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Autore: Crilu_98    30/11/2018    1 recensioni
La fame ed il freddo invernale non sono nemici che l'uomo possa sconfiggere da solo. Ma il prezzo che gli dei chiedono in cambio della salvezza è molto alto: i nati di quella primavera maledetta saranno tutti consacrati a Mamerte, sanguinario e crudele dio della guerra.
Tra di loro, Sattias è il più gracile, il meno abile, per nulla carismatico; tuttavia, quando giunge il momento di partire verso la terra che è stata loro promessa, è lui che il picchio di Mamerte sceglie come guida.
In un viaggio pieno di pericoli, profezie ed incontri inaspettati, Sattias dovrà ricorrere a tutta la sua astuzia per tenere al sicuro le persone che ama: perché nel loro mondo ci sono poche certezze, ma una di queste è che gli dei non ripongono mai la loro fiducia nell'uomo sbagliato.
Genere: Avventura, Guerra, Sovrannaturale | Stato: completa
Tipo di coppia: Het
Note: nessuna | Avvertimenti: Tematiche delicate, Violenza | Contesto: Antichità, Antichità greco/romana
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Sattias alzò gli occhi quando si sentì chiamare da una voce acuta ed eccitata. Dal centro del villaggio vide un bambino bruno ed ossuto corrergli incontro, saltando le buche scavate per erigere la palizzata e schivando gli uomini al lavoro attorno a lui.
Il giovane sorrise e alzando una mano per richiamare l’attenzione dei compagni esclamò:
“Riposatevi un poco, amici: le giornate iniziano a farsi calde ed è dura lavorare sotto il sole.”
Gli uomini, quasi tutti più grandi di lui, acconsentirono con un cenno del capo e qualche breve mormorio di ringraziamento: si trattava di gente del posto, per lo più contadini e pastori che durante l’inverno avevano trovato un riparo tra le capanne del villaggio dei Piceni, la gente del picchio.
Era quello il nome con cui Sattias sentiva chiamare sé stesso e i suoi compagni e mentre le case si moltiplicavano attorno al giovane eschio, il suo popolo accoglieva uomini e donne di tutte le età. In cambio della sua ospitalità e protezione quelle famiglie decimate dai guerrieri di Diomedas – che per tutta l’estate avevano imperversato sulla regione come una piaga funesta – avevano insegnato ai sette giovani come preparare i campi per una buona semina ed offerto i loro greggi come sostentamento.
Sattias era orgoglioso di ciò che avevano costruito in poco più di otto lune e non si risparmiava alcuna fatica per apportare continue migliorie: più che per la sua forza o la sua ferocia, veniva rispettato per l’ingegno che applicava in ogni opera. A sedici anni compiuti il suo corpo era ancora minuto e gli sembrava che la vista fosse addirittura peggiorata, tanto che ormai non seguiva neanche più i suoi compagni a caccia; tuttavia, per la prima volta nella sua vita non si sentiva né inferiore né inadeguato al compito che gli era stato affidato e nei momenti più felici – come quando Laktéa gli aveva confidato di aspettare un figlio – si era addirittura spinto a ringraziare gli dei per quello che gli avevano concesso.
A volte nella sua mente risuonavano le parole della profezia fattagli da Etrilia molte lune prima: si era bagnato nel sangue di Diana quando aveva salvato Hostius dall’orso e in quello di Ikiperu il giorno in cui aveva sottratto a sua moglie la sua verginità, ma l’ultimo verso rimaneva un oscuro mistero. Come avrebbe potuto, lui solo, sconfiggere Mamerte?
Tuttavia, Sattias si sforzava di dimenticare quei presagi, cosa che gli risultava più difficile quelle sere in cui la sacerdotessa lo fissava assorta, con gli occhi accesi da una luce folle che non apparteneva al mondo dei mortali.
Martus si fermò ansante davanti a lui con un gran sorriso sul volto infantile: era un orfano che Pileius aveva scoperto a rubare nei dintorni del villaggio e Sattias si era guadagnato la sua eterna fedeltà decidendo di non punirlo e di prenderlo con sé. Sebbene avesse solo sette anni, era un abile pastore e non smarriva mai le capre che gli venivano affidate.
“Mio re!” disse, quando ebbe ripreso fiato “Hiccia è tornata!”
