Anime & Manga > Axis Powers Hetalia
Segui la storia  |       
Autore: _Frame_    16/12/2018    4 recensioni
1 settembre 1939 – 2 settembre 1945
Tutta la Seconda Guerra Mondiale dal punto di vista di Hetalia.
Niente dittatori, capi di governo o ideologie politiche. I protagonisti sono le nazioni.
---
[On going: dicembre 1941]
---
[AVVISO all'interno!]
Genere: Drammatico, Guerra, Storico | Stato: in corso
Tipo di coppia: Nessuna
Note: nessuna | Avvertimenti: Contenuti forti, Violenza
Capitoli:
 <<    >>
- Questa storia fa parte della serie 'Miele&Bicchiere'
Per recensire esegui il login o registrati.
Dimensione del testo A A A

184. La mano di Italia e Il cuore di Ucraina

 

 

Moldavia strinse i pugnetti a terra. Le unghie sporche di nero graffiarono la superficie della strada, e i frammenti di asfalto sbriciolato gli punsero i polpastrelli che avevano sorretto il corpo della bomba anticarro fino a poco prima. La tuonata dell’esplosione che lo aveva scaraventato lontano dal panzer rimbombò nelle sue orecchie doloranti e picchiò sulla testolina, all’altezza del bernoccolo che si era gonfiato sulla tempia destra, nel punto dove aveva sbattuto cadendo a terra. I ruggiti del panzer ancora in azione vibravano attraverso il suo corpicino disteso sulla strada fumante, sepolto dall’ultimo strato di nebbia rossa che ancora galleggiava fra i crateri e davanti alle facciate degli edifici diroccati.

Moldavia stropicciò le palpebre tremolanti e sporche di polvere, schiuse le ciglia, e i suoi occhioni ambrati si affacciarono al panorama sfocato del campo di battaglia. Mosse la bocca, passò la punta della lingua fra le labbra secche e amare, e toccò il sapore caldo e ferroso del sangue. “Pft!” Sputacchiò un grumo rosso e strizzò gli occhi per il ribrezzo. “Schifo, amaro, schifo.” Balzò a sedere e strofinò le manine sulla lingua. Portò le maniche della giacca penzolante davanti allo sguardo. Scure chiazze rosse ne macchiavano la stoffa. Moldavia sgranò gli occhietti e una fredda botta di paura lo fece sussultare. “Oh.” Una bollente scia di sangue colò dalla testolina, gli bagnò i capelli, scivolò attraverso la fronte, gli riempì l’occhio sinistro, attraversò la guancia, e cadde gocciolando dal mento.

Il forte bruciore all’altezza del bernoccolo fece sorgere un velo di lacrime attraverso la vista già tinta dal rosso del sangue e della nebbia fumogena.

Moldavia arricciò la punta del nasino e tirò su un singhiozzo. Aprì le manine a terra, salì sulle ginocchia, e si diede la spinta per rialzarsi. Il paesaggio gli trottolò attorno. Il dolore alla testa picchiò più forte e si unì a quello spanto dal fianco su cui aveva sbattuto cadendo dopo il volo. Moldavia compì un passetto sulla punta del piede. Una fitta di dolore lo fulminò al ginocchio. “Ah!” Tornò a cadere con il faccino per terra. Guaì. Altro sangue gocciolò assieme alle prime lacrimucce di dolore. “Che male.” Si strofinò la manica sul viso, sporcandola ulteriormente, e si alzò ancora.

Zoppicò, si strinse il braccio da cui provenivano quegli intensi crampi di dolore simili al ritmico battere di una punta aguzza sul muscolo, e avanzò un passetto alla volta. Tirò ancora su col nasino. “Ahio, ho male.” La spirale ipnotica trasmessa dallo sguardo spronante di Russia scomparve, fece tornare i suoi occhi di un dolce e mite color ambra. Moldavia tornò a essere solo un bambino ferito che trascina i piedini su un suolo di una guerra troppo grande per lui. “Devo – hic! – tornare indietro.” Zoppicò ancora. Il sangue fluì più rapidamente attraverso la testa, gocciolò sulla spalla, inzuppò la manica strizzata dalla manina, e tracciò una scia di chiazze rosse dove il piccolo posava i passi. “Devo tornare indietro. Io...” Batté il piedino su un frammento d’asfalto e perse di nuovo l’equilibrio. Cadde con le spalle in avanti. “Wha!” Batté la fronte insanguinata sull’asfalto ruvido e non si mosse, rimase rintanato nel buio.

Moldavia singhiozzò. Strinse di nuovo i pugnetti, raccogliendo polvere e frammenti sotto le unghie, e le gocce di pianto piovvero assieme al sangue trasudato dai suoi capelli. “Non ci riesco.” Il suo pianto riempì il silenzio del campo di battaglia, in attesa che qualcuno accorresse a salvarlo.

 

.

 

Bielorussia corse in mezzo al fumo e alla nebbia rossa, disfando gli arabeschi di vapore fra le ginocchia. Si massaggiò il braccio con cui aveva appena lanciato Moldavia addosso al panzer nemico, divorò le ultime falcate di corsa verso il loro cratere, e spiccò un balzo al volo. “State giù!” Premette i piedi alla parete sbriciolata, franò fra Russia e Ucraina, atterrando contro il suo zaino, e si tappò le orecchie.

Ucraina sussultò e fece lo stesso, chinò la testa e premette i palmi sulle orecchie, trattenendo il fiato. Russia si tenne riparato e stese un braccio sopra entrambe per proteggere le loro teste.

L’esplosione della bomba anticarro scoppiò addosso alla corazza del panzer, sollevando uno schiaffo metallico simile al suono di una mazza precipitata su una lastra d’acciaio. La bomba rigurgitò una bolla di fumo e calore, innalzò un altro strato di nebbia, e spanse il suo ruggito gorgogliante attraverso la strada.

Il rimbombo si ritirò assieme allo scrosciare del calore, l’eco cessò.

Russia tornò a sporgere lo sguardo ma non spostò il braccio dalle sue sorelle.

Fuori dal riparo, il fumo si abbassò con uno sfrigolio e la nebbia si diradò, scoprendo i profili delle case e la sagoma alta e scura del panzer ancora fermo in mezzo alla strada. Il corpicino di Moldavia giaceva sull’asfalto sbriciolato, immobile.

Russia contrasse la fronte e strinse la mano sull’orlo del cratere. È caduto.

Moldavia strinse i pugnetti a terra, piegò le gambette per aiutarsi a sollevare le spalle, ma un tremore gli attraversò la schiena inarcata. Tornò a cadere a terra e sbatté il visetto. Ritmici singhiozzi gli scossero il corpicino che rimase accasciato fra il fumo e le macerie.

Anche Ucraina si girò e tornò a sporgersi per guardare fuori. I suoi occhi vacillanti di preoccupazione si posarono su Moldavia. “Si è fatto male.” Si aggrappò con entrambe le mani alla parete del cratere. Diede una forte spinta col piede per gettarsi fuori dal riparo e correre a recuperarlo. “Dobbiamo salvarlo!”

Russia tese il braccio e le acchiappò il polso. “No, ferma.” Strinse la presa, la guardò con occhi duri e intransigenti. “Non ti muovere.” La riportò dentro il cratere che offriva loro rifugio e si rivolse anche a Bielorussia, ancora china accanto a lui. “Non muovetevi, non uscite e non avvicinatevi a Moldavia. È quello che Germania vuole spingerci a fare. L’unico motivo per il quale hanno smesso di sparargli è perché sperano di attirarci a lui e di colpirci mentre tentiamo di salvarlo.”

Bielorussia riprese fiato dopo la corsa, annuì, mimando la stessa espressione di ghiaccio del fratello, e spostò i capelli che le erano finiti sul viso durante la caduta.

Ucraina rimase a bocca aperta. Gli occhi ancora lucidi e scossi di incredulità. “Ma...”

“Rimanete ferme,” ripeté Russia. “Non sollevate nemmeno la testa.” Girò la coda dell’occhio, sorvolò il corpicino di Moldavia che si era alzato e che zoppicava nella loro direzione, andò oltre la sagoma più alta e solenne del Panzer IV, e raggiunse quella del KW appena comparso dietro il carro tedesco. Una figura silenziosa, ancora lontana ed evanescente, nascosta da uno strato di nebbia grigia. Ne rimase in contemplazione.

Moldavia strinse la manina sul braccio insanguinato, singhiozzò, compì un paio di passi, e tornò a inciampare in mezzo al fumo. I singhiozzi si allungarono in guaiti, in un pianto straziante che attraversò la nebbia e raggiunse le loro orecchie.

Ucraina strinse una mano sul cuore dolorante, si coprì la bocca, trattenne a sua volta in singhiozzo, piegò le ginocchia al petto e si prese la testa fra i palmi. “Non posso guardare.”

Russia non distolse lo sguardo dalla scena, dall’ombra del panzer gettata sul corpo caduto del piccolo. Gli occhi impassibili e freddi come una buia lastra di ghiaccio. Germania ora è in trappola. Non potrà rimanere dentro il panzer per sempre, e in qualche maniera dovrà pur sempre esporsi. Di nuovo inviò il suo pensiero al KW che attendeva paziente dietro il carro tedesco, in agguato nella nebbia. Non può arretrare per non andare incontro al KW che lo tiene bloccato da dietro, e non può nemmeno avanzare, a meno che non voglia rischiare di finire sopra Moldavia. E, anche avanzando, ci saremmo sempre noi tre a bloccargli la strada. Non ha scampo, ormai. Sorrise. Si tenne riparato. Il suo corpo fremette d’attesa. Il gioco ora si basa tutto su chi di noi due cederà per primo.

 

.

 

Estonia sollevò istintivamente il braccio per ripararsi dall’esplosione di luce appena scoppiata contro il Panzer IV fermo davanti a loro. Si spinse contro lo schienale del sedile, girò lo sguardo contro la parete del loro carro, e strizzò gli occhi, aspettando la fine del boato.

Lo scroscio esterno si ritirò – all’interno del carro risuonò solo un gemito tremolante di Lettonia – e assieme a esso la vampata di fumo che si era innalzata fin sopra la nebbia. Le vibrazioni cessarono.

Estonia calò il braccio con cui si era riparato, riprese a respirare l’aria fitta e ferrosa dell’abitacolo, si strinse la gola palpando il battito del cuore che pulsava attraverso il collo, e sbatté più volte gli occhi. “Ha...” Si staccò dallo schienale del sedile e si sporse verso lo spioncino della sua postazione. Sistemò gli occhiali per inquadrare la distesa di fumo. Inarcò un sopracciglio e boccheggiò, ancora senza fiato. “Hanno...”

Anche Lituania rimase a bocca aperta, gli occhi sgranati verso la scena e il lampo dell’esplosione ancora a riflettersi nel suo sguardo. “Hanno lanciato Moldavia addosso al panzer con una bomba anticarro?”

Lettonia si strinse nelle spalle, stette rannicchiato nel suo sedile, e rabbrividì. “Ma non sarebbe stato meglio farlo correre da solo, in modo che potesse lanciare la bomba senza pericolo?” Si girò in cerca di approvazione. “Buttarlo direttamente addosso al panzer, senza permettergli di scappare, forse lo avrà...”

Lo strato di fumo che rasentava la strada si schiuse come una coppia di ali. Moldavia sbucò fra i riccioli di nebbia, già in piedi dopo la caduta. Scrollò la testolina facendo dondolare i codini spettinati, si aggrappò al braccio da cui colavano copiose e scure chiazze di sangue, e compì un primo passo zoppicante lontano dal panzer, trascinando dietro di sé una scia di macchie rosse.

Lituania provò una fitta al cuore. “Poveretto.”

Estonia si rosicchiò il labbro inferiore, assalito da un prurito di dubbio. “Dici...” Guardò Lituania di sbieco. “Dici che dovremmo, non lo so, andare ad aiutarlo e...”

“No.” Lituania scosse il capo, di nuovo freddo in viso. “So che è difficile rimanere a guardare, ma non spetta a noi decidere. Se Russia non sta facendo nulla è perché si aspetta anche da noi lo stesso. E non spetta a noi decidere cos’è giusto fare in una situazione simile.”

Estonia storse un sopracciglio. “Ma Lituania...”

“Noi abbiamo solo il compito di bloccare la strada al panzer nel caso dovesse decidere di scappare,” disse ancora lui. “Il resto non è di nostra competenza.”

Fuori dal carro, Moldavia tornò a cadere, inghiottito dallo strato di nebbia che rivestiva la strada. Il piccolo premette i gomiti a terra, spinse i piedini fra le rientranze dell’asfalto screpolato, e strisciò verso il rifugio dov’era scappata Bielorussia dopo averlo lanciato assieme alla bomba.

Lituania allontanò lo sguardo. Inspirò a fondo per sopprimere l’amarezza che gli riempiva la bocca e per cancellare il dolore che gli pesava nel petto. “Dobbiamo solo aspettare e fidarci di quello che Russia ha in mente.”

Gli occhi in penombra di Estonia si avvilirono e vacillarono, come sull’orlo del pianto. Lui non poté fare altro che sospirare e annuire a testa bassa. “Ho capito.” Stette al suo posto e aspettò.

