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Autore: yonoi    26/11/2018    8 recensioni
Storia di un albero di ciliegio, di un umano randagio e di un gatto ormai giunto alla sua settima vita.
Dalla campagna alla città, il gatto Mozzicone è alle prese con la sua missione di "animale protettore". Una missione non facile: seminare nei cuori difficili degli umani una scintilla di tenerezza, di forza, di compassione.
Una storia di formazione, di strani cambiamenti che fanno sì che una ragazza si trasformi in un ragazzo, di una piccola campionessa e un’anziana signora che arrivano a perdere tutto per poi riuscire a trovare ciò che è davvero importante, e di un gatto senza coda, a cui spetterà tirare le fila di tutta la vicenda.
Prima classificata al contest "Racconti di pioggia e di luna" indetto da Wurags sul Forum di EFP e al contest "Mille e una fiaba", indetto da Emanuela.Emy79 sul Forum di EFP, a pari merito con "Anche con il mondo contro" di Molang.
Questa storia partecipa al contest "Il mio Babbo Natale segreto", indetto da Claire Roxi sul Forum di EFP.
Genere: Drammatico, Introspettivo | Stato: completa
Tipo di coppia: Nessuna
Note: nessuna | Avvertimenti: Tematiche delicate
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“Fredda più della neve
è, sui capelli bianchi,
in inverno la luna”
(Naito Joso)

  

2. Il corpo sa tutto



Fui io il primo ad accorgermi che qualcosa non andava: una sera già tardi, mentre riposavo sulla poltrona assieme alla mia umana, ho avuto la sensazione di un cambiamento improvviso.
Le ginocchia della signora erano più fredde e nodose del solito, come due rami al gelo malgrado la trapunta con cui amava scaldarsi davanti alla tivù. Sullo schermo passava uno di quei film di guerra che spingevano puntualmente la signora Venturina a cambiare canale, perché la guerra lei l’aveva vissuta da piccola e le era bastata per tutti gli anni a venire.
In quel momento, si era nel bel mezzo di una scena di combattimento, con tanto di elicotteri come cavallette dal cielo, sparatorie furibonde e fiumi di sangue ovunque. Le pallottole fischiavano forte, perché la mia padrona era dura d’orecchi e quindi il volume era tale da dare l’impressione che l’intera battaglia si stesse svolgendo proprio nel suo salotto.
Strano che la padrona non si fosse accorta di tutto quel fracasso di fucili ed elicotteri che parevano volteggiare proprio sulla sua testa. Venturina era solita addormentarsi davanti alla tivù, ma aveva il sonno leggero e bastava una réclame più vivace delle altre per ridestarla sulla poltrona con un sobbalzo. D’altra parte, anche se in quel momento aveva gli occhi chiusi e il capo reclinato, non la sentivo respirare come al solito, a fior di labbra e con la dentiera un po’ storta. Quel russare pesante che sembrava provenire da un meccanismo inceppato, non l’avevo mai sentito e mi mise in allarme.
D’istinto, lanciai un’occhiata al ritratto di Garibaldi e il consueto cipiglio mi parve ancor più torvo per la preoccupazione. Pareva addirittura che il capitano si sporgesse dalla cornice, per rendersi conto personalmente di quel che stava accadendo. Le medaglie scintillavano, accese dai bagliori della televisione. Provai a svegliare la signora Venturina facendole il solletico, strofinandole il dorso inarcato sotto il mento. Di solito, in quei casi, si destava e rideva stropicciandosi il naso, ma stavolta i miei ripetuti passaggi non sortirono alcun effetto.
La stanza era immersa nell’oscurità, rischiarata soltanto dai bagliori del teleschermo, dove un gruppo di soldati dava l’assalto a una collinetta. A una deflagrazione più forte delle altre, accompagnata da un balzo della colonna sonora, notai un particolare che mi inquietò non poco.