Sattias sentì un’ondata di sollievo e felicità invadergli il petto: Hiccia e i suoi esploratori erano partiti da quasi una luna e mezza, diretti verso il porticciolo fondato da alcuni mercanti greci su un promontorio a diversi giorni di cammino più a Nord. Si chiamava Ankón ed era una cittadina che raccoglieva ogni sorta di notizia proveniente dal mare.
Spolverandosi la tunica coperta di trucioli di legno Sattias si diresse fischiettando verso il centro del villaggio, dove intravedeva le sagome dei cavalli appena arrivati, seguito da presso dal piccolo Martus.
Hiccia fu la prima ad andargli incontro, mentre attorno a Pileius si era formato un piccolo cerchio di donne e vecchi interessati ad ascoltare le ultime novità: sebbene quei due si muovessero sempre insieme, non c’era alcun dubbio su chi fosse il più amabile e diplomatico.
“Ti trovo bene, Sattias”
“Lavorare alle nuove mura mi fa bene” commentò lui con un’alzata di spalle.
Gli occhi scuri della ragazza si incupirono:
“Temo che ci serviranno presto, forse prima di quanto tu creda. I guerrieri di Diomedas sono tornati.”
 
Ai piedi dell’eschio erano stati accesi numerosi fuochi per riscaldare gli uomini che si erano riuniti a discutere della nuova minaccia: sebbene i venti primaverili avessero già spinto le navi di Diomedas sulle loro coste, le notti erano ancora fredde.
Sattias sedeva tra le radici nodose dell’albero e spezzettava assorto i fili d’erba tra i suoi piedi mentre ascoltava le voci concitate dei suoi sudditi farsi sempre più alte. Aveva indetto quella riunione per ricevere consigli, ma iniziava a pensare che non sarebbero mai arrivati ad una soluzione: tutti erano spaventati dai nemici e consapevoli che il villaggio non avrebbe mai potuto difendersi da un loro attacco.
Lasciò vagare lo sguardo sui suoi compagni: Hostius, che cingeva protettivo le spalle di Sabidia e le accarezzava il ventre che aveva appena iniziato ad ingrossarsi, Hiccia che stava discutendo animatamente con uno dei pastori e Pileius, a braccia incrociate accanto a lei, che cercava di fermarla. Etrilia si era ritirata nel bosco vicino a pregare.
Laktéa si inginocchiò accanto a lui, stringendo i denti: come aveva immaginato la prima volta che l’aveva vista, la gravidanza non era facile per lei e Sattias era contrariato che avesse lasciato il letto.
Il suo primo figlio avrebbe visto la luce di lì a poche settimane in un clima di violenza e paura:
“Ora mi sembra di capirvi, padre” pensò il ragazzo, rievocando il viso serio ed incavato dell’uomo che era stato costretto ad abbandonarlo “Dove sarò quando mio figlio nascerà? Come farò a proteggerlo da una cosa tanto più grande di me?”
Anche sua moglie lo fissava preoccupata, stringendosi a lui come i primi giorni, quando ancora non capiva la lingua, non si fidava degli altri e Sattias era l’unico punto di riferimento in un mondo sconosciuto.
Il brusio si fece insopportabile ed il giovane si alzò in piedi in preda alla rabbia:
“Silenzio! Non serve a nulla agitarsi come lepri prese in trappola! I guerrieri di Diomedas sono ancora sulle rive del mare!”
Hiccia si fece avanti:
“Hai ragione, ma non possiamo rimanere qui ad aspettarli. Credo che siano greci, Sattias: hanno chiesto aiuto agli abitanti di Ankón e loro gliel’hanno accordato. E’ un vero e proprio esercito quello che si prepara a marciare contro di noi!”
“Per forza!” borbottò uno dei contadini a mezza bocca “Per i greci di Ankón siamo poco più che bestie da soma!”
“Non abbiamo alcuna possibilità contro Diomedas!” sibilò un altro, a voce più alta “Vuole vendetta per la morte di suo figlio: spazzerà via ogni resistenza pur di arrivare al re! E noi saremo fatti tutti schiavi! Dobbiamo fuggire!”
“E abbandonare ciò che abbiamo costruito con tanti sacrifici?”
La voce di Hostius vibrava di sdegno ed orgoglio in egual misura.
“Mai! Noi siamo guerrieri, vecchio!”
