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Autore: NicoRobs    03/12/2018    1 recensioni
"Il nome che mi hanno dato alla nascita è Nate River. Deriva dal fatto che sono stato concepito l'8 novembre 1997 sotto un albero di ciliegio, in riva ad un fiume.
Ad oggi, sono il detective più bravo al mondo, e non esiste caso che io non abbia risolto. Eppure, c'è sempre stato un mistero che non ho mai avuto interesse di svelare: quello della storia della mia famiglia, delle mie origini. A nessuno studente della Wammy's House di solito interessa. Eppure, tempo fa un pensiero semplicissimo e spaventoso mi ha scosso: per rimanere vivi ci vuole molto coraggio. E la storia della mia famiglia è segnata dal coraggio; per questo la reputo degna di essere scoperta.
Questa è la storia di Angelica, Eraldo, Martha e Thomas. Di Anne e Phil. Di Will e Freda. Di Quillish. Di Roger. Di Bjarne. Di K. E di L."
"Siamo un sistema di stelle e pianeti impazziti che girano vorticosamente a velocità spropositate attraverso un universo infinito e sconosciuto. E l'unica certezza alla quale possiamo ancorarci è la presenza gli uni degli altri. Basta alzare gli occhi al cielo per ritrovarci e capire che, in fondo, non ci siamo persi davvero."
Genere: Introspettivo, Sentimentale, Slice of life | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het | Personaggi: L, Near, Nuovo personaggio, Watari
Note: Lime, What if? | Avvertimenti: Contenuti forti, Tematiche delicate
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- Questa storia fa parte della serie 'About November 8th'
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31 ottobre 1988
Sweet Stuff




     “Tanti auguri a me.” pensò L, aprendo del tutto i grigi occhi a mandorla, guardando, senza vedere, il resto del dormitorio maschile.
Quella mattina si respirava ancora più aria di depressione alla Wammy's House; gli alberi erano spogli, il cielo era grigio, fredda era la luce che penetrava dalle finestre. Era un autunno triste ed incolore, come i pasti serviti alla mensa, compresa la colazione che li aspettava quella mattina, per la quale gli altri bambini erano già saltati giù dai propri letti a castello e si stavano affrettando a vestirsi.
L si voltò verso la finestra alle sue spalle, ignorando gli spifferi che entravano attraverso i vecchi infissi di legno, raggomitolandosi sotto le coperte. Ripensò a Boston, alle zucche di Halloween e alle decorazioni alle finestre, alle candele e ai bambini che scorrazzavano eccitati per le strade. Rimaneva spesso a guardarli per ore dalla finestra della cucina, non appena sua madre usciva per andare a lavoro; pensava fosse stupido essere così eccitati per una festa del genere. Per qualunque tipo di festa, a dire il vero. Le coppiette che affollavano le vie con in mano mazzi di fiori e cioccolatini a San Valentino, irlandesi (e non solo) ubriachi che vomitavano nei vicoli a San Patrizio, bambini eccitati che cercavano uova nei cortili a Pasqua, bambini eccitati che chiedevano dolcetti ad Halloween, bambini eccitati che facevano pupazzi di neve e uscivano per le strade coi loro giocattoli nuovi a Natale... Bambini eccitati. Bambini.
L odiava essere un bambino.
     Quel giorno compiva nove anni e finalmente non avrebbe visto altri marmocchi esagitati travestiti in modo grottesco correre per le strade per qualche cioccolatino. A Winchester magari si festeggiava Halloween proprio come negli Stati Uniti, ma la Wammy's House si trovava isolata nelle campagne e, soprattutto, non si facevano feste, lì.
Ma L continuava a pensare a Boston, e ai bambini di Boston. Ai figli degli immigrati del quartiere di periferia dov'era nato ed era vissuto, che magari quell'anno non sarebbero passati a bussare al portone del suo palazzo. Continuava ad immaginarseli mentre attraversavano la strada pur di non calpestare il selciato che sua madre aveva bagnato di sangue quasi un anno prima, bisbigliando tra loro “Questa è la casa di quella cameriera che si è buttata. Mio padre dice che era una svitata e un'ubriacona”.
