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Autore: _Frame_    13/01/2019    3 recensioni
1 settembre 1939 – 2 settembre 1945
Tutta la Seconda Guerra Mondiale dal punto di vista di Hetalia.
Niente dittatori, capi di governo o ideologie politiche. I protagonisti sono le nazioni.
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[On going: dicembre 1941]
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[AVVISO all'interno!]
Genere: Drammatico, Guerra, Storico | Stato: in corso
Tipo di coppia: Nessuna
Note: nessuna | Avvertimenti: Contenuti forti, Violenza
Capitoli:
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- Questa storia fa parte della serie 'Miele&Bicchiere'
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N.d.A.

E siamo ritornati in pista! :D

Rinnovo le scuse per il ritardo, ma ora per fortuna si è (quasi) sistemato tutto. Nonostante i limiti del piccolo computer di riserva, riesco tranquillamente a lavorare ai capitoli, quindi dovrei procedere spedita come un tempo.

Ne approfitto inoltre per annunciare che abbiamo ufficialmente raggiunto due milioni di parole! Comprese anche quelle dei capitoli che non ho ancora pubblicato, ovvio. Cosa ce ne facciamo di questa informazione? Direi assolutamente nulla, ma mi faceva piacere condividerla.

Ringrazio tutti per la pazienza dimostrata durante queste ultime e burrascose settimane, e... che la carneficina ricominci!

 


185. Marcia indietro e Deviazione verso sud

 

 

Italia strinse il braccio attorno al fianco di Germania che premeva sul suo, sulla durezza dell’anca che strofinava la stoffa della sua giacca a ogni passo arrancante con cui si stavano trascinando lungo la strada. La mano ferita e sanguinante – un foro nero a bucarla al centro del palmo, come la stigmate di un crocefisso – gocciolava una scia rossa che finiva calpestata dalle loro suole a ogni falcata.

Italia compì un altro passetto e saltellò sul piede che non gli faceva male – si era storto una caviglia dopo essere caduto dal tetto e precipitato fra Germania e Russia. Germania chiuse la presa del braccio attorno al suo torso, sostenendolo contro di lui per impedirgli di cadere di nuovo. Germania si strofinò una manica della giacca sul viso sudato e sanguinolento, raschiò via la polvere dagli occhi, raccolse con un sospiro un’altra ondata di forze, e inviò una scossa di energia alle gambe. Procedette a passo più spedito e tenne Italia incollato a sé. “Ci siamo quasi,” gli disse. “Fra poco saremo al sicuro. Resisti solo per un po’.”

Italia annuì. Guadagnò un profondo respiro per trattenere le forze nei muscoli, strinse i denti, e calpestò un altro passo, sollevando una nuvoletta di polvere sotto lo stivale.

Germania fece lo stesso e continuò a camminare. Ripulì le palpebre dal sangue, cercando di disfarsi di quella patina rossa, calda e collosa che gli stava scendendo dalla fronte, e urtò una delle macerie. Inciampò

“Germania!” Italia strinse entrambe le braccia attorno a lui, ignorò il dolore alla mano ferita, e lo tirò su. “S... stai bene?”

Germania respirò a labbra socchiuse, e il sapore ferroso del sangue gli entrò in bocca. Passò un’altra volta la mano sulla metà del viso sporca di sangue e tirò indietro i capelli umidi che ricadevano sulla fronte. “Sto bene.” Il tono di voce affaticato, ancora scosso dalla lotta appena conclusa.

Uno spasmo di panico ingrigì il volto già sciupato di Italia, rese i suoi occhi ancora più lucidi e vacui. Deve avere ancora dei pezzi di bomba incastrati nel braccio e nella testa. “Dobbiamo portarti subito da un dottore.” Strinse più forte le braccia attorno a lui e gli diede un’altra spintarella. “Dobbiamo medicarti prima che tu perda troppo sangue.”

Germania scosse la testa. “Non preoccuparti per me. Tu, piuttosto...” Toccato dal calore del sangue riversato dalla mano di Italia, si soffermò su quella ferita. Rivide il gesto che lo aveva salvato, quell’imposizione di Italia davanti a Russia, quel lampo tonante assorbito fra le sue dita. Gli raccolse la mano senza stringere la presa, come se si fosse trattato di avvolgere la fragile corolla di una rosa. “La tua mano.”

Italia abbozzò un sorriso rassicurante e scosse la testa. “Non è niente. È solo una ferita.” Riprese ad avanzare al fianco di Germania e si guardò alle spalle. Un fioco lampo di paura ancora impresso nei suoi occhi, la presenza di Russia incollata alla sua pelle come una bruciante impronta di ghiaccio. “Russia sarà davvero rimasto indietro?” domandò a Germania. “E se avesse deciso di seguirci? Se fosse ancora in agguato da qualche parte?”

Anche Germania guardò indietro, aggrottò le sopracciglia. “Dubito che abbia scelto di abbandonare Ucraina per inseguire noi. Se si fosse trattato di...” Un’altra colata di sangue gli inondò il viso e tinse la vista di rosso. Germania si passò la mano sulla fronte, fra i capelli, e riprese fiato dopo quel breve giramento di testa. “Se si fosse trattato di avere una qualche possibilità di salvare Smolensk, allora forse non avrebbe rinunciato e nemmeno io mi sarei fidato a lasciarmelo alle spalle. Ma ormai la città è nostra, non c’è modo di riconquistarla.” Nei suoi cupi occhi laccati di rosso si riflesse l’immagine di Russia sporco del sangue di Ucraina, le ginocchia a terra, le sue braccia strette attorno al corpo inerme della sorella. “E Russia ora starà tentando per lo meno di salvare ciò che è ancora salvabile.”

Italia ebbe un sussulto. Anche dentro di lui si spalancò l’immagine di Ucraina trafitta, del suo sguardo angosciato perso nel vuoto, della vita che stava abbandonando i suoi occhi, del sangue sempre più copioso raccolto sotto i suoi piedi. Chissà cosa le succederà, adesso? Quella ferita... Si posò la mano sana sul petto e trattenne un conato di terrore. Sarà davvero così mortale come ha detto Germania? Ucraina rischia davvero di morire? Sospirò e abbassò le palpebre, nascose quel sentimento di vergogna. Nemmeno io voglio che Ucraina muoia, anche se è una nostra nemica. Ma Russia sarà davvero in grado di salvarla, a questo punto?

La voce di Germania vibrò al suo fianco, più bassa e profonda rispetto ai suoi pensieri. “Dove hai lasciato Romano?”

Italia sgranò gli occhi e arrestò il passo di colpo. Le ginocchia ebbero un cedimento, quei violenti brividi risalirono le gambe, gli torsero lo stomaco, e fecero fiorire una patina di sudore gelato attraverso il viso di nuovo bianco come sale. “Uhm.” Deglutì. Riavvolse i ricordi e tornò indietro, al momento in cui si erano separati. “Romano...”

Germania raddrizzò la postura, senza lasciargli il fianco. “Siete saliti assieme sul tetto per fermare Bielorussia, vero? Come vi avevo ordinato io.”

“Ecco, s-sì, ma lui...”

Romano ribaltato sul tetto, ad azzuffarsi con Bielorussia, e il balzo di corsa con cui Italia aveva attraversato la sommità dell’edificio, la leggerezza con cui aveva lasciato suo fratello fra gli artigli della strega.

Italia si lasciò travolgere da una valanga di sensi di colpa piovuta come una frana di sassi. “Ah, Romano!” Si voltò a gettare lo sguardo fra i tetti, in cerca di lui, in cerca anche solo della sua ombra. “Romano!” esclamò ancora, e già protese le spalle in uno scatto. “Romano è rimasto indietro, è ancora con Bielorussia, devo...”

“Fermo, Italia!” Germania lo bloccò. Una mano insanguinata sulla sua, quella sana. La presa solida e la voce ferma. “Non puoi tornare indietro, Russia è ancora qui e potrebbe farti del male.”