“Ma siete in pochi. Molti di noi non sanno neanche tenere in mano una spada!”
Sattias fece un passo avanti e la folla ammutolì: alla luce del fuoco le iridi smeraldine scintillavano come fiaccole. Iniziò a parlare in tono lento e pacato:
“Alcuni di voi suggeriscono di correre ad affrontare i nemici, altri di barricarci tra queste deboli mura, altri ancora di abbandonare ogni cosa e cercare rifugio altrove, dove Diomedas e i suoi guerrieri non potranno mai arrivare. Credo che dovremmo applicare tutti e tre questi suggerimenti.”
Dopo qualche momento di sconcerto fu Hiccia a farsi avanti:
“Cosa intendi dire?”
“Le donne, i bambini e chiunque non abbia la forza o il coraggio necessario per impugnare un’arma devono allontanarsi, e in gran fretta anche: non sappiamo quanto tempo ci resta prima dell’arrivo del nemico. Anche noi abbandoneremo il villaggio, dopo averlo spogliato di ogni cosa: non affronteremo Diomedas qui.”
“E dove allora?”
“Sulle montagne, un territorio che non conosce e che rallenterà i cavalli. Se dobbiamo batterci, facciamo in modo di vincere: è chiaro che non abbiamo alcuna speranza in campo aperto, ma tendendogli un’imboscata dovremmo riuscire a recuperare lo svantaggio dei numeri.”
Diverse ore più tardi, quando il sole iniziò a rischiarare i rami dell’eschio, Sattias si ritirò esausto nella sua capanna: avevano discusso a lungo sui sentieri da seguire e su ciò che dovevano portare via dal villaggio, dato che coloro che non avrebbero preso parte alla guerra sarebbero partiti quella sera stessa. Trovò Laktéa rannicchiata sul letto di legno e pelli che aveva costruito per lei, scossa dai singhiozzi:
“Vai via!” ringhiò, sottraendosi al suo tocco. “Sta accadendo ciò che avevo temuto e tu non fai nulla! Nulla!”
“Sto cercando di proteggervi entrambi. Non è abbastanza?”
La ragazza voltò il viso rigato di lacrime verso di lui:
“No. Sopravvivere sarebbe abbastanza. Venire con noi e proteggere tuo figlio e vederlo crescere sarebbe abbastanza. Invece hai scelto di difendere un pugno di assi di legno!”
Sattias l’afferrò per le spalle, inchiodandola sotto il suo peso per evitare che fuggisse:
“E’ davvero questo che credi? Pensi che mi importi più di questo villaggio che di te e del bambino o del mio popolo? Tutto quello che faccio, Laktéa, lo faccio per te. Non voglio lasciarvi inermi di fronte ad un nemico impossibile da sconfiggere, voglio porre fine a questa minaccia.”
“E se morissi?”
Sattias le accarezzò la guancia con un sorriso triste:
“Allora sarebbe per una buona causa.”
 
Hostius accarezzò con riverenza il ventre della moglie, poi le lasciò un bacio tra i capelli: sapeva che sarebbe stata al sicuro, ma il dolore minacciava di spaccargli il cuore in due e l’ansia per non essere con lei a proteggerla lo pungolava costantemente.
“Non ti affaticare troppo” si raccomandò “Anche Laktéa è incinta, resta vicino a lei e non avere paura di fermarti lungo la strada se ti senti stanca.”
Lei annuì ed Hostius si sentì assalire dalla solita malinconia: Sabidia non l’avrebbe mai amato come aveva amato Sattias, o come lui l’amava. Con un ultimo gesto del capo caricò sul mulo i loro ultimi averi e fece per andarsene: molti uomini lo attendevano per l’addestramento e…
“Hostius?”
Gli occhi scuri della ragazza erano pieni di lacrime:
“Sì?”
“Tornerai a prendermi?”
In due passi era di nuovo accanto a lei e la teneva stretta, sperando che bastasse per non farle ripetere quella dannata domanda e che lui non fosse costretto a deluderla.
No, Sabidia non lo avrebbe mai amato con la passione folle e cieca dell’infanzia, ma forse avevano la possibilità di costruire qualcosa di diverso. Desiderava solo avere abbastanza tempo per scoprirlo.