Ci sarebbe rimasta male, la zia Angelica.
Magari anche quell'anno aveva preparato i suoi sacchetti di biscotti da distribuire a chi veniva a fare “dolcetto o scherzetto”; sarebbe andata a letto sfinita e triste, quella sera, se non si fosse presentato nessuno. Ah, quanti biscotti avanzati si sarebbe potuto mangiare, se solo gli avessero permesso di rimanere a vivere con la zia!
     L cacciò quel pensiero dalla mente e si alzò di scatto. Gli altri bambini erano già quasi tutti vestiti e stavano uscendo ordinatamente dal dormitorio.
Si trascinò controvoglia verso i cassetti del comodino e prese la propria uniforme. Se fosse rimasto a vivere con la zia, non importa quante cose lei gli avrebbe insegnato, non importa quanti libri gli avrebbe portato dalla biblioteca, L non avrebbe mai imparato tutto ciò che era riuscito ad imparare in quei mesi. Alla Wammy's House vigeva una rigida disciplina, e i compagni lo avevano preso di mira sin dal primo giorno; i livelli di competitività e lo stress erano altissimi, ma L non credeva ci fosse al mondo luogo più adatto per mettere alla prova le proprie capacità.
Si era sempre sentito fuori posto, sin da quando ne aveva memoria. Ma pensava fosse meglio sentirsi fuori posto alla Wammy's House, dove tutto ciò che contava erano l'intelligenza, la logica, l'intuito, piuttosto che provare la stessa sensazione in qualsiasi altro luogo. Dove non sarebbe stato un re. Dove avrebbero potuto definitamente schiacciarlo.
     Uscì dal dormitorio mentre si abbottonava malamente la giacchetta, di pessimo umore.
Non fu tuttavia l'ultimo a giungere in mensa; i ragazzini e le ragazzine arrivavano quasi sempre quando tutti i più piccoli avevano finito di mangiare, per cui c'erano ancora dei posti a sedere.
Scrutò la sala con una rapida occhiata per individuare la zazzera di capelli di rossi di Clarence... O J, come aveva deciso di farsi chiamare. Era da un bel po' che lui e il suo gruppetto di amici non gli mettevano le mani addosso, ma non voleva rischiare proprio quel giorno di ritrovarsi la faccia nella propria tazza di porridge d'avena per essere entrato nel suo raggio visivo.
Eccolo, seduto al tavolo più chiassoso della mensa. La madre di L non gli aveva mai permesso di uscire di casa né di andare a scuola, perciò L non sapeva esattamente come fossero le scuole normali, ma J sembrava proprio il tipico bulletto dei film che passavano in TV.
Volse lo sguardo altrove, cercando, questa volta, una chioma bianca su una testa dritta, in mezzo a quella marea di capi chini.
-Se cerchi K, non è ancora scesa.- disse una voce femminile alle sue spalle.
L bambino si voltò. Le gote color caramello della bambina sulla soglia della porta dietro di lui si fecero rosse, mentre i suoi occhi neri si abbassavano a guardare la punta delle scarpe, ma L registrò il dettaglio e lo classificò come non rilevante. Era Tara, quella che condivideva il letto a castello con K.
La bambina si prese la lunga treccia di spessi capelli neri e cominciò a rigirarsela tra le dita con gesti nervosi.
-È un po' di giorni che la vedo strana. Più strana del solito, ecco. A-aspetta, non volevo dire che...- si corresse, arrossendo di nuovo. Poi lasciò andare la treccia e riprese. -Ha detto che sarebbe andata direttamente a lezione, senza fare colazione.-
Prese un po' di coraggio e alzò lo sguardo, mentre L continuava a guardarla inespressivo e muto.