La bocca di Venturina era completamente storta, tirata da una parte da un sottile filo di bava. Da quel lato, le dita della mano sulla quale mi strofinavo per attirare la sua attenzione erano completamente flaccide. Mi ricordarono il manichino di plastica su cui la mia padrona, col metro intorno al collo e una manciata di spilli infilati in bocca, faceva la prova degli abiti del suo mestiere di sarta. A ottantanove anni, la signora Venturina lavorava come una ragazza, perché darsi da fare, diceva, mantiene giovane il cervello. Il suo laboratorio era sempre affollato di amiche che portavano sottane da imbastire, cappotti dei mariti con la fodera a pezzi, metri di stoffa per cucire un vestito.
Era una modalità a cui erano abituate le donne d’altri tempi, della generazione di Venturina, quando i tessuti affrontavano una serie infinita di reincarnazioni. Quando il paltò del padre passava ai figli e ai nipoti, si trasformava in sottana per qualche zia, si accorciava in minigonna per la cugina. Poi diventava toppa da cucire su qualche strappo, e terminava la propria onorata carriera come straccio per la polvere.
Impettito sul tavolo, tra scampoli e forbicioni, appunti di misure e cuscinetti puntaspilli, io seguivo i lavori e ricevevo gli omaggi delle signore. Venturina accoglieva le amiche davanti a una tazza di tè, ci si scambiava notizie sui parenti e sui vicini, chi era morto e chi si era sposato, poi si passava alle prove e io ero affascinato dai nomi di tanti tessuti così diversi: organza e lana cotta, e qui mi leccavo i baffi pensando a qualche cosa di buono da mangiare, macramè e soprattutto percalle.
Percalle mi piaceva in modo particolare: mi faceva pensare a qualcosa d’impalpabile come le nuvole in cielo, e soprattutto distoglieva la mia attenzione dal manichino, un umano di plastica che mi terrorizzava con quel sorriso fisso su cui calavano i berrettoni di lana, le stole di pelliccia, i paltò da foderare.
Come la mia padrona mi ripeteva spesso per aiutarmi a vincere la diffidenza, quel manichino dalle braccia legate col filo di ferro non era un umano vivo. Nel momento stesso in cui ricordai di queste parole, nel salotto invaso dai rumori della battaglia, ebbi un presentimento.
Non sapendo che fare, cominciai ad aggirarmi sempre più irrequieto. A un certo punto, appena percettibile sotto al trambusto degli elicotteri, riuscii a intercettare il fruscio di un portone che si apriva nel condominio di fronte. Mi fiondai con un balzo fuori dallo spiraglio di una finestra aperta, e in men che non si dica ero già a strofinarmi sui piedi della vicina, miagolando a gran voce per chiedere aiuto. 
Fu così che imparai che la vita degli umani, così preziosa e fragile, spesso viene salvata solamente dal caso.
Quella sera, le fortunate coincidenze furono due: quella finestra dimenticata aperta – eravamo in estate, ma la mia umana era sempre attenta a chiudere tutto, per paura dei ladri – e il fatto che la signora Marisa Volpicelli, colta da me in flagrante mentre usciva col sacco dell’immondizia, mi conoscesse bene, essendo una delle clienti più affezionate della padrona.
La signora Volpicelli aveva avuto ospiti a cena. Una volta terminata la maratona, si era attardata a riordinare cucina e sala da pranzo. Volpe di nome ma non di fatto, mi fece sudare le sette proverbiali pellicce prima di convincersi che da lei non volevo soltanto una carezza. I miei miagolii avevano una tonalità inconsueta, forse ero rimasto chiuso fuori di casa. Questo era già sufficiente perché la Marisa si attaccasse al campanello della nostra villetta, a suonare una prima volta, poi una seconda con maggiore convinzione e infine una terza, con un’insistenza che già cominciava a diventare ansia.
La Marisa provò a bussare. Dall’interno provenivano solamente i rumori dei combattimenti in corso, echi di sparatorie e urla da fine del mondo. Ci voleva ben altro per destare Venturina dal suo sonno di piombo, anche se io ovviamente facevo la mia parte grattando sullo stipite, a costo di lasciarci le unghie e tutte le zampe.
A quel punto, la Marisa batté in ritirata nel suo appartamento e di là si attaccò al telefono, sempre seguita da me che continuavo a venirle tra i piedi, a strofinarmi e miagolare per mantenere alto il livello di allarme. Aggrappata alla cornetta, la Marisa sbagliò più volte il numero della mia padrona per l’angustia. Quando riuscì finalmente a prendere la linea, restò a lungo in attesa senza avere risposta.