 
Etrilia si estraniò dalla confusione attorno a lei, dai mormorii angosciati delle donne, dalle preghiere dei vecchi, dai lamenti dei bambini: voleva parlare con gli spiriti, ma da quando Manlios era morto tutto era diventato molto più difficile. Quando provava ad elevarsi dal mondo umano per arrivare più vicino agli dei, infatti, il dolore la colpiva al cuore come una pugnalata, facendola ripiombare al suolo come un uccello a cui avessero tarpato le ali.
“Dove siete?” chiese, tentando di non cedere al panico quando gli dei rimasero muti.
“Dove siete? Perché ci avete abbandonati?”
 
Pileius si accostò silenziosamente ad Hiccia, che scrutava il sentiero da cui sarebbero apparsi i guerrieri: i Piceni li attendevano da giorni, nascosti in mezzo alle rocce. Avevano già trovato e bruciato il villaggio e cavalcavano per tutta la valle, ma nessuno sapeva quando avrebbero deciso di inseguirli sulle montagne. Neanche Etrilia, che aveva seguito le donne, i vecchi ed i bambini nei rifugi del popolo delle capre.
“Lascia, faccio io” borbottò il ragazzo in tono brusco. “Va’ a riposare”
“Non sono stanca.”
“Non mi importa. Non voglio che tu stia qui da sola ad aspettarli!”
“Perché?”
Pileius la fissò con i suoi occhi cangianti, insondabili e tristi: per diversi istanti Hiccia pensò che non le avrebbe risposto. Poi lui le voltò le spalle, mettendosi tra lei ed il sentiero:
“Vai, Hiccia.”
“Domani a quest’ora potremmo essere carne per i vermi, perciò voglio sentire cosa hai da dirmi”
Il ragazzo emise un soffocato verso di frustrazione, ma prima che potesse risponderle qualcosa catturò la sua attenzione: molto più in basso di loro, sulla linea dell’orizzonte, era apparso uno scintillio che non aveva nulla di naturale.
“Sono qui” mormorò Hiccia “Bisogna avvertire Sattias!”
Il bacio arrivò inaspettato: Pileius la trattene per un braccio e se la strinse al petto mentre si chinava su di lei per catturare la sua bocca.
“Curioso” pensò la ragazza, stordita, saggiando la consistenza di quelle labbra, dure e fredde fuori e calde come lingue di fuoco all’interno. Quando si separarono non erano passati che pochi momenti, eppure il mondo sembrava irrimediabilmente diverso.
Pileius – i cui occhi avevano finalmente assunto un colore definito ed erano grigi come le armature dei loro nemici – si allontanò di un passo, serio in volto come Hiccia non l’aveva mai visto.
“Vorrei che tu non fossi qui” confessò infine con voce amara, prima di correre via ad avvertire gli altri.
Hiccia restò, muta e sola, ad osservare il nemico che si avvicinava.
 
Sattias alzò il braccio destro: gli arcieri incoccarono le frecce in silenzio e il sibilo delle corde tese si confuse con il fruscio delle fronde.
Acquattati tra gli alberi e sulle rocce, i Piceni attendevano il momento propizio per attaccare i guerrieri che procedevano lentamente sul sentiero sotto di loro, rallentati dal terreno impervio e dalla ritrosia delle cavalcature.
In testa a tutti c’era l’uomo più imponente che Sattias avesse mai visto: un colosso coperto di ferro e che procedeva con feroce determinazione.
“Diomedas”
Lanciò un’occhiata ad Hiccia e Pileius, inquieti come tutti gli altri arcieri: sapevano di avere un’unica possibilità per colpire quanti più nemici possibili senza subire perdite.
Quando Sattias capì di non poter aspettare oltre chiuse la mano a pugno e gli arcieri scrutarono il drappello, scegliendo un obiettivo e puntando le frecce verso le gole dei loro nemici; con il cuore che batteva al ritmo di tamburi di guerra immaginari, il ragazzo abbassò il braccio.
Una pioggia di dardi si innalzò nel cielo con un fischio di morte, coprendo per un attimo la luce del sole: i guerrieri di Diomedas alzarono il capo appena in tempo per vedere le punte di bronzo delle frecce cadere verso di loro. Alcuni furono abbastanza veloci da alzare gli scudi e ripararsi dietro di essi; altri, invece, caddero da cavallo con gemiti strozzati, colpiti a morte. I greci di Ankon, che procedevano a piedi, a quella vista si diedero alla fuga e Sattias trattenne a stento un grido di trionfo.