“Ma Romano!” Italia diede un altro strappo con il braccio, la presa di Germania lo trattenne. “Romano è in pericolo ed è colpa mia, l’ho lasciato da solo, e io devo...”

Un rumore trascinato li raggiunse, il suono rombante di un motore in azione, di cingoli che gracidano sulle macerie sbriciolate, e di un peso metallico che si trascina lungo la strada asfaltata. Un carro armato in avvicinamento al di là degli edifici.

Germania scattò sulla difensiva – i nervi schizzarono a fior di pelle, gli occhi si accesero in un lampo di ghiaccio, un rigetto di adrenalina bruciante gli arroventò il sangue e cancellò il dolore che pulsava attraverso le ferite aperte. Sfilò la pistola dal fodero e stese l’altro braccio per tenere Italia dietro di sé. “Stai indietro.” Sotto il suo tocco, il corpo di Italia fremette di paura e anticipazione.

L’ombra del mezzo corazzato compì la curva per prima. Seguirono i cingoli, la bocca di fuoco del cannone, e il muso familiare e rassicurante del Panzer IV ammaccato e ricoperto di polvere.

Germania riprese a respirare, abbassò la pistola. “Il nostro panzer.”

Affianco a lui, Italia sgranò le palpebre. “Ma allora...” Un tiepido soffio di speranza gli attraversò il cuore. Potrebbe essere riuscito a salvarsi e a scappare con loro.

Il panzer si fermò al centro della strada, sotto le ombre degli edifici ancora integri, e in mezzo alla nebbia di polvere e fumo che regnava sulla carreggiata. Il portellone si aprì prima ancora che il motore si fosse spento. Romano sbucò fuori per primo, riabbassò il braccio con cui aveva spinto l’apertura, si riparò gli occhi dalla luce improvvisa che gli aveva colpito gli occhi.

Il sollievo sbocciato nel cuore di Italia si schiuse come la corona di un fiore, gli intiepidì le guance e donò un velo di colore alla pelle cadaverica. Romano.

Romano saltò giù dal mezzo. Spagna e Prussia lo seguirono, ma Italia aveva occhi solo per il fratello, non vide nient’altro.

Italia superò il braccio di Germania che lo aveva bloccato e gli corse incontro. “Romano!”

Il viso di Romano rimase nero, celato dall’ombra, circondato da un’aura nebulosa come un soffio di fuliggine. Romano schiacciò i pugni ai fianchi, gonfiò le vene sul dorso, fece sbiancare le nocche, e pestò passi più rapidi e pesanti. Ringhiò a denti stretti. “Tu.”

Italia si bloccò di colpo, fulminato da quell’aura che era affondata come un pugnale nello stomaco. Compì un passo all’indietro.

Romano accelerò la corsa e rizzò un pugno sopra la spalla. “Razza di lurido bastardo di un traditore!” Le braccia di Spagna lo acchiapparono, s’incrociarono sopra il suo petto, e lo tirarono indietro. Romano diede una doppia scalciata all’aria, gli occhi di fuoco puntati su Italia come per volerlo incenerire. “Che cazzo ti è venuto in mente, eh?” gridò. “Perché merda mi hai lasciato solo? Quella stava per farmi saltare la testa e tu ti metti a correre via come un coglione? Ti ha dato di volta il cervello, forse? Mi volevi morto? Dillo che mi volevi morto!”

Spagna spinse la guancia sulla sua schiena, strinse le braccia attorno al suo busto e lo tirò indietro. “Romano, calmati.”

“Non dirmi di calmarmi, cazzo!” Romano diede uno strattone con il fianco, strusciò le suole a terra, premette le mani sulle braccia di Spagna, e spinse le spalle in avanti. “Perché merda dovrei calmarmi? Sono quasi morto, e tutto per colpa sua!”

Italia rabbrividì, aggredito di nuovo dal bisogno di nascondersi dietro Germania. “M-ma io non...”

“Giuro che se mi capiti fra le mani ti spacco la faccia, Veneziano!”

“Romano, basta.” Spagna lo trascinò indietro di un altro passo e accostò il viso al suo, mantenne la voce calma e il timbro rassicurante come quando lo aveva acchiappato al volo. “Respira, calmati. Non c’è più pericolo.”

Romano soffiò altri affanni, uno dietro l’altro, e diede una strusciata alla strada con le suole consumate. Tremò fra le braccia di Spagna, ma anche lui rilassò la tensione, sbatté le palpebre cancellando quelle fiamme d’ira dagli occhi, e gettò il capo in avanti per riprendere fiato. I capelli a nascondere il viso ancora rosso di rabbia.

Spagna allentò la stretta delle braccia. “Bravo, vedi? Va tutto bene.” La sua voce suonò morbida e calda come una carezza sulla nuca. “Siamo tutti al sicuro.”

Romano serrò di nuovo i denti facendo stridere lo smalto. Soffiò un ultimo sbuffo rauco e gorgogliante. “E grazie al cazzo che adesso va tutto bene.”

Prussia li raggiunse con sole tre falcate di corsa. Gli occhi ancora annebbiati dall’oscurità che regnava nell’abitacolo del panzer caddero sulla mano di Italia, sul sangue che gocciolava dalle dita imbrattate e sulla chiazza rossa sempre più larga sotto di lui. “Ita è ferito?”

Italia nascose con uno scatto la mano ferita dietro la schiena, si strinse il polso, e si riparò dietro il fianco di Germania. Gli occhi a terra e le spalle strette, fragile come quando Romano lo aveva aggredito.

Germania gli rivolse uno sguardo protettivo ma indurito dall’aspetto del suo volto ricoperto di sangue. “Russia gli ha sparato,” disse. “Italia si è messo fra me e lui per proteggermi. Se non fosse stato per il suo intervento, ora probabilmente sarei morto.”

Romano tornò a compiere uno scatto e i suoi occhi si riaccesero come micce. “Sì, e intanto ha abbandonato me!”

Spagna strinse l’abbraccio su di lui, gli impedì una seconda volta di scagliarsi sul fratello, e si guardò attorno. “Ma dov’è Russia? Lo avete...” Sgranò gli occhi e cercò di non sperarci troppo. “Lo avete sconfitto?”

Germania abbassò le palpebre e si nascose dietro un’ombra. Sconfitto. “No,” rispose. “No, non è stato sconfitto. Però...” Nel suo cuore guizzò quella dura frecciata di cattiveria e crudeltà che lo aveva trapassato nel momento in cui aveva sparato sul tetto per far cadere Ucraina e ferirla a morte. “Non penso che costituisca più un pericolo, e non credo che ci inseguirà. Non ora, per lo meno.”

Prussia inarcò un sopracciglio, scavò nello sguardo martoriato di Germania in cerca di una spiegazione.

Spagna fu attraversato da un brivido inconscio. “E...” Deglutì. Ricacciò indietro quell’amaro presentimento senza staccare le braccia da Romano. “E perché no?”

Germania camminò loro affianco – Italia sempre riparato contro di lui, lontano dagli artigli di Romano – ed entrambi seminarono un’altra scia di impronte rosse. “Ucraina è rimasta ferita.”

Spagna gettò lo sguardo su Prussia, e anche Romano si lasciò cogliere da un pizzico di stupore che cancellò la scintilla di rabbia nei confronti di Italia. Fra tutti, proprio lei...

“Ucraina è ferita gravemente,” continuò Germania. “E se Russia non si affretterà a riportarla a Kiev, allora c’è un forte rischio che muoia, dato che l’attacco del Gruppo Armate Sud sta penetrando sempre più in profondità attraverso il suo paese. Russia sarà disposto a qualsiasi cosa pur di salvarle la vita, ne sono certo, persino a mettere in pericolo la sua.”

In mezzo al silenzio piombato fra loro cinque, Italia spostò lo sguardo attorno a sé, si alzò sulle punte dei piedi per sbirciare anche al di là del panzer posteggiato. “Il KW che vi inseguiva dov’è finito?”