Non sapendo che pesci pigliare e soprattutto come fare a pigliarli da sola, la Marisa svegliò un’altra comare dello stesso palazzo. Di lì a breve, l’intero condominio si ritrovò convocato nella sala da pranzo in vestaglia e bigodini, a scambiarsi pareri e possibili ipotesi – ladri, malori e morti improvvise – finché non fu deciso all’unanimità che era il caso di chiamare il 113.  
Nelle ore che seguirono, a casa della padrona si scatenò uno scompiglio ben peggiore delle scene di guerra che, alla televisione, avevano ceduto il passo a un programma di televendite, dove la conduttrice strillava con più energia della mitragliatrice.
Arrivarono due in divisa che sfondarono la porta. Io entrai insieme a loro, cedendo immediatamente il comando delle operazioni e rifugiandomi sotto a una cassapanca.
I tizi in uniforme constatarono che non c’erano ladri in casa, ma solo la tivù a volume da catastrofe. In compenso la proprietaria non dava segni di vita, e qui stava la catastrofe vera e propria. Arrivò un’ambulanza e in breve tutti furono addosso a Venturina, scuotendola e chiamandola ancora più forte per nome, attaccandola a un sacco di fili strani, caricandola su una barella che schizzò fuori di casa alla velocità del fulmine. 
Da un momento all’altro, mi ritrovai solo.
In un angolo del soggiorno, la televenditrice continuava a lanciare le sue invettive.
Sullo schermo si alternavano le immagini di trapunte e materassi, che a quanto pare costituivano la materia del contendere tra quella tipa feroce e qualche telespettatore sofferente d’insonnia, sicuramente perché riposava sul materasso sbagliato. 
A un certo punto intravidi la sagoma della vicina che si affacciò a controllare l’ordine della casa, sulla testa un ombrello e un bagliore di nubi temporalesche in avvicinamento. La Marisa si guardò intorno e spense la tivù, zittì una buona volta la tipa dei materassi, poi accostò il portone che pencolava fuori dai cardini. Per la fretta di rientrare prima che cominciasse a piovere più forte, si dimenticò di me, né tornò a ricordarsene nei giorni successivi.
Trascorse un tempo che non fui in grado di misurare.
Di lì a poco, la pioggia riempì la casa con l’odore di terra bagnata del giardino: il temporale s’impigliò tra i rami del ciliegio e dovette lottare a lungo per liberarsi, finché non gli restò più una goccia da strizzare né un tuono per protestare.
Infine, restò il ticchettio delle ultime gocce che cadevano dalle foglie, lo scricchiolio di una manciata di grilli in giardino. Un paio di stelle a far capolino dal portone, che già si preparava a far entrare l’alba.  
In tarda mattinata, probabilmente contattato dalla Marisa, arrivò un falegname a sostituire la porta. Quando il nuovo uscio si chiuse, la casa precipitò in un silenzio irreale. I cucù parevano aver perso la parola, si affacciavano timidi dai loro sportellini per annunciare ore che passavano vuote.
Persino Garibaldi aveva smarrito il suo cipiglio e pareva disorientato.
Quando di lì a poco il mio personale segnale orario cominciò ad indicare, con urgenza crescente, che l’ora di colazione era trascorsa da un pezzo, mi resi conto che la vicina si era ricordata del portone sfondato, ma si era anche completamente dimenticata del gatto.
Mi decisi a fare un sopralluogo in cucina, pur sapendo il cibo era ben custodito nella credenza, nella madia e nel frigo a prova di gatto ladro. A quel punto, non mi restava che tentare una sortita dalla solita finestra, per andare a rinfrescare la memoria della Marisa.

 
******

        
A diciotto anni, il futuro Fratellone incappò in un infortunio che, superando di spinta come in un salto in lungo dubbi e perplessità, mise fine alla sua carriera di ginnasta professionista.
Il corpo sa tutto, diceva spesso il medico della palestra. Conosce i nostri malesseri, e quando si vede alle strette prende l’iniziativa e decide per noi.