Lettonia chinò il viso sul pavimento, strinse e riaprì i pugni sulle cosce, sgraffiando la stoffa dei pantaloni, e agitò i piedi formicolanti.

Nella sua testa rimbombarono le parole che Russia gli aveva rivolto prima di separarsi. “Non temere, non affiderei mai a te un compito così importante.” Rievocò i suoi occhi freddi, il sorriso sprezzante con cui l’aveva trafitto. “Mi fido molto di più del coraggio di Moldavia che del tuo.”

Lettonia si piantò le unghie nei palmi e quel dolore acuto lo risvegliò dai ricordi. Russia non ha scelto Moldavia perché è più forte o più coraggioso, ma solo perché riesce a manipolarlo più facilmente. Si sporse di nuovo a guardarlo, e anche nel suo cuore si aprì un vuoto di dolore e compassione. Proiettò se stesso al posto di Moldavia. Il piccino che soffriva, che zoppicava da solo in mezzo al fumo, sepolto nell’ombra imponente del panzer, e che chiamava aiuto senza nessuno che corresse a soccorrerlo. Un conato di nausea risalì lo stomaco di Lettonia. Quante altre vittime dovranno soffrire per la tirannia di Russia? Rievocò le cicatrici di Lituania, le sue spalle ingobbite, quel suo modo di rifugiarsi sempre nell’ombra di Russia, e anche gli occhi terrorizzati di Estonia, il suo modo di nascondersi, di tremare davanti alla sua presenza. Una fiammata di rabbia e coraggio arse attraverso il petto, bruciò nei pugni schiacciati sulle gambe. Non posso più permettere che capiti qualcosa del genere.

Lettonia balzò in piedi rimanendo sul sedile, salì sulle punte, tese le braccia verso il portellone della torretta, e vi si aggrappò.

Lituania seguì quello scatto improvviso e sobbalzò, colto di sorpresa. “Lettonia?”

Le mani di Lettonia strinsero la presa sul portello e lo sganciarono con uno schiocco.

Anche Estonia sgranò gli occhi e capì. Gettò le spalle in avanti e tese il braccio per afferrargli la caviglia. “No, aspetta! Non...”

Lettonia spalancò lo sportello, si aggrappò all’orlo piegandovi i gomiti sopra, diede una scalciata all’aria e sgusciò fuori dal carro. Atterrò sulla strada, sollevò due sbuffi di fumo da sotto le suole, e corse via.

Le voci di Lituania ed Estonia lo rincorsero. “Lettonia!”

“Torna indietro o quelli ti uccidono!”

Lettonia scosse il capo per ignorare il richiamo, accelerò, scartò di lato per schivare il profilo del panzer, immobile ma vibrante e minaccioso, e saltò oltre una delle macerie. Sollevò il braccio e lo sventolò in direzione di Moldavia. “Moldavia, sono qui!”

Moldavia singhiozzò dopo l’ennesima caduta. Scivolò a sedere in mezzo al fumo, strofinò i pugnetti sulle palpebre lacrimanti, e stese le braccia verso Lettonia. “Mi sono fatto male.”

Lettonia si chinò a raccoglierlo. “Lo so.” Lo caricò in braccio e gli diede una spintarella per non farlo cadere. Gli strofinò la testolina. “Lo so, ma va tutto bene, sei in salvo, adesso ti porto al sicuro.”

Moldavia singhiozzò ancora. La tempia continuava a sanguinare, il bernoccolo si era ingrossato e scottava. “Male.” Tirò su col nasino e strofinò le maniche insanguinate sul visetto. “Il carro mi ha sputato addosso.”

“Sì, sì, lo so che hai male.” Lettonia strinse le braccia attorno a Moldavia, compì uno scatto, e sfuggì all’ombra del panzer. “Ora ti porto via e...”

Un primo sparo tuonò dal cannone.

Il fischio infuocato volò sopra la testa di Lettonia, li superò compiendo una caduta ad arco, e la granata perforante si schiantò contro la facciata di un edificio. L’esplosione rigettò una ventata rovente e un forte odore di zolfo e di cemento bruciato. La zaffata di fumo rotolò fra i piedi in corsa di Lettonia e lo fece sbandare di lato.

Lettonia riparò la testolina di Moldavia, gli fece rintanare il visetto contro la sua spalla, e accelerò la corsa. “Reggiti a me!” Le piccole dita di Moldavia strizzarono la stoffa della sua giacca e il suo corpicino irrigidì.

Un’altra cannonata scoppiò alle loro spalle.

Lo schianto precipitò più vicino, alitò una bolla di calore addosso alla schiena di Lettonia, e sollevò una pioggia di detriti incandescenti che gli grandinò in testa. Anche questo non lo fermò.

Un altro scoppio.

La terza granata del panzer si schiantò su un altro edificio, ne perforò la facciata, e fece franare una cascata di detriti che si riversò in mezzo alla strada.

Lettonia saltò oltre la scia di macerie, corse di lato per schivare gli ultimi frammenti rimbalzanti che gli colpirono le ginocchia, e s’immerse nella risacca di fumo alimentata dalle esplosioni. Forzò le braccia doloranti a rimanere salde attorno a Moldavia, ansimò soffiando nuvolette di fumo grigie come l’aria che respirava, sbatté le ciglia per scrollare via il sudore dagli occhi, e puntò la forma del cratere riemerso dalla nebbia.

Vi saltò dentro. Franò lungo la parete e atterrò contro le gambe di Ucraina, vivo e al sicuro.

Il suo abbraccio non tardò ad arrivare e a dargli riparo. “Oh, grazie al cielo state bene.” Ucraina raccolse il corpicino di Moldavia dalle sue braccia, gli spazzolò i capelli su cui erano rimasti delle briciole di detriti, e guardò Lettonia con occhi sconvolti ma più sollevati. “Avrebbe potuto uccidervi.”

Lettonia riprese fiato a rapide e pesanti boccate d’aria. La gola bruciava, il petto scoppiava di dolore, i piedi dolevano come se vi avessero scaricato addosso una serie di martellate. Lui scosse la testa. “Non potevo lasciarlo.” Si asciugò il sudore dal viso e accasciò il capo contro la parete tremante del cratere. Un ultimo pesante sospiro gli svuotò i polmoni affaticati.

Ancora stretto fra le braccia di Ucraina, Moldavia fremette. Sollevò la testolina e batté una mano insanguinata sulla sua spalla. “Sorellona, non c’è aria.”

Ucraina allentò la presa. Gli passò le dita sulla frangia sporca di sangue, gli fece girare la guancia – la ferita alla tempia continuava a spurgare sangue – e raggiunse le sue manine sbucciate che sbucavano dai polsini troppo larghi della giacca. Gli occhi le si riempirono di lacrime. “Oh, povero piccolo mio.”

Moldavia si strofinò una manica sugli occhi impolverati, ma non pianse più. “Il carro mi ha sputato il fuoco addosso.”

“Sì, lo so, carro cattivo.” Ucraina gli baciò più volte le manine sbucciate. “Ora passa tutto, passa tutto, vedrai.” Altro bacio. Una carezza profonda ma delicata sui lividi fra le nocche che cominciavano ad annerirsi. “Non è niente.”

Davanti a quella scena – Moldavia al sicuro fra le braccia di Ucraina, protetto e lontano dall’avanzata del panzer nemico – il cuore di Lettonia si alleggerì di un peso.

Lettonia abbandonò la schiena contro la parete del cratere. Tenne la mano sul petto, sopra il battito del cuore galoppante, assalito dagli spasmi che ancora gli scuotevano il corpo, ma abbassò le palpebre e sollevò un tiepido sorriso, un’espressione serena e appagata. Ce l’ho fatta, si disse. L’ho salvato. Per la prima volta non provò il desiderio di nascondersi. Per la prima volta si lasciò avvolgere da una sensazione di fierezza che lo elevò fino alle nuvole, fino ai raggi di sole tappati dal fumo. Non sono inutile. Sono coraggioso anch’io.

La voce glaciale di Russia congelò quella fiammella di tepore. “Cosa state facendo?”

Lettonia sobbalzò, strappato dal suo paradiso di nuvolette di zucchero filato, e si girò di scatto verso Russia.

Russia lo guardò con due occhi freddi e taglienti come una lama di ghiaccio accostata alla gola. “Non sei rimasto sul carro,” mormorò. “Vi avevo ordinato di rimanere sul carro.”

Lettonia schiuse le labbra e trattenne un singhiozzo di fiato, di nuovo soffocata da un pugno di paura che aveva succhiato tutto il sangue dalle sue guance. “E-ecco, noi...” Sollevò l’indice tremolante verso la strada. “N-noi veramente stavamo...” Un rombo proveniente dal panzer gli divorò le parole.

Il suolo tremò sotto l’avanzata del carro tedesco, l’ombra del mezzo si dilatò, uscì dalla nebbia, e i suoi cingoli sgretolarono i detriti di cemento, spargendo piccole scintille bianche che morirono in mezzo al fumo.

Bielorussia strusciò accanto a suo fratello, si appese all’orlo del cratere, e sporse lo sguardo sulla strada. Aggrottò la fronte, fece schioccare la lingua in un mezzo ringhio di frustrazione. “Ci stanno raggiungendo.” Tornò al riparo, con le spalle basse, e prese il suo fucile. Se lo strinse al petto e tirò a sé le ginocchia piegate. “Cazzo, questi ci vengono addosso.”

Il KW sovietico emerse a sua volta dalla foschia, inseguì il panzer, diede un’accelerata, raggiunse il fianco del carro tedesco, e strusciò la fiancata sui suoi cingoli. Gli diede un colpo – un tonfo secco e stridente – e lo spinse ad allontanarsi dal cratere.

Russia seguì la traiettoria del panzer che avanzò oltre il loro nascondiglio e sbarrò gli occhi. Ha deviato davvero. Ora ho capito: Germania non sta scappando. Li sta solo spingendo a seguirli. Vuole farmi uscire allo scoperto. Schiacciò i pugni. Tornò a provare quel vortice di rabbia e risentimento che lo aveva divorato davanti allo sguardo di Germania. E io ti accontenterò.

Russia si aggrappò alla strada, si spinse fuori dal cratere e accostò una mano alla bocca. “Non inseguite il panzer!” esclamò in direzione del KW. “Venite qui, tornate indietro!”

Il KW emise un ultimo rombo, quasi un ruggito di approvazione. Rallentò la corsa, passò sopra ad altri detriti franati dalla casa che prima il panzer aveva colpito con una cannonata, e si fermò. Il portello della torretta si aprì. Lituania sbucò per primo, tese il braccio, afferrò la mano di Estonia, e lo estrasse dall’abitacolo, aiutandolo a poggiare i piedi a terra.

Estonia corse loro incontro, affannato e rosso in viso. “State bene?” Raggiunse Lettonia, si chinò ad afferrare il suo braccio teso fuori dal cratere, lo sradicò dal nascondiglio, e gli strinse le spalle. “Si può sapere che ti è preso?” Nei suoi occhi vacillò una luce pregna dello stesso panico che lo aveva scosso quando lo aveva visto uscire dal carro. “Ci hai fatti morire di paura!”

Lettonia abbassò lo sguardo di colpo, ancora pallido in viso per l’occhiataccia raggelante di Russia. “I-io...”

“Signore!” Lituania si precipitò da Russia. “Il panzer ha deviato,” esclamò. “Forse...”

“Va tutto bene,” lo rassicurò lui. “Stanno solo evitando uno scontro frontale fra due soli carri.” Russia volse lo sguardo verso la scia di polvere e fumo trascinata dal panzer sparito in mezzo agli edifici. Il viso di nuovo disteso e sereno, toccato da un flebile raggio di luce sbucato fra le nubi. “Ma non andranno lontano, possiamo ancora raggiungerli. Germania non mi vuole affrontare dal carro. Lui vuole affrontarmi di persona, ed è quello che desidero anch’io.” Rivisse l’occhiata che Germania gli aveva lanciato quando si erano incontrati, quando si era portato davanti a Italia e a Romano, sguainando gli artigli in un gesto difensivo e lasciando che la sete di sangue s’iniettasse nelle sue iridi cristalline. Russia comprese quel sentimento. Strinse le mani inguantate già pregustando il suono delle sue ossa che si sarebbero spaccate fra le dita. “Entrambi abbiamo bisogno di affrontarci a viso aperto per sentirci soddisfatti.”

Fra Estonia e Lituania volarono occhiate oblique e dubbiose di chi già sente odore di bruciato, di guai in arrivo.

Lituania si strofinò la nuca con un sospiro. “Allora come facciamo?”

“Facile,” rispose Russia. “Dobbiamo essere noi a inseguirli.” Raccolse il fucile che gli aveva appena passato Bielorussia e se lo sistemò sulla spalla. “Torniamo a dividerci. Lettonia, tu occupati di Moldavia. È ferito e ha bisogno di cure. Non può continuare a combattere in quelle condizioni.” Si girò anche verso gli altri. “Ucraina, Lituania ed Estonia, voi tornerete a bordo del carro e vi occuperete di inseguire e di combattere il panzer tenendolo impegnato, in modo che non interferisca con me e Germania.”