-Mi ha chiesto di coprirla come al solito, stasera. P-per caso scappate di nuovo?-
     Tara era una bambina incredibilmente intelligente, L glielo riconosceva, ma le mancava lo spirito. Ammirava K, la sua indole ribelle e il suo completo rifiuto delle regole, e probabilmente le sarebbe piaciuto partecipare alle sue fughe... ma K riteneva che non sarebbe stata in grado di sostenere la pressione e li avrebbe fatti scoprire; per questo non la portava mai con loro, quando uscivano dalla Wammy's House. E L pensava che avesse ragione.
-Non mi ha detto nulla.- rispose invece, senza lasciare trasparire la punta di risentimento che sentiva punzecchiarlo.
K era l'unica, a parte il vecchio Wammy, a sapere che quello era il giorno del suo compleanno. Non sapeva perché gliel'avesse detto: forse perché, tra tutte le persone in quell'istituto, era stata l'unica a comportarsi sempre in modo gentile nei suoi confronti; forse era perché aveva, seppur controvoglia, accettato di rimanere accanto a lui la notte in quei periodi in cui passavano giorni durante i quali i suoi incubi gli impedivano di dormire. Forse era perché lei non gli aveva mai fatto domande.
Eppure, ora si dava dello stupido per aver sperato che lei se ne fosse ricordata.
Probabilmente, quella sera sarebbe scappata dalla Wammy's House per andare a Winchester e mescolarsi ai bambini che giravano per le strade a chiedere dolcetti. Probabilmente, aveva ritenuto che lui non fosse adatto ad una fuga del genere, che si sarebbe lamentato tutto il tempo della confusione, del freddo, della troppa strada da fare. E L pensò che avesse ragione.
E così si era ritrovato escluso, proprio come Tara, che continuava a guardarlo, torcendosi le mani.
-Po-possiamo sederci insieme, se vuoi.- disse infine, chinando il capo.
Ma L era già uscito dalla mensa, con le mani in tasca e col suo solito sguardo cattivo negli occhi grigi.


     Le lezioni passarono più lentamente del solito, quel giorno, o forse era l'umore di L ad essere pessimo. Ringraziava solo il cielo di non aver nessun corso in comune con J, quel giorno, o probabilmente non avrebbe fatto nulla per evitare una eventuale rissa.
E la cosa che lo rendeva più nervoso era il pensiero stesso di essersela presa. Di essere giunto a dipendere così tanto da un'altra stupida mocciosa.
Non le avrebbe più chiesto di aiutarlo a dormire quando gli incubi di sua madre che si gettava dalla finestra lo tenevano sveglio. Niente più ninnananne al pianoforte o mormorate, niente più finestre lasciate aperte perché lei potesse entrare nel cuore della notte per prenderlo e scappare verso il ciliegio in riva al fiume. Soprattutto, giurò che non avrebbe mai più dormito con lei, perché lei scacciasse i suoi incubi.
Pensava a tutto questo mentre prendeva a calci una cartaccia trovata sul pavimento di ritorno al dormitorio, con le mani in tasca e la schiena curva.
Aprì la porta con più energia di quanto fosse necessario, facendo voltare tutti i bambini che si stavano cambiando per la cena, e andò dritto verso il suo lettino, l'unico singolo in mezzo a tutti i letti a castello, e vi su buttò di pancia, vestito, deciso a dormire fino al giorno dopo. Prima, però, si alzò quel tanto che bastava a mettere il chiavistello alla finestra.
     Il vociare dei bambini intorno a sé continuò per un po', poi vi fu silenzio e buio. Ma L non riuscì ad addormentarsi. Sentiva le lancette dell'orologio da muro battergli nelle tempie, tanto che si alzò e andò alla libreria del piccolo dormitorio a cercare qualcosa da leggere.
Ogni dormitorio aveva di norma quattro letti a castello, disposti sui due lati, ma nel suo avevano aggiunto anche il lettino singolo sotto la finestra, per cui lo spazio, già esiguo, era ancora più ridotto. La libreria aveva otto scaffali, uno per ogni bambino, per cui i suoi libri erano stati messi in cima ad essa. Usò, come suo solito, uno dei bauli dei suoi compagni e una sedia per arrampicarsi fin lassù e prendere “Uno scandalo in Boemia”, il suo racconto preferito di Conan Doyle, e un eserciziario di fisica.
