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Autore: Adeia Di Elferas    27/11/2018    1 recensioni
Caterina Sforza, nota come la Leonessa di Romagna, venne alla luce a Milano, nel 1463. Si distinse fin da bambina per la sua propensione al comando e alle armi, dando prova di grande prontezza di spirito e di indomito coraggio.
Bella, istruita, intelligente, abile politica e fiera guerriera, Caterina passò alla storia non solo come grande donna, ma anche come madre di Giovanni dalle Bande Nere.
La sua vita fu così mirabolante e piena di azione che ella stessa - a quanto pare - sul letto di morte confessò ad un frate: "Se io potessi scrivere tutto, farei stupire il mondo..."
[STORIA NON ANCORA REVISIONATA]
Genere: Drammatico, Generale, Guerra | Stato: in corso
Tipo di coppia: Nessuna
Note: nessuna | Avvertimenti: Contenuti forti, Tematiche delicate, Violenza | Contesto: Rinascimento
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Quella mattina Forlì era stata accesa per lo spazio di un paio d'ore da una cerimonia abbastanza rapida e silenziosa, che, però, aveva lasciato il suo segno.

Anche se la Contessa avrebbe preferito mantenere il più possibile il riservo, su quell'iniziativa, alla fine Luffo Numai l'aveva convinta di lasciare che se ne parlasse, in modo, soprattutto, da convincere maggiormente il papa delle sue buone intenzioni.

Aveva rilasciato dieci prigionieri, come il Cardinale Raffaele Sansoni Riario le aveva suggerito di fare, anche se alla fine aveva scelto dei delinquentelli comuni, di quelli che erano rinchiusi per piccoli furti o per reati di poco conto. Insomma, non era certo il genere di prigioniero a cui si riferiva il prelato, ma la Sforza non poteva fare più di così. L'importante, cercava di convincersi, era il gesto, non la sostanza.

Cesare aveva patrocinato la cerimonia di liberazione con la stessa pedante solennità di un Arcivescovo d'esperienza e dopo poco tutti i curiosi accorsi erano tornati alle loro occupazioni, felici di aver qualcosa di cui chiacchierare.

Tornata alla rocca, Caterina aveva ceduto alla richiesta di Sforzino – avanzata per interposta persona da Bianca – di seguire una delle sue lezioni. Era da tempo, in effetti, che la donna accantonava in modo plateale l'ultimo figlio nato dal suo matrimonio con Girolamo.

Così, in parte contenta di avere quel pretesto per sottrarsi alla nebbia che stava salendo sulla città, si chiuse nella sala delle lettura assieme a Sforzino, al suo precettore e a Bianca, che aveva voluto presenziare a tutti i costi. La madre non aveva chiesto spiegazioni, e la ragazza era stata felice di non doverne dare.

Non avrebbe saputo come dirle che voleva esserci al solo scopo di arginare qualche suo eventuale scatto di rabbia. Non vedeva motivi, per cui sua madre dovesse irritarsi con Sforzino, ma non si poteva mai sapere. Suo fratello aveva undici anni e mezzo, ma era sensibile come un bambino molto più piccolo. Bianca, per quanto fosse in suo potere, voleva cercare di fargli da scudo, se necessario.

Tuttavia, fin da subito, fu chiaro a tutti i presenti, eccezion fatta per Sforzino, che, teso, non osava nemmeno guardare la madre, quanto la Tigre fosse assorta nei suoi pensieri e quasi del tutto estraniata da quello che capitava davanti.

“Questa frase la si può tradurre nel seguente modo: beati i miti, perché erediteranno la Terra.” stava dicendo il ragazzino, immerso in un'analisi teologica che comportava anche la traduzione di lunghi stralci di Bibbia e Vangelo dal latino: “Il che sta a significare che...”

“Beati i miti perché erediteranno la Terra...” borbottò tra sé Caterina, ripensando involontariamente sia alla liberazione dei prigionieri di quel giorno, sia a tutti quei prigionieri che, invece, negli anni, erano incappati nella durezza della sua giustizia.