Lituania era ancora scettico. “Ma sarà possibile?” Si passò una mano fra i capelli e soffiò un ultimo sospiro di fatica dopo la corsa. “Un combattimento o anche un semplice inseguimento uno contro uno a bordo di corazzati...”

Russia annuì, rassicurandolo. “Andrà tutto bene, fidati. Se i panzer tedeschi sono in formazione, allora possono costituire un pericolo anche per noi, ma in questo caso si tratta di un combattimento uno contro uno, di un semplice confronto fra prestazioni, e non possono avere scampo. I carri sovietici sono molto più resistenti di quelli tedeschi.” Gli rivolse un’occhiata più intensa ma carica di fiducia. “Perciò assicuratevi di mettere fuori uso quel panzer.”

“Sissignore.”

Russia annuì di rimando e si avvicinò a Bielorussia. “Bielorussia.” Guardò verso i tetti degli edifici che spiovevano sulla strada, fece correre lo sguardo fra gli sprazzi di luce che si stagliavano fra le nubi di polvere, contro i cornicioni ancora integri, e tastò la tensione che ristagnava nell’aria. “Voglio che tu torni a sorvegliare la situazione dall’alto, che difendi loro che combatteranno all’interno del panzer e che difendi anche me quando Germania si deciderà ad affrontarmi frontalmente.”

Bielorussia inarcò un sopracciglio, mimò lo stesso sguardo dubbioso di Lituania. “Credi che...”

Russia scosse il capo prima ancora di ricevere la domanda. “Non so che intenzioni abbia Germania, ma non penso proprio che voglia ritirarsi al sicuro nel carro fino alla fine della battaglia.”

“Era ferito,” ribatté lei. “L’esplosione forse lo ha indebolito per davvero. Si è pur sempre preso una bomba in faccia.”

“Ma Germania non è tipo da farsi fermare da una semplice bomba, o da lasciarsi intimidire davanti all’invito di uno scontro frontale. In ogni caso, se davvero avrà subito delle ferite, sarà un vantaggio per me.” Guardò Bielorussia negli occhi e addolcì i tratti del volto con un sorriso. “O no?”

Bielorussia si morsicò il labbro inferiore e abbassò lo sguardo. Strinse i pugni ai fianchi, soppresse sotto le unghie il formicolante desiderio di rimanere appiccicata a suo fratello, di non lasciarlo andare da solo, ma sospirò, arrendevole. “D’accordo.” Rimboccò la bretella del suo fucile e annuì. “Farò come vuoi.” Diede le spalle a Russia e s’incamminò verso gli edifici più alti.

Un alito di vento e fumo soffiò attraverso Russia, pizzicò le guance accaldate dalle vampate esplosive, gli scompigliò i capelli, e soffiò un fischio nelle orecchie. Una sensazione fredda e pungente discese la nuca, attraversò la schiena, e gli trasmise un brivido sgradevole, come essere toccati da un cubetto di ghiaccio. Russia fremette, compì un passo dietro Bielorussia. “Sorellina.”

Bielorussia si fermò. Girò la guancia, un filo di capelli biondi ad attraversarle i lineamenti del viso e a cadere sulla spalla.

Un’ultima occhiata d’incoraggiamento da parte di Russia. Un velo di dolcezza a intiepidire il suo volto circondato dalla nebbia di fumo. “Fai attenzione.”

Le guance di Bielorussia si tinsero di un vivace colorito roseo in contrasto con il pallore niveo del suo volto. Lei strinse di nuovo i pugni, si affidò al peso del fucile allacciato alla schiena, e lasciò che gli occhi bruciassero di ferocia come quelli di una lupa. “Non permetterò a nessuno di sfiorarti nemmeno con un proiettile,” annunciò. “Farò saltare la testa al primo che oserà avvicinarti a te.”

“Ma Germania lascialo vivo, mi raccomando.” Russia le lanciò un’occhiata più sottile, d’intesa. “Lui è mio.”

Bielorussia annuì. Diede un colpetto di spalla al fucile e corse via.

Gli altri raggiunsero il KW ancora fermo sul ciglio della strada. Lituania si arrampicò per primo, si appese al portellone aperto, e si girò a tendere il braccio verso Ucraina. Estonia rimase dietro di lei e aprì una mano sulla sua schiena per aiutarla a salire. La pancia del carro inghiottì tutti e tre al suo interno.

Lettonia raccolse la manina di Moldavia, ed entrambi si separarono dagli altri, dirigendosi dove il suono delle esplosioni era più flebile e il fumo più rarefatto, dove la luce del cielo ormai volto al tramonto intiepidiva l’aria soffocata dal vapore rovente degli incendi e delle cannonate.

Russia li guardò di striscio e si soffermò su Lettonia, sulla sua schiena. Aggrottò la fronte, lasciò che l’ombra cadesse sul suo volto, e contrasse le mani inguantate, guidato dallo stesso guizzo di rabbia che lo aveva colto quando lo aveva visto saltare giù dal KW, superare il panzer, e correre a recuperare Moldavia in mezzo alla nebbia.

Moldavia lasciò la mano di Lettonia, zampettò da solo, zoppicò, tornò a stringersi il braccio cadente sul fianco, e andò avanti da solo a spalle basse.

“Moldavia, aspetta.” Lettonia tornò a raggiungerlo e gli raccolse di nuovo la manina insanguinata, senza stringere. “Non andare da solo. Ti porto io.”

Moldavia scosse il capo e si sottrasse di nuovo. “Riesco da solo.” Si strofinò la manica sulle ultime lacrime rimaste fra le palpebre e lasciò Lettonia da solo in mezzo alla strada. Si chiuse in un gomitolo di frustrazione.

Lettonia sospirò, abbattuto. Si massaggiò le spalle che ancora dolevano dopo averlo portato in braccio durante la corsa, e compì un primo passo per seguirlo.

Russia guardò alle sue spalle – il carro armato si era volatilizzato, il suo rombo perso fra gli edifici, Bielorussia era corsa via, e non aveva nessuno sguardo addosso, solo il fumo a circondarlo e a nascondere quello che stava per fare. Con due soli passi pesanti raggiunse Lettonia e lo afferrò per il collo, “Ghn!”, intrappolandolo come un topolino fra i larghi e acuminati artigli del gatto. Russia lo spinse fino alla facciata dell’edificio più vicino, lo sbatté sul muro, e una crepa si aprì nel punto dove aveva picchiato la nuca.

Lettonia strizzò gli occhi e soppresse un ansito. Si appese al polso di Russia con entrambe le mani, piantò le unghie nella stoffa della manica, boccheggiò, già senza fiato, e riaprì gli occhioni lucidi e imploranti che parevano chiedere perché.

Russia strinse la mano allacciata alla sua gola. L’ombra sul suo viso s’infittì, evidenziò quegli occhi bui ed elettrici che avrebbero potuto ucciderlo senza alcuna arma. “Non provare mai più a disobbedire a un mio ordine.”

Lettonia gemette, di nuovo aggredito dallo stesso terrore raggelante che aveva provato incrociando lo sguardo minaccioso di Russia subito dopo essere scivolato nel cratere assieme a Moldavia. Contrasse le dita tremanti appese al suo polso, piantò le unghie nella stoffa della manica, inarcò la schiena dando un colpo di reni alla parete, vi ricadde sopra con le spalle e con la nuca, e schiuse le labbra per guadagnare un annaspo soffocato. Quel singhiozzo d’aria gli tinse le guance di un grigio cinereo e rimase sospeso a fior di labbra, tremolando assieme a tutto il suo corpicino scosso da spasmi di paura e dolore.

La presa di Russia s’indurì, la sua mano emise uno scricchiolio sordo e cavernoso da sotto la stoffa del guanto. Negli occhi divorati dal buio si specchiò un lampo di minaccia. “Io so cos’è meglio per voi.” Anche la sua voce suonò più grave, come un gorgoglio del vento. “Voi invece non vi rendete conto di cos’è giusto fare, non sapete difendervi, non sapete combattere, non sapete badare a voi stessi. Se sapeste come farlo, ora non sareste sotto i miei comandi, non sareste nazioni sotto le catene di un altro paese che prende le decisioni per voi.” Spinse la mano più a fondo, fece leva col braccio, e sollevò Lettonia fino a staccargli i piedi da terra. “Perciò ti consiglio di pensarci due volte la prossima volta in cui ti verrà voglia di fare di testa tua. O quella tua bella testolina potresti non rivederla mai più.” Socchiuse le palpebre, distese le labbra in un sorriso dolce ma sempre avvolto dall’ombra. “Ci siamo capiti?”

Il viso di Lettonia divenne ancora più bianco, grigio all’altezza delle guance e attorno alle palpebre infossate in un’ombra di terrore. Lui boccheggiò ancora – le labbra ormai secche e cianotiche –, singhiozzò un ansito, si tenne aggrappato con le mani al polso di Russia, e il suo petto senza fiato si contrasse in uno spasmo di dolore che gli diede l’impressione di avere un masso premuto sulle costole. “S-sì.”

Russia allentò la presa, tenne alto il sorriso di soddisfazione. “Bravo bambino.” Schiuse le dita e compì un passo all’indietro.

Lettonia batté i piedi a terra, staccò le mani dal polso di Russia, si prese il collo, e risucchiò un avido respiro d’aria fresca. Barcollò di lato e sbatté col fianco sulla parete dove spiccava ancora la crepa aperta sotto la sua nuca. Tossì più volte, strizzò gli occhi da cui fiorirono lucidi grappoli di lacrime, e si massaggiò la gola arrossata su cui era rimasta l’impronta della mano di Russia.

Russia si spolverò le mani inguantate e si allontanò a passo lento, come se non fosse accaduto nulla. “Ora fa’ come ti ho detto. Bada a Moldavia e vedi di non combinare altri guai.”

Lettonia inspirò dal naso, tenne la mano accostata al collo, ingoiò lacrime e aria, e lasciò che le sue labbra e il suo viso riprendessero colorito. “S...” Annuì senza sollevare lo sguardo da terra. “Sissignore.” Scivolò lontano dal muro e compì un primo passo traballante, reggendosi sulle ginocchia che parevano due molli pezzi di gomma. Seguì la scia di impronte rosse lasciate dalla camminata di Moldavia. Tenne una mano accostata al collo, strofinò fino a sentire la pelle andare a fuoco, e usò l’altro palmo per tapparsi gli occhi. Emise un singhiozzo simile a quelli che lo avevano scosso mentre Russia lo stava strangolando, e finì di piangere, chiuso nella sua triste bolla di paura e solitudine.

 

.

 

Un’altra copiosa colata di sangue bollente scivolò attraverso il viso di Germania, già imbrattato di rosso, e gli finì in mezzo agli occhi, oscurando la vista distorta dalle vertigini. Germania staccò una mano dal periscopio del panzer, si ripulì il viso utilizzando il braccio che gli doleva di meno, e si strinse la testa sul lato sinistro, dove il dolore picchiava come la punta di un chiodo e gli fischiava nell’orecchio assordato dall’esplosione.

Altro sangue spurgò dai capelli e scivolò lungo il viso, imbrattandogli le dita. Gli girò la testa. Si sentì di nuovo in preda alle vertigini e a un senso di gelo che si stava spandendo attraverso i muscoli e il petto, i suoi respiri sempre più pesanti rimbombarono assieme alle vibrazioni del panzer in movimento in quell’ambiente che sembrava fatto di cotone.

La voce di Romano suonò distante, “Li abbiamo seminati?”, come isolata all’interno di una bolla.

“Non li vedo,” si aggiunse quella di Prussia. “Forse sono rimasti nascosti.”

“Non sparano più?” intervenne Spagna. “Io non sento niente.”

“Prima ci hanno colpiti? Ho sentito una tuonata e...”

“No, siamo tutti interi. Però...”

“Germania!” L’esclamazione di Italia lo destò più delle altre. La sua presenza si avvicinò assieme al suo tocco. “Stai bene? Dimmi qualcosa!”

Germania scosse il capo, si disfò delle vertigini che gli appannavano la vista e otturavano l’udito, e si concentrò sul singolo rombo del loro panzer, isolato da quello scomparso del KW. Ignorò il tocco e le parole di Italia, e si riattaccò allo spioncino del periscopio. Strade sgombere. Nessun altro carro in vista. “Fermiamoci.”

Italia esitò, colto da un guizzo di allarme che lo fece impallidire. “Ti senti male?”

“No. Ma non vedo più Russia.”

Italia tornò a raccogliere la giacca con cui prima gli aveva tappato le ferite, la rigirò fino a trovare uno spazio di stoffa asciutto e pulito. “Stai perdendo ancora troppo sangue.” Premette il tessuto sul capo di Germania e lo abbassò anche sul braccio sanguinante, strappandogli un lieve sussulto di dolore. Italia si girò, rivolgendosi agli altri. “Germania non può più continuare a combattere così. Dobbiamo uscire dalla città e...”

“No.” Germania gli strinse il polso e lo bloccò. “Sto bene.” I suoi respiri tornarono lenti, il battito del cuore profondo e regolare, gli occhi freddi ma luminosi, nonostante la colata di sangue a bagnargli le palpebre. “Non ho bisogno di ritirarmi, non ora che Russia è qua davanti a me.”

