Fu un rumore
familiare a svegliare
Aidra; ancora a metà tra l’incoscienza e la
veglia, riconobbe lo scrosciare
della pioggia. Fissò gli occhi gonfi di sonno sulla finestra
accanto al suo
giaciglio e appurò di non essersi sbagliata: le nubi si
svuotavano impietose
sul villaggio, quel giorno. Non se ne stupì; Nira si era
dimostrato fin troppo
clemente, fino a quel momento.
Si
stiracchiò sorridendo allegra. La pioggia
non la disturbava, anzi – la metteva a suo agio; la causa
principale del suo
buon umore, tuttavia, era un’altra. Il ricordo del pomeriggio
precedente era
ancora fresco. Era rimasta nella radura con Isryl fino a sera e, sebbene avesse l’impressione d’aver rivelato più lei su sé stessa, aveva appreso varie cose sul ragazzo. Stando con lui si sentiva libera di lasciarsi
andare davvero,
privata d’ogni freno; euforica, in una parola.
Il fatto che
fosse un estraneo avrebbe,
forse, portato molti a trattenersi, ma per lei era vero il contrario:
persino
con Mirel, la sua unica parvenza di famiglia, non sempre agiva
spontaneamente. Sentiva
di doverle dimostrare qualcosa, a volte; provava soggezione
all’idea di
deluderla. A Isryl non doveva dimostrare proprio nulla.
Mormorando tra
sé una melodia
insegnatale dalla sorella, lasciò il piccolo spazio adibito
a camera e passò
alla stanza principale, che utilizzava principalmente per cucinare e
mangiare.
Non le erano rimaste molte provviste, ma trovò qualche
frutto per colazione e
l’accompagnò a un bicchiere di nettare.
Mentre ragionava
sui suoi programmi per
la giornata, sentì bussare alla porta. Un picchiettio
frenetico, urgente. Non
impiegò molto a intuirne il perché: fuori
diluviava! Si affrettò a raggiungere
e spalancare l’uscio, ritrovandosi davanti la figura
completamente fradicia del
suo migliore amico.
«Od?»
mormorò, spiazzata. In un attimo
mille pensieri diversi le riempirono la mente, cercando di trovare una
spiegazione logica alla presenza lì dell’Arche. Se
aveva affrontato la pioggia
doveva esserci un motivo serio – motivo che forse, sotto
sotto, lei conosceva.
«Posso
entrare?»
Aidra si
scostò, dandosi della stupida,
e gli permise di mettersi al riparo. Richiuse la porta e gli si
avvicinò.
«Sei
zuppo» constatò, preoccupata. «Che
ci fai qui, Od?» pose la domanda torcendosi le mani. Aveva un
brutto
presentimento.
Lui non rispose
subito, non la guardò.
«Perché, aspettavi qualcun altro?»
replicò, atono, dopo un po’.
Avvertì
una stretta al cuore. Sussurrò
una risposta negativa e andò a recuperare un telo da una
pila di panni
affastellati in un angolo della sua stanza. Odrik
l’accettò, iniziando ad asciugarsi
in silenzio.
Aidra si
accovacciò di fronte a lui, la
schiena contro la parete; si sentiva in colpa. Non si era comportata
bene con
Odrik negli ultimi giorni, presa da altro l’aveva relegato in
un angolo remoto
dei suoi pensieri. Ora se lo ritrovava davanti, con un’accusa
che non
pronunciava.
«Se
continui così finirai per
stracciarla».
Si
paralizzò, le mani attorcigliate
attorno a un lembo della camicia che aveva indossato per la notte. Le
distese
lentamente, cercando di regolarizzare il respiro e tornare in
sé.
«Mi
dispiace», sussurrò.
Odrik la
fissò, per la prima volta da
quand’era arrivato. Aidra non vide rabbia nel suo sguardo:
solo tristezza, e
questo la fece sentire peggio.
«Sei
sparita per giorni. Volevi
evitarmi? Perché?»
La prima domanda
le suonò più come
un’affermazione. Tornò a stringere il tessuto e
ricambiò triste il suo sguardo.
«Evitavo tutti» disse.
«Dall’attacco mi guardate con occhi diversi. Sono
sempre
io, Od».
Lui si
incupì. «So che sei tu – vorrei
crederlo» la sua voce si spense in un sussurro finale.
«Ma mi hai mentito».
Strinse un pugno, Aidra lo notò. Non si difese da
quell’accusa.
«Cos’è
che non vuoi dirmi, Ai?»
Sussultò
– Odrik non era mai così
diretto. Solo questo sarebbe
bastato a comprendere la serietà della situazione, se non le
fosse già stata
abbastanza chiara.
“Lo
sanno tutti che gli Ela non esistono”.
“Sono
solo storie”.
Si
abbracciò con forza le ginocchia,
incerta. Cosa avrebbe dovuto dirgli?