Prussia sbatté le palpebre, ma la sua espressione era ancora persa fra le parole pronunciate da Germania. “Lo abbiamo seminato. Forse ha raggiunto Russia e...”

“A Kiev?” Spagna trasse un sospiro di realizzazione. “Ah, ora ho capito. Hai spinto Russia a scendere in Ucraina e a proteggere Kiev in modo da avere la strada completamente libera verso Mosca.”

“Al contrario,” ribatté Germania. “Voglio che Russia si rifugi a Kiev proprio ora che la sacca attorno alla città sta per chiudersi, in modo da intrappolarlo fra le sue mura e schiacciarlo mentre sarà lontano da Mosca, proprio quando non avrà nulla con cui difendersi. Sconfiggere Russia mentre lui è in Ucraina ci darà la possibilità di tenerlo lontano da Mosca anche durante la seconda fase della battaglia, e in questo modo ci sarà più facile conquistarla mentre lui sarà rimasto indietro.”

“Cosa?” esclamò Spagna. “Vuoi...” Gli si avvicinò di un paio di passi lasciando indietro Romano. “Vuoi andare a Kiev anche tu?” Gli occhi sbarrati e increduli. “Ma sarebbe uno spreco. Abbiamo appena conquistato Smolensk, ci siamo già creati un trampolino di lancio su Mosca, e dovremmo sprecare questa occasione?”

“Ero stato chiaro sulle mie intenzioni nei riguardi di Mosca fin da quando è scattata l’operazione.”

“Ma pensa a tutte le conseguenze,” insistette Spagna. “Convergere parte delle divisioni verso sud significherebbe formare un’altra sacca, intrappolare altre armate sovietiche, e...” La realizzazione lo trafisse come una frecciata di elettricità attraverso il cranio. Oh, ora ho capito sul serio perché lo sta facendo. Creare ulteriori sacche gli permetterebbe non solo di mettere mano al territorio, ma anche di distruggere tutto quello che si trova al suo interno, dando vita a una strage, alla guerra di sterminio che aveva già in mente ancora prima di partire. Spagna strinse i pugni. Soppresse quel senso di gelo che era risalito attraverso le gambe e che gli aveva fatto formicolare lo stomaco come durante un conato di nausea. È davvero questo che vuole? Sta realmente cercando di sterminare il popolo sovietico?

Anche Italia mostrò uno sguardo incerto e vacillante. “Quindi ora dobbiamo...” Flesse il capo di lato e si strofinò la nuca. “Scendere in Ucraina e combattere assieme al gruppo delle armate di Austria?”

“Non sarà così immediato,” rispose Germania. “In realtà, conto in una conquista di Kiev ancora prima di una nostra congiunzione.” Sollevò la vista appannata di rosso verso le cime degli edifici, verso il fumo che soffocava il cielo di Smolensk, verso i battiti di vita sempre più deboli emanati dalla città conquistata. “Affrontare Russia qua a Smolensk mi ha fatto rendere conto di come per sconfiggerlo è prima necessario distruggere chi lo protegge, chi gli sta attorno, e chi gli fornisce energia. Per questo voglio dare priorità a Ucraina. Conquistando città come Kiev e come Leningrado, Russia si ritroverà senza sostegno fisico e psicologico. E quando non avrà più nulla su cui contare, né il suo territorio, né le sue sorelle, né le nazioni che gli appartengono...” Nell’oscurità calata sul suo volto, gli occhi brillarono come schegge di ghiaccio. “Quello sarà il momento adatto per sfondare su Mosca e trafiggerlo al cuore.”

Spagna torse un angolo delle labbra in una smorfia ancora poco convinta. Tornò a far scivolare lo sguardo su Prussia, quasi sperando in un appoggio, quasi sperando che almeno lui lo capisse.

Prussia però aveva la stessa espressione di Germania. Quegli occhi celati dalla penombra, assetati di sangue e animati dal cieco desiderio di conflitto che li faceva apparire così distanti e irraggiungibili.

Spagna si abbandonò a un sospiro di sconforto. “Ma non sappiamo nemmeno se il gruppo delle armate guidato da Austria sarebbe in grado di accerchiare Kiev e allo stesso tempo di raggiungere noi che arriveremo da nord mentre...”

“Ce la faranno,” gli disse Germania. “E so che ce la faremo anche noi. So che questa è la scelta più giusta da compiere. Dopotutto, è impensabile credere di sconfiggere Russia con un semplice attacco diretto su Mosca.” Non dopo tutte le risorse di armi e uomini che gli ho visto usare e che non avevo previsto di trovarmi davanti. “Quindi quello che dobbiamo fare è distruggere le sue difese, privarlo di...” Un breve malore gli martellò la testa, all’altezza delle ferite causate dalla bomba che continuavano a sanguinare lungo il viso. Germania si aggrappò al braccio ferito e vacillò prima ancora di rendersene conto.

“Germania!”

“West!”

Le voci di Italia e di Prussia lo fecero riemergere dalla chiazza nera che aveva pervaso la sua vista. Le braccia di Italia lo strinsero di nuovo attorno al busto e la mano di Prussia gli sorresse la spalla.

Germania inspirò a fondo, sbatté gli occhi.

Il viso preoccupato di Italia si delineò attraverso la sua vista appannata, lo raggiunse con quei dolci occhi nocciola che avevano perso ogni traccia d’ombra. “Stai bene?” La sua mano continuava a perdere sangue.

Germania provò una fitta al cuore, un crampo di sensi di colpa nei confronti di quella ferita. Si strinse la fronte e allontanò lo sguardo, brusco. “Sto bene, vi ho detto.” Si sfilò anche dalla presa di Prussia che gli stava reggendo la spalla e camminò lontano da tutti. “Formiamo la base del Quartier Generale e indiciamo quanto prima una riunione per le nuove direttive. Voglio un resoconto completo delle condizioni di Smolensk. Poi contattiamo le altre armate e facciamoci consegnare i bollettini con le condizioni sia del fronte di Kiev che di quello di Leningrado, in modo da studiare una tattica anticipata. In quanto a noi...” Fece scivolare lo sguardo sopra la spalla. Sfiorò Italia con occhi più morbidi, lavati da tutto il sangue che gocciolava dalla fronte e dalle punte dei capelli. “Dobbiamo medicarti la mano.”

Italia tornò a stringersi il polso insanguinato. “M-ma tu...”

“Io sto bene.” Germania gli raccolse la mano sana, intrecciò le punte delle dita e lo guidò dietro la sua camminata. “Andiamo.” Aspettò che Italia si riprendesse dopo aver saltellato sul piede che non gli faceva male, tornò a sorreggergli il fianco circondandolo con le sue braccia, e andarono via assieme.

Spagna si sporse. Stette con lo sguardo fisso sui due fino a che le loro sagome non svanirono in mezzo alla nebbiolina che rivestiva le strade della città come un sudario, fino a che la loro camminata non si portò via tutto il sangue che entrambi avevano spanto durante quella battaglia. E pensare che è riuscito a tenere testa a Russia anche dopo le ferite causate dalla bomba anticarro, anche dopo essersela vista esplodere in faccia. Spagna sospirò e si diede una strofinata fra i capelli. Forse dovrei davvero dargli più fiducia, e forse è vero che Germania sa quello che fa. Dopotutto, ci ha pur sempre portati fin qui vivi e tutti interi, come ci aveva promesso.

“Tuo fratello è un carro armato, Prussia.”

Prussia strinse i pugni sui fianchi e sporse il petto all’infuori, tutto inorgoglito. “Ha preso dal migliore, che vuoi farci.”

“Ma tu cosa ne pensi?” Spagna tentò una seconda volta di guardarlo negli occhi, di raggiungerlo, di farsi capire. “Dell’idea di convergere a sud e di unirci alle armate di Austria, intendo. Pensi che...”

“Stai bene, Romano?” Prussia gli passò affianco e rivolse l’attenzione a Romano.

Spagna aggrottò la fronte. Una vena gonfia di nervosismo gli pulsò sulla tempia. Mi ha ignorato?