Italia storse una smorfia poco convinta. Si tenne stretto alla stoffa bagnata del sangue di Germania, e alcuni rivoli rossi gli serpeggiarono fra le dita. “Ma come puoi affrontarlo se continuerai a sanguinare e se le ferite rimarranno aperte? Sarai indebolito, e lui ti batterà.”

“Non se lo affronto subito, prima che le ferite peggiorino e che io perda troppo sangue.” Germania raddrizzò le spalle, si passò la mano insanguinata fra i capelli, e diede una strofinata al braccio ferito, senza toccare le ustioni aperte. “Russia non mi concederà un’altra occasione. Devo battermi subito. Se scappassi, allora mi mostrerei debole e vulnerabile davanti a lui, e non deve succedere, non devo dargli occasione di prendere alcun vantaggio su di me, nemmeno psicologico. E poi...” Una scossa di rabbia gli saettò attraverso il cuore, gli fece vedere rosso come se avesse avuto ancora il sangue negli occhi. Ricomparve il visetto dolce di Moldavia protetto dietro il profilo della bomba anticarro grande quanto lui, il sorrisetto aguzzo che gli aveva rivolto prima che il lampo dell’esplosione inghiottisse entrambi. Germania serrò un pugno scricchiolante. “Non posso tollerare il fatto di essere rimasto ferito per mano di un bambino.”

Fra Prussia e Spagna volarono sguardi scettici.

Prussia si strinse il mento, rannicchiò un ginocchio al petto, e tenne lo sguardo basso, aggrottando le punte delle sopracciglia in un’espressione meditabonda. Ha ragione. Anche secondo me Russia non si terrà nascosto in un momento simile. Forse... Gettò un’occhiata fuori da uno degli spioncini, sulla strada vuota e rivestita da un cappotto di fumo. Ci vuole tendere una trappola spingendo West proprio a scendere dal panzer?

Italia strinse le mani sulla stoffa impregnata del sangue di Germania e sbirciò anche lui attraverso gli spioncini che si affacciavano alla strada. Russia e gli altri erano svaniti, ma davanti ai suoi occhi riapparve il ricordo di Moldavia steso a terra, in mezzo al fumo, immobile. Il cuore gli si riempì di dolore e preoccupazione. “Povero Moldavia.”

Romano strabuzzò gli occhi e compì uno scatto che lo fece rimbalzare sul sedile. “Ma che cazz... ci ha quasi ammazzati!”

“Ma lui sicuramente non si rendeva conto di quello che stava succedendo. Sicuramente è stato Russia a obbligarlo.”

Germania sospirò, allontanandosi dalle loro voci, e finì soffocato dall’odore di esplosivo che regnava nell’abitacolo, mescolato a quello ferroso e sempre più intenso del suo stesso sangue gocciolante. Brividi di gelo si alternarono a improvvise vampate di caldo, luce e ombra si ritirarono a ondate crescenti, avvolgendolo di nuovo in un ambiente ovattato. I tremori agli arti raggiunsero le ossa, lo colpirono con una serie di fitte roventi. Devo sbrigarmi a trovare Russia prima di perdere troppo sangue e di ritrovarmi senza forze. Germania si strinse il braccio e tastò la consistenza molle, calda e spugnosa della stoffa carbonizzata e fusa alle ustioni sanguinanti. E anche prima che l’adrenalina si esaurisca, facendomi sentire i dolori e impedendomi di usare le braccia. Deve essere rimasto incastrato qualche pezzo di granata nel muscolo. E io ho bisogno di affrontarlo. Di affrontarlo da solo e fargli capire che non ho intenzione di farmi fermare da nulla, nemmeno da attacchi del genere.

Germania staccò la mano dal braccio e la sollevò per aggrapparsi al portellone dell’uscita. “Cerchiamo di capire in che direzione si sono diretti.” Fece scattare la chiusura e piegò il gomito per spalancare il portello. “E poi...”

Tre spari di seguito si schiantarono sul portello sollevato, schizzarono bianchi e stridenti spruzzi di scintille, e rimbalzarono a terra.

Romano si lasciò sfuggire un grido. “Che cazzo è stato?”

Germania tornò a scivolare dentro e richiuse lo sportello. Altri due spari colpirono la corazza esterna del panzer, senza però nemmeno scalfirla.

Italia si portò una mano alla bocca e rabbrividì, sentendo una botta di gelo allo stomaco. “Oh no, altri spari!” Tenne le spalle basse ma rivolse lo sguardo verso il soffitto del panzer, dove gli ultimi proiettili erano caduti come sassi su una lastra di metallo. “Un altro cecchino?”

Romano si riprese e si tenne aggrappato allo schienale del suo sedile per riprendere equilibrio dopo il rimbalzo di spavento. “È di nuovo Bielorussia.” Si strofinò la nuca e soffiò un altro sbuffo innervosito. “Merda, l’hanno fatta tornare di nuovo sui tetti.”

Spagna strinse le mani sul volante del panzer. “E allora cosa facciamo?” Guidò il mezzo al riparo, sotto la facciata di un edificio ancora integro, nella fitta ombra del soffitto spiovente, e si fermò senza però spegnere il motore. I suoi occhi si riempirono di preoccupazione, le dita tamburellarono sull’arco del volante. “Finché c’è lei a fare la guardia, Russia è intoccabile.”

Germania annuì, comprendendo, e si girò per afferrare il suo fucile. “Qualcuno deve occuparsi di lei mentre io mi occuperò di Russia. È inevitabile.”

Romano compì un altro scatto, questa volta guidato da una scossa di coraggio. “Allora ci andiamo noi.” Acchiappò la mano di Italia prima di dargli l’occasione di tirarsi indietro.

Spagna sgranò gli occhi. Anche Germania si lasciò scuotere da un guizzo di stupore.

Romano batté il palmo sul petto. Lo sguardo scuro nella penombra, senza alcuna traccia di paura a intaccarlo. “Io e Veneziano siamo già stati presi di mira da lei, ed è colpa sua se prima abbiamo rischiato di finire arrosto, quando ci ha intrappolati nella catapecchia.” Strinse la mano di Italia. I suoi occhi fiammeggiarono come braci, come l’odio che gli ardeva nel cuore. “Non mi lascerò sfuggire l’occasione di vendicarmi.”

Prussia sollevò un sopracciglio. Squadrò entrambi i fratelli con occhi scettici. “Tu e Ita contro una come Bielorussia?”

Romano fece schioccare la lingua fra i denti, aggrottò le sopracciglia. “Problemi?” sbottò, acido. “Forse io e Veneziano non saremmo i più forti, ma siamo i più agili, ed è questo che serve per arrampicarsi sui tetti e farla fuori di soppiatto.” Spostò lo sguardo su Germania, sul suo sangue che continuava a gocciolare sui pannelli del carro. “E tu non potrai di certo pensare di metterti a combattere contro Russia mentre lei minaccia di farti saltare la testa da un momento all’altro, no?”

Germania non riuscì a dargli torto. Effettivamente...

Prussia recepì l’idea e si sporse a battere una mano sulla spalla di Spagna. “Allora noi due faremo da esca con il panzer.” Rivolse una spolliciata a uno degli spioncini. “Il KW è ancora in circolazione, e probabilmente lo stanno usando come diversivo per tenerci lontani dalla battaglia, ma noi saremo più furbi e faremo in modo che siano loro a seguire noi. Se sarà necessario neutralizzarlo, gli passeremo sopra come abbiamo fatto con il T-34.”

Germania annuì, più deciso. “D’accordo.” Raggiunse lo sguardo ancora intimorito di Italia. Abbassò la voce. “Te la senti di farcela? Non ti preoccupare, con Romano sarai al sicuro.”

Italia chinò lo sguardo di colpo. Inspirò, abbassò le palpebre, e si lasciò pervadere da una calda ventata di coraggio che spazzò via la fredda sensazione di paura e disagio trasmessa anche dal sangue di Germania che continuava a bagnargli le mani. “Sì.” Anche lui strinse i pugni e li sollevò davanti al petto in un gesto spronante. “Sì, posso farlo,” esclamò. Si rivide cadere in ginocchio in mezzo al campo di battaglia di Borissov, davanti alla sagoma evanescente del ponte in mezzo al fumo, con le frecciate di luce che gridavano sopra la sua testa e le esplosioni che piovevano come meteore nelle retrovie. Le mani fra i capelli, la mente bianca e vuota, i tremori a scuoterlo, e il terrore a schiacciargli la schiena e a congelargli i muscoli, impedendogli di muoversi. Si allontanò da quegli amari ricordi. “Questa volta non mi farò prendere dal panico e non scapperò. E non mi tirerò nemmeno indietro.” Guardò Germania negli occhi. “Anche io ti terrò protetto dall’alto.”

Una sottilissima crepa di disagio – quell’ombra negli occhi di Italia che non riuscì a decifrare – attraversò il senso di fiducia provato da Germania. Lui scosse la testa e decise di non badarci. “Conto su tutti voi,” concluse. Tornò a levare il braccio sano verso il portellone e scoperchiò la cima della torretta con uno scatto, facendo entrare un fascio di luce polverosa. Si tenne in disparte lasciando passare per primo Romano. Romano si arrampicò e tese il braccio verso Italia, dandogli un appiglio per uscire. Germania aprì una mano sulla schiena di Italia e lo aiutò a spingersi fuori dal carro. Sgusciò fuori per ultimo, al riparo, sotto l’edificio dove il panzer si era fermato, lontano dalla mira di Bielorussia, e richiuse lo sportello.

Spagna si attaccò allo spioncino e seguì le loro ombre che si allontanavano dal panzer e che si dividevano: quella di Germania da una parte, e quelle di Italia e di Romano verso gli edifici più alti e ancora in piedi. Una morsa di tensione gli strinse il cuore, soffocò il respiro, impedendogli di udire la voce di Prussia accanto a lui.

“Di nuovo soli, eh?”

Spagna non rispose.

Romano svanì dalla sua vista, aprendogli un vuoto allo stomaco sostituito subito da un vorticante e nauseabondo disagio che non riuscì a scollarsi di dosso.

Alle sue spalle, Prussia si spostò, assumendo il posto di capo carro. “Risparmiamo colpi.” La sua voce suonò ancora distante, nonostante il silenzio dell’abitacolo. “Se questi ci stanno dietro e se sono senza la guida di Russia, allora è probabile che loro stessi siano un’esca, e che non abbiamo intenzione di ingaggiare il combattimento, ma solo di tenerci lontani dal Gran Capo. Facciamoli...”

“Teniamo d’occhio Ita e Roma.”

Prussia sollevò un sopracciglio, sbatté due volte le palpebre, e si girò verso Spagna, inviandogli un’occhiata interrogativa.

Spagna tenne lo sguardo rivolto all’esterno, su quel piccolo spicchio di paesaggio, e strinse i pugni sulle cosce. Strizzò fra le dita il viscido senso di disagio che sfrigolava fra i nervi in tensione. “Bielorussia è pericolosa. Non possiamo sapere come reagirà o quello che gli farà.” Fece scorrere lo sguardo attraverso le case e tese l’orecchio. Un rombo si stava avvicinando. Il KW sovietico. “Attiriamo il KW nei pressi di Russia. Magari lui si distrarrà e finirà per proteggere loro dai nostri attacchi, e per Germania sarà più facile sconfiggerlo.”

Prussia flesse il capo di lato. Scrutò gli occhi di Spagna così incollati all’ombra di Romano, arricciò la punta del naso tastando l’acre odore di paura che accompagnava quel cattivo presagio, e riconobbe l’ansia addensata nel suo sguardo. Si strinse nelle spalle, lo assecondò. “Come vuoi.” Si rimise composto e picchiettò la punta del piede sulla parete del panzer. “Rimettiamoci subito in moto, allora.”

Spagna annuì. Si rimise ai comandi del carro e arretrò, uscendo dal riparo dell’ombra. Guidò davanti alle facciate delle case e si chinò per scandagliare i tetti con lo sguardo. Le ombre piccole e distanti di Italia e di Romano si arrampicarono su uno dei cornicioni, e divennero nere e piatte in contrasto con il colore rossiccio del cielo soffocato dal fumo. Tranquillo, Roma. Se ti dovesse succedere qualcosa... Una calda sensazione di speranza alleggerì il peso ghiacciato nel petto. Ci sono qua io a proteggerti.

Dietro di loro, il rombo del KW li inseguì come il ruggito di una belva in caccia. Abboccò l’esca.

 

.

 

Germania strinse le mani insanguinate sul suo fucile. Tenne l’arma accostata al petto, e attraversò la distesa di fumo che permaneva fra gli edifici, lungo la strada distrutta dalle cannonate piovute durante i giorni dell’assedio. Sgusciò dietro uno degli edifici, appiattì la schiena alla parete, e tenne lo sguardo girato all’esterno, verso la presenza di Russia che lo seguiva come un alito di vento elettrico. Altro sangue gli colò dalla fronte, attraversò la vista tingendogli le palpebre di rosso, e rotolò lungo le guance, gocciolandogli dal mento. I respiri affannati si mescolarono a un primo sciame di vertigini che gli fece traballare le gambe. Lampi bianchi e neri si alternarono davanti agli occhi e lo estraniarono dalla strada, ovattando i suoni delle esplosioni lontane e l’odore acre di esplosivo che lo circondava.

