.»

«Ti ringrazio.» Mi guardo attorno anch’io, catturato dalle luci provenienti dalle finestre ancora illuminate dei palazzi che, di notte, somigliano a tante cellette d’alveare. Un uomo percorre la strada in direzione opposta alla nostra, spinge il cancello di uno degli edifici, ed entra nel condominio. Il resto è silenzio. L’aria però si sta infittendo e l’umidità è diventata più pesante ora che ci stiamo avvicinando ai pressi del parco. Rimbocco la sciarpa, respiro attraverso la stoffa che ha lo stesso profumo del nostro soggiorno. «Ora Natalia è una caporeparto ed è anche un’attivista del Partito. Lavora molto, si dà da fare, si è adattata bene. Io cerco di tenermi più lontano possibile da quell’ambiente, ma...»

Gilbert sghignazza. «E come fai a tenerti lontano?» Solleva la bottiglia vuota sopra la testa e prende la mira su un cestino. «Proletari di tutto il mondo, unitevi!» Lancia la bottiglia e centra il cestino, sollevando lo scroscio secco della spazzatura spostata. Gilbert mi lancia un’occhiata di traverso, squadra la mia Berliner Weisse da cui non ho ancora preso nemmeno un sorso, e la indica. «Non la bevi, quella?»

Gli passo la bottiglia.

Le mie parole però continuano a ronzarmi attorno alla testa, a pesare come quest’aria fredda e umida che ci circonda. Il rapporto fra me e Natalia è cambiato molto in questi anni. Per i primi tempi lei era chiusa in se stessa, scontrosa e schiva come al solito, reggeva la parte della brava moglie quando ci trovavamo in pubblico, ma quando eravamo da soli preferiva evitarmi. Scaricava tutto il suo dolore nel lavoro, nel Partito, tenendosi sempre impegnata, quasi per non dare a se stessa l’occasione di ricordare il passato. Poi il tempo è trascorso, gli anni si sono susseguiti, i ricordi si sono mitigati, le ferite hanno cominciato a richiudersi, e anche il suo dolore ha cominciato ad affiorare. Ha ripreso a parlare di Ivan. Mi ha confessato di come lei si sia sempre sentita tradita dal fatto che Ivan avesse preferito noi e la sua vita a Londra rispetto a lei e a Katyusha, e che forse è stato quello il vero motivo che l’ha spinta a rimanermi vicino. In tutti questi anni, io per lei ho sempre rappresentato quel frammento di Ivan che si è rifiutata di lasciar andare. Ma anche Natalia per me ha sempre rappresentato il ricordo di Ivan che mi sono rifiutato di dimenticare e al quale sono rimasto attaccato nonostante tutti i dolori che lui mi ha causato. Entrambi forse ci siamo usati a vicenda per tenerci aggrappati a Ivan, eppure fra di noi è nato un affetto genuino che sono contento di aver conquistato. Senza Natalia, una vita solitaria qua a Berlino sarebbe stata insostenibile.

Sospiro, lascio scivolare fuori i ricordi assieme alla lieve condensa che si forma nell’umidità della notte, e infilo le mani nelle tasche della giacca. «Comunque, io ho smesso di lavorare all’acciaieria perché non sono portato per il lavoro manuale, mi affaticavo troppo spesso e le polveri mi facevano male ai polmoni. Ho cercato qualche impiego più tranquillo, sfruttando il fatto di conoscere il russo, e così mi hanno assunto al Berliner Zeitung. Mentre lavoravo nello stabilimento ho fatto un corso di giornalismo.» Continuo a camminare e accelero il passo per attraversare una stradina fra due marciapiedi, schivo una pozzanghera infossata nell’asfalto. «Per lo più ora traduco articoli dal russo al tedesco, ogni tanto qualche saggio, e do una mano in redazione, sistemo gli archivi, mi occupo delle telefonate. Non mi dispiace come impiego.»

«Uhm.» Gilbert fa tamburellare le dita sul collo della bottiglia e annuisce compiaciuto. «Bene, bene, quindi tu e la vecchia strega vi state dando da fare per la nobile Repubblica Democratica.» Beve un altro sorso, riprende fiato, e si pulisce le labbra con la manica. «E gli altri che fine hanno fatto?»

Un guizzo rovente mi punge dietro la nuca. I miei occhi emanano una scintilla di ostilità. «Non posso dirti dove si trovano.»

Gilbert ride ma ricambia la mia occhiataccia. «Che credi? Che vada a fare la spia?» Si ferma e spalanca un lembo della giacca, lo sventola verso di me. «Pensi che abbia i microfoni addosso? Ti sembro un burattino della Stasi?»

Restringo le palpebre, lo squadro da sopra la spalla, e sollevo il mento in un’espressione carica di sfida. «Potrei esserlo io.»

Gilbert incassa il mio sguardo. Sbatte le palpebre, inarca un sorriso compiaciuto che s’increspa nella penombra del viso, e sta al gioco. Gli occhi ardono come quando era giovane, torna il ragazzino stupido e sfrontato che ho conosciuto più di dieci anni fa dall’altro capo d’Europa.

Gilbert si gira di scatto verso i palazzoni, apre una mano accanto alla bocca, e inspira a fondo per rigettare un urlo tonante. «Sfasciate il Muro!» Marcia sotto gli appartamenti e continua a lanciare quelle grida verso le finestre. «Stampa libera! Aprite le porte con l’Occidente! Germania unita! A morte l’Unione So –»

«Gilbert!» Gli corro addosso e mi aggrappo al suo braccio, zittendolo. Lo fulmino. Brividi di terrore mi attraversano, mi fanno sudare freddo come al bar, e stringono un nodo di nausea alla bocca dello stomaco.

Razza di irresponsabile. Sapevo che non c’era da fidarsi di lui. Ora sì che mi stupisco del fatto che sia ancora vivo e in libertà dopo tutti questi anni passati in Germania Est.

Gilbert rilassa il ghigno, mi guarda dritto in viso. «Tu non hai mai avuto gli occhi da bugiardo» mi rivela. «Non saresti mai capace di ingannare nessuno.» La sua espressione torna seria, la voce bassa. «Forse è proprio per quello che hai rischiato di rimanerci quando eravamo a Londra.»