Sforzino aveva smesso di parlare, ma poi, quando la Contessa non fece seguire altro a quelle parole, il precettore lo invitò a continuare. Così il Riario, rosso in viso e un po' più impacciato, riprese la sua dissertazione, fino a terminare con considerazioni che il suo insegnante etichettò come 'incredibilmente profonde per un allievo della vostra età'.

La Sforza accolse quasi con sollievo la fine della lezione. Si complimentò con il figlio, che, sorpreso dalle sue parole di apprezzamento, chinò il capo in modo tanto goffo da far accendere un sorriso sul volto della sorella e del maestro.

Appena Bianca e Sforzino lasciarono la sala, la Tigre venne avvicinata dal precettore, che, con serietà, le disse: “Vostro figlio ha un autentico talento per la teologia. E anche per il latino. Io credo che dovreste...”

“Fare anche di lui un alto prelato della Chiesa, come suo fratello Cesare?” lo anticipò Caterina, che pur sapeva che quella soluzione sarebbe stata in assoluto la migliore per Sforzino: “Non vi pare sia prematuro?”

L'insegnante, scontrandosi con il tono anche troppo secco della sua signora, preferì abbandonare il discorso e si congedò, prima di lasciarsi trascinare e finire ad alzare la voce. Aveva seguito Sforzino per anni e in un certo senso sentiva di averlo cresciuto più lui della Tigre. Confidava nell'intelligenza della Contessa e nella sua capacità di raziocinio, tuttavia sentiva che il suo giovane pupillo stava in qualche modo perdendo tempo, in quella rocca piena di soldati. Se solo avesse potuto andare a Roma, viaggiare, aprirsi la mente, avrebbe potuto fare una carriera sfolgorante e rapidissima.

“Ma come tutti sappiamo – borbottò tra sé il precettore, in corridoio – ubi maior...”

 

Ottaviano Manfredi allungò un po' le gambe per stirarsi i muscoli. Se c'era una cosa che detestava più della fatica, era passare un'intera giornata a non fare nulla.

Da quando era arrivato al campo di Paolo Vitelli, il massimo che gli era stato richiesto di fare era stato presenziare a una riunione di comandanti e vegetare nel proprio padiglione o attorno al fuoco comune la sera.

Se il clima fosse stato più clemente, forse, avrebbe potuto sfruttare la scusa del monitorare la situazione facendo qualche cavalcata fuori dall'accampamento, ma la nebbia gelida che si alzava tutte le mattine e la pioggia fine e insidiosa che si presentava quasi ogni sera lo avevano fatto desistere.

Alzandosi con uno sbadiglio, l'uomo si sistemò il giubbone, si passò una mano sul viso, scoprendo la barba più lunga di quanto non credesse, e, più per abitudine che non per necessità, prese il suo cinturone da terra e infilò la spada nel fodero. Si sentiva scioperato e senza scopo come quando era a Pisa, in fuga, quando le sue giornate procedevano nell'ozio più totale, chiuso tra quattro mura, e le notti si consumavano tra donne di strada e risse da taverna.

Per combattere la sonnolenza che lo aveva preso, uscì dalla sua tenda, lasciando il sole algido e distante di quel primo pomeriggio gli facesse stringere un po' le palpebre e poi si mise a vagare. In virtù del suo nome e del suo grado, nessuno osava chiedergli che cosa stesse facendo o dove fosse diretto. Tutti lo riconoscevano facilmente per via dei suoi lunghi capelli biondi e per il suo portamento. C'era addirittura chi diceva che il suo aspetto fosse da principe, e non da esule.

Che fosse vero o meno, Ottaviano non avrebbe saputo dirlo. A lui sarebbe bastato tornare a essere padrone delle sue terre, non aspirava a diventare nulla di più.