Prussia diede una spolverata a una spallina di Romano e gli batté una pacca fra le scapole, facendolo rimbalzare sul posto. “Prima hai fatto un bel volo. Sicuro di essere tutto intero?”

Romano schiuse le labbra asciutte, si allontanò da quel tocco indesiderato, fece per rispondere, ma un singolo singhiozzo strozzato gli incastrò la voce in gola. “I-io...” I suoi occhi si affacciarono ai ricordi dei pochi istanti precedenti, s’infossarono nell’ombra delle palpebre come quando si concentrava. Si ritrovò di nuovo sul tetto a lottare con Bielorussia, ad assistere alla fuga di Italia, a rotolare fra le tegole, a spremere le dita sul cornicione per non precipitare sugli spuntoni di legno, e a fronteggiare lo sguardo truce della psicopatica. Il suo fucile in faccia e nessuno a difenderlo. Gli si aprì un vuoto dentro. Un buco al cuore più doloroso del proiettile che si era quasi preso nel cranio e delle travi nelle quali aveva rischiato di rimanere infilzato. “No.” La vista si appannò, le palpebre si appesantirono, e il groppo di dolore risalì la gola. Romano premette un braccio contro gli occhi per tappare le lacrime sul nascere. “No, non sto bene.” Si girò ad aggrapparsi a Spagna e tuffò il viso contro la sua spalla per singhiozzare senza farsi vedere in faccia.

Anche Spagna provò un tuffo al petto. Lo stesso sentimento di tenerezza e impotenza che provava quando Romano era piccolo, quando trascorreva notti intere a piangere per la nostalgia di casa e lui non sapeva come calmarlo. Lo strinse forte. Gli carezzò i capelli, cullò quei singhiozzi che gli morivano contro la spalla, e si rivolse a Prussia con un mormorio. “È esausto.” Gli carezzò ancora i capelli sudati e impolverati, gli strofinò la schiena scossa dal pianto che non accennava a finire, e assorbì tutto il suo dolore, per quanto gli fosse concesso. “Ha solo bisogno di riposare.”

Prussia sospirò. Si diede anche lui una strofinata ai capelli e andò avanti per primo, prese la direzione imboccata da Germania e da Italia, seguendo la loro scia di sangue. “Ne abbiamo bisogno tutti, direi.” Calpestò il sangue tatuato sulla strada. Lasciò che Smolensk assorbisse gli ultimi spasmi di vita che erano stati versati sulla sua terra.

 

.

 

Un respiro corto e strozzato contrasse il petto di Ucraina, fece muovere il legno ancora conficcato dentro di lei, e finì riassorbito in un gemito strozzato da quello spasmo di dolore che le fece vedere le stelle. Spessi e collosi rivoli di sangue spurgarono dalla ferita fra i seni, scivolarono lungo il profilo dell’asta spezzata che le aveva attraversato il petto, e serpeggiarono fra le rientranze delle dita tremanti e ancora aggrappate al palo che l’aveva trapassata. Il sangue gocciolò a terra, allargò la chiazza rossa dilatata sul cemento, e arrivò a toccarle i piedi tesi sulle punte come quelli di una ballerina.

Il corpo di Ucraina si contrasse di nuovo, attraversato da un’altra saetta di dolore sbocciata dal petto, dalla ferita aperta e lacrimante, e sul suo viso sbiancato guizzò un brivido, un lampo di terrore e sorpresa, che compose un lamento vibrante fra le labbra socchiuse. Ucraina boccheggiò e ringoiò quello spasmo al sapore di sangue. Schiacciò le mani attorno al pezzo di legno conficcato nel suo corpo e spremette altro sangue che sbrodolò dalla ferita, rovesciandosi fra i suoi piedi. Tese maggiormente le punte degli stivali e alzò i talloni da terra, come per potersi sfilare, e gonfiò i muscoli delle braccia per allontanare da sé quel chiodo di legno che le pulsava dentro a ogni battito del suo cuore.

Le suole scivolarono nel sangue e il suo peso riaffondò verso il basso. Il legno spezzato sprofondò dentro di lei. Dalla punta aguzza fuoriuscita da sopra la scapola sgocciolò altro sangue che le piovve lungo la schiena ricurva.

Ucraina soffocò un altro sofferto e acuto gemito di dolore, sudori gelati le imperlarono la fronte e avvamparono da sotto gli abiti, facendo salire la pelle d’oca. Lei strinse i denti che sapevano di ferro e polvere, e strizzò le palpebre. Bollenti lacrime di sofferenza le rigarono il viso impallidito, scivolarono fra le labbra da cui stavano scendendo anche i primi rigetti di sangue, e gocciolarono dal mento. Scintille di stordimento le gonfiarono la testa, esplosero in uno sciame di vertigini che prese a vorticarle attorno. Le membra si fecero pesanti, i muscoli caldi e molli, la vista sempre più nera e la voglia di lasciarsi andare sempre più forte.

Bielorussia si tolse le mani dalla bocca, dopo aver trattenuto il grido d’orrore davanti alla visione di Ucraina che cadeva dal tetto e che finiva infilzata dalle fauci di legno, e divenne più bianca di lei. Gli occhi sgranati su quell’orrore stampato nella sua testa come una fotografia. “Oh, no.” Una scossa la morsicò dietro la nuca, simile a quella provata quando Spagna le aveva sparato alla spalla. Il brivido elettrico discese la schiena, rianimò le gambe raccolte fra le tegole, e la strappò da quel sonno congelato. Bielorussia scrollò la testa, avanzò con le ginocchia lungo la pendenza del tetto, e distese una gamba verso il cornicione. “A-aspetta.” Il suo piede urtò una tegola spezzata. “Ti...”

La tegola si staccò dal tetto e cadde a terra, crash!, produsse lo stesso suono cristallino di un piatto di porcellana che va in pezzi. L’esplosione di frammenti sparò i pezzi addosso alle altre travi spezzate e rivolte verso l’alto, ancora in agguato come fauci spalancate.

Quel suono secco e improvviso raggiunse anche Russia. Lui era ancora a terra, in ginocchio accanto al suo fucile, dopo che Germania e Italia erano riusciti a filarsela davanti al suo sguardo, feriti ma non sconfitti.

Russia trattenne il respiro con un soffio, allargò le palpebre e assorbì nei suoi occhi tutto il rosso del sangue che stava gocciolando dal corpo di Ucraina. Si soffermò sulla sua espressione sofferente, sul viso contratto dalle scosse di dolore, sugli occhi strizzati e lacrimanti, sulle labbra vibranti e sporche di sangue, e rivisse anche lui quell’attimo che non era stato in grado di fermare.

Tornò quella botta di freddo che lo aveva colpito come una martellata fra le costole. “Ucraina...” Russia schiacciò un piede a terra, si aggrappò alla parete dell’edificio adiacente e si rialzò con uno scatto. Corse da lei. Calpestò la pozza di sangue e tenne le mani sollevate, senza toccarla, aggredito da un ghiacciato senso di insicurezza che gli diede l’impressione di sprofondare nello specchio rosso sempre più largo.

Russia sollevò lo sguardo e andò incontro al profilo in controluce di Bielorussia. Nel vederla in bilico sul tetto, un’altra scossa di paura lo pervase. “Scendi dal tetto,” le disse. “Ma dall’altra parte, dov’è più sicuro. Non saltare dal cornicione.”

Bielorussia retrasse la gamba, scivolò indietro, spingendosi verso la luce del sole che stava calando dietro i comignoli, e annuì. “Va bene.” Si aggrappò alla spalla ferita e sanguinante, e sparì dall’altra parte dell’edificio, da dov’era salita.

Ucraina ebbe un altro spasmo, e dell’altro sangue zampillò dalla ferita ormai fradicia e nera. Lei staccò una mano dal legno, spostò di lato il braccio tremante, afferrò due volte l’aria, e si appese con le punte delle dita alla manica di Russia. Gli lasciò una sbavatura rossa sulla stoffa. Il suo respiro riprese a soffiare rapido e sofferente, la luce negli occhi umidi di lacrime divenne un muto grido implorante.