La mia presa sul suo braccio freme, i brividi si ritirano ma mi lasciano addosso una bruciante sensazione di disagio. Le cicatrici risalenti al sequestro e ormai sbiancate tornano a scottare. Sotto il naso scivola l’odore del sangue, delle mie ferite aperte, della pelle bruciata, e della stanza buia dove mi avevano rinchiuso. Gli lascio il braccio, arretro di un passo.

Gilbert scivola via dal mio tocco e sospira. «Aah, mi chiedo...» Si strofina la nuca e si guarda attorno, verso le finestre illuminate dei palazzi, forse per assicurarsi che nessuno abbia davvero sentito quello che ha urlato prima. «Dopo tutto quello che abbiamo passato, come abbiamo potuto accettare di ridurci a vivere un’esistenza simile.»

Faccio spallucce, mi strofino il braccio, ancora succube dei ricordi tornati a scivolare sulla pelle. «Non c’erano molte alternative. Probabilmente, se non avessimo lasciato Londra, ora saremmo morti. Io e te, per lo meno.»

«Già.» Gilbert continua a passeggiare, a sorseggiare la sua birra, e a lanciare occhiate di disprezzo a quel mondo grigio in cui lo hanno buttato pur di salvargli la vita. «Ogni tanto ci penso, e mi chiedo se questo sia davvero meglio della morte. I primi periodi sono stati i più duri, in realtà. Sarei un bugiardo se dicessi di non aver mai cercato di filarmela. Ma scappare dalla Germania Est non è così facile come lo era stato per me scappare dall’Ovest. Poi...» Si posa la mano sul petto, solleva il mento. «Ora che anche io sono responsabile di qualcuno di speciale. E adesso che mi sono preso l’impegno di averne cura, proprio non potrei permettermi di andarmene.»

«Qualcuno di speciale?» Mi coglie un dubbio. Che si sia sposato anche lui? «Ma chi...»

Gilbert distende un sorriso raggiante e batte il pollice sul petto. «Il mio canarino, ovvio!»

«Oh.» Un leggero rossore torna a spolverarmi le guance. «Capisco.»

Proseguiamo lungo la strada che circumnaviga il parco di Friedrichshain. Il vento fruscia attraverso i cespugli, gli alberi piantati sul ciglio del marciapiede, e pochi rumori ovattati provengono dai grigi palazzi di cemento che si ergono contro il cielo notturno. 

Gilbert alza lo sguardo verso la distesa nera ricoperta di stelle su cui splende la luna calante, batte la bocca della bottiglia fra le labbra, e i suoi occhi si annebbiano, tornano distanti e malinconici come se fossero affacciati alle strade di Londra abbagliate dalle insegne al neon. «Adesso sono lontano dai miei amici, lontano da mio fratello, ma almeno sono vivo.» Scrolla le spalle. «È una speranza anche questa, suppongo. Magari un giorno il mondo cambierà.»

«Già.» Annuisco, ma non riesco proprio a percepire la dolcezza di quella parola. Mi sembra fin troppo distante da raggiungere. «Una speranza.»

Gilbert struscia la punta del piede su un ciuffo d’erba cresciuto da una crepa in mezzo alla strada e mi lancia un’occhiata interrogativa. «A te non danno rogne?»

Inarco un sopracciglio. «Per cosa?»

«Sarai stato dal medico almeno una volta da quando sei qua, no?» Gilbert si riabbottona la giacca che prima ha sventolato e rimbocca il bavero attorno al collo. «Non dirmi che non si è accorto che c’è qualcosa che non va. Avrai di sicuro le vene bruciate, i valori del sangue sballati, o almeno qualche acciacco al fegato.»

Un’inconscia fitta di dolore mi morde il costato. Mi torna in mente come alla cena di questa sera io abbia rifiutato il vino e di come basti l’odore della birra per far salire un’ondata di nausea. Mi poso una mano sul ventre, strofino da sopra la giacca. «Sì, ogni tanto il fegato mi dà qualche problema, ma non è grave. Mi basta stare attento con quello che mangio. In ogni caso bevo pochissimi alcolici, quindi non lo affatico inutilmente. Al medico ho mentito. Gli ho detto che da piccolo ho avuto l’epatite per aver bevuto dell’acqua infetta.» Porto le braccia conserte al petto e do una strofinata anche alle maniche. «Per il resto le vene non sono ridotte così male, stanno guarendo bene. Nessuno mi ha mai fatto altre domande.»

«E per il tuo passato?» insiste Gilbert. «A Londra eravamo pur sempre schedati, e dopo tutto quello che è rimasto negli archivi su di noi...»

«Eduard ha pensato a tutto, in realtà. Ha praticamente cancellato il nostro passato, prima che ci separassimo. Ufficialmente, io sono vissuto in Unione Sovietica e non ho mai messo piede a Londra o in Occidente. Nessuno sa niente.»

«E il tatuaggio?» Gilbert infila le dita sotto il bavero della giacca e picchietta l’indice sull’orologio soffocato dal filo spinato. «Quello nemmeno Eddie può farlo scomparire.»

«Lo tengo coperto.» Apro anch’io la mano sul lato sinistro del collo. Il contatto della mano fredda sulla pelle tiepida mi fa sussultare. «A volte ci spalmo sopra della cipria se non riesco a nasconderlo con i vestiti. Anche d’estate, poi, indosso sempre maglie a collo alto o sciarpe. Anche Natalia fa così.»

Gilbert sbuffa. «Iconico.»

«Già.» Sistemo di nuovo la sciarpa attorno al collo, la rimbocco e imito la gestualità di Ivan, quel modo che aveva di tenersi la gola nascosta e di aggiustarsi sempre un lembo attorno alle spalle. Con me teneva sempre il collo coperto, anche a letto. Non mi ha mai permesso di toccarglielo. «Iconico.»

Gilbert beve un altro sorso di birra, tiene le labbra accostate al vetro, e mi rivolge un’occhiata sbieca. «E la tua principessina dov’è finita?»