Stava passando accanto ai padiglioni di alcuni soldati sforzeschi, quando, casualmente, sentì nominare Giovanni da Casale. Quell'accenno gli colpì le orecchie come una pugnalata. Senza dare nell'occhio, rallentò il passo e si mise meglio in ascolto.

“Sì, dovrebbe arrivare a Castrocaro, sempre che non sia già lì.” stava dicendo uno: “Il Duca lo tratta come un figlio. Non c'è da stupirsi che lo abbia mandato in una delle zone più tranquille.”

“Come un figlio da mettere in mostra.” fece un altro, ridacchiando: “Avrete sentito, no, del torneo a cui l'ha fatto partecipare?”

“Era più che altro una serie di dimostrazioni di abilità cavalleresche.” lo corresse un terzo, che aveva avuto modo di vedere coi propri occhi ciò che il Moro aveva fatto solo qualche tempo addietro allo scopo ufficiale di mostrare i muscoli ai dignitari stranieri.

“E da Castrocaro che direzione dovrebbe prendere?” si intromise a quel punto Manfredi, senza riuscire a trattenersi.

Castrocaro era a un soffio da Forlì, mentre lui era bloccato lì, al campo di Vitelli, a un giorno buono di cavallo di distanza, anche ammettendo, per assurdo, di non fermarsi nemmeno una volta.

“Niente, dovrebbe rimanere lì a tenere la posizione.” rispose uno degli sforzeschi, trattenendo una risposta acida solo perché aveva riconosciuto il faentino.

Gli occhietti azzurri di Ottaviano presero a saettare a destra e a sinistra, mentre lui cercava di ragionare lucidamente. I soldati milanesi a cui si era mescolato lo osservavano in silenzio, a metà strada tra il curioso e il preoccupato.

Era risaputo che quel faentino avesse un certo fiuto per la politica, oltre che per le battaglie e tutti loro temevano, dalla reazione che aveva avuto nel sentire di Pirovano a Castrocaro lo avesse portato a qualche conclusione grave riguardo la guerra. Forse, pensarono, quello spostamento portava con sé qualche significato a loro oscuro, qualcosa che aveva fatto capire a Manfredi quanto fosse critica la loro situazione.

Quello che stava succedendo nella mente del faentino, invece, era un processo molto più complesso e doloroso di una semplice valutazione dell'andamento del conflitto bellico.

Ottaviano si era trovato a immaginare di nuovo Giovanni da Casale tra le braccia della Tigre, così come l'aveva scorto quella lontana sera in cui lei, prima di cedere e prenderlo nel buio silenzioso delle scale interne di Ravaldino, si era fatta vedere intenta a baciare Pirovano, al solo scopo di farlo cuocere a fuoco lento.

Poi risentì ancora il tepore scomodo delle lenzuola, quando vi si era infilato, la notte in cui aveva dato il cambio al milanese, che aveva appena lasciato il talamo della Sforza, avendo pure il coraggio di dirgli: “Avanti, scommetto che adesso tocca a te. Il letto è ancora caldo.”

E da quelle immagini la sua fantasia ne creava di nuove. Vedeva la sua Leonessa stesa, nuda, rischiarata dalle fiamme del camino, mentre languida accarezzava il suo amante assonnato. La poteva osservare mentre, ancora mossa dal desiderio, tornava a cercare il corpo di Giovanni da Casale e lui, approfittandone, la stringeva a sé e le sussurrava all'orecchio parole pericolose, parole d'odio per Manfredi, parole che lo stesso Duca di Milano gli aveva insegnato, al solo scopo di allontanare la Tigre da Ottaviano, di convincerla a cambiare idea su tutto, sul matrimonio di Bianca, sul piano per uccidere Astorre, sugli accordi per prendere Faenza e farne un alleato stabile di Imola e Forlì, su come gestire il suo esercito e perfino su chi portarsi a letto la sera.