Russia le toccò la mano con cui lo aveva raggiunto. Palpò il dolore che le correva in corpo, lo assorbì come un’ondata di fuoco. Anche il suo sguardo vacillò. “Stai tranquilla.” Le posò una mano inguantata sulla fronte, sotto i capelli sudati. “Andrà tutto bene, te lo prometto. Tu continua a respirare piano, concentrati sulla mia voce e non chiudere gli occhi.”

Ucraina boccheggiò. Altre lacrime fiorirono fra le ciglia e le appannarono la vista. Altro sangue sgorgò dalle labbra e dal naso, al ritmo dei suoi respiri singhiozzanti sempre più irregolari. Uno zampillo caldo e dal sapore ferroso sorse dal petto, gorgogliò in fondo alla gola, e guizzò fuori dalla bocca, facendole contrarre la pancia.

Russia provò un altro crampo di dolore in fondo allo stomaco. “Starai bene,” continuò a ripeterle, e le pulì la bocca con la sua manica. “Starai bene, vedrai. Resisti solo per poco.”

Bielorussia sbucò correndo da dietro lo spigolo dell’edificio. Si fermò anche lei dopo aver sollevato il ritmico ciaf, ciaf delle suole nella pozza di sangue, si strofinò la spalla ferita, contrasse una lieve smorfia che le annerì lo sguardo, e spostò gli occhi ansiosi da Ucraina a Russia. “Come facciamo a liberarla?”

Russia tenne la mano sulla fronte di Ucraina. Ripercorse il suo profilo inarcato in avanti, teso sulle punte dei piedi, e inchiodato al legno che l’aveva trafitta. Guardò Bielorussia, la sua mano aggrappata alla spalla dov’era ancora conficcato il proiettile, e la scia di sangue scuro che le imbeveva la manica della giacca. “Riesci a fare uno sforzo? O la spalla ti fa troppo male?”

Bielorussia scosse il capo. “Non pensarci. Dimmi solo cosa devo fare.”

“Mettiti dietro di lei.” Russia tolse la mano dalla fronte di Ucraina e le si mise davanti, evitando la base del legno spezzato. “Stringile le braccia e cerca di tenerla più ferma e dritta che puoi. Non possiamo rischiare di farle ancora più male.” E poi dobbiamo liberarla prima che perda troppo sangue. Dobbiamo tapparle in fretta la ferita, prima che diventi irrecuperabile.

Bielorussia annuì e si portò alle spalle di Ucraina, evitando anche lei l’estremità aguzza del legno che affiorava dal suo corpo. Infilò le braccia sotto quelle di Ucraina, incatenò i gomiti ai suoi, e spinse il peso all’indietro, costringendola a raddrizzare la schiena.

Ucraina rovesciò il capo ed emise un rantolo di sofferenza. Rigettò un altro zampillo di sangue scuro dalla bocca, contrasse una gamba trascinando la punta del piede nella pozza sotto di lei, e tornò immobile. I muscoli rigidi come se avesse infilato il dito in una presa di corrente.

Russia afferrò la trave spezzata con entrambe le mani. Strinse le dita. Il legno scricchiolò sotto la sua presa. “Al mio tre. Uno, due...” Un brivido gli attraversò le braccia. I suoi occhi si assottigliarono sotto una ruga di esitazione, ma non cedettero. “Tre.” Tirò a sé il legno e compì un passo all’indietro.

La faccia di Ucraina sbiancò e si rianimò di colpo. Ucraina gettò di nuovo le spalle all’indietro, contro Bielorussia, indurì il busto, contrasse le braccia, e spalancò la bocca in un urlo che tremò attraverso l’intero corpo. Altro sangue spruzzò dalla ferita e allargò la pozza sotto i suoi piedi arricciati sulle punte.

Russia allentò le dita e si fermò, raggelato da quel grido che gli era entrato nell’anima. Guadagnò un sospiro, riprese le forze, sgranchì le mani, sbatté le palpebre per scrollare via il sudore freddo che gli era scivolato negli occhi, e contrasse una seconda volta le mani sul legno. “Di nuovo.”

Anche Bielorussia dovette riprendere fiato. Aveva la faccia più bianca di quella di sua sorella, lo stesso affanno incastrato in gola, e gli stessi brividi di paura a farle galoppare il cuore contro le tempie. Strinse la presa incatenata alle braccia di Ucraina, voltò la guancia e annuì, sperando solo che non gridasse come prima.

La voce di Russia la ammonì, “Tienila”, e lui tirò di nuovo.

L’urlo di Ucraina si elevò più debole e sofferto, ma altre copiose lacrime si sciolsero dagli occhi persi in quel luccichio di agonia, attraversarono le guance e diluirono il sangue rotolato dagli angoli della bocca.

Un’altra porzione di legno insanguinato fuoriuscì dal suo corpo, fece una lieve resistenza, tirandole in avanti il petto, e sollevò un inquietante squish!.

Russia si fermò.

Ucraina gettò il capo in avanti – il mento contro il petto – e continuò a tremare e a respirare a fatica fra una convulsione e l’altra. Gli occhi gocciolarono altre lacrime. Dalle labbra aperte e sporche di sangue fuoriuscì un rantolo di supplica. “B-basta. N... non...” Contrasse le braccia aggrappate a quelle di Bielorussia e spremette gli ultimi spasmi di pianto fra gli occhi serrati. “Non riesco,” gemette. “V-vi prego.”

Fra le mani inguantate di Russia corse tutto il sangue spurgato dalla ferita e colato attraverso il legno spezzato che reggeva ancora fra le dita. Lui esitò. “Manca poco.” Ma dovette stringere di nuovo. “Solo uno sforzo, te lo prometto.”

Ucraina stropicciò il viso in un’espressione scura d’agonia, rabbrividì ancora, ansimò, e tenne il capo basso, di nuovo immobile e arrendevole.

Russia e Bielorussia incrociarono gli sguardi. Russia le fece un cenno con il mento. Bielorussia annuì, strinse ancora le braccia attorno a quelle molli di Ucraina, e raddrizzò le spalle sostenendo il suo peso. Pronta per un ultimo sforzo.

Russia diede un ultimo strappo al pezzo di legno.

Ucraina non emise alcun lamento, solo un tremore lungo le gambe, uno spasmo delle braccia, e un rantolo soffocato che morì a fior di labbra, cadendo in un ultimo rigetto di sangue.

L’estremità appuntita del legno fuoriuscì dal suo corpo, grondò sangue, trascinò un pezzo di giacca rimasta incastrata fra le schegge, e cadde a terra, centrando la pozza rossa e lucida come smalto.

Ucraina sussultò fra le braccia di Bielorussia. Abbassò le palpebre, chiuse gli occhi che si erano spenti di colpo, diventati grigi e nebbiosi, e lasciò che il suo corpo si accasciasse, abbandonandosi.

Russia mollò il legno, le strinse il busto prima che potesse cadere, e aiutò Bielorussia a sorreggerla. “Stendiamola. Attenta agli altri pezzi di legno.” La adagiarono a terra, sulla strada, in un punto dove il sangue non era fluito fuori dalla pozza. Russia si tolse la giacca, la ripiegò più volte, e spinse il fagotto di stoffa sulla ferita di Ucraina. “Premi forte qui,” ordinò a Bielorussia. “Dobbiamo fermare il sangue.”

Bielorussia annuì ed eseguì, sovrapponendo le mani a quelle di Russia, ma le sue braccia tremavano ancora, i capelli si erano incollati alle guance, e le sue labbra respiravano a scatti. Sotto le sue ginocchia si allargò una seconda chiazza di sangue. La ferita di Ucraina continuava a rigettare. “Ma sta perdendo sangue anche dalla schiena.”