Quella domanda mi scava un vuoto nel cuore. Sgrano gli occhi, e tutto torna nero e freddo come quando ho avuto la sensazione di trovarmi di nuovo accanto a Ivan, toccato dalla sua mano gelida, sfiorato dal ricordo delle sue labbra, schiacciato dalla dolorosa presenza del suo ricordo. Si spalanca ancora quella finestra sul passato dove però la presenza di Feliks è un’ombra sempre più evanescente, lontana e difficile da raggiungere.

Gilbert solleva un sopracciglio. «Uhm?» Scolla la bocca dalla bottiglia con uno schiocco e mi dà un’altra gomitata. «Dov’è Feliks?»

Soffio un filo di fiato. «I-io...» Mi soffoco con quel sussulto d’aria. Mi stringo nelle spalle e strofino a fondo le braccia conserte al petto. Le labbra si schiudono con un tremolio che si condensa in parole fredde e sofferenti. «Non lo so.»

Gilbert arresta il passo e strabuzza lo sguardo.

Tengo il capo girato, senza il coraggio di guardarlo negli occhi. «Ci siamo separati subito dopo essere scappati dalla Siberia, dopo che io e Natalia abbiamo deciso di trasferirci qua. Forse è tornato a casa, a Varsavia.» Scuoto la testa, e un familiare senso di rimorso e amarezza mi riempie la bocca. «Non lo vedo da allora.»

«Ma come?» sbuffa Gilbert. «Eravate così pucci-pucci assieme e vi siete mollati? Non era l’amore della tua vita?»

«E lo è.» Un brivido mi attraversa. Stringo la mano sul braccio e pianto le unghie nella stoffa della giacca, sopprimendo il dolore che mi corre nel sangue. «Lo è ancora. Io amo Feliks. Ma le cose non sono facili come sembrano.» Riprendo a camminare. Le luci dei lampioni allungano la mia ombra davanti a me. «Io ho deciso di separarmi da lui per proteggerlo. Feliks era entrato nei Siberian Cubs per colpa mia. Se non fosse stato per me, lui avrebbe potuto avere una vita normale, senza pericoli, e lontano dalla strada. Io avevo ancora la mia pena da scontare, anche dopo la morte di Ivan. E Feliks non meritava di essere coinvolto più di così, lui si merita una vita felice e sicura.»

«Ti sei condannato da solo?»

«Me lo merito. Perché nessuno di noi ha ancora smesso di scontare la sua pena.» Guardo Gilbert di striscio e gli rivolgo un’occhiata più buia, perché so che anche lui prova lo stesso. «Dico bene, Gilbert?»

Gilbert sorride tenendo lo sguardo distante. «Forse.» Annuisce. «Forse è così.» Scola quel che è rimasto della bottiglia di birra. «Anche io penso che il peso di quegli anni non ci sia mai scivolato completamente di dosso.» Torna a posarsi la mano sul petto. «Guarda me. Sono salvo solo grazie al mio fratellino, eppure non posso nemmeno vederlo, non posso parlargli, non posso rifarmi degli anni perduti in cui non ho fatto il mio dovere da fratello maggiore.» Si dirige verso una delle panchine piantate davanti agli alberi e che affaccia sulla strada. «Noi Siberian Cubs non siamo mai usciti dalla nostra rete di filo spinato.» Vi si abbandona, accavalla le ginocchia, distende un braccio attorno allo schienale, e reclina il capo all’indietro. «Siamo semplicemente passati da una gabbia all’altra.»

Annuisco. «Le gabbie ci danno l’illusione del controllo, per questo ci sentiamo più sicuri al loro interno.» Mi siedo accanto a lui. La panchina ghiacciata trasmette una scossa di freddo alle cosce. «Ed è per questo che arriviamo a costruircele da soli.»

«Probabile.» Gilbert flette le dita e fa dondolare la bottiglia vuota sotto il cono di luce che cade dal lampione. «È per questo che ti stai tenendo ancora stretto alle tue catene. Ed è per questo che tieni Feliks lontano da te.»

Attorno a noi il vento soffia di nuovo, un lampione traballa facendo sfarfallare la sua luce, e un’auto ci scorre davanti, si perde attraverso la larga distesa nera della strada deserta.

Strizzo le mani sui pantaloni, incrocio i piedi sotto la panchina, mi mordo il labbro che ha ancora il sapore dolciastro e sciropposo della Club Cola che ho bevuto al bar, e torno a sentire sull’anima quel peso che mi tortura ormai da dieci anni, pungente e fastidioso come un sasso rimasto incastrato in una scarpa.

Inspiro. Glielo chiedo con un mormorio. «Come avete fatto?»

«Mh?» Gilbert sbatacchia le palpebre, confuso. Flette il capo e mi squadra con occhi già annebbiati dall’alcol. «Fatto cosa?»

Apro e strizzo i pugni sulle cosce. «A incastrare Ivan. Come avete fatto a...» Risollevo lo sguardo, vado incontro ai suoi occhi che non mi trasmettono più quella soggezione con cui mi hanno travolto al bar. «A distruggere i Siberian Cubs?»

Gilbert sbatte di nuovo gli occhi. Sgrana le palpebre e lo sguardo torna limpido, libero anche dalla patina nebulosa creata dalle due bottiglie di birra scolate d’un fiato. «Ooh, quella storia.» Ricade con la schiena sulla panchina, scuote il capo e si prende la fronte, spalma una manata lungo il viso soffiando un sospiro aspro e stanco. «Merda, mi servirebbe davvero un’altra birra.» Si attacca di nuovo alla bottiglia ma beve a vuoto. La scrolla, si ricorda che l’ha già prosciugata, e la ribalta lasciando che dalla bocca di vetro coli l’ultima goccia schiumosa. «Ti ricordi di Køhler?»

Cosa? Mathias? «Sì.» Ma cosa può c’entrare Mathias in tutto questo?

Gilbert torce il busto per gettare la bottiglia nel cestino affianco alla panchina. «Sai che è schiattato di overdose, vero?»

«Sì. C’era sui giornali.» Mi ricordo bene quel giorno. Ivan era furioso. Mathias era pur sempre una sua proprietà ed è morto sotto l’effetto della sua eroina, quindi risalire a noi Siberian Cubs tramite la sua morte sarebbe stato ancora più facile.