“State bene?” chiese uno dei soldati, un po' spaventato dal color rosso scuro che la pelle altrimenti abbastanza chiara di Manfredi aveva preso.

“Sto benissimo.” fece quello, evitando di parlare troppo per non lasciar trapelare la sua rabbia sconfinata: “Devo andare dal comandante Vitelli.”

Ancora più certi che l'inquietudine del faentino fosse legata a una prossima disfatta in guerra, i milanesi lo lasciarono andare senza aggiungere altro, e ciascuno di loro, in cuor suo, cominciò a pensare a come svignarsela in caso di necessità o a come trovare un ingaggio al soldo dello schieramento in vantaggio.

Quando Manfredi finalmente arrivò da Vitelli, si trovò davanti un uomo nero di rabbia almeno quanto lo era lui, benché ovviamente il motivo scatenante del livore del comandante generale fosse ben diverso dalla gelosia mescolata alla paura di veder sfumare tutti i propri piani di ritorno al potere.

Paolo era seduto su uno sgabellino da campo, un gomito appoggiato al tavolinetto a tre piedi e una lettera in mano. Aveva dato il permesso al faentino di entrare senza nemmeno prendersi il disturbo di farsi dire dalla guardia chi fosse a reclamarlo.

Aveva finito di leggere la missiva con calma, borbottando tra sé, gli occhi a mezz'asta che scorrevano veloci le parole vergate dal portavoce della Signoria, e solo dopo aver ripiegato il foglio in tre, aveva prestato attenzione al suo ospite.

“Che volete, Manfredi?” chiese, secco.

Sopportava sempre meno quel giovane pieno di arroganza. Non aveva titoli, non aveva terra e, secondo lui, non aveva nemmeno tutte queste spiccate doti da guerriero di cui tutti favoleggiavano.

Aveva già lasciato una volta il suo campo senza averne il permesso, da insubordinato, cavandosela poi solo grazie alla protezione della Tigre di Forlì. Era sospettato di aver fatto uccidere Corbizzo Corbizzo e anche quella volta era stata la Sforza a prodigarsi scrivendo a destra e a manca affinché nessuno osasse incriminarlo realmente. Quando gli era stato imposto da Firenze di tornare subito al fronte, lui aveva ritardato il suo arrivo di settimane, anzi, quasi di mesi, e anche quella volta la Leonessa di Romagna gli aveva coperto le terga, facendo pesare il suo cognome e, ancora di più, l'importanza dei suoi soldati scelti.

Per Paolo Vitelli, un uomo che si faceva difendere a quel modo da una donna, già valeva meno di zero. Figurarsi, poi, un sedicente guerriero che teneva i capelli lunghi fino quasi a metà schiena e, quando il caso glielo concedeva, si agghindava con più cura di una cortigiana.

“Voglio chiedervi il permesso di lasciare il campo.” disse Ottaviano, tutto d'un fiato.

Il comandante generale si accomodò un po' sullo sgabello e lo fissò in silenzio. Il viso del faentino era rosso come il fuoco e i suoi occhi azzurri sembravano colmi d'ira.

“Come mai volete andarvene? E dove andreste?” chiese Paolo, cominciando a mettere in ordine le varie lettere che aveva sparso sul tavolinetto, fingendo che la risposta gli interessasse relativamente.

“Firenze non mi sta pagando. Non lo fa da mesi, ormai, e questa condotta è la mia unica fonte di sostentamento. Non posso più pagare i miei venti armigeri. Senza contare che al momento siamo fermi, quindi la mia assenza non vi metterebbe in difficoltà.” spiegò Manfredi, schiarendosi la voce sul finale.