Germania staccò una mano dal fucile e si asciugò con la manica, strofinando via la patina rossa che gli appannava la vista, e sollevò lo sguardo verso altre presenze che gli stavano passando sopra la testa.

Le piccole e lontane sagome di Italia e Romano risalirono la parete di uno degli edifici adiacenti. Romano raggiunse il tetto e si girò, porse il braccio a suo fratello e lo aiutò a tirarsi su, resistendo alla spinta del vento che scosse entrambi come fragili steli di grano.

Germania tornò a scrutare la strada alle sue spalle, dietro il fumo che lo circondava. Inspirò a fondo, rallentò i battiti, cadenzò gli affanni appesantiti dalla perdita di sangue e dalla corsa lontano dal panzer. Il sangue colò attraverso le mani strette al fucile, la pistola pesò sul fianco, e il sapore ferroso e salato del sudore gli toccò le labbra schiuse.

Una presenza lo raggiunse, pungendolo come una scossa elettrica. La lenta e pacifica camminata di Russia attraversò la nebbiolina, pestò le nuvolette di fumo, e gli si avvicinò, rimbombando da una facciata all’altra degli edifici. “E così ti va proprio di metterti a giocare, eh? Ma non importa.” Russia strinse a sé il fucile carico e si guardò attorno. Un sorriso deliziato a spolverargli le guance di rosa. “Mi piace l’idea di venirti a cercare.”

Germania inspirò, risucchiando fino allo stomaco l’odore nauseabondo del sangue, appiattì la schiena al muro e puntò i talloni alla base della parete, tenendosi protetto. Il cuore accelerò, i pensieri si sovrapposero come una serie di onde schiumose e agitate. Dovrei aggredirlo frontalmente oppure di spalle? È chiaro che in queste condizioni i suoi tempi di reazione sono superiori ai miei. Si resse la fronte e soppresse il cerchio di vertigini con un profondo sospiro. Freddi brividi di dolore gli piovvero addosso come una doccia ghiacciata, cancellarono la sensazione calda del sangue che continuava a scorrere e a prosciugarlo. E io non so quanto a lungo potrò resistere.

Russia lanciò sguardi più bui e penetranti in mezzo alla nebbia. “Perché mi hai tradito, Germania?” Serrò le mani inguantate attorno all’arma. “Io mi fidavo di te.” Calpestò un altro passo e frantumò una maceria di cemento sotto la suola. L’aura nera gli si addensò attorno, come una nebbia fuligginosa, e i suoi occhi si spostarono da una facciata all’altra, in cerca della presenza di Germania. “E ti avevo promesso che mi sarei vendicato nel caso tu avessi mosso anche un passo sbagliato nella mia direzione.” Sorrise. Lo stesso sorriso maligno e carico di risentimento che gli aveva rivolto quando si erano appena rincontrati. “Ora chi credi che sarà il primo a pagare le conseguenze delle tue azioni?”

Uno schiocco elettrico saettò attraverso il sangue di Germania e gli fece nuovamente vedere rosso. Il viso sorridente di Italia apparve come un miraggio destinato a svanire.

Germania distese la gamba e uscì con uno scatto. Sollevò il fucile, flesse l’indice bagnando il grilletto di sangue, e prese la mira strizzando l’occhio che lacrimava rosso.

Russia si voltò di scatto facendo compiere un mezzo arco ai lembi della sciarpa. Voltò lo sguardo da sopra la spalla, inquadrò l’arma di Germania, e restrinse le palpebre. Affilò il sorriso. “Troppo lento.” Impennò il suo fucile e sparò per primo.

Germania flesse il capo. Il proiettile gli sfiorò la guancia tracciando un’ustione rovente attraverso lo zigomo e spaccò lo spigolo della casa alle sue spalle.

Germania scrollò la testa per disfarsi delle briciole d’intonaco e tornò a sgusciare al riparo. Dannazione. La bruciatura al braccio derivata dall’esplosione della bomba scaricò un’altra fitta attraverso il muscolo. Germania dovette stringere la ferita. Altri rochi ansiti di dolore e fatica gli fecero girare la testa, ovattarono l’ambiente attorno a lui. Se solo non fossi già ferito, se solo non avessi incassato lo scoppio della bomba, ora non sarei così svantaggiato. Imbracciò la sua arma – sempre più pesante, sempre più faticosa da reggere fra le mani tremanti e scivolose – e spinse un passo di lato, tornando a uscire in strada.

La stazza di Russia gli si materializzò davanti. “Trovato.” Russia risollevò il fucile per primo, socchiuse l’occhio, e sparò altri due colpi.

Germania scivolò all’indietro e schivò i proiettili che gli sfrecciarono accanto al braccio. Sbatté sullo spigolo di una parete, rimbalzò sul posto, e un altro sparo esplose. Il proiettile gli piovve addosso, cadendo alle sue spalle.

Germania guardò in basso. Il foro scavato dal proiettile fumò e spanse un rivoletto grigio fra le sue gambe. Si girò e tirò su lo sguardo, oltre la nebbia, oltre la coltre di fumo, andando incontro al cielo rosso su cui si stagliavano i tetti delle case diroccate.

Una scintilla d’argento splendette accanto a uno dei comignoli. Gli trasmise lo stesso presentimento di minaccia spanto dallo sguardo di Russia: quella fredda sensazione di avere la lama di un coltello premuta sotto la gola.

Germania sbarrò gli occhi e comprese. Mi sta portando proprio sotto il tiro di Bielorussia. Vogliono incastrarmi fra due fuochi. Ricaricò il colpo in canna e strinse i denti in un moto d’impazienza. Ma cosa combinano Italia e Romano? Perché non sono ancora riusciti a neutralizzarla?

La sagoma di Russia, nera e piatta come un’ombra, avanzò a passo lento in mezzo alla nebbia sollevata dalle esplosioni e dalle frane degli edifici. “Quanti siete?” Diede una sbracciata al fumo, lo levò di torno come il drappo di una tenda, e tornò a ergersi. La fronte corrugata e i capelli a gettare ombra sul viso contratto di rabbia.  “Finlandia sta guidando le truppe al nord, vero? E a sud? Quelle armate partite dalla Romania?” Un altro scricchiolio proveniente dalle mani schiacciate al fucile. “Chi c’è a guidarle?”

Germania raccolse le ultime energie che gli rimanevano, si armò di tutto il coraggio e la forza d’animo che gli ardevano nel cuore, e si gettò contro il nemico. Gli puntò il fucile addosso.

Russia fece lo stesso e inclinò la baionetta contro l’arma di Germania. La punta acuminata stridette sul metallo, tracciò una scia di scintille, e schizzò contro la spalla dell’avversario.

Germania spinse il fucile di lato e sparò un colpo.

Russia si abbassò, schivò il colpo, e si tuffò in avanti. La punta della baionetta colpì il fucile di Germania, glielo strappò dalle mani, e si piantò nella spalla già ferita dallo sparo di Bielorussia.

Germania vide le stelle. Uno spazio nero gli risucchiò la vista, facendogli perdere i sensi per un istante.

Russia gli diede un colpo al petto e lo spinse indietro. Germania lo afferrò per la giacca e lo trascinò a terra con sé.

Caddero entrambi.

Germani sbatté la testa, contrasse il viso, e rimase immobile, disarmato e sanguinolento, la schiena distesa sull’asfalto. I respiri affannati gli contrassero i muscoli ancora in tensione e gli impedirono di indirizzare il dolore in un punto preciso del corpo. La pozza di sangue si allargò inesorabilmente sotto di lui, come un’ombra.

Russia avanzò con una gomitata, senza rialzarsi da terra, schiacciò il fucile di Germania per non farglielo riprendere, e tenne il capo basso. Una risatina gli scosse la schiena. “Sei un idiota, Germania.” Risollevò lo sguardo. Sorrideva. “Potrai essere forte quanto lo vorrai, ma questa rimane comunque la nostra città, e siamo noi a dominarla. Siamo noi a conoscerla, a ricevere la sua energia dalle sue mura e da tutto il sangue che è già stato versato su queste strade.” Imbracciò il suo fucile e glielo stese sopra il petto. Si strinse nelle spalle in un gesto sconsolato. “Avrei tanto voluto che fra noi due non finisse in questo mod...” Lo scoppio di un proiettile gli cadde vicino, si piantò nella strada, e le scintille schizzate dal foro gli piovvero sul fianco, bruciando le ultime sillabe.

Entrambi levarono lo sguardo al cielo, verso il tetto da cui era partito lo scoppio, e si soffermarono sulla sagoma nera che aveva sparato il proiettile.

 

.

 

I primi spari provenienti dalla direzione imboccata da Germania riecheggiarono attraverso le strade, e quel suono secco come una serie di sputi infuocati rimbalzò fino alle orecchie di Italia, bruciando lungo la nuca.

Italia arrestò il passo e si girò di scatto, guardando al di là della spalla da cui sbucava la volata del fucile. Il vento che aveva trascinato l’eco degli spari gli soffiò attraverso e lo fece tremare come una corda di violino pizzicata. I nervi si tesero, il cuore salì a battergli in gola, sudori freddi gli imperlarono la fronte e le guance impolverate. Ogni sibilo lo chiamava a Germania. Hanno già cominciato? Strinse le mani sui fianchi e tastò il sangue di Germania di cui si era bagnato quando gli aveva premuto il panno sulle ferite. Lo immaginò già trafitto dai proiettili, in ginocchio sulla strada, sanguinolento davanti a Russia, immerso nella sua ombra buia e minacciosa. Riuscirà davvero ad affrontare Russia in quelle condizioni? Dopo tutto il sangue che ha perso, dopo che la bomba lo ha ferito così gravemente?

“Ohi, Veneziano.”

Italia si lasciò scappare un ansito e tornò a girarsi al richiamo di Romano.

Romano appiattì le spalle al muro della casa da cui provenivano gli spari di Bielorussia. Si tenne riparato nell’ombra, sotto la spiovenza del tetto, e abbassò la voce. “Saliamo di qua.” Indicò verso l’alto. “Ci sono degli appigli.”

“S-sì.” Italia rimboccò la bretella del fucile e sgattaiolò anche lui sotto l’edificio. “Arrivo.” Si portò dietro la schiena di Romano che era già arrivato al primo degli appigli che risalivano la parete esterna fino al tetto.

Romano distese un braccio, fermò Italia dietro di lui, e schivò una serie di travi spezzate che puntavano verso l’alto come lance. “Occhio a non infilzarti.” Diede un calcio a una delle travi e la fece cadere ai piedi di Italia. “Ce ne sono dappertutto.”

Itala annuì e camminò attorno alle altre rimaste in piedi. Sollevò lo sguardo – arrivavano fin sopra la sua testa – distese il braccio e raggiunse una delle punte di legno spezzato. Si punse il dito. Ahi! Succhiò l’indice, e il sapore ferroso del sangue gli invase la bocca. Squadrò il resto delle travi franate dall’impalcatura del tetto e rabbrividì, scacciando via l’immagine del suo corpo infilzato e del suo sangue a colare dal legno.

Salirono entrambi. Romano raggiunse il tetto per primo, trascinò le ginocchia fra le tegole spezzate, tenne le spalle basse per non perdere l’equilibrio, e si girò a tendere entrambe le braccia verso Italia.

Italia incatenò le mani alle sue, diede un’ultima spinta con i piedi contro la parete, strinse gli occhi per non rimanere accecato dalla luce rossa, e rimase appeso alle braccia del fratello, in bilico su quell’edificio contro cui battevano i raggi del sole soffocato dal fumo delle esplosioni. Il vento gli fischiò contro, le loro gambe tremarono e le tegole traballarono sotto i piedi saldi sul tetto fatiscente.

Romano diede un’ultima spinta di braccia per tirare Italia a sé, e si girò verso l’altra presenza che occupava la superficie pendente del tetto.

Bielorussia era sdraiata di pancia. Le gambe distese, i gomiti puntati sulle tegole, i capelli biondi a ricadere sulle spalle sollevate, e il Mosin-Nagant fra le braccia, la mira puntata sulla strada sottostante da cui erano arrivati gli spari precedenti. Il riparo di un comignolo a tenerla protetta.

Romano spostò un piede in avanti, sciolse le braccia da Italia, e anche lui si tenne a spalle basse, lo sguardo assottigliato per resistere alla polverosa luce del sole che gli sbatteva sugli occhi. “Eccola.”

Italia si tenne aggrappato a un braccio del fratello, compì anche lui un passetto in avanti, facendo traballare le tegole, e rivolse lo sguardo verso il basso, dove il peso della croce di ferro lo attirava. 

La figura di Germania attraversò la strada, s’infilò in un cunicolo, fucile fra le braccia, sguardo insanguinato e contratto di tensione, il respiro affannato, e rimase fermo, in attesa.