«Lui viveva con un ragazzo, a quel tempo» racconta ancora Gilbert. «Un norvegese, uno studente.»

«Sì, Lukas. Mi ricordo.» Mi ricordo anche di come Mathias se la sia presa con me poco prima di morire, di come lui per primo mi abbia accusato di aver messo in pericolo Feliks permettendogli di entrare nei Siberian Cubs, e di come Feliks mi abbia difeso mettendosi fra me e lui, tirandogli uno schiaffo. È successo il giorno dopo in cui Feliks si era fatto tatuare l’orologio, solo un paio di giorni prima del mio sequestro. Quello è il mio ultimo ricordo di Mathias: i suoi occhi arrabbiati e accusatori puntati contro di me, e la mano premuta sulla guancia gonfia su cui era rimasto lo stampo rosso dell’impronta di Feliks.

«Dopo che Mathias è morto» continua Gilbert, «il suo ragazzo è venuto da noi, in realtà da me, e mi ha dato un pacchetto di sigarette. Dentro le sigarette c’era tutto quello che dovevamo sapere per incastrare Ivan. C’era un foglietto con scritte tutte le tane dei Siberian Cubs, anche quelle a cui noi non avevamo accesso. Da lì la polizia ha impiegato poco a stanare Ivan.»

«Ma...» No, continuo a non capire. «Ma Mathias come faceva a sapere dove...»

«Non lo sappiamo.» Gilbert spalanca le braccia e le fa ricadere sulle gambe accavallate. «Non lo abbiamo mai scoperto, e suppongo che sia un mistero destinato a marcire nella tomba assieme a lui.»

«Ma perché Eduard non se n’è accorto?» insisto. C’è ancora qualcosa che non torna, qualche tassello che non riesco a incastrare. «Perché non è riuscito a scoprire che Scotland Yard fosse in possesso di informazioni del genere? Ne è sempre stato in grado, è sempre riuscito a infiltrarsi nei loro archivi e ad avvisare Ivan prima di una retata.»

«Perché noi non siamo andati direttamente da Scotland Yard. Arthur...» Gilbert congela le parole fra le labbra, il suo respiro s’interrompe. Lo sguardo si estranea, si nasconde nella penombra, e si riprende. Scrolla il capo come se avesse battuto le palpebre su un ricordo lontano e si schiarisce la voce, riprendendosi. «Arthur aveva iniziato a frequentare un poliziotto. Un americano.»

«Un americano?» Mi coglie un ricordo lampeggiante, una di quelle informazioni di cui sono venuto a conoscenza tramite la comunicazione dell’Ambasciata. «Ah, l’incendio al cantiere!»

«Lui» conferma Gilbert. «È stato lui a occuparsene, a proteggerci, e a fare in modo che arrestassero subito Ivan. È stato un po’ come il nostro salvatore personale, si può dire.»

Adesso tutto combacia, i tasselli mancanti si agganciano al quadro che non sono mai riuscito a completare. «Ora ho capito.» Mi lascio avvolgere da un tiepido ma amaro senso di accettazione che allevia il peso sul mio cuore, mi dona una carezza di pace dopo tutti questi anni trascorsi a chiedermi di chi fosse stata la responsabilità della morte di Ivan e della distruzione dei Siberian Cubs. Pensavo che avrei provato rabbia nei confronti dell’assassino di Ivan, e invece c’è solo questo tiepido senso di rassegnazione che mi fa sentire più leggero. Forse anche più libero. «Ho capito tutto.» E non riesco a credere che sia stato proprio Gilbert a svelare il mistero dopo tutti questi anni. Gilbert, riapparso a Berlino Est davanti ai miei occhi, rincontrato dall’altra parte d’Europa in questa maniera assurda, dopo tutto quello che abbiamo passato a Londra dove ora probabilmente sarà rimasto solamente... «Fra di noi, quindi, solo Arthur è rimasto a vivere a Londra.»

Gilbert stringe i denti sul labbro inferiore, trattiene di nuovo il respiro, e il suo viso impallidisce, come se gli avessi affondato un pugno nella pancia. Una luce diversa gli attraversa gli occhi, li riempie di un dolore che non riesco a decifrare.

Gli rivolgo un’occhiata stupita, sollevo un sopracciglio. «Gilbert?» Ho detto qualcosa di sbagliato?

Gilbert tiene le labbra strette e la sua bocca tremola. Inspira di nuovo a fondo, china la fronte, fa dondolare la gamba accavallata, stringe il braccio accasciato sullo schienale della panchina, e tamburella le unghie sul legno verniciato. L’ombra calata dalla frangia gli nasconde lo sguardo. «Arthur è morto.»

Una botta di stupore mi schiaffeggia la faccia, secca e fredda come una sberla d’acqua gelida. «No» soffio, soffocato da quelle parole. «Sul...» Sbatto le palpebre. Quella frase rimbomba in testa e il suo eco mi assorda. Non riesco a crederci. «Sul serio?»

Gilbert annuisce.

«E quando?»

Gilbert scrolla le spalle, schiacciato dalla stessa rassegnazione di cui mi sono avvolto anch’io. «È morto già dieci anni fa, ormai. Nel...» Risolleva gli occhi al cielo, assottiglia una palpebra, e scava nei ricordi. «Nel novembre o nel dicembre del Settantasei, se non mi ricordo male. Io ero già qui, e ovviamente non sono nemmeno potuto tornare in Inghilterra per il funerale. È stato Francis a inviarmi una lettera per dirmelo – lui ora fa su e giù fra Londra e Parigi, e lavora tipo in un ristorante o in una pasticceria, che ne so – ma mi è arrivata quattro anni dopo.»

«Ma allora...» Cerco anch’io nei miei ricordi, mi aggrappo alle ultime immagini che ho di Arthur, quando lo incontravo alla fermata di Piccadilly Circus assieme agli altri. Quello sguardo sempre sprezzante e un po’ altezzoso, le ciocche disordinate di capelli biondi che ricadevano sulla fronte sempre increspata in una ruga d’indifferenza. Quei verdi occhi cinici che erano persi nel vuoto come i nostri, quell’ombra di condanna che gli gravava addosso e che aspettava solo di portarselo via. A quanto pare Arthur non è stato fortunato come noi, non c’è stato nessuno che lo ha aiutato a sfilarsela di dosso. «Allora Arthur era ancora nel giro.»