Vitelli si grattò la guancia, rasata alla perfezione, come sempre, quando le battaglie gli lasciavano un po' di tempo per farsi la barba, e poi annuì seccamente. Anche lui ce l'aveva con Firenze. Lo accusavano di essere più immobile di una statua di marmo, di non sapere quello che stava facendo, di aver permesso a Guidobaldo da Montefeltro di tornarsene a casa credendo alla menzogna della malattia... E oltre a questo aveva sentito dire che Ranuccio da Marciano stava per chiedere un aumento della paga. 'Almeno pari al Vitelli', pareva avesse detto, come se il fatto che Paolo fosse il comandante generale delle truppe fiorentine non valesse nulla...

“Firenze ha la pessima abitudine di non volersi staccare dai fiorentini che essa stessa conia.” fece l'uomo, in un sussurro: “Tuttavia... Non mi avete ancora detto dove andrete, se lascerete il campo.”

Manfredi si strinse nelle spalle e confessò: “A Forlì.”

“Per quella storia dei carriaggi bloccati da Faenza?” chiese Paolo, alzandosi e facendo qualche passo per sgranchire le lunghe gambe.

Aveva trentotto anni e un fisico ancora molto prestante, peccato che bastasse qualche giorno di accidia pressoché totale per fargli sentire di nuovo il peso della sua età.

Ottaviano non aveva la minima idea di quello che il suo comandante stesse dicendo, ma provò a fare buon viso a cattivo gioco: “Esatto, mio signore.”

“E va bene.” fece allora Vitelli: “Vi concedo un permesso, ma appena torneremo a caricare i veneziani dovrete essere qui, altrimenti sarò io stesso a denunciarvi come disertore presso la Signoria.”

Manfredi non credeva alla facilità con cui aveva ottenuto il benestare di quell'uomo così rigido, per cui si inchinò e lo ringraziò chiedendo: “Quando potrò partire?”

“Lasciate trascorrere ancora qualche giorno.” fece pensoso Paolo: “Non date l'idea che la vostra partenza è improvvisa, o mi accuseranno di aver permesso a Manfredi l'esule di Faenza di tornare dalla sua donna invece di stare qui a fare la guerra.”

La risata, un po' farraginosa, dell'uomo sorprese moltissimo Ottaviano. Non l'aveva mai visto sorridere, figurarsi ridere, ma quella volta Vitelli sembrava davvero essersi ammorbidito.

Almeno finché sul suo viso non tornò la consueta ruga severa e la sua voce si fece nuovamente fredda: “Vi invito a chiedere a Firenze i vostri soldi, Manfredi, e anche a cercare di convincere la Sforza a collaborare di più. Se avessi avuto i fondi promessi dalla Signoria e una maggior collaborazione da parte di quella donna, adesso potete giurare che saremmo a banchettare nel palazzo del Doge, ridendo delle macerie rimaste di Venezia.”

Manfredi disse che non c'erano dubbi in merito, promise di fare il possibile e, ben felice di lasciarsi alle spalle quello che gli pareva un uomo sull'orlo di una crisi di nervi, tornò al suo padiglione, cominciando a immaginarsi il suo ritorno alla rocca di Ravaldino.

 

Caterina aveva passato gli ultimi due giorni a rimuginare sui suoi figli. Anche se in modo diverso, in ansia per colpa di tutti e sette e, più ragionava su come gestire la situazione, più si sentiva stretta in una morsa.

Gli affari di Stato, poi, la tormentavano come non mai. Aveva scritto più o meno a tutti quelli che credeva potessero avere una voce in capitolo per accelerare la scarcerazione di Dionigi Naldi, ma per il momento non aveva ancora ottenuto nemmeno mezza risposta. Scriveva di continuo a suo zio Ludovico e a Firenze, per metterli al corrente degli strani spostamenti che le sue vedette avevano notato sul fronte orientale. Passava in rassegna di continuo il suo esercito, controllava le riserve di cibo e quelle di armi, ricontrollava i conti, cercava di trovare agganci commerciali che le permettessero di arrivare all'estate in condizioni migliori di come non stesse affrontando l'inverno, e, non ultimo, si sforzava di ottenere un dialogo con Faenza, che si ostinava a non far passare i carriaggi diretti a Forlì.