Gli occhi di Italia vacillarono, il cuore accelerò e il respiro soffocato dal fumo pesò all’altezza del petto. La croce che pendeva sulla sua giacca emanò una scintilla rossa, uno stridio simile alla nota acuta di un violino, e rimase a pesare come una catena allacciata al collo.

Coperto dall’ululare del vento e dal rimbombo delle esplosioni lontane, Romano avanzò di un altro passo, posò la punta del piede nello spazio fra due tegole, voltò lo sguardo su Italia e si posò l’indice sulle labbra. “Non correre. Non fare scatti.” Un altro passo, più saldo. Romano abbassò le spalle per resistere alla pendenza del tetto. “Dobbiamo coglierla di sorpresa.”

Italia annuì. Diede un colpetto di scapola al suo fucile e lo seguì.

Bielorussia diede uno strappo alla leva dell’otturatore ed espulse il bossolo appena sparato. Sistemò il gomito, spinse le spalle più avanti, e inclinò la mira del fucile per tenere Germania sottotiro.

Italia compì un sobbalzo, strizzò le dita sulla manica di Romano, e il cuore gli rimase in gola. Ogni fibra del suo corpo fremette, ordinando gli di correre attraverso il tetto, di saltare addosso a Bielorussia, di disarmarla, e di impedirle di colpire Germania.

Italia socchiuse le labbra, diede un piccolo strattone al braccio di Romano, e soffiò una richiesta implorante. “Romano...”

“Ssh.” Romano indurì il muscolo del braccio, lo tenne indietro. “Stai calmo,” sibilò a denti stretti. “Se ci sente siamo fregati.”

Bielorussia socchiuse le ciglia, un lampo argenteo balenò fra le iridi, accese quel fine sguardo da volpe in caccia. Inspirò, trattenne l’aria, flesse l’indice sul grilletto, soffiò sulla superficie del fucile, e sparò il colpo.

Lo scoppio esplose, trafisse l’aria, e centrò la spalla di Germania. Un fiore di schizzi di sangue esplose dalla stoffa della giacca. Germania si aggrappò alla ferita, strinse i denti per non gemere, e cadde contro la parete dell’edificio adiacente.

Italia cacciò un gemito d’orrore, “No!”, e si tese in avanti per raggiungerlo.

Romano gli agguantò il polso, gli diede uno strattone, lo riportò indietro, schiacciandoselo al petto, e gli tappò la bocca.

Bielorussia strinse la mano appesa alla leva dell’otturatore, arrestò il movimento del braccio, e si girò, andando incontro alla voce che l’aveva bloccata. Spalancò la bocca. “Voi?”

Romano schiacciò le dita contro la bocca tremolante di Italia. Una vampata di rabbia gli risalì la schiena in un brivido rovente. “Merda.” Mollò Italia e le corse addosso.

Bielorussia si rotolò sul fianco, incastrò il fucile fra i gomiti, impennò la mira e puntò il petto di Romano.

Romano spiccò un’ultima falcata di corsa, scaricò un calcio sulla volata del Mosin-Nagant, e la disarmò. Ricadde su di lei, le afferrò i polsi, le schiacciò la pancia con una gomitata, ed entrambi rotolarono lungo la pendenza del tetto, fino al cornicione.

Italia scattò. Corse anche lui sulle tegole traballanti, attraversò la luce rossa soffocata dalla polvere e pestò il piede sul fucile di Bielorussia, bloccandolo sotto la sua gamba. Imbracciò il suo Carcano, puntò la mira sulla strada sottostante, indurì la presa delle mani tremanti e sudate, sbatté le palpebre per dissolvere la patina opaca che gli offuscava lo sguardo, e respirò a fondo. Calmo. Stai calmo. Mise a fuoco l’immagine di Russia, la sua arma tesa su Germania e la sua mano che si contraeva per raggiungere il grilletto. Italia sparò per primo. Il colpo cadde sulla strada, accanto ai piedi di Russia, e attirò il suo sguardo e quello di Germania verso l’alto. Italia si morse il labbro, sbiancò, e si maledisse. Oh, no.

“Veneziano!”

Italia calò il fucile e si girò verso la voce di Romano che lo aveva chiamato.

Bielorussia diede un colpo di reni alla superficie del tetto, strappò il polso dalla presa di Romano e fece cadere gli artigli verso il fucile schiacciato dal piede di Italia. Le unghie stridettero sulle tegole. Romano si tuffò a bloccarle il braccio e lanciò un altro grido. “Sparale, Veneziano!” Bielorussia liberò la mano, contrasse le dita, e piantò una graffiata sulla guancia di Romano. Romano le bloccò la spalla con una gomitata e urlò più forte. “Ammazzala!”

Italia ingoiò l’amarezza di aver mancato il colpo e allungò un passo gettarsi anche lui in ginocchio e bloccare Bielorussia. Voltò la coda dell’occhio, lo sguardo tornò a cadere in strada, verso la presenza di Germania, e il piede si congelò a mezz’aria.

Incrociò lo sguardo ancora alto di Germania, il suo viso sporco di sangue la mano aggrappata alla spalla ferita, e l’ombra di Russia che stava per riabbattersi su di lui. Si girò ancora. Romano aggrappato ai polsi di Bielorussia, il viso rosso di fatica, le braccia contratte, il ginocchio spremuto sulla pancia di lei, e quegli occhi d’acciaio che minacciavano di farlo a fette.

Sul petto di Italia, la croce di ferro lo chiamò di nuovo, ripeté quel sibilo metallico che gli punse l’udito e il cuore.

Il nero lo inghiottì.

Italia spinse la corsa verso l’orlo del tetto. Il suo piede scivolò, fece rotolare un frammento di tegola rotta, gonfiò una nuvoletta di fumo. Il suo corpo si tese attraverso i raggi di sole rosso e spalancato su di lui, e si precipitò da Germania.

Romano sgranò gli occhi. Il buio circondò anche lui, lo risucchiò in una spirale di gelo, e gli diede realmente l’impressione di star precipitando dal tetto. Ma che cazzo...

Bielorussia sfilò le gambe da sotto le sue, le schiacciò al petto e gli scaricò una doppia ginocchiata allo stomaco.

Romano soffocò un ansito. “Bwah!” Salì un conato di vomito al sapore di sangue che gli fece girare la testa. “Cristo...”

Bielorussia lo spinse di lato e gli scaricò un altro calcio che lo fece volare verso il ciglio.

Romano sbatté sul fianco e rotolò verso il cornicione. “Aah!” Si aggrappò al ciglio e piantò le dita fra le tegole, spezzandosi le unghie. Le gambe caddero al di là del tetto e lui piantò i piedi contro la parete per frenare la caduta. Una suola sdrucciolò. Romano diede una strusciata al muro e infilò la punta dello stivale in una rientranza. Contrasse le mani ancora aggrappate alle tegole, gonfiò i muscoli delle braccia, e forzò gli addominali per non lasciarsi andare. Cado, cado, cado! Lacrime di sudore gli rigarono la fronte e bagnarono gli occhi. Il suo corpo teso e indolenzito tremò. Romano stese un braccio, graffiò il tetto, e si appese alle tegole più alte. Girò la guancia da sopra la spalla e guardò sotto di sé. Le travi spezzate tendevano verso di lui come fauci spalancate, come denti che gli avrebbero trapassato il corpo e spezzato le ossa, abbeverandosi del sangue che sarebbe colato lungo il legno. Romano si sentì mancare. Oh, merda...

Bielorussia si tuffò sul suo fucile, vi strinse le dita fino a far stridere le unghie sulla parte metallica, e si rialzò in piedi facendo sdrucciolare un frammento di tegola da sotto la suola. Si erse davanti a Romano, circondata da una sottile nebbiolina e coronata dalla luce rossa del cielo alle sue spalle. Pestò un ultimo passo, gli sfiorò le punte delle dita con lo stivale, e gracchiò una risata maligna. “Hai proprio un fratello di merda, lo sai?”

Romano sollevò lo sguardo, allontanandolo dalle fauci delle travi spezzate, e finì inghiottito nel nero della bocca di fuoco del fucile puntato su di lui.

Bielorussia infilò l’indice nel grilletto, mirò alla sua testa. “Quasi quasi mi dispiace farti fuori, sai? Dopotutto, stiamo cercando entrambi di proteggere nostro fratello.” Il vento le soffiò addosso, scosse i capelli biondi davanti agli occhi bui e tempestosi come quelli di Russia. “Ma io non mi faccio scrupoli nel sacrificarmi per il mio.”

Il corpo di Romano tremò, scosso dall’ultimo fremito delle forze che lo stavano abbandonando, risucchiate da paura e fatica. Sono in trappola. Strizzò le palpebre lacrimanti di sudore e strinse le dita fra le tegole, sollevando lo scricchiolio delle falangi dure come gesso. Due opzioni, ragionò. Solo due opzioni. O finire con la testa spappolata da un proiettile, o finire infilzato come uno spiedino.

Visualizzò lo sparo esplodere dal fucile di Bielorussia, trafiggergli il cranio ed esplodere all’altezza della nuca. Le sue mani che mollavano la presa sul cornicione e il suo corpo che cadeva all’indietro, finendo trafitto dalle travi spezzate.

Deglutì. Devo buttarmi. Meglio qualche osso rotto o un palo nello stomaco piuttosto che il cranio bucato.

Romano guadagnò un respiro profondo, allentò la presa delle dita ormai bianche per lo sforzo, piegò le ginocchia, e fece forza sui piedi premuti alla parete, per darsi la spinta. Le sue labbra tremarono, il cuore gonfio di paura lo trascinò nel buio spalancato alle sue spalle

Addio.

Romano staccò la presa, si diede la spinta, e si lasciò cadere.

Bielorussia sparò. Il proiettile gli sfrecciò sopra la spalla, lo sfiorò con il suo alito rovente, e cadde a terra, piantandosi sul cemento.

Un fragoroso rombo ruggì attraverso la strada e sfrecciò accompagnato dal suono più stridente di cingoli sull’asfalto. Un paio di braccia si spalancarono, afferrarono Romano al volo, e lo salvarono dalla caduta sulle travi spezzate. “Preso!”

Romano sussultò, sotto quella presa improvvisa, e spalancò gli occhi, riprendendo a respirare. Ma cosa...

Spagna lo strinse a sé. “Va tutto bene.” Si chinò per trovare riparo nella torretta del panzer da cui era sbucato. “Sei salvo, sei al sicuro.”

Romano si girò. “V-voi?” Era sulla cima del panzer appena ricomparso e ancora in moto dopo la sgasata per raggiungerlo. Il vortice di confusione permaneva attorno alla sua testa. “Ma dove...”

Il rombo di un altro motore si sovrappose a quello del panzer tedesco. Il KW sovietico emerse da dietro lo spigolo della casa, diede una brusca frenata, regolò la volata del cannone, e sputò una prima granata perforante addosso al carro nemico.

Romano si strinse a Spagna per non finire sbalzato via. Da dentro l’abitacolo, Prussia gridò qualcosa che nessuno di loro due capì.

Romano, ancora tremante dopo la caduta – il fiato corto e il cuore contratto per la paura di finire infilzato – inveì addosso a Spagna. “Non avete seminato il KW?”

Spagna gli diede una spintarella per non farlo cadere e inviò a sua volta un’occhiataccia verso il carro sovietico. “Cambio di programma. Non potevamo lasciarvi soli e...”

Altri proiettili provenienti dall’alto piovvero sulla superficie del panzer e schizzarono bianche scintille incandescenti addosso a Spagna e Romano. Bielorussia, dal bordo del tetto, tirò indietro l’otturatore del suo fucile, e riprese la mira su di loro.

Spagna resse Romano con un braccio solo, raggiunse la sua pistola sul fianco, la estrasse, e gliela puntò addosso. “Ferma dove sei.” Sparò un colpo.

Il proiettile sfrecciò come una scheggia e trafisse la spalla destra di Bielorussia. “Ah!” Lei torse il busto, lasciò cadere il fucile, e si aggrappò alla ferita sanguinante come aveva fatto prima Germania con la sua. Il Mosin-Nagant cadde ai suoi piedi, rotolò dal tetto spiovente, e finì a terra, fra le aste di legno spezzato ancora in piedi.

Spagna s’infilò nell’abitacolo del panzer portandosi dietro Romano e diede un calcetto a Prussia. “Via di qua, presto, prima che ci prendano di nuovo a cannonate!” Si rimise seduto senza aspettare che ripartisse ma non si separò da Romano. Gli strinse le mani sulle spalle, tenne salda la presa. “Romano.” Gli scostò la frangia dal volto, lo guardò dritto negli occhi. “Romano. Dov’è Ita?”

Romano tenne le labbra schiuse. Il respiro affannato a scuoterlo sotto la presa di Spagna, e gli occhi terrorizzati ancora sgranati su cui si specchiava l’immagine degli spuntoni di legno sui quali stava per cadere e ferirsi.

Strinse i pugni, arrestò i tremori, e si lasciò travolgere da una rabbia fiammeggiante nata da un forte bruciore sotto le unghie.