Una parola
sottile, carezzevole le
echeggiò nella mente: verità.
Tremò
al pensiero – affrontò lo sguardo inquisitore
dell’amico. Inspirò a fondo.
«Non
posso». Era una verità anche
quella, in fondo.
Odrik non
abbassò lo sguardo. «Perché?»
«Per
favore, Od». Le costò uno sforzo
significativo, ma riuscì ad accennare un sorriso.
«Fidati di me. Puoi farlo?»
Si fissarono per
momenti che le parvero
infiniti, dopo quella domanda.
Poi Odrik si
alzò, mosse un passo, le
porse una mano. Lei l’accettò e si
lasciò rimettere in piedi. Sostennero ognuno
lo sguardo dell’altra ancora per un secondo, poi il ragazzo
l’abbracciò. Avvenne
così rapidamente che Aidra non lo realizzò
subito; l’attimo prima si sforzava
di non perdersi nell’ambra sofferente dei suoi occhi, quello
dopo si ritrovò tra
le sue braccia. Fu un abbraccio umido – il telo non era
bastato ad asciugare
del tutto la tunica –, ma caldo. Percepì tutto
l’affetto di Odrik, in quella
stretta che ricambiò con un peso sul cuore.
Si
sentì in colpa, Aidra, ma anche
grata. Affondò il volto nell’incavo della sua
spalla, permettendo a due lacrime
calde di confondersi sulla veste già bagnata.
«Non
voglio perderti».
Esitò,
prima di rispondere a quella
dichiarazione accorata. «Non succederà».
~
«Non
ci voleva».
«Non
prendertela tanto, Rod; non è così
inaspettato. Avremmo dovuto pensarci».
Malek non si
unì allo scambio di
battute. Immobile accanto al suo kutirai, osservava le gocce di pioggia
infrangersi sulla protezione plasmata da Siana. L’acquazzone
li aveva bloccati
sul posto, rallentandoli. Non sapeva se esserne contento o amareggiato.
Abbassò
lo sguardo in direzione di Lytho: cosa lo aspettava, lì?
– continuava a
chiederselo.
«A che
pensi?»
La voce di Siana
disturbò le sue
riflessioni, riportandolo bruscamente al presente. La guardò
torvo. «Se ti
distrai, la protezione cadrà» le fece notare
piatto.
«Se mi
distraggo a far cosa? Parlare
con un muto?» replicò lei, sempre sorridente.
«Non ho una conversazione decente
con te da… ho perso il conto dei cicli».
«Perché
non c’è niente da dire».
Lei lo
fissò penetrante, avvicinandosi
ulteriormente. «Non sei mai stato particolarmente
socievole», iniziò, «ma da
quella sera è cambiato tutto. Per quanto ancora
scapperai?» l’incalzò.
«Cos’è
successo con Kora, quella volta?»
Malek si
irrigidì, strinse i pugni – le
nocche sbiancarono. Distolse lo sguardo.
Siana
sospirò. «Era anche mia amica».
«Non
ti riguarda», scandì lentamente
Malek. «Stanne fuori, Siana».
Se il rifiuto
l’indispettì, la ragazza
non lo lasciò trasparire. Si scostò
d’un passo. «Rendi sempre tutto così
difficile», commentò. «Pensaci,
Mal».
Mentre si
allontanava a rinforzare la
sua barriera, il moro la seguì con la coda
dell’occhio, sentendosi sollevato
per la fine – almeno momentanea – della questione.
Carezzò
il dorso liscio del kutirai,
sperando bastasse a calmarlo. Si sentì un po’
meglio.
“Kora?
È Kora quella a terra? Perché non stai facendo
nulla? Malek!”
Scosse la testa.
Non era certo di
potersi fidare di Siana, ma non era quello il punto.
Non
c’era bisogno che nessun altro
sapesse cos’era realmente successo quella notte.
Tornò
a guardare verso l’alto,
chiedendosi quando la pioggia sarebbe cessata. Aveva deciso: qualsiasi
cosa
l’aspettasse, voleva solo chiudere in fretta la missione e
rientrare.
Chiuse gli
occhi, visualizzando
un’immagine spiacevolmente familiare.
~
«Date
una moneta a una sventurata».
Kotuno
ignorò la supplica
dell’incappucciata di fronte all’Accademia, pur
trovandolo insolito. Erano
pochi i mendicanti che osassero avvicinarsi così tanto; la
maggior parte temeva
di venire bruscamente scacciata dai suoi allievi. In realtà,
non gli
interessava. Usciva di rado, comunque.
Notò
quasi per caso la mano della donna
tendersi nel tentativo d’afferrargli il braccio; un movimento
sorprendentemente
rapido, che poté evitare solo grazie ai suoi riflessi
allenati. Le afferrò il
polso, torcendolo poco gentilmente. La donna aveva tutta la sua
attenzione,
ora.