Questo fu esattamente quello che capitò alla Livietta, che durante il giorno volteggiava e di notte cantava: curva sulla chitarra per sfuggire al suo stesso umore triste, alla sensazione che ormai la ginnastica fosse soltanto un peso dal quale, tutto sommato, sarebbe stato meglio liberarsi al più presto.
Fu quel suo corpo ambiguo, costantemente in bilico tra i due sessi, a scegliere al posto suo.
Aveva una sua intelligenza, il corpo della Livietta, quel fisico longilineo che scendeva a precipizio lungo un metro e ottantotto di leve lunghe, perché così si chiamano, nel mondo della ritmica, le gambe e le braccia. Più precisamente, a rompere gli indugi e dire adesso basta furono le ultime leve, le ossa del piede destro, stanche di sopportare salti e piroette che ricadevano puntualmente sopra alle loro teste. Noialtre, quaggiù, ne abbiamo fin sopra gli occhi – gli occhietti delle ossa, piccole linee d’ombra – di tutta questa fatica per arrivare chissà dove. Adesso noi incrociamo le nostre braccine di spugna e organizziamo un bello sciopero generale, altrimenti detto frattura.
Detto e fatto, lo sciopero generale incominciò in sordina con un forte dolore. Un firmamento di stelle che dal piede le arrivava dritto negli occhi, quando la Livietta atterrava dopo un volteggio oppure caricava sopra alla gamba destra per una piroetta.
La Livietta arrivò a temere il momento dell’atterraggio, e a prepararsi in anticipo alla fitta che l’avrebbe raggiunta all’istante, schizzando dalla periferia più remota in un battibaleno fino al cervello. Là esplodeva in fuochi d’artificio che cacciavano fuori scintille, tutte le luci dolorose del mondo.
All’esterno, la caviglia appariva del tutto normale. Durante la giornata svolgeva ancora il suo compito di accompagnarla a scuola, a casa e in palestra. Solo al momento degli esercizi partivano quelle fitte, brucianti e improvvise come gli scheletri che fanno ciao ciao nel tunnel dell’orrore del luna park.
All’inizio, la Livietta si ostinò ad ignorare quelle prime avvisaglie, al punto da costringere il suo corpo a gridare più forte. Il dolore cominciò a farsi sentire nelle ore di riposo e durante la notte, ma la Livietta restò fedele alla consegna di stringere i denti e proseguire l’allenamento.
La squadra si stava preparando per le qualificazioni europee, il passo successivo sarebbe stata la rappresentanza ai giochi olimpici e impegnarsi al massimo era la parola d’ordine del momento.
Finché un giorno la Livietta si svegliò con i muscoli talmente contratti da non riuscire ad alzarsi. Saltò le lezioni a scuola ma si presentò ugualmente in palestra, zoppicando. La signora Morais la intercettò in spogliatoio, e pochi minuti dopo la Livietta era consegnata in infermeria, stesa sulla barella mentre il medico sportivo ispezionava quella che, fino al giorno prima, era stata una caviglia e adesso aveva tutta l’aria di una salsiccia insaccata male.
Il medico dello sport pareva una di quelle statuette del Buddha felice che s’incontrano nei ristoranti cinesi. Sorriso a salvadanaio, la pancia a quattro pieghe e altre due pieghe sotto il mento, in mezzo una cravatta coi disegni di Paperino. Paperino arrabbiato e col berretto in aria, innamorato coi cuoricini sopra alla testa, alla guida di un’auto da cui volavano via i pezzi, e forse questa era l’unica immagine che sembrava di malaugurio, date le circostanze.
Il dottor Luong, esperto di agopuntura, massaggi e arte orientale, era un recente acquisto della società sportiva. Appena arrivato, aveva attrezzato l’ambulatorio con paraventi di draghi, pagode fiorite e tutto ciò che gli suggeriva la nostalgia per il suo paese, che non era la Cina bensì la Cambogia. La Livietta l’aveva incontrato solamente una volta, in occasione dell’annuale visita di routine:
“Gli uomini al turno dopo,” aveva detto Luong quando l’aveva vista entrare, con i capelli a coda stretta dietro alla testa e la tuta da ginnastica informe sopra al torace. “Ora è il turno di visita delle ginnaste.”
