Poem
of the fall
*
I will lay down with you."
-J. Cortazar
Il wiskey
incendiario, lungo la mia gola, bruciava come fuoco vivo.
Non mi
piaceva, non ci ero abituato, non ne avevo voglia, ma assecondavo un
bisogno non mio, un bisogno del solo mio corpo, di perdere il
controllo di me stesso; la necessità di ridurmi al mio
peggio,
perché non avessi mai desiderio alcuno di ricordare quella
sera.
Le
mani di Sirius erano sulle mie spalle, e la testa poggiava tra le mie
scapole, quasi fossi un'immagine votiva a cui egli si stesse
appellando con tutta la sua forza. Strinse la presa più
forte, fin
dove sapeva potevo sopportare ed oltre, perché se esisteva
al mondo
qualcuno a conoscenza di quanto dolore avrei potuto sopportare prima
di soccombere, quello era Sirius.
“Io non lo so, Remus” disse,
la voce resa ovattata dal contatto con la stoffa del mio cardigan.
“Io davvero, non lo so.”
Non sapevo cosa non sapesse, così
come non lo sapeva lui. Non avevo saputo spiegarlo a parole, men che
meno con l'ausilio dei fatti, e non v'era motivo perché lui
avesse
voglia di continuare, eppure era lì. Ancora con me. Contro
di me.
Con me, nel modo più intimo che ci eravamo concessi in
quattordici
anni.
“Non lo so nemmeno io, Sirius” biascicai, frenando
le
mie mani dal sovrapporsi alle sue, che adesso avevano allentato la
presa ma che non accennavano, neanche per un vago secondo, ad
interrompere il contatto con il mio corpo, “ma il non sapere,
in
casi come questo, è la cosa migliore. E' la cosa
giusta.”
Non
so se lo credessi davvero, o se qualcosa, forse l'alcool, forse la
mia coscienza ormai lacera che traeva forza da qualche sporadico
spasmo di vita, mi spingesse a ripetermi che quel che stavo
imponendomi, fosse giusto.
Non volevo altro che Sirius.
Era la
cosa, il bisogno più semplice di quel mondo così
contorto,
articolato, complicato, in cui entrambi ci eravamo ritrovati a
vivere.
Un bisogno elementare, un bisogno d'amore, di annegare
nella vita,
che era forse più illecito che il bisogno di strapparne una
in
pezzi.
Erano giorni bui, in cui l'amore era un bene prezioso, e la
morte moneta di scambio, eppure lui, l'uomo che mai avrebbe dovuto
aggrapparsi alla vita così come aveva fatto, aveva reso uno
spiraglio di speranza la sua ragione d'esistere.
“Tu non lo
credi, Remus” disse, e improvvisamente lasciò la
presa, e mi
costrinse a voltarmi, perché non volevo altro che mi
lasciasse
andare, ma nel momento stesso in cui l'aveva fatto, mi ero sentito
mancare la terra sotto i piedi. “Ma dopotutto, non credi
più in
niente.”
Mi colpì, più forte di uno schiaffo in piena
faccia. Posai il bicchiere, vuoto.
Mi vennero in mente così tanti momenti, di una giovinezza
che sembrava non appartenermi più, in cui le stesse
identiche parole
erano state usate contro di me, da molteplici volti, molteplici voci,
così tante che neanche più una sola manteneva una
precisa
identità.
Quando dentro sei un mostro, il tuo involucro umano non
prova niente. Non sente niente.
Non crede in niente.
Lo guardai
e rimasi impietrito, sul posto, come se le suole delle mie scarpe si
fossero tramutate improvvisamente in pietra contro il pavimento di
assi marce.
Sirius stava piangendo.
Lo avevo visto sull'orlo
delle lacrime, in passato. Lo avevo visto sull'orlo di tante cose, in
bilico sul precipizio di innumerabili burroni, ad un passo dal
cadere, ma tenendosi sempre in piedi, uno nel vuoto, l'altro sulla
terra scivolosa, ma sempre in equilibrio.
Ora, era totalmente
sopraffatto: era caduto in ognuno di quei crepacci, urtandone le
pareti, trovandone il fondo ferito, martoriato, ridotto in pezzi, ma
vivo.
“E'
stato un bacio, Sirius” soffiai fuori, con un effluvio di
voce
simile a un soffio di brezza evanescente, impalpabile. Non sapevo
più
cosa aggiungere, così mi ripetei, sentendomi stupido,
“un
bacio.”
Lui congiunse le mani, e si strofinò il mento,
chiudendo gli occhi. Si morse le labbra, prima di parlare, e non
potei reprimere un sorriso, perché era solito farlo spesso,
quando
eravamo ragazzi.