Però, malgrado durante il giorno il suo ruolo di capo di Stato l'assorbisse quasi del tutto, quando scendeva la sera, erano di nuovo i suoi figli a riempirle la testa.

Giovannino, il più piccolo, aveva iniziato a fare qualche passo stentato. Secondo le balie era un po' presto, e non era normale che fosse più incline a camminare che non a parlare, ma Caterina non dava peso alle loro parole. Era stato chiaro fin da subito che il suo ultimo figlio preferiva l'azione alle parole e lo stava già dimostrando.

Sapere che l'eredità di suo padre fosse ancora bloccata – anche le ultime lettere di Fortunati non lasciavano speranze, anzi, sottolineavano come Lorenzo Medici si stesse preparando a una battaglia legale – era per Caterina un motivo di forte inquietudine, e pensare a come avrebbe badato a lui negli anni a venire le faceva quasi girare la testa.

Se pensava al futuro, vedeva solo guerre. Come poteva badare a un bambino tanto piccolo e contemporaneamente guidare da sola uno Stato attraverso una guerra?

Poi c'era Bernardino. Anche quel giorno l'aveva beccato intento ad azzuffarsi con alcuni ragazzini di strada. Aveva cercato di fargli capire per l'ennesima volta di smetterla, ma più lo aveva guardato in viso, più aveva capito che le sue parole gli stavano entrando in un orecchio e uscendo dall'altro.

Sforzino... Dopo quello che le aveva detto il precettore, aveva ripensato molto seriamente alla carriera ecclesiastica, per lui. Si sarebbe tolto di torno, levandosi dal pericolo costante in cui tutti loro vivevano, e avrebbe avuto modo di farsi conoscere e apprezzare.

Però, in tutta onestà, come poteva la Tigre sperare di ottenere un'altra carica per uno dei suoi figli, dopo la concessione così recente fattale dal papa? Avrebbe, come minimo, dovuto aspettare qualche anno, prima di provare a proporre Sforzino anche solo come sagrestano!

Galeazzo non le dava pensieri nel senso stretto del termine, ma l'apparente sordità del Moro alle sue velate richieste di concedergli una condotta la stava sprofondando nella disillusione. Aveva creduto di poterlo sistemare così, mandandolo a Milano a imparare davvero come fare il soldato, magari con Bernardino al seguito come scudiero, e invece il Duca non aveva nemmeno avuto il coraggio di risponderle.

Bianca, con il matrimonio con Astorre che pendeva ancora sulla sua testa come una spada di Damocle, appariva a Caterina come costantemente in pericolo. Ottaviano Manfredi, che aveva promesso di liberarla dal suo attuale marito, dava garanzie, ma fino a un certo punto, e, pur vergognandosene, la Sforza non era ancora del tutto certa che l'interesse del suo amante per sua figlia fosse puramente politico.

E poi c'erano Cesare e Ottaviano. Vederseli girare entrambi per la rocca, in quei giorni, la stava mettendo alla prova molto più di quanto non avrebbe creduto. Il primo era sempre silenzioso e mesto, ma con due occhi che, quando la guardavano, tradivano tutto l'odio e il rancore del mondo.

Il secondo, invece, era identico a Girolamo. E tanto bastava alla Leonessa per non poterlo sopportare.

Quella sera aveva mangiato poco, lo stomaco stretto da tutte queste preoccupazioni, e aveva bevuto appena due dita di vino. Si era ritirata abbastanza presto, stanca per una giornata che le era parsa interminabile. Aveva letto per una mezz'ora, senza riuscire a concentrarsi su nulla, e poi si era messa a dormire.

Forse era stato il pensare a Ottaviano appena prima di prendere sonno, o forse si trattava solo di un modo trovato dalla sua mente per sublimare tutto il suo malessere di quei giorni, ma qualunque cosa fosse, quella notte sognò il suo primo marito.