«No.» Gilbert scuote la testa. «Anche lui ne era uscito ed era pulito da mesi. Gli è collassato il fegato, per un’epatite o una cirrosi, una merdata del genere. È semplicemente stato più sfortunato di noi.» Reclina di nuovo il capo all’indietro, abbandona le spalle contro lo schienale della panchina, e si massaggia il volto, stropiccia quel dolore che è tornato a comparire dopo tutto questo tempo. «Che fine, povero disgraziato, ci ha impiegato sei mesi a morire. Io al posto suo mi sarei ammazzato da solo prima di arrivare alla fine trascinandomi in quelle condizioni.»

Il doloroso eco di quelle parole non mi abbandona.

Un’epatite. Qualcosa che avrebbe potuto colpire chiunque di noi, qualcosa che avrebbe potuto ucciderci con la stessa facilità.

Mi poso una mano sul ventre, sotto il costato. «Per il fegato.» Do un’altra strofinata. Ricompaiono le immagini della cena di questa sera, le mie posate affondate nel fegato di vitello, il coltello che tagliava la carne, proprio come noi stessi abbiamo fatto a fette la nostra vita e i nostri corpi durante il periodo della tossicodipendenza. Gelidi brividi risalgono la schiena, nonostante la giacca e la sciarpa a scaldarmi. «Sai, ogni tanto...» Mi stringo nelle spalle, mi schiaccio contro lo schienale della panchina e torno a chinare lo sguardo sul marciapiede attraversato dai ciuffi d’erba nati fra le crepe. «Ogni tanto mi chiedo...» Strizzo i pugni sulle cosce. «Se fossimo ancora tutti a Londra, se non ci fossimo mai separati, se...» Il respiro trema. Mi assale una violenta ondata di nostalgia che strazia il cuore. «Se Ivan fosse ancora vivo e...»

«Che?» esclama Gilbert, guardandomi con occhi scandalizzati. «Stai scherzando, vero? Non posso credere che ti manchi.»

«Non...» Raccolgo un lembo della giacca e lo rigiro fra le dita sudate. Altri tremori mi attraversano e mi chiudono lo stomaco. «Non è che mi manca, è solo che...» Allontano lo sguardo per non dover affrontare la pressione dei suoi occhi. «Che lui era...» Riemerge l’allucinazione del bar, quando ho inalato l’odore bruciante della vodka, quando è riapparso il ricordo di Ivan, facendomi provare un turbinio di terrore e sollievo che mi ha soffocato il cuore. Scuoto il capo. «Non è così facile. Anche se volessi sbarazzarmi del suo ricordo, non sarebbe così semplice. Tanto più ora che Natalia vive così vicino a me e che la sua presenza continua sempre in qualche modo a serbare vivo il ricordo di Ivan. Io non lo voglio dimenticare.» Risollevo il capo, senza più paura di farmi vedere in volto. «E non sarebbe nemmeno giusto dimenticarlo.»

Gilbert storce un sopracciglio, mi guarda di sbieco, un’occhiata buia e circospetta. Sbuffa. «Sai, mi sono sempre chiesto cosa ti passasse per la testa per farti strapazzare da lui in quella maniera.» Distende le labbra e soffia una risatina di scherno. «In realtà ce lo chiedevamo un po’ tutti, lasciatelo dire.»

Alzo gli occhi al cielo. Ecco che ci risiamo con questa storia... «Ivan non mi strapazzava. Questo eravate solo voi a crederlo. Lui non mi ha mai fatto del male.» Porto le braccia conserte al petto, strofino le spalle. «Aveva solo bisogno di me. Ivan aveva bisogno di me per riempire il vuoto lasciatogli da un’altra persona.»

Gilbert ridacchia. «Oppure eri tu quello ad aver bisogno di lui.» China una spalla verso di me, si copre la guancia con il dorso della mano, le sue labbra mormorano al mio orecchio. «Magari ti piaceva l’idea di essere il preferito del capo.»

Scatto come se mi avesse piantato un ago nella nuca. «N-non è vero.»

Gilbert però non demorde, tiene inarcato quel suo sorriso da piantagrane. «Magari eri tu quello che usava lui per riempire un vuoto dentro di te. E forse tu stesso ti sei divertito a prendere in giro Feliks esattamente come Ivan prendeva in giro te.»

Mi alzo con uno scatto e schiaccio i pugni ai fianchi. «Smettila!» Ma un altro tremore mi scuote, come se Gilbert mi avesse strappato i vestiti di dosso, lasciandomi spoglio e al freddo.

Gilbert appiattisce il sorriso. Il suo sguardo rabbuia, perde la voglia di scherzare. «Sul serio credi che andare via da Londra ci abbia cambiati?»

Esito, messo all’angolo da quegli occhi che mi leggono dentro, che hanno provato sulla loro pelle la bufera di dolore che mi tiene intrappolato da anni.

Gilbert allontana lo sguardo da me, torna a rivolgerlo al cielo notturno, alla mezza luna che pende fra le stelle, a un passato che non tornerà più. «Possiamo scappare in giro per il mondo quanto vogliamo,» dondola ancora la gamba accavallata, «ma i nostri fantasmi non smetteranno mai di inseguirci. A Londra avevamo l’eroina, ma anche la droga non li faceva sparire, li teneva solo zitti prima del bisogno di un altro buco. Devi accettarlo anche tu.» Si stringe nelle spalle. Lo sguardo triste e rassegnato come le sue parole. «Forse è quello l’unico modo che abbiamo per farli sparire per sempre dalle nostre teste.»

 

.

 

Passo un’altra profonda unghiata lungo il tatuaggio che ha continuato a bruciare per tutta la notte, anche dopo essermi separato da Gilbert, anche dopo essere rincasato, e la sensazione umida e scottante delle gocce di sangue appena sgorgate bagna i polpastrelli. L’orologio avvolto dalla corona di filo spinato brucia come succedeva a Londra, quando il respiro accelerava, il cuore si gonfiava d’angoscia, e un intenso prurito correva attraverso le vene, facendo salire il bisogno urticante di grattarmi fino a sporcarmi le dita di rosso.