Era sempre pronto a dire qualcosa di inopportuno
nelle situazioni più delicate, da giovane, e pur di
risparmiarsi le
mie gomitate nelle costole, si era imposto quel piccolo rituale. Una
fitta di nostalgico dolore mi attraverso il corpo, da capo a
piedi.
“Quindi tu vuoi dirmi, Remus John Lupin” la sua
voce
era colma di rabbia, di frustrazione a stento contenuta, “che
se ci
fosse stato chiunque altro, seduto su quella poltrona, a rivolgerti
le mie stesse, identiche parole, tu lo avresti baciato
indistintamente?”
Pensai a Dora, nel momento meno opportuno,
ovvero il secondo che seguì le sue parole.
Era innamorata di me,
lo avevo capito e me lo aveva detto. Era una ragazza bella, e mi
faceva ridere, e tanti di quegli aggettivi che vent'anni fa avrei
usato per descrivere il ragazzo che ora è l'uomo di fronte a
me.
Quella cosa mi spaventò, non mi confortò.
Dora non l'avrei
baciata. Forse mi sarei imposto di farlo, per qualche malcelato senso
di riconoscenza, ma non sarebbe mai stato qualcosa di spontaneo, di
talmente libero da sembrare qualcosa che non si è smesso di
fare da
quindici anni, ma da qualche ora appena.
Come era successo con
lui.
“Dimmi che non sono io, Remus” mi
implorò, ancora una
volta. “Ma non dirmi nemmeno che sei tu. Perché un
altro te, a
quel bacio si sarebbe sottratto.”
L'ineluttabilità di quel
fatto era su un piatto d'argento, sotto i miei occhi e sotto il mio
naso, come una pietanza prelibata a cui vorresti resistere ma di cui
non puoi fare a meno. La tentazione a cui non vorresti cedere, ma che
ti ritrovi a soddisfare, malgrado i tuoi sforzi più
impetuosi.
“Non
sono io, Sirius. E sì, sì che sei tu”
dissi così, parlando al
muro, senza guardarlo negli occhi. “Ma non posso permettermi
di
essere me, come non posso permettere a te di essere te
per me.”
Una
cosa inaspettata accadde. Sirius rise.
Ma non era una risata
forzata, intrisa di pianto o rabbiosa impotenza. Era in qualche modo
la risata cristallina e liberatoria di qualcuno che non ti ha appena
sputato addosso tutte le verità su te stesso che avresti
voluto
mantenere celate, ma quella di chi è abituato a ridere, e a
farlo
sempre, tutti i giorni, ogni momento.
“Ora si che sei tu, Remus”
disse, in un bisbiglio, fra le risate. “Solo tu potresti
esprimere
una cosa così semplice con una frase così
ingarbugliata.”
Non
riuscii a frenarmi.
Risi anch'io, nonostante una parte di me
volesse, ancora ancora e ancora, e l'altra cercasse di soffocarsi con
tutta la forza che aveva. Gli permisi, abbassando così la
guardia,
di avvicinarsi, senza la forza di spingerlo via, questa volta. Lui
posò la fronte contro la mia, così vicino che il
suo respiro
solleticava le mie labbra, e sentii il riverbero salato delle sue
lacrime sulla lingua.
Volevo baciarlo. Baciare ogni singola
lacrima e cibarmene dalla fonte cristallina dei suoi occhi, per
costringerlo a smetterla, a fermarsi, a non versarne più,
non per
me. Volevo perdere attimi di respiro che non avrei mai riavuto
indietro, fino a farmi girare la testa, fino a vedere il contorno di
ogni cosa sfumare alla vista.
Volevo.
“E'
la paura, Sirius” la verità, quella reale, non
quella impostami da
altri che dal mio cuore, scivolò dalle mie labbra senza
più
impedimenti. “La paura è più forte di
qualsiasi cosa io
provi.”
Sirius mi prese il viso tra le mani, accarezzando la
pelle logora del mio collo con una, e sfiorando le mia labbra con
l'altra. Lo imitai, senza più riuscire a tenere le mani
lontane
dalla sua pelle fredda, quasi fosse il mio tocco a riscaldarlo, e non
avesse calore alcuno, nel suo corpo.
“Di cosa hai paura, Remus?”
chiese, con la semplicità di chi non sta vivendo una guerra,
ma il
più lungo periodo di pace da che mente ricordi.
“Cosa ti spaventa
a tal punto?”
Trovai il coraggio di guardarlo negli occhi,
nell'esatto momento in cui vidi, chiaramente, palesarsi la risposta
nei suoi.