Aveva sottolineato queste parole con un forte cenno del capo, dopo di che s’era levato a guardare dritta in faccia la Livietta Seriani, che lo sovrastava quaranta centimetri più in alto.
“Io sono una ginnasta,” aveva precisato la Livietta senza scomporsi. Malgrado tutto, aveva provato subito simpatia per quell’omino grassoccio che pareva disegnato tutto con il compasso, due sfere anche le mani e il sorriso circolare da un orecchio all’altro.
Gli occhi del dottor Luong, due fessure tra sopracciglia ancora una volta rotonde, si erano raddrizzati per la sorpresa. Le sopracciglia, a momenti, gli sfuggivano dalla testa.
Anima lunga,” così aveva ribattezzato da quel momento in poi la Livietta, “io mi scuso ma in questo Paese è tutto così grande, persino le ginnaste, che devo ancora farci l’abitudine.”
Quel giorno, mentre le esaminava la caviglia con due rughe a perpendicolo sulla fronte, il dottor Luong pareva addirittura più sferico per la concentrazione. Particolare allarmante, non sorrideva affatto, ed era la prima volta da quando la Livietta lo conosceva. Persino Paperino a bordo del suo macinino esibiva un cipiglio che non prometteva nulla di buono. 
“Secondo me si tratta di un semplice strappo.” La Livietta cercava di orientarsi in mezzo alle costellazioni di stelle che le riempivano gli occhi a ogni movimento, a ogni torsione a cui era costretta durante la visita. “Forse un po’ più doloroso del solito.”
“Questa, secondo me, è una bella frattura da stress,” replicò Luong, e le rughe sulla fronte divennero tre. “Bella per modo di dire. Vedremo le radiografie.”
La Livietta sentì il resto delle ossa andarle in pezzi, solamente all’idea.
“Ma io non sono caduta, e non ho fatto nessun movimento scorretto.”
In realtà, sapeva benissimo che una frattura da stress – quanto di peggio possa capitare a un atleta – è dovuta a un accumulo di sollecitazioni che alla lunga compromettono l’osso. Come continuare a saltare su un ramoscello teso alle due estremità, fino a che non si spezza. Le ossa accusano il colpo, ne accusano parecchi poi alla fine si scocciano, e iniziano a inviare alla centrale operativa segnali di allarmi: Houston, abbiamo un problema.     
Il cervello registra e fa presente il fatto a chi di dovere. Ma poiché solitamente il legittimo proprietario continua ad allenarsi, tocca urlare più forte.
La caviglia del futuro Fratellone gridava a pieni polmoni – quei piccoli polmoni di spugna che hanno anche le ossa – e le piccole urla saltarono fuori precise da una serie di radiografie, da cui risultò anzitutto che le fratture erano tre. Una a carico del malleolo, l’ultimo avamposto dell’osso della tibia, capace di strillare acuti da tenore quando per distrazione si prende contro a uno spigolo. Altre due incrinature riguardavano sempre la tibia, che dal tanto gridare aveva ormai smarrito la voce.  
Le prospettive per il futuro immediato furono elencate meticolosamente dal dottor Luong, che per il dispiacere s’era fatto spuntare altre tre rughe in fronte – e di spazio ce n’era, perché era calvo e lustro come il Buddha cinese. Intervento ortopedico per rattoppare i pezzi con opportuni mezzi di sintesi – viti e placche metalliche, come se si trattasse di rimettere insieme l’auto di Paperino – di seguito gesso, stampelle e fisioterapia.
Tradotto in linguaggio ginnico: addio alle qualificazioni europee, e per quanto riguardava le Olimpiadi arrivederci alle prossime. Ammesso di riuscire a realizzare nel frattempo quella perfetta combinazione tra talento e preparazione che è un puro stato di grazia, che capita soltanto una volta nella vita e non è detto neppure che capiti a tutte.
        

 
******

 
Ricoverata in clinica in attesa dell’intervento, la Livietta sprofondò nell’apatia più totale.
Si sottopose alla trafila preparatoria, altre radiografie in varie proiezioni, elettrocardiogramma ed esami del sangue, visita dell’ortopedico e dell’anestesista. Firmò tutti i consensi senza neanche guardare e rifiutò ogni offerta di solidarietà e amicizia da parte della vecchietta che le era capitata come compagna di stanza, voltandosi semplicemente dall’altra parte.