Un ennesimo singhiozzo di disperazione risale il petto, scuote la schiena schiacciata alla parete di casa, e altre lacrime sgorgano attraverso il viso già caldo e umido.

Spingo i piedi a terra, mi spremo all’angolo del muro, le ginocchia contro il busto, un braccio avvolto attorno alle gambe, e lo sguardo annacquato rivolto fuori dalla finestra oscurata dalla notte. Sbatto le palpebre rigonfie, le strofino, ma altre righe di lacrime mi bagnano le guance, versano il pianto che ho trattenuto per tutti questi anni trascorsi solo a nascondere il mio dolore, e schiariscono la vista affacciata sul panorama che si staglia dall’undicesimo piano del palazzo. Fronteggio le strade buie di Berlino Est, le luci bianche e rosse gettate dalla Torre della Televisione che si eleva fino a bucare il cielo, quelle provenienti dalle cellette degli altri Plattenbau che occupano il quartiere, e anche quelle che arrivano dall’orizzonte, da Berlino Ovest, al di là dei riflettori proiettati nella zona del Muro.

È notte fonda ma Natalia non è ancora tornata, ed è l’unico pensiero che mi rasserena. Non potrei mai farmi vedere in lacrime da lei, ma il silenzio dell’appartamento non mi è mai sembrato così duro e pesante da sostenere. Le voci del mio passato, assopite dal tempo e da questa vita di reclusione, riemergono come mi aveva avvertito Gilbert, mi fanno ricordare che le ho solo nascoste, senza mai riuscire a cancellarle. Non ho mai ucciso i fantasmi del mio passato.

Affondo il viso sulle ginocchia piegate e mi aggrappo ai ricordi felici di quel periodo, dei miei nebulosi anni trascorsi a Londra. Quel giorno sull’autobus assieme a Feliks, io e lui fradici di pioggia ma felici, rinchiusi in quell’angolino che ci aveva isolati dal resto del mondo e che non sono più riuscito a ritrovare. Il giorno del nostro addio, l’ultimo abbraccio in Siberia, in quella terra che ci ha sia uniti che separati. L’ultima volta in cui mi sono immerso nel suo profumo, l’ultima volta in cui mi sono rintanato nel tepore delle sue braccia sottili ma forti. Le sue ultime parole che non ho mai scordato. “Io ti aspetterò anche più di per sempre, ma tu... ma tu non ti dimenticare di me.” La nostra promessa sigillata con quell’abbraccio caldo, diverso da quelli di Ivan che, per quanto freddi, riuscivano lo stesso a farmi sentire protetto.

Il ricordo di Ivan è altrettanto vivo dentro di me, si contrappone a quello di Feliks come una corrente che mi soffoca e mi trascina in direzione opposta. Ma alla fine... «Ma alla fine li ho persi entrambi.» Asciugo le palpebre, tampono gli occhi con la manica della camicia, e reggo il capo fra le mani bagnate di lacrime. Lo sguardo vacilla, le luci che chiazzano la notte fuori dalla finestra sono tante fiaccole traballanti. «Ho perso Ivan perché non ero abbastanza importante per lui, e ho perso Feliks perché l’ho allontanato in modo che non diventasse come me.»

Ritorno al giorno della nostra fuga dalla Siberia, davanti alla rabbia di Natalia, davanti alle sue parole accusatorie, “Non sei stato in grado di salvare niente di quello che eri riuscito a guadagnarti nella tua vita. Né mio fratello, né Feliks. E nemmeno te stesso.” Mi rendo conto di quanto abbia sempre avuto ragione. Non sono mai stato in grado di trattenere nulla fra le mie mani, di stringere la presa su ciò che amavo. Ho sempre lasciato scivolare via tutto, come Feliks.

La stessa morbida voce che mi ha solleticato l’udito e toccato il cuore al bancone del bar torna a cogliermi come una carezza. «Ma perché lo hai voluto allontanare da te?»

Stavolta il fantasma di Ivan rimane celato nella penombra, seduto come me sul pavimento, immerso in un’oscurità dove brilla solo il colore dei suoi occhi. Quel viola livido come un cielo siberiano in tempesta, così profondo, impenetrabile e misterioso come lui. Un’altra allucinazione, come quella evocata dall’odore della vodka appena stappata, ma questa volta mi abbandono alla sua presenza, mi lascio risucchiare dal ricordo del suo sguardo, senza alcun timore di rispondergli.

«Per proteggerlo.»

Ivan solleva un sopracciglio, volta la guancia tenendo il viso nell’angolo di penombra, e mi rivolge quello sguardo increspato dal dubbio. «O forse perché volevi punirti?»

Un singhiozzo di stupore mi fa ingoiare il fiato, un respiro amaro come le lacrime che smettono di scorrere e che traballano fra le ciglia, appannandomi la vista.

Ivan distende le gambe lungo il pavimento, dentro il fascio di luce bluastra proiettato dalla finestra, e mi si avvicina, sfiorandomi con la sua presenza fredda che profuma di vodka e neve sciolta. «È sempre stato così, Toris, anche a Londra.» Mi posa la mano sul viso. Sussulto sotto il suo tocco familiare, annego nel colore dei suoi occhi che mi guardano dentro. «Tu hai sempre cercato una maniera di punirti per essere in pace con te stesso. Prima con la droga, poi con me, e adesso con questa vita reclusa in un paese così costrittivo che non è nemmeno il tuo.» Strofina una carezza con il pollice, asciuga una mia lacrima rotolata lungo lo zigomo. «Sei scappato da Londra, sei scappato dalla Siberia, ma i tuoi fantasmi ti hanno comunque seguito, senza mai darti un attimo di pace.»

Sopprimo un altro sussulto. «Però...» Gli tocco la mano distesa sulla mia guancia. «Però io a Londra...» Un altro singhiozzo. Le labbra tremano a sfioro delle sue dita. «A Londra sentivo di poter essere felice. A volte... a volte lo ero. Lo ero sul serio. E sentivo di amare davvero Feliks.»