Non le capitava da un po', e, quando riuscì finalmente a svegliarsi, sottraendosi al ripetersi continuo di ciò che le aveva fatto quando era appena una bambina, si trovò fradicia di sudore, con il fiato corto e il cuore che batteva all'impazzata.

Troppo tesa per riuscire a riprendere sonno – e temendo di rivedere di nuovo Girolamo – accese qualche candela, come se scacciare il buio dalla stanza fosse il primo passo per mandare via i fantasmi del passato.

Con le mani che tremavano un po', si andò a sedere sulla scrivania. All'alba doveva mancare ancora qualche ora e non poteva certo restare lì immobile a non far nulla fino al sorgere del sole.

Così prese il necessario per scrivere. Doveva ancora mandare una lettera a Paolo Vitelli, per informarlo dell'arrivo di trecento cavalieri veneziani a Faenza. Era una notizia fresca di quel giorno e voleva farglielo presente, benché immaginasse che anche lui avesse le sue spie. E poi, già che c'era, avrebbe scritto anche al Moro, per lamentarsi della sua impassibilità dinnanzi al bisogno di Galeazzo di ottenere una condotta.

Appena prese in mano la penna, però, i ricordi di quello che aveva sognato le balenarono di nuovo nella testa, paralizzandola.

Deglutì a fatica, le dita che si aggrappavano alla piuma, mentre con l'altra mano si teneva alla scrivania.

Risentiva addosso le sue mani frettolose, il suo respiro caldo e fastidioso sul collo, il suo peso addosso, mentre la schiacciava senza vergogna né pietà contro al materasso.

Appoggiò la penna, con lentezza, cercando di normalizzare il battito del cuore, gli occhi serrati che lasciavano scivolare fuori lacrime silenziose e salate.

Le ci volle parecchio, prima di riprendersi. Prima di riuscire a scacciare anche l'ultimo sentore della presenza di Girolamo su di sé, prima di poter tornare a respirare normalmente, e non come se stesse annaspando per non annegare.

Si asciugò le guance, trovandole bollenti, e sbatté un paio di volte le palpebre, notando distrattamente come stesse già venendo chiaro. Non se n'era resa conto, ma ci aveva messo ore, prima di tornare padrona di sé.

Con un sospiro tremante, ringraziò che le fosse capitato mentre era sola. Non avrebbe sopportato che nessuno la vedesse in quello stato.

Con un paio di colpi di tosse, il naso gonfio per il pianto e le mani non ancora del tutto salde, prese il primo foglio e lo indirizzò a Vitelli. Scrisse una missiva stringata e precisa, informandolo esclusivamente di quanto accaduto, senza perdersi in consigli o rimproveri per la sua immobilità.

Poi, dopo un solo momento di indecisione, prese una altro foglio e questa volta iniziò la lettera rivolgendosi a suo zio Ludovico.

Con un respiro molto fondo, intinse la punta della penna e scrisse ciò che le rigirava nell'animo anche da troppo tempo: 'A Geleazzo mio fìolo scio la Ec. V. per essere gravata de molte altre spexe più necessarie, non poteria fare quello serria il suo bono animo verso nuj tutti. Luj non ha a vivere de altro exercitio che de questo. La Ex. V. sia contenta che io li possa dare qualche principio, quale poteria essere hora de natura che non li mancharia mai puoi in vita sua. Io non riguardo lo exemplo de altri, ma bene dico che siandoce deli altri, lo essere deli quali importa più che el mio, che habiano deli fìoli da ogni parte al soldo, non me pare che a me, che per essere donna et per ogni altro conto sum de minore importantia, debia essere denegato potere avire il medesmo in beneficio del nominato mio fìolo.'

“Saranno i miti a ereditare la Terra – disse tra sé, terminando la missiva con le solite frasi di prammatica – ma affinché possano farlo, deve esserci pur qualcuno che morda e combatta al posto loro.”

 

 
 
   
 
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