Finì in sala due volte, perché dopo il primo intervento tentò di alzarsi rimediando una caduta rovinosa. Dopo quella bravata si ritrovò alla caviglia, in luogo di un semplice gesso, uno spaventoso apparecchio detto fissatore esterno: una gabbia di ferri che spuntavano dalla carne e si connettevano ad altri, attraverso un complicato meccanismi di viti e rotelle.
Sprofondando a tratti nei sogni saturi di colore degli antidolorifici, la Livietta trascorreva intere giornate a osservare quella complessa architettura che spuntava dalla sua gamba e che le suggeriva l’idea di una città in miniatura, con gli svincoli delle strade e i sottopassaggi. Una città sconosciuta, in cui lei non riusciva affatto a orientarsi. Del resto, non riusciva neppure a riconoscere come sua quella gamba col piede lungo e magro e il ginocchio forte da uomo.
Passò in rassegna le sue membra a una a una, constatando il fallimento pressoché assoluto della terapia ormonale seguita fino ad allora. Soltanto i peli avevano smesso di crescere come fili di ferro. La pelle era liscia e morbida ma i fianchi non si erano per nulla arrotondati, nulla era spuntato al centro del petto e quando riuscì a raggiungere il bagno in carrozzina, le venne incontro un volto che ben poteva essere un volto di donna, a patto di guardarlo senza far caso al resto.
Immobile davanti allo specchio, la Livietta si osservò a lungo in cerca di un barlume di femminilità sicura, ma non trovò proprio nulla.
I capelli divennero lucidi sotto ai colpi di spazzola, sul naso c’era una spruzzata di lentiggini della stessa tinta ramata, le sopracciglia erano alla giusta distanza. Tutto il volto era così regolare e simmetrico che poteva essere di chiunque, di un ragazzo o di una ragazza.
Se poi si voleva dare l’ultima parola al corpo, allora l’atleta Seriani era un uomo senza ombra di dubbio. Senza possibilità di equivoci e soprattutto senza speranza.
Il corpo sa tutto. Quella frase che il dottor Luong amava ripetere, conteneva evidentemente un nocciolo di verità.
Alla Livietta non restò altro che arrendersi. Da quel momento si chiuse in un mutismo assoluto, che era delusione, rabbia, intontimento dovuto ai farmaci, ma soprattutto l’incognita di non saper più cosa fare di se stessa.
 Durante le visite, lasciava scivolare senza nessuna reazione i discorsi dei suoi. Il padre ex nuotatore e la madre ex campionessa di atletica la incalzavano ogni giorno, con già in mente un percorso di riabilitazione coi fiocchi, che l’avrebbe condotta a recuperare il terreno e addirittura a far meglio.
Nel giro di un paio di mesi, grazie ai prodigi della fisioterapia in acqua – il padre l’aveva già iscritta in piscina presso un coach suo amico – si sarebbe ritrovata a volteggiare sulla pedana con più destrezza e più forza di prima.
Le ragazze della squadra confermavano, con la beata ingenuità del loro entusiasmo.
La signora Morais si esprimeva con maggiore cautela, prevedendo tempi più lunghi. Soprattutto, era l’unica a rendersi conto del morale totalmente a terra della Livietta.
Attorno al suo letto si svolgevano ogni giorno veri e propri dibattiti in materia di sport, prestazioni e infortuni a cui partecipava anche qualche infermiera che entrava nella stanza col carrello di terapia, l’ortopedico di turno impegnato nel giro visite, persino l’inserviente che passava col mocio e che nel tempo libero correva da dilettante. Tutti esprimevano il loro parere, compreso il femore Poggi, la signora del letto a fianco che era sola al mondo, non riceveva mai visite ed era felice di ritrovarsi in camera tutta quella gente.
Chi invece non era minimamente interessata all’esito del dibattito era proprio Anima Lunga. La Livietta continuava a trascorrere le giornate con gli occhi fissi al cielo fuori dalla finestra, oppure chiusi in un sonno reale o simulato.
            
  
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