“Lo so.” Russia tenne premuta la stoffa già imbevuta di sangue e si guardò attorno. Una sottile nebbia di fumo e polvere galleggiava sulla strada su cui erano ammassate le macerie franate dagli edifici. Scuri e pesanti raggi di sole stavano tramontando fra le abitazioni diroccate e segmentavano il paesaggio deserto. Russia sospirò. “Dobbiamo portarla via subito.” Infilò un braccio sotto la schiena di Ucraina, l’altro sotto le sue gambe, e la sollevò da terra. Bielorussia tenne le mani premute sulla giacca appallottolata contro la ferita e lo seguì, aiutandolo a sorreggerla.

Percorsero la strada e calpestarono i segni lasciati dalla corsa dei carri armati. Il silenzio ad avvolgerli, interrotto solo dallo schioccare dei loro passi sull’asfalto.

Bielorussia spinse più a fondo le mani fra le pieghe della giacca, si bagnò con il sangue trasudato dalla ferita, e accelerò per tenere il passo con Russia.

Ucraina teneva il capo rovesciato contro il braccio di Russia. Il viso bianco come carta, le labbra grigie, le palpebre nere e abbassate che rendevano i suoi occhi gonfi come lividi. I tremori erano cessati, ma adesso sembrava quasi che non respirasse.

Bielorussia rabbrividì. Si sentì gelare lo stomaco. “È ancora viva?”

Russia continuò a camminare e scrutò Ucraina a sua volta. Sottili sibili di vita tremolavano fra le sue braccia ogni volta in cui lei tirava un debole respiro attraverso quelle labbra che parevano fatte di gesso. “È svenuta.” Le scostò una ciocca di capelli biondi sfuggita a una delle forcine e le accostò le nocche alla guancia. “E forse è meglio così.”

Il rombo di un motore sorse da dietro gli edifici, rapido e crescente come un’eruzione, vibrò attraverso l’aria, infittì lo strato di fumo galleggiante, fece tremare la strada e le macerie che vi erano ammassate. Il profilo del KW sovietico emerse da dietro lo spigolo di una casa, emise una forte sgasata, frantumò un sottile tappeto di detriti che finirono sbriciolati come polvere di gesso, e gli venne incontro rallentando.

Russia fermò il passo. Quello è il nostro KW. Si guardò attorno. Ma il panzer è sparito. Che Germania lo abbia già raggiunto e che si sia fatto portare fuori dal campo di battaglia? Socchiuse le palpebre e inviò una buia occhiata di minaccia al carro armato appena. Ma allora significa che loro non sono riusciti a fermarlo.

Il KW fermò la corsa, spense il motore, finì sommerso dalla nuvola di polvere color ocra che si era trascinato dietro. Il portellone si aprì con uno schiocco. Lituania ed Estonia sbucarono dall’abitacolo e saltarono giù dal mezzo, corsero verso Russia. Gli occhi di Lituania erano i più allarmati. “Cosa...” Lo sguardo gli cadde sulle braccia di Russia, su quello che avvolgevano, sul corpo esangue di Ucraina e sulle mani di Bielorussia premute contro la giacca ormai zuppa e gocciolante. Lituania arrestò la corsa e sgranò le palpebre, si strozzò con un sussulto. “Cosa le è successo?”

Estonia affiancò la corsa di Lituania e anche lui si accorse di Ucraina, della sua ferita, del sangue che colava dal suo corpo. Si portò le mani alla bocca per contenere un gemito di spavento.

Russia non ebbe nemmeno la forza di arrabbiarsi con loro per aver lasciato fuggire il panzer. “Germania l’ha ferita.”

“E...” Lituania esitò. “Ed è grave?”

“Sì.”

Estonia si costrinse a distogliere lo sguardo dal sangue, sbatté le palpebre per sciogliere l’espressione pietrificata in quella maschera d’orrore, e andò in cerca dell’ombra del panzer in mezzo alla distesa di macerie e abitazioni franate sulla strada. Storse un sopracciglio. “Ma ora Germania dov’è?”

Un fulmine di rabbia tuonò dietro Russia, ingigantì l’aura nera che lo circondava, sollevò un ruggito di vento che fece oscillare la sciarpa attorno alle sue gambe, e rese i suoi occhi lividi come una nuvola di temporale. “Questo dovreste dirmelo voi,” disse con tono fin troppo calmo. “Dov’è il panzer?”

Estonia e Lituania si strinsero nelle spalle, incassarono la durezza di quello sguardo, la freddezza di quelle parole, e ammutolirono davanti a quell’aura intimidatoria.

Estonia guardò per terra. “C-ci...” La sua postura tremolò. “Ci ha seminati. Abbiamo provato a inseguirlo, ma...”

Fra le braccia di Russia, Ucraina ebbe un altro spasmo, un violento tremore che le fece contrarre le spalle all’indietro e portare le mani al petto, sopra quelle di Bielorussia. Bielorussia affondò il peso dei palmi sovrapposti sulla giacca per contenere altre perdite, e si morse il labbro inferiore. “Merda.” Altro sangue scivolò fra le sue dita e gocciolò a terra.

Lituania raccolse il coraggio di sollevare lo sguardo. “Cosa facciamo con Ucraina, signore?”

Russia strinse le braccia attorno a lei, al suo corpo sofferente, e rivolse il viso al cielo rossiccio, sbavato dalle grigie nuvole di fumo che rasentavano i tetti ancora integri. Smolensk gli soffiò addosso i suoi ultimi respiri, fiacchi e trascinati come quelli che Ucraina singhiozzava contro il suo petto. La città morente, la presenza di Germania ancora forte ma già distante da lui, l’odore ferroso e amaro della sconfitta ad appesantire l’aria come dopo un nubifragio. Germania alla fine è davvero riuscito nel suo intento. Ha fatto in modo di tenere Lituania ed Estonia lontani da me e impedire loro di soccorrermi quando Ucraina è stata colpita. E quello che mi ha detto...

“Se vuoi davvero salvarla,” riecheggiarono le parole di Germania nella sua testa, emergendo dal ricordo assieme al suo sguardo ancora gelido e integro, nonostante le ferite. “Allora dovrai portarla nella sua capitale, dato che lei in queste condizioni non potrà assumere da sola il comando del suo esercito e dei suoi uomini.”

Un brivido di dubbio attraversò la testa di Russia. Che sia vero? Ucraina morirà sul serio se non la porto subito a Kiev, oppure è solo una bugia di Germania per spingermi a cambiare direttive? Ma anche se fosse tutta una trappola, non posso proprio evitare di... “Dobbiamo riportarla a Kiev.”

Lituania fu il primo a restare a bocca aperta. “A...” Si girò di scatto verso Estonia, quasi credendo di aver udito male, sperando di sentirsi correggere. Il viso di Estonia era lo specchio della sua espressione. “A Kiev?” balbettò Lituania. Era assurdo.

Russia annuì e avvolse la mano attorno al capo di Ucraina, tenendola protetta contro di sé. “Dobbiamo riportarla nella sua capitale prima che le sue condizioni possano aggravarsi, prima che l’assedio sulla città si chiuda e prima che Germania conquisti l’intera nazione.”

“C-cioè dovremmo...” Estonia compì un rimbalzo all’indietro e per poco non gli caddero gli occhiali dal naso. Anche lui annegò nello sconcerto. “Scendere in Ucraina?”

“Sì,” confermò Russia. “E non ammetto discussioni.”

Lituania rivolse l’indice oltre i tetti della città. “Ma signore, Mosca ora sarà...”

“Mosca non corre alcun pericolo.” Russia camminò loro affianco senza nemmeno guadarli. “Anche se fosse il contrario, non spetterebbe comunque a voi decidere.”

“Ma...”

Russia si girò a lanciargli un’occhiataccia tale da congelare un ferro rovente. “Fate come vi ordino.” Bielorussia rimase al suo fianco, le mani sovrapposte sul petto di Ucraina, e anche lei proseguì senza sfiorare gli altri due nemmeno con la coda dell’occhio.

Si lasciarono alle spalle una scia formata dal sangue gocciolante di Ucraina che pareva non terminare mai, la linea rossa che pose fine alla battaglia di Smolensk.