«Guarda,
guarda» mormorò, intravedendo
il volto celato dal cappuccio. «Vuole essere mia ospite,
signorina?»
Quella
cercò di ritrarsi, ma desisté
presto. «Mi piacerebbe, perché no» gli
rispose, con una voce diversa, più
sottile, rispetto a quella con cui gli aveva chiesto
l’elemosina.
«Prego»,
l’esortò a precederlo
spingendola verso il cancello. Fece un cenno agli uomini di guardia
perché la
lasciassero passare.
La donna non se
lo fece ripetere,
varcando la soglia dell’Accademia a viso alto, seppur sempre
coperto. La seguì
da presso, guidandola verso le sue stanze private.
«Porta
spesso in casa dei perfetti
sconosciuti?» domandò la ragazza mentre lui
chiudeva la porta dietro di loro.
Le indicò una sedia e raggiunse il mobile
dall’altra parte della stanza,
estraendone due tazze. Le poggiò sulla scrivania, sedendosi
poi di fronte a
lei.
«No»,
rispose infine. «Potrei farlo più
spesso, se fossero tutti come lei».
Soddisfatto,
l’osservò rinunciare
definitivamente all’anonimato garantitole dal cappuccio.
Poté osservare,
contornato da una folta chioma rossa, ciò che prima aveva
solo intuito: da
dietro le orecchie della donna sporgevano due prolungamenti sottili,
organi che
avrebbero suscitato repulsione e inquietudine nei più, ma
che lui conosceva
bene: kerai.
«A
cosa devo l’onore della visita di
una Fonè?» chiese, piegando le labbra in un ghigno
divertito. Allungò una mano
verso la caraffa d’acqua già pronta sul tavolo e
la scaldò con un gesto, per
poi versarla nelle tazze.
«Volevo
solo una moneta» rispose lei,
apparentemente a suo agio. Aveva osservato attentamente ogni suo gesto,
Kotuno
ne era certo. «Non pensavo fosse così facile
riconoscermi».
«Le
kerai erano ben nascoste», concesse
lui, «ma ci vuole ben più di un cappuccio per
ingannarmi».
«Ingannare
è un termine forte», replicò
lei pronta. «Ero solo curiosa. Si sente molto parlare di
quest’Accademia, per
tutta Fisis».
«È
così?» stette al gioco, niente
affatto persuaso. «Posso fare qualcosa per lei,
allora?» si informò,
aggiungendo la sua miscela favorita in ognuna delle due tazze.
«Cos’è?»
sviò la Fonè, le kerai
vibranti verso la bevanda.
«Non
ha mai bevuto un infuso di croco?» domandò
retorico. Bevve un sorso della sua per rassicurarla.
«È innocuo, come può
vedere».
«Non
avevo dubbi in proposito», affermò
la donna. Tese il braccio sopra il tavolo. «Abbiamo saltato
le presentazioni».
Le sorrise.
«Temo di non potermelo
permettere», declinò. Si tirò indietro
sulla sedia, squadrandola deliziato. «Il
rituale dei gomiti sta cadendo in disuso, d’altra parte.
Incredibile come i
giovani attribuiscano sempre meno importanza alle tradizioni degli
antenati,
non ho ragione?»
«Non
sembra così anziano da poter fare
un discorso del genere». La Fonè sorrideva ancora,
ma la sua facciata iniziava
a incrinarsi, Kotuno se ne accorse e provò
l’impulso di ridere. Quanto avrà
avuto, la ragazza davanti a lui, venti cicli? Melisa gli aveva detto
che loro
maturavano più rapidamente rispetto agli altri, ma la rossa
doveva essere
piuttosto ingenua, se davvero aveva creduto di poterlo toccare
così facilmente.
«Saltando
le formalità, il suo nome
vorrei conoscerlo».
Stupendolo
leggermente, lei non esitò a
quella richiesta. «Mirel» scandì a voce
alta e limpida. Dal modo che aveva di
pronunciare la e, probabilmente
proveniva da ovest. Anche la sua tunica di lana bianca, a malapena
visibile
sotto il mantello, avvalorava la sua deduzione. A est era uso comune
tingerle
di blu, a sud di verde. Bene, bene.
«Vieni
da ovest?» domandò, abbandonando
ogni inutile cerimonia. «Ho mandato una squadra in quella
direzione proprio
ieri – che coincidenza».
Mirel non
negò; batté lentamente le
palpebre, lo scrutò. Kotuno si scoprì a provare
ammirazione per la sua
fierezza. Contro di lui non aveva speranze, ma la sua determinazione
era
senz’altro lodevole.
«Avrai
sentito dell’Arche d’Acqua»
continuò, desiderando una reazione più
rivelatrice. Non fu accontentato: se
l’informazione l’aveva turbata, riuscì a
non mostrarglielo.