Solo Diomedas sembrò rimanere indifferente all’imboscata: né lui né lo stallone fulvo che montava reagirono alle frecce che si infransero nel terreno lì intorno.
Il silenzio scese di nuovo sulle montagne e per un solo istante sospeso i cavalli piegarono all’indietro le orecchie, prevedendo la tempesta, le membra degli uomini si tesero, pronte a scattare, e anche le nuvole in cielo si aprirono, come per offrire agli dei uno spiraglio per affacciarsi ad osservare la battaglia.
E poi tutto finì ed iniziò: i Piceni serrarono i denti lanciandosi sul nemico dai lati e dall’alto, tagliando i garretti delle cavalcature per farle rovinare a terra, arrampicandosi con la furia della disperazione sopra ai guerrieri per tagliargli la gola.
Sattias ne vide morire molti in quel primo attacco, prima che si riavessero dalla sorpresa e si riorganizzassero seguendo i rauchi ordini di Diomedas, che con la sua spada falciava chiunque osasse avvicinarsi.
Il ragazzo venne trascinato dal tumulto, badando a farsi spazio con la lancia, l’unica arma che gli permettesse di evitare lo scontro diretto: la paura e l’angoscia gli serravano le viscere, ma neanche per un attimo pensò di arretrare.
“Forse Mamerte aveva visto giusto. Forse sono più coraggioso di quello che credessi.”
Quell’attimo di distrazione gli costò un dolore lancinante alla gamba. La punta di ferro di una freccia si era fermata appena prima di spaccargli l’osso e Sattias si lasciò sfuggire un gemito di dolore quando tentò di estrarla senza successo: i barbagli presenti sui lati del dardo gli arpionavano e laceravano la carne, allargando la ferita.
Un’ombra apparve ai lati del suo campo visivo e per istinto si buttò di lato, evitando per un soffio il fendente di Diomedas. Il guerriero torreggiava su di lui con l’elmo a forma di testa di lupo, che lasciava intravedere solo gli occhi – azzurri e slavati, eppure accesi di una luce vivissima – e qualche rada ciocca di capelli bianchi che svolazzava nella brezza.
Diomedas alzò la spada verso di lui in un muto invito a battersi e Sattias, zoppicando, si tirò in piedi. Iniziarono a girare in cerchio come due belve pronte ad azzannarsi, studiando l’avversario con pari odio e determinazione; nessuno osò interromperli, anche se gli scontri attorno a loro si fecero via via meno confusi e violenti. Molti, sia tra i guerrieri nemici che tra i Piceni, si fermarono ad osservare il singolare duello.
Sattias sentiva la tensione crescere dentro di sé e fiutava nell’aria l’eccitazione del vecchio guerriero, che già pregustava la vittoria su un ragazzino debole e ferito.
E capì in anticipo ciò che sarebbe successo, prima ancora di vedere Diomedas slanciarsi su di lui, prima ancora di alzare la lancia: comprese tutto nell’attimo in cui riconobbe sul pettorale dell’armatura la figura di un dio possente armato di lancia, un dio sanguinario, un dio della guerra…
La spada tagliò l’aria, perché Sattias si era già appiattito a terra, piantando la base della lancia nel terreno: Diomedas, incapace di recuperare l’equilibrio dopo l’affondo, non riuscì a frenare la propria caduta. Urlò quando la punta di bronzo trovò la strada verso il suo viso, ma in breve quel ruggito si stemperò in un gorgoglio e Sattias, ancora rannicchiato a terra, venne inondato dal sangue che colava lungo l’asta della lancia, tanto che per un attimo ne venne accecato.
Si pulì in fretta da quella sostanza disgustosa, frenando i conati di vomito e sforzando la gamba ferita per rimettersi in piedi, pronto a combattere ancora.
Ma non ce n’era bisogno: i guerrieri di Diomedas avevano già rotto i ranghi, fuggendo spaventati davanti alla morte del loro re, ripiegando disordinatamente verso la valle…
Nessuno dei Piceni pensò di mettersi al loro inseguimento: erano certi, infatti, che i predoni del mare non sarebbero tornati mai più.


Angolo Autrice: 
E anche questa storia giunge al termine :) manca infatti solo l'Epilogo, che pubblicherò la prossima settimana! 

  Crilu
   
 
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