Ivan scuote il capo. «Eppure, lo hai cacciato via.» Sfila la mano dal mio viso, si separa dal mio tocco. «Hai cacciato via l’unica persona che avrebbe potuto renderti felice.» Mi sorride. Lo stesso sorriso amaro e consapevole che mi ha rivolto prima Gilbert. «Oppure non lo era? Forse, ti sei separato da Feliks perché hai scoperto che non era poi così importante per te.»

«N-no!» scatto. «Non...» Scuoto il capo, scaccio quell’idea. «Non è vero. Io lo amavo.» Stringo il pugno sul pavimento, il braccio trema, una scia di brividi scuote le spalle ingobbite. «Io lo amo ancora.»

«E me?» Ivan flette il capo di lato, mi scruta con uno sguardo dolce e innocuo. «Mi amavi, Toris?»

Mi lascio risucchiare da quegli occhi così vivi e reali, simili a quelli di Natalia, ma velati da una scura ombra di mistero che ho già incontrato e a cui sento di non poter mentire. «Sì.»

Ivan distende un sorriso di soddisfazione che rimane celato nel buio.

Mi allontano, struscio la schiena contro il muro, stringo l’abbraccio attorno alle gambe, e riprendo a guardare fuori dalla finestra, il mio riflesso specchiato sul vetro. «Non avrei mai voluto né dovuto innamorarmi di te. Non era giusto, sapevo di illudermi, sapevo che tu non mi amavi. Sapevo che non mi avresti mai amato.»

«Per questo eri geloso di Yao?»

Stringo i pugni, affondo le unghie nella stoffa dei pantaloni, e morsico il labbro fino a risucchiare il sapore aspro delle lacrime. Torna la stessa botta di dolore che è affondata nel mio petto quando sono entrato nella stanza e li ho visti assieme. Non riesco a rispondergli.

«Perché, Toris?» mi domanda l’ombra di Ivan. «Come poteva renderti felice il pensiero del mio amore nei tuoi confronti? Cosa potevo darti io che non ti dava già Feliks?»

Stringo ancora i denti sul labbro umido di lacrime, le braccia irrigidiscono attorno alle gambe piegate. «Uno...» La mia voce tentenna, ma alla fine riesco a confessarlo. «Uno scopo. Io mi sentivo...» Sospiro. Placo i singhiozzi che mi scuotono la voce. «Davvero importante per la prima volta. Anche se mi usavi solo per dimenticare Yao, io ero importante. Significavo qualcosa per te. Riuscivi a darmi un valore che io non sono mai riuscito a trovare da solo dentro me stesso. Per la prima volta potevo far felice qualcun altro, anche se per poco, anche se in maniera fittizia. E sapere che in realtà è sempre stato tutto inutile, perché l’unico che davvero sarebbe stato in grado di renderti felice era Yao e non io, è...» Stringo la mano al petto, mi aggrappo al mio dolore. «Mi... mi ha fatto sentire un miserabile.» Altre lacrime fioriscono dagli occhi appannati, sgorgano da quel nodo di sofferenza rimasto a stagnare nel petto per tutti questi anni. Strofino la mano lungo le guance, i singhiozzi mi scuotono, affievoliscono la voce. «Sono tornato a essere la nullità che mi sono sempre considerato.»

Ivan scivola più vicino a me e le sue braccia mi circondano, mi avvolgono in un abbraccio inaspettatamente caldo. Posa la fronte su una mia spalla, torna a trasmettermi la sensazione tiepida e umida del suo respiro sul collo. «Tu ti sei sempre sentito una nullità, vero? Dovunque tu andassi, qualsiasi cosa facessi, non eri mai abbastanza. È per quello che hai sempre cercato una maniera per punirti.» Mi stringe più forte. Rilasso i muscoli e mi abbandono. Mi aggrappo anch’io al suo corpo e chiudo gli occhi, affondo con il viso nel suo petto e sopprimo gli ultimi singhiozzi di dolore su di lui. Ivan mi carezza i capelli, li scosta dal mio viso e posa le labbra sulla mia fronte. «Hai ragione, Toris. Io stesso ero diventato la tua droga, proprio come tu eri diventato la mia.» Fa correre un’altra carezza fra i capelli e li pettina dietro l’orecchio. «Entrambi avevamo bisogno l’uno dell’altro per riempire i vuoti che la vita ci aveva lasciato, ed eravamo dipendenti l’uno dall’altro. Tu eri importante per me perché mi facevi dimenticare Yao, anche solo per poco, solo per il tempo di trovare un po’ di pace. E allo stesso tempo tu volevi che io avessi bisogno di te, perché questo colmava il senso di inadeguatezza che ti sei sempre trascinato dietro. Eri importante per me, e questo ti dava valore. Un valore che tu non sei mai riuscito a trovare in te stesso solo con le tue forze.» Il suo tocco scende, mi avvolge la guancia. Di nuovo i nostri occhi si incontrano sotto il fascio di luce blu proveniente dalla finestra. «Tu, Toris, sei semplicemente incapace di costruirti da solo la tua felicità senza dover dipendere da qualcuno.»

Mi riprendo. Le lacrime smettono di sgorgare, il cuore rallenta, il gelo mi abbandona lasciandomi avvolto solo in questa sensazione di tepore e di rinascita. «Ma esiste davvero qualcuno che ne è in grado?» Separo l’abbraccio, scivolo via da lui, mi scollo dalla sua prigionia. «Perché dovrei per forza riuscirci solo con le mie forze? Perché non potrebbe essere Feliks la persona in grado di tirarmi fuori dalla mia gabbia?» Mi porto la mano sul petto, stringo il pugno sopra il cuore. «Feliks mi ha sempre amato incondizionatamente. È stato lui che ha provato a liberarmi dalla mia prigione, è stato lui a dimostrarmi che valeva la pena continuare a vivere. Ed è per lui che posso ancora far cambiare le cose.»

Ivan socchiude le palpebre e il suo sguardo s’intristisce, come se capisse. Scuote il capo. «Non cambierà nulla, Toris. Puoi confinarti dove vuoi...» Rivolge l’indice fuori dalla finestra. «A Londra, in Unione Sovietica, in Germania Est.» Mi posa la mano sul capo. Una morbida carezza di consolazione. «Ma rimarrai sempre lo stesso. E tu lo sai.»