Il dormitorio non era stato pensato per permettere agli studenti di studiarvi, difatti non c'erano scrivanie, e nemmeno abaj-jour sui comodini: per cui L accese l'unica fonte di luce della stanza, il lampadario, per approfittare di quei momenti di calma.
Si infilò sotto le coperte quando sentì i suoi compagni tornare, cercando di ignorare i brontolii del proprio stomaco, che non aveva toccato cibo per tutto il giorno. Contava di aspettare che tutti si fossero addormentati per mettersi a leggere alla finestra, approfittando della luce dei lampioni nel parco della tenuta, ma, senza rendersene conto, scivolò in un sonno senza sogni.


     Si svegliò di soprassalto al sentire il familiare ticchettio sul vetro della finestra, e, d'istinto, si scoprì per aprirla, ricordandosi soltanto a metà del gesto del suo giuramento di non lasciare mai più entrare K. Era già deciso a dipingersi sul volto l'espressione più contrariata che gli riuscisse per mandare via la mocciosa e tornarsene a letto, ma rimase interdetto a vedere una figura vestita con un lungo abito nero e capelli corvini guardarlo con un ghigno soddisfatto. La riconobbe soltanto dagli occhi rossi.
Tolse, suo malgrado, il chiavistello alla finestra.
-Già a letto, piccolo Sherlock?- gli domandò lei, divertita.
-Sei andata a festeggiare Halloween?- grugnì lui, guardandola storto. -Da cosa sei vestita?-
-Morticia Addams, ovviamente. Perché sono pallida e spettrale.- rispose lei, aggrappandosi al davanzale della finestra. Il cornicione che correva sotto le finestre dei dormitori maschili al secondo piano era abbastanza largo perché lei riuscisse a camminarci senza problemi, ma L continuava a pensare che fosse una pazzia che la bambina corresse rischi del genere così di frequente.
K si tirò su e saltò sul letto del bambino, chiudendosi la finestra alle spalle. Una testa si mosse nella penombra: era Quentin, il prodigio del calcolo matematico.
-K, fa' un po' meno rumore quando entri.- bisbigliò, socchiudendo appena gli occhi color nocciola. -Qui noi vogliamo dormire, a differenza vostra.-
Nessuno in quel dormitorio avrebbe mai osato riferire delle visite notturne di K o delle fughe di L; questo perché tutti avevano paura di K. Tranne Quentin. A Quentin sembrava non importasse nulla degli altri. Per questo a L piaceva.
K congiunse le mani in segno di scusa rivolta verso il letto di Quentin, poi afferrò L per una mano e lo trascinò fuori dal dormitorio.
Poco male, pensò il bambino; non appena fossero stati in un posto più tranquillo, non avrebbe aspettato che quella svitata di K gli raccontasse tutte le fantastiche avventure vissute quella sera. Le avrebbe detto che era stufo di lei, delle sue pazzie e delle sue fughe, e che sarebbe stato meglio per entrambi farsi ognuno i fatti propri.
     La bambina trattenne il respiro, sicuramente per riuscire a sentire meglio i rumori circostanti, infine fece cenno a L di seguirla attraverso il solito percorso sulle assi del pavimento che non scricchiolavano. Gli fece strada fino al ripostiglio delle scope, poi estrasse il passepartout che aveva rubato mesi prima alla povera custode, al culmine di un piano minuziosamente studiato da entrambi per settimane.
Aprì la porta e lo fece entrare per primo, poi si chiuse la porta alle spalle. Infine estrasse una torcia che aveva rubato chissà dove e se la puntò sotto il mento.
-Non sono spaventosa?- bisbigliò, tentando di alterare la sua vocina da fringuello.
-Sei una rompiscatole.- rispose lui, continuando a tenere il broncio.
Lei spalancò gli occhioni rosati e appoggiò la torcia a terra.