 

♦♦♦

 

19 luglio 1941

Smolensk, Unione Sovietica

 

Germania srotolò l’ultimo strato di garza fra le dita – bendate anch’esse, dopo essersi medicato le ferite dell’esplosione – e finì di passarlo attorno alla mano ferita di Italia. Fissò la fasciatura, sistemò un lembo che si era sgualcito fra le nocche, e gli fece un cenno col mento. “Prova a muoverla.”

Italia distese le dita bendate davanti al viso, rigirò il polso, strizzò e riaprì la mano. Contrasse una smorfia, punto dal dolore schioccato dal centro del palmo fino alle punte delle unghie, come una raggiera di scossette.

Germania se ne accorse, si preoccupò. “Ti fa ancora male?”

Italia si sforzò di sollevare un sorriso rassicurante e scosse il capo. “Solo un po’. Ma resisto, davvero.” Si strinse il polso, massaggiò le bende e sorrise dolcemente. “Grazie.” Aveva il viso più roseo, lo sguardo più sereno, gli occhi più limpidi e riposati dopo aver potuto dormire per una notte intera.

Germania passò la sua mano bendata fra i capelli, scoprendo per un attimo la fascia che gli attraversava la fronte ferita, e sospirò con aria sconfortata. Si perse ancora fra i ricordi risvegliati da quel tocco, dall’immagine della mano ferita di Italia. “Sei stato uno sciocco a rischiare la tua vita in questa maniera.”

“Non ho avuto paura.” Italia distese il braccio, raggiunse quello di Germania, quello senza medicazione, e gli carezzò la manica. Si tenne unito a lui con quel semplice gesto d’affetto. “Tu avresti fatto lo stesso per me.”

Germania tornò a sollevare gli occhi e finì assorbito in quelli di Italia, così scuri e profondi nella penombra della sala. I visi vicinissimi, i respiri sospesi, la tenue luce delle lampade a schiarire le loro guance, e solo quella tensione serpeggiante fra di loro che li teneva uniti come un laccio di elettricità.

Dall’altro capo della stanza, da dietro uno dei tavoli su cui avevano appoggiato tutti i documenti e la pila di bollettini di guerra, con la schiena ricurva premuta alla parete, le gambe premute al petto, e le braccia a ciondolare dalle ginocchia piegate, Romano sollevò lo sguardo perso e insonnolito, spostandolo su di loro. S’infilò in quella tensione, in quella scossetta per lui indecifrabile, e soppresse un brivido di rabbia. Strizzò le dita sulla stoffa dei pantaloni a cui era aggrappato, gettò lo sguardo in disparte, e si girò di profilo, restando rintanato nel suo angolino.

Germania strinse una mano sull’orlo del tavolo su cui aveva fatto sedere Italia per medicarlo e si rialzò con lo sguardo già teso verso la porta lasciata socchiusa sul corridoio. Tossicchiò. “Cerca di non fare sforzi e di non muoverla troppo.”

“D’accordo.”

Germania si diresse verso l’uscita della sala. I passi di nuovo austeri e pesanti come quando passava in rassegna le truppe. “Fra cinque minuti cominciamo la riunione. Cercate di farvi trovare là puntuali.”

“Sì.”

Germania strinse il pomello della porta socchiusa, fece per spingerla in avanti, ma un brivido tiepido lo trattenne. C’era ancora qualcosa da dire. “Italia.”

Italia si girò al richiamo. Gli occhi frementi d’attesa e il viso ancora solleticato da quella piacevole tensione che era sbocciata fra loro due.

Germania abbassò gli occhi al pavimento, esitante ma sincero. “Grazie per avermi salvato.”

Dall’altro capo della stanza, Romano storse un sopracciglio.

Italia ebbe un guizzo al cuore. Le guance arrossirono, una tinta accesa che riempì tutto il pallore che lo aveva accompagnato in quelle settimane.  L’ho salvato. Quel pensiero valse tutta la paura che aveva attraversato, tutto il coraggio che gli era costato nel compiere quel gesto, e tutto il dolore che si era addossato e che ora non contava più nulla. Nuvole paradisiache gli brulicarono attorno, dandogli l’impressione di star galleggiando in un cielo soleggiato.

Germania abbandonò la camera. Richiuse la porta e li lasciò soli, avvolti nel silenzio surreale che stagnava fra le pareti dell’albergo dove avevano installato il Quartier Generale, uno dei pochi edifici ancora in piedi e sicuri dopo l’assalto tedesco di Smolensk e la chiusura della sacca.

Italia fece dondolare le gambe dal tavolo su cui era seduto, animato da quella contentezza che gli correva dentro come un fresco e allegro ruscello in primavera. Grazie a quelle parole, la mano non gli faceva più così male.

Romano storse la punta del naso e fece schioccare la lingua fra i denti in un moto di disprezzo. “Già,” sbuffò. “Grazie tante per averlo salvato.”

Italia arrestò il dondolio dei piedi e guardò nella sua direzione, verso la macchia d’ombra che regnava nell’angolino dov’era rintanato. La piacevole e tiepida sensazione trasmessa dalle parole di Germania si congelò, cristallizzandosi nel petto come un secondo proiettile fra le costole. Fece bruciare la cicatrice dopo tanto tempo trascorso senza sentirla nemmeno prudere.

Romano si tenne stretto alle gambe, premette le labbra contro le ginocchia affondate nel petto, e non lo degnò di uno sguardo. “Almeno uno di noi può dirlo.”

L’odio di Romano colpì Italia con la violenza di un pugno allo stomaco.

Italia tornò a rimpicciolirsi sotto quella dura ondata di gelo. “Io...” Chinò il capo, come un cane bastonato. Strinse un angolino della giacca e ne stropicciò la stoffa, stando attento a non sgualcire la fasciatura. Tutto il tepore che aveva provato nel rimanere affianco a Germania, nell’udire quelle parole di gratitudine, nel sentire il suo tocco protettivo e rassicurante, svanì, come se Romano avesse soffiato sulla fiamma di una candela. “Io non l’ho fatto apposta.”

“Ah, no?” sbottò Romano. “Che scusa del cazzo...”

“Non volevo lasciarti solo, davvero.” Italia distese le gambe e si lasciò scivolare giù dal tavolo. Strinse i pugni ai fianchi, tenne le spalle dritte, lo sguardo alto e coraggioso come quello che aveva mostrato davanti a Russia. Uno sguardo che non mentiva. “Ma Germania aveva bisogno di me.”

“E io no, invece?”

“Non potevo salvare tutti e due,” si difese Italia. “Ma se avessi potuto...” Strinse di più i pugni, e una scossa di dolore risalì la mano bendata. “Se avessi potuto salvare entrambi, giuro che lo avrei fatto.”

“Questo non cambia niente!” Romano si rialzò in piedi con uno scatto e uscì dall’angolino d’ombra. I suoi occhi erano incandescenti sfere di rabbia, la sua voce aspra come una strisciata d’unghie sul vetro. “‘Se avessi potuto’,” lo scimmiottò. “‘Se non fosse successo’... non cambia il fatto che è successo e che tu mi hai abbandonato. Cristo, mi avessi almeno chiesto scusa!”

Italia strinse le labbra, assorbì il sapore caldo e amaro del sangue sgorgato dalla pelle screpolata per le settimane trascorse in quell’aria secca e polverosa. Strizzò i pugni ignorando il dolore della mano ferita, abbassò il viso contro la spalla, e nascose il bruciore salito a invadergli le guance. Rispose con un mormorio. “Non ho nulla da chiedere scusa.”

Romano sbatté le palpebre e sul viso rimase stampata un’espressione allucinata, la stessa che aveva mostrato quando Bielorussia gli aveva puntato il fucile in faccia e lui si era visto risucchiare nella bocca di fuoco. Si convinse di aver sentito male. “Cosa?”