Una fiamma di combattività mi asciuga le lacrime dalle palpebre, mi aiuta a risollevare il capo, a trovare il coraggio di tenere lo sguardo alto, di non sentire più il peso delle catene sulle braccia e attorno al collo. «No. No, invece...» Mi rifiuto di credere di essere condannato per sempre. Mi rifiuto di credere che ormai il mio destino è segnato. «Invece le cose cambieranno.»

I tempi cambiano, le persone possono cambiare, e anch’io sono cambiato da quando sono scappato da Londra. Cercherò Feliks, lo ritroverò e non lo lascerò andare mai più, sarò io a raggiungerlo proprio come lui ha raggiunto me e mi ha salvato più di dieci anni fa. E allora nessuno di noi sarà più solo, nessuno sarà più triste. Romperò definitivamente la maledizione dei Siberian Cubs, scioglierò il filo spinato che ci tiene ancora prigionieri, e rimetterò le lancette al nostro tempo.

L’autunno fiorirà, e non sarà mai più inverno.

 

* * *

 

20 marzo 1990

 

Caro Feliks,

quanto tempo è passato dall’ultima volta in cui ci siamo visti, vero? Quasi quindici anni, ormai. Quindici anni separato da te e quindici anni lontani da Londra e da tutto quello che eravamo quando ci siamo incontrati per la prima volta.

Non so se riceverai presto questa mia lettera, non so se vorrai leggerla, non so se ormai non vorrai più avere nulla a che vedere con me e se quindi la strapperai gettandola via, ma spero che in qualche modo ti raggiunga e che ti trasmetta tutto il mio desiderio di rincontrarti, di riabbracciarti, e di chiederti scusa per tutto quello che c’è stato fra me e te, per la debolezza che ho mostrato quando ho deciso di lasciarti, e per tutti gli anni persi che avremmo potuto trascorrere assieme, costruendoci quella vita felice che tanto avevamo immaginato e sognato quando vivevamo in Inghilterra.

Tuttavia, questi anni di solitudine non sono stati vani per me. Mi hanno permesso di riflettere su tutto quello che è successo a Londra, sulle scelte che mi hanno poi intrappolato nella gabbia dei Siberian Cubs, sui sentimenti che mi tenevano legato a Ivan e ovviamente sui sentimenti che mi tenevano legato a te. Quando io e te ci siamo separati, Feliks, prima di lasciare la Siberia, ti avevo confessato che volevo proteggerti, che volevo essere in grado di darti la vita che meritavi, lontano dai pericoli, e che per questo sarebbe stato meglio starcene lontani fino a che io non avrei saputo fare ordine nella mia mente e nel mio cuore. Avevo paura di stare affianco a te perché sentivo di non meritarmelo, di non meritare te, di non meritare tutta quella felicità che sapevi donarmi anche solo sorridendomi.

In parte era vero, ma dall’altro canto esiste una seconda verità che nemmeno io ero in grado di riconoscere. Inconsciamente, Feliks, io ho sempre sperato in un ritorno di Ivan, esattamente come lo ha sperato Natalia per tutti questi anni in cui è vissuta assieme a me. È stato difficile da capire, è stato doloroso da accettare, ma purtroppo non esiste un’altra verità.

La morte di Ivan è stata improvvisa, è stata dolorosa, è stata un trauma che pensavo non avrei mai dovuto affrontare e che non pensavo si sarebbe riversato in tutta quella sofferenza che mi ha travolto.

È vero: io amavo Ivan. Era un amore diverso da quello che provavo e che continuo a provare per te, ma era autentico, e il fatto di non averlo mai pienamente realizzato mi ha reso succube di questo sentimento che tanto cercavo di nascondere persino a me stesso. Purtroppo Ivan non amava me, io per lui ero solo un rimpiazzo, un involucro vuoto da riempire con il ricordo di qualcun altro. Quando me ne sono reso conto, quando ho realizzato di essere stato usato per tutto quel tempo, e quando ho capito che i miei sentimenti non sarebbero mai potuti essere ricambiati, ho sofferto ancora di più, ho sofferto più di quello che avrei dovuto. Credevo di valere qualcosa per Ivan, credevo di stare facendo la cosa giusta nel rimanergli affianco e nell’alleviare il suo dolore, e quando mi sono reso conto che io non avrei mai potuto donargli quello che poteva dargli solo Yao, mi sono sentito di nuovo una persona inutile e insignificante, tornando a provare tutta quella bufera interiore che ho sempre cercato di placare con la droga.

Tutto questo dolore mi ha sempre reso cieco, ha fatto sì che io non mi rendessi conto che accanto a me c’eri tu. Tu che mi avresti amato incondizionatamente, a prescindere dal mio passato, a prescindere dalle mie insicurezze, a prescindere da come io vedevo me stesso. Tu mi amavi e io non me ne sono mai reso conto, accecato com’ero dai sentimenti che provavo verso Ivan.

Questi anni di isolamento mi hanno aiutato a capirlo, mi hanno aiutato a realizzare che è con te che voglio passare il resto della mia vita, che solo tu potrai restituirmi tutta la felicità che ho perso nel mio passato. E l’unica cosa che spero è che non sia troppo tardi, che tu sia disposto a perdonarmi e a darmi una seconda occasione.

Ti amo.

 

 

Tuo per sempre,

 

Toris

 

 


N.d.A.

La barzelletta che racconta Gilbert (di cui ho riportato solo la parte finale) è tratta dal film “Le vite degli altri”. Potete trovarla integralmente qui. Ma è un film talmente bello che ne consiglio comunque la visione integrale.

E col prossimo capitolo sigilliamo definitivamente la saga dei London Cubs, signori miei! Sono molto felice ma allo stesso tempo molto triste. Questa saga è durata quasi due anni interi, mi ha tenuto compagnia, mi ha fatta divertire, mi ha fatta disperare, mi ha dato occasione di migliorarmi, di confrontarmi con voi lettori, e di scrivere riguardo argomenti che ho molto a cuore, anche se non proprio leggerissimi. La prossima storia giuro che sarà tutta fatine e unicorni...

Ci becchiamo fra due settimane per salutarci come si deve. :)

   
 
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