La vide
scrollare le spalle con
indifferenza. «Uno in particolare? Ne esistono
molti».
«Conosci
le antiche leggende,
immagino».
«Le
interessano molti argomenti
diversi, vedo».
Sorrise a quella
replica. «C’è una
leggenda interessante, sulle Fonè».
«Sono
solo fiabe, a detta di tutti».
«Pensi?»
la sfidò, fissandola
penetrante. La vide esitare, stavolta; non trovò una
risposta, evidentemente,
perché non gliene fornì alcuna.
«Silenzio
piuttosto eloquente» commentò
impietoso. «Dove c’è una
Fonè, c’è un’Ela. Non era
così?»
Mirel scosse la
testa, accennando un
sorriso. «Non proprio. La leggenda dice solo che le
Fonè sono destinate a
incontrare gli Ela, prima o poi – non quando. Potrebbero
anche incrociarsi per
un solo istante in tutta la vita, se vogliamo darle credito».
«Raramente
è così».
«Ha
incontrato molti Ela, sulla sua
strada?» Vide il suo sguardo accendersi; ma
sì, si disse, questo
posso anche
concederglielo.
«Qualcuno»
rispose, vago. «Sono
creature piuttosto interessanti».
«Vorrei
incontrarne uno anch’io, un
giorno».
«Davvero»
accertò, ironico. «Se resti
qui, il tuo desiderio potrebbe avverarsi».
«Al
mio villaggio soffrirebbero troppo
la mia mancanza, temo». Mirel sorrise a mo’ di
scusa. «Mi sono molto affezionati,
sa».
«Qualcuno
in particolare? Una sorella, o
un fratello, magari?» indagò, terminando
l’infuso che aveva sorseggiato fino a
quel momento. La tazza dell’ospite era ancora mezza piena,
notò.
Lei scosse la
testa. «Sono figlia
unica», affermò decisa – troppo, forse.
Kotuno
inarcò un sopracciglio,
palesando il suo scetticismo. «Gli abitanti di Fisis guardano
con ostilità al
diverso, è sempre stato così»
sentenziò, serio. «Mi è difficile
credere che ti
siano affezionati. Accoglierebbero la tua sparizione con
sollievo».
Colse, o
così gli parve, un balenio di
sfida negli occhi verdi della ragazza.
«È
vero, il popolo è diffidente»
ammise. «Ma mi hanno cresciuta come una figlia. Rispettavano
molto mia nonna.
Mi vogliono bene».
Quell’affermazione
stupì seriamente
l’uomo. Sebbene i suoi poteri non funzionassero sulle
Fonè, restava assai abile
nel leggere e comprendere le persone. Adesso era suonata realmente
convinta,
era quasi certo che non avesse mentito, nelle ultime tre frasi. Sono passati sopra la sua diversità?
Questo
sì, è sorprendente.
Intrecciò
le dita sotto al mento, i
gomiti poggiati sulla scrivania.
«Al
tuo villaggio sei ben voluta, dici»
riprese. «Eppure sei venuta qui, a cercarmi – hai
tentato di captarmi.
Perché l’avresti fatto?»
chiese retorico. Aveva i suoi sospetti, pressoché certezze,
sulle reali
motivazioni.
«Brama
di conoscenza» rispose lei,
senza scomporsi. Ricambiò il suo sguardo freddo.
«È stato un incontro molto
interessante, posso dirmi soddisfatta».
«E sei
convinta che uscire di qui sarà
facile quanto entrare».
Mirel non
batté ciglio a quella non
tanto velata minaccia. Si alzò in piedi. «Vuole
impedirmelo?»
Kotuno non la
imitò; abbassò le mani,
scoprendo il proprio ghigno e continuando a fissarla.
«La
cosa ti indisporrebbe?»
~
«Mezza
giornata persa per la pioggia.
Avremmo dovuto portare con noi un Arche d’Acqua»
brontolò Rod.
«Chissà,
magari al ritorno l’avremo»
commentò Siana. «Giusto, Mal?»
«Forse».
Non aveva quasi sentito la
domanda, concentrato sul battito ritmico della sua cavalcatura. Avevano
perso
mezza giornata, ma quasi certamente sarebbero arrivati entro la sera
seguente,
anche se avesse piovuto di nuovo. Era a un passo dal potenziale Ela.
«Potremmo
anche non trovarla» puntualizzò, poco convinto.
Avvertì
lo sguardo curioso di Siana su
di sé, ma non si voltò verso di lei.
«Preferirei
non aver fatto un viaggio a
vuoto» asserì Rod. «Vista la compagnia,
soprattutto».
Nessuno dei due gli
rispose;
continuarono a cavalcare finché Yan non sparì
oltre la linea dell’orizzonte.