-Credevi mi fossi scordata di oggi?- domandò, con voce fintamente ferita.
-Uomo di poca fede!- aggiunse in modo teatrale, chiudendo gli occhi e portandosi una mano al petto e una sulla fronte, rovesciando indietro la testa. -Se penso a tutto quello che ho fatto per te!-
-Dacci un taglio.- borbottò lui. -Hai frainteso. Penso solo che non sono più un bambino, e tu non dovresti esserlo più da tempo, invece guarda come ti sei conciata.-
Per tutta risposta, lei gonfiò le guance in modo plateale.
-Ho recuperato questo vestito da sera dalla professoressa Heatwick, e non sai che fatica ho fatto a cercare di non rovinarlo! Se scopre che l'ho preso dalla lavanderia è la volta buona che mi ammazza.-
Poi si tolse dalla testa la parrucca nera, rivelando una coppia di trecce bianche all'olandese sotto.
-Questa... è mia, invece. Non posso dirti perché ce l'abbia, in realtà.-
Se la rigirò tra le mani, e poi la appoggiò su uno scaffale.
-In realtà era castana, ma l'ho colorata di nero con della fuliggine fissata con la lacca. Bel lavoro, eh?-
Sorrise nel buio dello sgabuzzino, poi si voltò e prese la sua logora sacca scura, dalla quale estrasse una manciata di cioccolatini.
-È una fortuna che tu compia gli anni il giorno di Halloween. Non avrei soldi per comprarti una torta, ma in qualche modo sono riuscita a procurarti dei dolci.-
     L guardava incantato la carta lucida dei cioccolatini che sembrava risplendere alla debole luce della torcia, e si decise infine ad allungare due dita per prenderne uno.
-Sono per me?- domandò curioso, alzando il dolcetto ed esaminandolo da vicino.
-Certo che sono per te!- rispose K, rimettendo il contenuto della mano bianca nella sacca per poi avvicinarla al bambino. C'erano anche alcune tavolette di cioccolata, delle caramelle e dei lecca-lecca; L non ricordava di aver mai visto tanti dolciumi tutti insieme: sua madre non gliene lasciava mangiare, e sua zia preferiva preparargli torte o biscotti da passargli di nascosto, piuttosto che prendergli quei dolcetti che “chissà cos'avevano dentro”.
-Diventerò il bambino grasso da prendere in giro, se mi mangio tutta questa roba.- disse infine, continuando ad esaminare il cioccolatino incartato che teneva tra le dita con occhi famelici.
K rise sotto i baffi, poi rovistò ancora nella propria sacca ed estrasse una scatola di fiammiferi.
-Usi tanto il cervello, brucerai un sacco di glucidi, no? Non penso qualche cioccolatino ti farà male. E poi so che detesti tutto quello che ci danno da mangiare qui, perciò ho pensato che potessi tenerti una scorta di qualcosa di buono da mangiare di tanto in tanto.-
Poi accese il fiammifero.
-Esprimi un desiderio, fratellino.-
L la guardò interrogativo.
-Fratellino?-
-Beh...- rise ancora lei. -Sei praticamente il mio fratellino, no?-
Coprì la fiamma con una mano bianca.
-Ho deciso di prendermi cura di te. Mi fa... sentire meglio.-
E pronunciando quelle parole abbassò lo sguardo, ed un sorriso triste prese posto sulle sue labbra.
-Si sono occupati di me per tre anni dopo che... sono rimasta orfana. Ma non mi sono mai sentita così bene come quando scappiamo insieme... o quando mi occupo di te. Forse sarà egoista, ma... mi sarebbe piaciuto avere un fratello o una sorella. E con te mi sento meno sola.-
Estrasse quindi un nuovo fiammifero e ne accese la punta di zolfo con quello che teneva in mano, che si era ormai consumato fino quasi alla base.
-Ok, ora esprimi un desiderio e soffia.-
     La fiamma novella traballava nella semi oscurità, mentre L pensava che, dopotutto, forse K aveva ragione. Era un fratellino che lei stava viziando. E sebbene a L l'idea della famiglia non fosse mai piaciuta più di tanto, doveva riconoscere che aveva sempre voluto essere viziato.