“Perderti” le mie labbra scandirono, ma non udii la
mia voce proferire alcunché. Non ce ne fu bisogno.
“Di perderti, e
non riuscire a seguirti.”
Sirius non mi baciò, quando mi
aspettai che lo avrebbe fatto. Non mi strinse a sé, e non
approfittò
della mia debolezza per spingermi in qualcosa che dopo mi avrebbe
costretto a non poter sopportare ulteriormente la sua presenza.
Da
giovani sarebbe stato diverso.
Da giovani eravamo così consci
della reciproca voglia di noi, che non esisteva altro modo, per
ritrovare la pace, che unire le nostre labbra in un abbraccio di
amore che sapeva di scuse, di mi
dispiace,
di non
lo farò mai più mai
pronunciati, per orgoglio o per rabbia.
Ci bastavano le mani
intrecciate, le nostre bocche sui nostri corpi, essere lui dentro di
me e io dentro di lui. Ci bastava saperci pronti ad esserci sempre,
l'uno per l'altro, nonostante tutto.
Ora però non era con
cupidigia che mi accarezzava, né secondi fini aveva il suo
sguardo,
dove leggevo amore, amore dei più puri, dei più
limpidi, di quelli
che sin da piccolo credevo non avrei mai meritato davvero.
“Sei
uno stronzo, Remus Lupin” rise appena, ancora, e le unghie
premettero appena nelle mie labbra, e una goccia cremisi
sgorgò da
esse, “sei uno stronzo,
se pensi che andrò mai da qualche parte senza portarti con
me.”
Stavolta non misi freni alla mia voglia di ridere con lui,
e per lui. Improvvisamente sembrò che il crescendo di
emozioni che
ci aveva portati a ridere così, i volti dell'uno
così devotamente
tra le mani dell'altro, non avesse mai avuto luogo.
Avevamo una
voglia tale di baciarci ma nessuno di noi due, dopo non aver bramato
altro per minuti lunghi ore, aveva il coraggio di fare la prima
mossa.
C'era qualcos'altro, in bilico, tra noi. Qualcosa di
fragile, come piume di cristallo: delicato come le rastremature di un
fiocco di neve che tocca terra.
Sapevo che quel che aveva detto
era vero. E sapevo quale fosse il lato oscuro di quella medaglia
postasi, nostro malgrado, tra noi.
Vi era egoismo, nei nostri
reciproci desideri. L'egoismo di volerci strappare l'un l'altro a una
lunga, possibile esistenza, ma l'uno senza la presenza dell'altro
accanto a sé. L'egoismo del non reputare una causa giusta
come
quella del nostro mondo al di sopra del nostro amore; l'egoismo,
infine, del non reputarci capaci, abbastanza coraggiosi, di tollerare
la mancanza dell'altro su questa terra.
Non la distanza, non il
silenzio, ma la morte.
“Nonostante
tutto, Sirius” dissi così, finalmente, e furono le
mie di lacrime,
a suggellare quel patto. “Ogni cosa.”
Sirius smise di piangere
nell'esatto momento in cui io mi lasciai andare ad un pianto
liberatorio, felice, colmo di una felicità che non avrei
saputo
quantificare secondo stime conosciute dalla mente dell'uomo. Non
temevo dolore, non temevo rimpianti, non temevo un ritorno al passato
che mi avrebbe tormentato ancora e ancora, fino ad uccidermi e a
lasciarmi solo, senza vita, a chiedermi cosa sarebbe successo se
avessi dato voce al mio cuore senza rinchiudermi in un gelido e
più
giusto, più giusto per me, per Sirius, per chiunque,
silenzio.
Le
sue lacrime divennero le mie e, finalmente, fui io a trovare la
forza, l'ossigeno, per tornare a respirare; a riappropriarmi della
sua bocca con le mie labbra.
Fu il nostro penultimo
bacio.
Forse il più bello.
Aspettiamo di sfiorare il fondo
di questo abisso scuro, senza fine, ora. La sua mano è
stretta nella
mia, mentre cadiamo, e c'è luce abbastanza perché
io possa scorgere
il suo viso e lui il mio.
Siamo caduti.
Cadiamo.
Continuiamo
a cadere all'infinito.
Cadiamo, ma posso vederlo e lui vede me.
Stringendoci più forte, avremmo la forza per un altro bacio.
Forse
l'ultimo. Ed è una consapevolezza talmente bella che
potremmo
continuare a cadere per sempre, nella coscienza di essa.
C'è
misericordia, al di là del velo.
Ci siamo noi, insieme.
*