Davanti a lui sfrecciò la scena appena vissuta sul tetto: Italia che si tendeva lontano, la sua corsa che gli dava le spalle, e la sua figura rimpicciolita che ricadeva su Germania, abbandonandolo.

Romano strinse i pugni, si morsicò la bocca fino a sentire il sapore del sangue, premette la fronte contro Spagna, ricacciò indietro un pianto amaro e rabbioso, e lasciò che il suo abbraccio e lo strofinò delle sue mani sulla schiena placassero il fuoco d’odio che gli stava consumando l’anima facendogli avere paura di se stesso. Non aveva mai desiderato così ardentemente di uccidere suo fratello.

 

.

 

Ucraina aspettò che l’eco della cannonata appena sparata del loro KW si ritirasse dalle sue orecchie, che le vibrazioni scivolassero fuori dalle sue ossa, e si sporse dal sedile, volgendo lo sguardo dallo spioncino affacciato al panzer tedesco che stavano inseguendo. Il fumo si abbassò, il vapore grigio rotolò lungo la superficie del panzer e scoprì la sagoma della torretta, il profilo di Spagna che stringeva le braccia attorno al corpo di Romano appena precipitato dal tetto. Spagna resse Romano con un braccio solo, agguantò la sua pistola, puntò la mira verso l’alto con occhi feroci, contro Bielorussia.

Una saetta di paura trafisse il cuore di Ucraina. Oh, no.

Spagna fece fuoco, e lo sparo trafisse la spalla di Bielorussia. Bielorussia si torse con un gemito, si aggrappò alla spalla sanguinante, e perse il fucile.

Anche Ucraina urlò. “Bielorussia!”

Estonia frenò la corsa del carro e gettò lo sguardo all’indietro. “Cos’è successo?”

Ucraina si staccò dallo spioncino e balzò giù dal suo sedile. “Bielorussia è ferita.” Risalì la cima del carro per aprire il portello e uscire dal mezzo con il cuore galoppante. “Le hanno sparato.”

Estonia imitò Ucraina e si affacciò anche lui al panorama circostante, tramite il periscopio. Una nuvola di fumo s’ingrossò davanti a loro e annunciò la fuga del panzer. “Il panzer è ripartito.”

Lituania serrò i pugni, soppresse un moto di frustrazione. “Ci sfuggiranno di nuovo.”

Ucraina spalancò il portello e uscì dal carro senza portarsi dietro alcuna arma. “Voi inseguiteli.” Si girò a lanciare un’ultima occhiata all’interno del mezzo, ma i piedi già bruciavano dal desiderio di raggiungere la sorella. “Continuate a combattere, io vado a soccorrere Bielorussia.”

Un tentativo di protesta da Estonia, “Ma...”, e Ucraina sigillò l’abitacolo. Saltò giù dal carro, pestò i piedi nella nuvola di fumo lasciata dal panzer appena sfrecciato via, e corse attorno alla casa tenendo lo sguardo alto sulla figura di Bielorussia rannicchiata sul cornicione del tetto. Le spalle chine e tremanti, i capelli a cadere sul viso, e la mano bagnata di sangue aggrappata alla ferita.

Ucraina accostò una mano alla bocca per indirizzare la voce affannata verso di lei. “Sto venendo a prenderti, resisti!” Superò di corsa le travi spezzate, scacciò via un brivido alla vista delle punte di legno aguzzo, risalì l’edificio come avevano fatto Romano e Italia, e si aggrappò al bordo del tetto. Scivolò con le ginocchia sulle tegole. Il vento pregno di fumo la scosse, le fece traballare le spalle, e la costrinse a rimanere gattoni, le mani ben salde sulla superficie traballante.

All’altra estremità del tetto, Bielorussia non si era mossa. Tremò di nuovo, spremette le dita sulla spalla, lasciando sgorgare altri fiotti di sangue fra gli spazi delle falangi, e tenne il viso nascosto dai capelli scossi dal vento.

Ucraina soffiò un sospiro di sollievo – era cosciente, le avevano colpito solo la spalla – e sollevò una gamba, premendo il piede sulle tegole. “Arrivo.” Mosse un primo passo, una tegola s’infranse, la fece scivolare, e lei dovette tornare sulle ginocchia. Le mani ben salde sul tetto e la postura bassa per non farsi scuotere dalle folate di vento che fischiavano fra i comignoli ancora intatti. Ucraina attese che una zaffata d’aria si ritirasse, bruciando sulla pelle sudata, e tornò a posare lo sguardo su Bielorussia. “Sto arrivando,” ripeté, e avanzò ancora stando china. “Resisti, sono qui, andrà tutto bene.” Attraversò il tetto una ginocchiata alla volta, raggiunse la pendenza e tenne salda la presa per non scivolare dalle tegole. Staccò una mano da terra, tese il braccio, e la sua ombra toccò la figura china di Bielorussia. “Afferra la mia mano.”

Bielorussia voltò il capo. I capelli scivolarono dalla guancia e rivelarono il viso contratto dal dolore e le sopracciglia ancora increspate in quell’espressione di rabbia e frustrazione per essersi lasciata sfuggire Romano. Si appiattì alla superficie del tetto chiazzato dal sangue gocciolato dalla sua ferita, e anche lei si tese verso la sorella. Distese il braccio e spalancò la mano insanguinata per farsi prendere e portare lontano dal ciglio che spioveva sugli spuntoni di legno.

Ucraina le rivolse un caldo ma tremolante sorriso d’incoraggiamento. “Coraggio, puoi farcela.” Spinse le ginocchia più avanti, allungò il braccio fino ad avere l’impressione che la spalla si stesse staccando. “Solo uno sforzo.” Spalancò anche lei la mano.

Le sue dita sfiorarono quelle sporche di rosso di Bielorussia. Due gocce di sangue piovvero dai polpastrelli, chiazzarono le tegole, e riflessero l’intensa luce del sole che rimase a pendere fra loro due come un sottile filo destinato a spezzarsi.

 

.

 

Germania strinse la mano aggrappata alla spalla colpita dallo sparo di Bielorussia e sollevò lo sguardo dal proiettile caduto fra lui e Russia.

Sopra il tetto, la sagoma che aveva sparato si delineò, calò la mira del fucile ancora fumante, e si lasciò inondare dai raggi di sole che batterono sul viso sudato e affannato di Italia. Romano e Bielorussia lontani da lui. Bielorussia a spingere le ginocchia contro il petto di Romano, e Romano a serrare la presa contro i suoi polsi, tenendola lontana dal fucile.

Nonostante il sangue a riempirli, gli occhi di Germania brillarono di realizzazione. Ha sparato lui. “Italia...”

Russia riabbassò gli occhi per primo. Germania fermo davanti a lui, lo sguardo altrove, nessuna difesa a proteggerlo.

Un sorriso di trionfo gli sollevò le labbra.

Russia gli puntò il fucile contro. Gli occhi di nuovo fissi e ghiacciati come un magnetico cielo risucchiato da una tempesta. L’immagine di Germania trafitto e tramortito dallo sparo già impressa a fuoco nella sua mente.

Rumore di passi in corsa sopra di loro, di suole che picchiano contro la superficie di tegole traballanti. “Fermo!” L’ombra di Italia spiccò il volo. Atterrò in mezzo a loro, si aggrappò alla volata del fucile di Russia, tappando la bocca di fuoco con il palmo, e gli fece sollevare la canna lontano da Germania.

Il fucile sparò. Il proiettile trapassò la mano di Italia e gli schizzò uno spruzzo di sangue in faccia. I rivoletti gli attraversarono le guance come lacrime, raggiunsero le labbra socchiuse e boccheggianti, e gocciolarono dal mento.

Russia esitò, di nuovo trafitto da quegli occhi sconosciuti che già lo avevano incenerito quando li aveva incontrati attraverso le fiamme dell’incendio. Di nuovo questo sguardo. Provò lo stesso profondo sentimento di soggezione e quella spina di timore piccola ma pungente come una scheggia nella nuca.

Italia sbatté le palpebre, sciolse le ultime perle di sangue che rotolarono come lacrime cremisi, e puntò lo sguardo sulla mano bucata ancora aggrappata al fucile rovente. Staccò la mano di colpo, la rigirò, sbarrò gli occhi, e un’ondata di terrore sciacquò via la scura maschera di minaccia. “Aah, la mano!”

Germania lo circondò con le braccia, nonostante il dolore dell’esplosione e del proiettile, e lo sottrasse dalla mira di Russia.

Italia piagnucolò ancora, “Mi ha sparato alla mano”, e grossi lacrimoni trasparenti traballarono fra le palpebre.

Germania gli tenne il capo riparato e gli fece rintanare il viso nel suo petto.

Russia strinse i pugni a terra, le ginocchia sull’asfalto come loro, il fucile caduto fra i suoi gomiti, e distese i tratti del volto, toccato dal dolore di quel pianto e dal tepore di quel gesto protettivo. È grazie al legame con Germania che Italia è riuscito a diventare più forte? Però questo rende Germania più debole. Sospirò, socchiuse le palpebre, e una velata malinconia raffreddò la tempesta nei suoi occhi. Entrambi traggono forza dal loro legame, ma basta solo un momento di cedimento per far diventare l’uno il punto debole dell’altro. Ne sarebbero davvero capaci? Lo scosse un tremore amaro, d’invidia. Sarebbero capaci di sacrificarsi in nome di un’alleanza? In nome di un rapporto umano?

“Perché lo hai fatto?” domandò Russia. La voce pacata e gli occhi di nuovo placidi e miti come un cielo lavato dalle ultime nuvole violacee. “Perché stai rischiando la tua vita solo per un alleato? Per qualcuno che ti ha trascinato consapevolmente nell’inferno di una guerra che non ti appartiene?”

Italia si tenne aggrappato all’abbraccio di Germania, contrasse la mano ferita, rilassò le dita gocciolanti che stavano perdendo sensibilità, e ingoiò un grumo di lacrime e paura. “Perché io e Germania abbiamo fatto un patto.” Gli tornò una scossa di energia. La voce suonò più alta, anche se ancora scossa dai fremiti. “Io proteggo lui e lui protegge me. E io sono stanco di essere salvato. Sono stanco di mettere nei guai qualcuno che amo solo per la mia debolezza.”

Russia sollevò un sopracciglio, dubbioso e irritato. “Un patto fra di voi?” Flesse il capo di lato. “E cosa ti spinge ad avere tutta questa fiducia nei confronti di Germania? La sua nazione ha appena tradito la mia.” Distese un sorriso crudele. “Cosa pensi che lo spingerà a rimanerti fedele?”

Italia socchiuse la bocca ma ammutolì. Quella domanda gli entrò in testa come un chiodo e arrestò ogni pensiero, causando solo un ronzio attraverso le tempie. Cosa mi spinge a rimanergli fedele? La croce di ferro che pendeva sul suo petto emise l’eco di un ronzio metallico ed emanò il familiare bagliore argenteo che morì sulla punta di uno dei bracci.

Germania rispose per lui, rivolgendosi a Russia. “Non parlarne come se non sapessi fin da subito che prima o poi saremmo arrivati a questo punto.” Si rialzò sulle ginocchia, strinse il braccio sano attorno al corpicino tremante di Italia, ancora avvinghiato al suo petto, e distese la mano dietro la sua nuca per tenerlo protetto. I suoi occhi erano di nuovo quelli freddi e spietati che facevano gelare sul posto qualsiasi suo nemico. “Io e te siamo nazioni simili, abbiamo gli stessi bisogni, le stesse ambizioni, gli stessi obiettivi. Un’alleanza fra noi due non avrebbe mai potuto reggere, soprattutto dopo tutto quello che è successo durante il Primo Conflitto.”

Russia tornò buio in volto. Quella realizzazione lo colpì in una botta fra le costole, un tuffo ghiacciato nel petto dove risiedeva un buco al posto del cuore. “Sapevi fin da subito che avremmo finito per ucciderci a vicenda,” mormorò. Strinse i pugni a terra, chinò la fronte, morsicò la consistenza amara e secca del labbro, e si lasciò scuotere da un fremito di frustrazione. Tornò a guardare Germania negli occhi e arrochì la voce. “E allora perché hai scelto questo schema d’attacco, Germania? Perché non hai creato una formazione unica per sfondare unicamente su Mosca, come un colpo d’ariete?” Ridacchiò. “Forse a quest’ora avresti già vinto.”

Germania scosse il capo. “Perché sapevo che ti saresti difeso, e sapevo che avresti fin da subito cercato di proteggere il tuo cuore. Mosca non ha nulla da offrirmi, se non un nome. La tua capitale non è mai stata il mio obiettivo principale.”

Russia alzò gli occhi al cielo e mostrò un’espressione delusa. “Che atteggiamento presuntuoso da parte di una nazione del tuo calibro.”

Germania schiuse la bocca, fece per ribattere, ma l’occhio cadde alle sue spalle, sul tetto da cui Italia era saltato per piovergli addosso e fermare lo sparo di Russia.

Ucraina scivolò con le ginocchia lungo il tetto e distese il braccio per raggiungere Bielorussia. Le loro mani si sfiorarono, gocce di sangue piovvero dalle dita di Bielorussia e chiazzarono le tegole.