Per cui, forse, andava bene anche così. Lui avrebbe continuato a farsi viziare, e K avrebbe combattuto i propri demoni e la propria solitudine occupandosi di lui come un fratellino.
Chiuse gli occhi a mandorla e soffiò sul fiammifero acceso.
-Buon compleanno, L.-
Però era contento per i dolci. Avrebbe voluto dirlo a K, ma non era mai stato bravo a parlare di certe cose.




Note


     Non sono morta!
Purtroppo, però, il blocco continua. Ho ricominciato il capitolo 19 di November un sacco di volte, continuo a cancellare e a riscrivere. Nel frattempo, ho buttato giù alcune bozze di ciò che accadrà più avanti nella storia, e ho fatto una scaletta completa degli episodi di Before. Ho deciso che non li pubblicherò in ordine cronologico; appena ne avrò finito uno lo pubblicherò, altrimenti credo che non finirò mai più nemmeno questo prequel.
     Riguardo a questa OS: ovviamente mi sono immaginata sia l'interno della Wammy's House, sia le sue regole e i suoi insegnanti. I dormitori, mentre li descrivevo, mi hanno ricordato in parte quelli di Hogwarts e in parte quelli di Hailsham (del romanzo Never Let Me Go di Ishiguro), ma probabilmente descriverò tutta la struttura nel dettaglio in una OS che precede cronologicamente questa.
     Un appunto sul titolo: ovviamente, si riferisce sia ai dolcetti, sia al momento di tenerezza di K nei confronti di L. Il motivo che sta dietro a certe mie scelte lessicali è che mi immagino gran parte dei dialoghi in inglese, essendo la lingua in cui si esprimono L, K, Bjarne e gli altri OC quando parlano tra loro, e solo in seguito li traduco in italiano. In certi casi riesco a mantenere lo stesso senso anche traducendo in italiano (ci sono alcuni giochi di parole nelle OS di Before che vorrei segnalarvi di volta in volta), ma, in questo caso, ho preferito lasciare il titolo in inglese perché mi sembrava suonasse meglio.
     Dal momento che ho deciso di creare una romance per L, ho vissuto fin dall'inizio di queste fanfiction il terrore di cadere troppo nell'OOC; per tentare di giustificare le mie scelte, pertanto, ho pensato che gli episodi dell'infanzia e dell'adolescenza di L fossero cruciali per spiegare il perché della mia scelta. Non è mai stata mia intenzione snaturare L; quello che L è in November deriva dalla mia interpretazione del suo passato. Ho immaginato le sue origini, la sua infanzia, i suoi traumi, ho creato una spiegazione per il suo nome, per il fatto che non dorme, per la sua ossessione per i dolci, perché indossa sempre quei vestiti e anche perché va sempre in giro scalzo e ha quei capelli fin da bambino (ci arriveremo...). In pratica, ho tentato di esplorare gli stessi aspetti che hanno costruito la sua identità, così come ho fatto con gli altri miei OC. Ovviamente questo mi ha portato un po' all'OOC, purtroppo, ma è anche il motivo per cui trovo più difficile rendere Light, Misa o gli altri personaggi canonici rispetto a quanto non lo sia rendere L e i miei OC. Probabilmente dipende dal fatto che non mi sono “appropriata” anche del passato degli altri, non l'ho ricostruito.
     L da bambino me lo immagino molto come Near, anche perché ben prima di partorire questa fanfiction ho sempre pensato che Near avrebbe tranquillamente potuto essere suo figlio. Lo vedo oscillante tra la tristezza o la solitudine e la “cattiveria” che L canonicamente dice di vedere negli occhi di Near. Spero di riuscire ad elaborarne meglio il carattere nelle altre OS.
     Un grazie sentito a chi mi legge, e scusate ancora se non riesco ad andare avanti con la storia principale!

   
 
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