Negli occhi di Germania brillò una scintilla di furbizia e cattiveria che né Italia né Russia riuscirono a notare.

“Cosa ti fa credere che non mi difenderò anche adesso?” domandò ancora Russia. “Non entrerai mai a Mosca, te lo assicuro, barricherò la città come un bunker, impedirò anche a un singolo fante di metterci piede. Morirai qui, Germania.” Il suo sorriso si fece freddo e pungente come un vento invernale. “Oppure ti chiuderò fuori da Mosca e aspetterò che sia l’inverno a ucciderti al posto mio.”

Germania strinse più forte Italia e si caricò di un’energia improvvisa. La risposta si fece finalmente chiara dentro di lui. “No,” ribatté. “Tu non andrai a Mosca. Non avrai tempo di difenderla e di barricarti al suo interno.” Di nuovo si lasciò invadere dalla stessa luce che gli era balenata davanti in quell’attimo di follia. “Andrai in Ucraina, a difendere Kiev.”

Russia batté le palpebre. “In Ucraina?” La sua confusione si materializzò in un mezzo sorrisetto, in un sorriso disteso che non considerava nemmeno il pericolo di quelle parole. “Cosa stai dicendo? Cosa ti fa credere che sceglierò Kiev al posto di Mosca?”

Germania spinse la mano fra il suo fianco e quello di Italia, estrasse la pistola dal fodero e la puntò contro Russia. “Questo.”

Russia tirò indietro la testa con uno scatto ma tenne gli occhi fissi sulla bocca dell’arma, impassibile come ghiaccio.

Germania spostò la mira, tese il braccio dietro di sé, verso il tetto su cui Ucraina e Bielorussia stavano per raggiungersi, e sparò tre volte.

Due proiettili schizzarono fra le loro braccia distese, spaccarono frammenti di tegole che finirono addosso a entrambe, e il terzo trafisse il cornicione, sollevando un sonoro crack!

Il peso di una gamba di Bielorussia sfasciò l’orlo di legno, il suo piede precipitò facendo piovere a terra i pezzi di tegola rotta. “Ah!” Bielorussia strinse la mano di Ucraina, strizzò i denti e gli occhi per resistere al dolore alla spalla, e rimase appesa.

Ucraina le diede un forte strattone, la riportò sul tetto, e scivolò all’indietro prendendo il suo posto. Anche la sua gamba sdrucciolò sulle tegole rotte, le spalle caddero all’indietro, seguendo la pendenza del tetto, e sotto di lei si spalancò una voragine di vuoto. Staccò la mano da quella di Bielorussia per non trascinarsela dietro, e cadde dal tetto. Atterrò su entrambi i piedi, incrociò le gambe, perse di nuovo l’equilibrio, sbatté la schiena sulla parete, e finì rimbalzata in avanti, addosso alle travi spezzate.

Uno degli spuntoni inclinati le bucò il petto, attraversò il torso spruzzando un rigetto di sangue che schizzò sul muro, lacerò la carne sollevando uno squish e un crack delle costole spezzate, e fuoriuscì da sotto la scapola, gocciolando un denso rivolo scarlatto.

Ucraina sgranò gli occhi in un’espressione di stupore, schiuse la bocca in un gemito muto, e le labbra tremarono in quel mezzo respiro soffocato che non riuscì a portare a termine. Riappoggiò i talloni a terra e spinse un passo all’indietro. Il legno si mosse dentro di lei, la trattenne, e fece sgorgare altro sangue dalla punta. Ucraina abbassò lo sguardo e incontrò l’estremità della trave che le era entrata nel petto uscendole dalla schiena. Una nera ombra di orrore cadde sul suo viso, gli occhi spalancati s’infossarono nelle palpebre, e dalle sue labbra socchiuse scivolò un gemito strozzato.

Ucraina si aggrappò al legno con entrambe le mani, tossì due volte, si soffocò con un primo conato di sangue, e si torse in avanti. Rigettò il grumo che cadde ai suoi piedi, allargando la chiazza scarlatta che già le bagnava gli stivali.

Bielorussia si riprese. Scosse il capo, si tolse i capelli dal viso, e lasciò cadere lo sguardo a terra. “Cosa...” Squadrò la scena – Ucraina trafitta, la presa aggrappata allo spuntone che l’aveva infilzata, e il sangue che si stava allargando sotto i suoi piedi. Si sentì mancare. Un pugno di dolore affondò nel suo petto, facendole dimenticare della ferita alla spalla. Bielorussia ricadde all’indietro, sbiancò come un cadavere, spinse i piedi contro il tetto, e sovrappose le mani alla bocca, ingoiando un grido.

Il tuono dello sparo, il rumore secco delle ossa spezzate, quello più viscido della carne lacerata, e l’urlo soffocato di Bielorussia si abbatterono su Russia come se fosse stato lui a incassare il colpo. Il petto si contrasse, la fitta di dolore lo fece impallidire, e la visione del sangue gli riempì le palpebre sbarrate, trasmettendogli un tremito. Rimase a labbra schiuse – la stessa espressione tramortita che Ucraina aveva mostrato quando si era accorta della trave che era penetrata nel suo petto – e smise di respirare, ghiacciato come una statua di neve.

Germania si rialzò, aiutò Italia – lui aveva ancora la mano ferita accostata al petto, il viso chino, e perle di lacrime che rotolavano attraverso la pelle bagnata dal sangue che non smetteva di uscire – e si erse davanti a Russia, schiacciandolo nella sua ombra come la sua nazione stava schiacciando l’Unione Sovietica sotto la sua morsa di ferro. “Stiamo invadendo anche la sua nazione,” gli disse. “Ho spedito un gruppo d’armata volto solo all’occupazione dell’Ucraina e allo sterminio dei suoi abitanti. In fase d’invasione, ferite del genere possono anche ucciderci, non si rimarginano facilmente. Kiev cadrà in poche settimane, forse è questione di giorni.”

Russia distolse gli occhi da Ucraina, ancora scosso, e impietrì lo sguardo su Germania.

Germania sostenne il peso di quegli occhi. “Hai due scelte davanti a te, Russia: o Mosca o Kiev. E andare a rifugiarti a Mosca significherebbe trascurarla. Scegli Mosca e lei morirà, farà la fine di Polonia. Se vuoi davvero salvarla allora dovrai portarla nella sua capitale, dato che lei in queste condizioni non potrà assumere da sola il comando del suo esercito e dei suoi uomini.” Restrinse le palpebre. Il gelo racchiuso nei suoi occhi lo trapassò come era successo con Ucraina. “Riflettici attentamente.”

Nella mente di Russia tornò a spalancarsi un vuoto e spaventoso spazio bianco. I suoi occhi vacillarono, si riempirono solo con l’immagine della sorella ferita, e quel freddo buco senz’anima nel suo petto venne attraversato da una frecciata di dolore più fredda e triste di una sferzata di vento siberiano. “Ucraina...”

Bielorussia tornò a scivolare in avanti. Stese un braccio verso Ucraina, allungò un piede giù dal tetto come per scendere, spinse una tegola che cadde e si ruppe in uno scoppio, e ritirò la gamba.

Ucraina abbassò le palpebre, esalò un ultimo ansito, contrasse il petto gocciolante, strizzò le dita sulla trave, e allentò la presa. Non riaprì gli occhi. Il sangue continuò a grondare dalla ferita, gocciolò ai suoi piedi, e allargò la pozza sempre più scura e stiracchiata. Un largo rivolo rosso raggiunse la strada, ne bagnò l’asfalto, e si fece assorbire dalla terra martoriata che lanciò il suo grido d’aiuto fino alle orecchie di Russia.

 


N.d.A.

La scorsa domenica, alcuni già lo sanno, ho pubblicato l’ultimo capitolo di Lithuanian Cub, l’ultima long della saga dei London Cubs. La serie si è definitivamente conclusa nell’arco del 2018, come mi ero prefissata (brava me!), e questo significa che... la pubblicazione del Miele torna settimanale!

Alcuni di voi mi hanno già chiesto se ho intenzione di dedicarmi ad altri progetti, ora che la saga dei Cuccioli è finita, e quindi se pubblicherò altre storie parallele al Miele. Per la verità... probabilmente sì. Vorrei innanzitutto pubblicare un’altra fan fiction di Hetalia di cui ho già scritto la prima stesura. Sarà piccina, solo quattro capitoli, e avrà toni molto leggeri, proprio una di quelle storie ricreative tanto per farsi due risate in stile “Adolescenti in preda a crisi di pubertà, convinti che la cosa peggiore che possa capitare nella vita sia essere scaricati dalla propria love crush”. Il problema è che sta venendo fuori una cosa più scema del previsto, quindi devo ancora decidere se sia il caso di pubblicarla o meno. Lascerò che le vacanze portino consiglio. In più, da qualche mese ho cominciato a progettare un’altra very-very-long – un’originale, però – che mi sta portando via molto tempo e che devo ancora finire di assemblare, quindi non mi fido di cominciare a scrivere senza avere prima uno schema preciso di quello che ho intenzione di raccontare. Poi potrebbe rivelarsi la cosa più scorretta che io abbia mai pubblicato e ho paura che mi caccino a pedate da EFP. Devo quindi meditare a fondo sul da farsi.

Tutto questo sarà d’intralcio al Miele? Ancora non lo so, ma cercherò di organizzarmi in modo da essere sempre puntuale con gli aggiornamenti e da avvertirvi in anticipo nel caso ci fosse qualche cambio di programma.

La prossima settimana e quella successiva mi concedo una piccola pausa natalizia, come di consueto. Ho da recuperare un po’ di energie, dato che l’ultima mia pausa di una settimana corrisponde al periodo di Pasqua e il mio povero cervellino sta facendo glu, glu al posto di wroom, wroom (^-^)”, ma da gennaio 2019 il Miele riprenderà la sua pubblicazione ogni domenica, come al solito.

Dai che forse riesco davvero a inserire Pearl Harbor nell’arco del prossimo anno. Secondo i miei calcoli approssimativi, direi che potremmo arrivarci entro primavera/inizio estate del 2019, dato che a separarci dall’attacco alla base hawaiana ci resta solo la Battaglia di Kiev (sacca di Uman compresa) e quella di Mosca.

La cosa più divertente in tutto ciò è che l’attacco a Pearl Harbor avviene proprio il giorno dopo la fine della Battaglia di Mosca. Neanche tempo di tirare fiato, proprio. Già mi immagino il povero Germania sfinito, distrutto, costretto a una prima arretrata, mentre si asciuga il sudore, si massaggia le ossa stanche e indolenzite, guarda Mosca da lontano, fa ciao-ciao con la manina alle guglie del Cremlino, e assiste alle divisioni che retrocedono, pensando fra sé e sé: “Se non altro, peggio di così non può andare, no?” Già... già... ‘nnaggia, Kiku! Ma adoro come io mi stia preoccupando praticamente solo di Germania, quando quello a beccarsi le pagaiate sul sedere sarà America. Ecco cosa succede quando si viene graziati nelle altre long, eh, Alfred? Ucraina lo ha già imparato in questo capitolo, dopotutto.

L’arco narrativo di Pearl Harbor già so che sarà lunghetto, anche perché ci saranno delle digressioni che mi porteranno via un po’ di tempo (spero meno di quello che immagino) ma che saranno fondamentali, e anche perché dovrò cominciare ad approfondire l’evoluzione di America. Ormai sapete che mi piace complicarmi la vita. Poi si comincerà il Quarantadue, e in realtà la mia idea sarebbe quella di arrivare abbastanza velocemente a Stalingrado che sarà una delle battaglie più succulente, anche perché poi ci sarà l’arco delle Midway dove dovrò concentrarmi su Alfred e Kiku, sulla loro rivalità, sui loro parallelismi (saranno loro due che porranno fine a tutto l’ambaradan di questa guerra, dopotutto), e avrò il mio bel da fare soprattutto nella seconda metà dell’anno. Magari mi soffermerò anche un pochettino su Leningrado, approfittando dell’inverno, ma devo ancora decidere. Tanto l’assedio a Leningrado dura fino al Quarantaquattro, quindi Fin può anche aspettare. E intanto il Quarantatre si avvicina sempre di più, e sappiamo tutti che comporterà un exploit di #SchiaffiPerVeneziano e di #AutriceSuperCattiva. Ma com’è il nostro motto? Un capitolo alla volta, settimana dopo settimana, con calma e serenità, e si arriva a fare tutto. Spero.

Ringrazio tutti per la pazienza e la comprensione dimostrata in questi ultimi mesi, dopo la mia decisione di alternare le due storie di settimana in settimana, ringrazio nuovamente quelli che mi hanno sostenuta anche nella scrittura dei London Cubs (siete stati troppo fantastici a seguire due storie contemporaneamente, per di più così diverse fra loro), e auguro a tutti delle splendide e serene feste. ♥

Al prossimo anno, ciurmaglia!

   
 
Leggi le 4 recensioni
Segui la storia  |        |  Torna su
Cosa pensi della storia?
Per recensire esegui il login oppure registrati.
Capitoli:
 <<    >>
Torna indietro / Vai alla categoria: Anime & Manga > Axis Powers Hetalia / Vai alla pagina dell'autore: _Frame_