Italia inspirò forte dal naso, alzò la voce. “Non ho nulla da chiedere scusa! Voi...” Rabbrividì, attraversato dal dolore che aveva tenuto rinchiuso per tutto quel tempo. Sputò quelle parole di accusa e fu come liberarsi di tanti sassi fossilizzati fra le costole. “Voi mi avete sempre trattato come quello che non ha mai preso la guerra seriamente, come quello che deve imparare ad accettarne la cattiveria e le crudeltà. Ecco, ora l’ho fatto. Sto compiendo le mie scelte e ne sto accettando le conseguenze, e lo sto facendo da solo, senza più dover dipendere da nessuno.” Si posò la mano sul petto, sopra la cicatrice a forma di lisca di pesce che aveva ricominciato a pulsare. “Io dovevo fare una scelta, dovevo decidere chi salvare fra te e Germania, perché non avevo alternative, perché è la guerra che mi ha messo davanti a una strada del genere, e non credere che io lo abbia fatto senza starci male.”  I suoi occhi si fecero più lucidi e addolorati. La voce cedette in un brivido. “Non credere che io non abbia sofferto nello scegliere Germania al posto tuo.”

L’eco di quelle parole rimbalzate fra le pareti si ritirò. Rimase il silenzio. Un silenzio fitto, freddo e colloso come una nebbia autunnale. Scricchiolii legnosi attraversarono il soffitto, il vento ancora pregno di fumo picchiettò sulle due finestre affacciate a una delle piazze della città, dal corridoio schioccarono i passi di qualcuno che stava attraversando il piano assieme alle voci soffuse degli ufficiali che stavano scendendo le scale del Quartier Generale.

Romano riprese a respirare – un filo di fiato attraverso le labbra rimaste socchiuse – e infranse quella bolla cristallina che li aveva avvolti. Non riuscì comunque a ingoiare quel groppo di rabbia e disagio che gli era rimasto incastrato in fondo alla bocca come una pallina di gomma. “E allora perché l’hai fatto?” Compì un lento passo davanti a Italia. “Perché hai scelto lui nonostante tu abbia sofferto nel farlo?”

Italia si strinse nelle spalle, di nuovo fragile e vulnerabile dentro l’ombra di Romano calata su di lui. Si diede una strofinata al braccio. “Perché se non lo avessi fatto... se avessi lasciato che Russia uccidesse Germania, allora non me lo sarei mai perdonato.”

“E ti aspetti che io ti perdoni per questo? Che accetti la tua motivazione del cazzo e che giustifichi quello che hai fato? Che...” Il cuore di Romano si strinse in un battito doloroso e soffocato. “Che capisca perché hai preferito lui al posto di tuo fratello?” La parola fratello fu come una cucchiaiata d’aceto scesa a stritolargli le viscere. Gli suonò così lontana, così irraggiungibile.

“No,” rispose Italia. Il tono freddo e pacato. “Non me lo aspetto. E forse non lo voglio nemmeno.” Guardò Romano in viso. Nei suoi occhi si riflesse una luce triste che avrebbe potuto sciogliere una roccia. “Cosa ci sta succedendo, Romano?” Le sue labbra tremarono. “Perché siamo arrivati a trattarci in questa maniera?”

Romano girò lo sguardo, lo rivolse alle due finestre che lo illuminavano da dietro col loro chiarore polveroso, e si rivide ancora una volta da solo sul tetto dell’edificio, inseguito da Bielorussia e in bilico sopra il fascio di legni spezzati. Riprovò la stessa sensazione, quel vuoto sotto i piedi, quell’impressione di star precipitando. Gli passò la voglia di tenere le mani strette sulla presa. “Io non mi posso più fidare di te, Veneziano,” mormorò. “È questo che sta succedendo fra di noi, è questo che stiamo cercando di dirci. Nessuno di noi due lo vuole ammettere, ma è questa la sporca verità. Non possiamo più fidarci, non possiamo più contare l’uno sull’altro.” Scosse il capo. “E se io non posso più fidarmi della mia stessa nazione...” Gli camminò affianco e lo superò. Si diresse anche lui verso la porta d’uscita. “Allora non so proprio dove andremo a finire.” Se ne andò. Non richiuse la porta ma i suoi passi sfumarono attraverso le pareti del corridoio, caddero rapidi e desolati nel silenzio in cui Italia era ancora intrappolato.

Italia si tenne chiuso nel suo malessere, in quella gabbia di tensione che gli correva addosso come fuoco sulla pelle. Posò la mano sulla croce di ferro che pendeva dal collo, ma nemmeno quel gesto gli diede conforto, nemmeno la scossetta metallica sulle punte delle dita lo aiutò a sentirsi meno solo, meno abbandonato in quella guerra che lo stava sgretolando un pezzetto alla volta.

 

.

 

Italia aprì entrambe le mani sulla porta lasciata socchiusa della sala riunioni che aveva raggiunto in fondo al corridoio, sempre nell’albergo che ospitava il loro Quartier Generale a Smolensk. La spinse in avanti sollevando il debole cigolio dei cardini e si fermò, colto dalla voce di Germania che stava già discutendo al suo interno.

“Il pericolo su Smolensk ovviamente non è ancora cessato. Ma per lo meno possiamo contare sulla situazione critica in cui si sta trovando l’Armata Rossa, dato l’enorme numero di uomini e soldati intrappolati nella sacca che stiamo per chiudere.”

Italia arrestò il tocco, si tenne all’interno della lama di luce scivolata dallo spacco fra la porta e lo stipite, e sbirciò all’interno della sala, senza entrarvi.

Quello di Germania fu il primo profilo che incontrò, immerso nella luce tenue spanta dalle pareti a cui erano affisse le lampade al cherosene. La linea elettrica era saltata dopo i bombardamenti assieme a quella telefonica, e non le avevano ancora riattivate.

Germania camminò davanti al tavolo posto al centro della stanza, attraversò quella luce rossiccia che donò ai tratti del suo volto un aspetto ancora più rigido e impassibile, ma tenne gli occhi sulle carte topografiche che stavano esaminando e su cui erano già disposti i segnalini di riferimento. Le sue parole vibrarono profonde fino alle orecchie di Italia. “I sovietici hanno tentato un’ennesima serie di contrattacchi, ma siamo riusciti a mantenere le nostre posizioni, nonostante i primi segni di stanchezza si stiano facendo sentire anche per le nostre truppe.” Passò dietro Prussia e Spagna che erano gli unici a occupare la sala, oltre a lui. Prussia con gli occhi chini, assorbiti anch’essi dallo studio della carta topografica, e Spagna con le braccia conserte, lo sguardo a spostarsi da un punto all’altro del territorio sovietico, dove avevano già spostato le bandierine corrispondenti alle armate.

“Ciò che davvero ci sta permettendo di prevalere,” continuò Germania, “è il fatto che noi disponiamo di soldati addestrati alla perfezione, abituati a sopportare un tale livello di pressione. Mentre gli ultimi resti dell’Armata Rossa sono composti da uomini che si sono ritrovati a imbracciare il fucile solo nelle ultime settimane. Si sta riducendo tutto alla semplice guerriglia urbana, nulla che vada oltre la nostra portata.” Germania distese il braccio, posò l’indice sull’insegna di Smolensk, affianco alla bandierina già piantata sulla carta, e disegnò un cerchio invisibile attorno alla città. “Come vi dicevo prima, la sacca su Smolensk non è ancora del tutto chiusa. Presenta ancora un varco di notevole importanza nella zona est, e in questo modo il rischio di fuga da parte dei sovietici è sempre alto. Stiamo stringendo la tenaglia, è vero, ma è comunque un pericolo da non sottovalutare.” Risollevò il dito e giunse le mani dietro la schiena. “Questo per quanto riguarda la situazione attuale. Parlando invece delle prossime previsioni...”

Alle spalle di Italia – anche se lui non lo udì, troppo preso dal discorso di Germania – si avvicinò un suono di passi assorbito dal legno del corridoio.

La spiegazione di Germania intanto proseguiva. “Dopo che la situazione qua a Smolensk si starà stabilizzata, il nostro Gruppo Armate Centro subirà una deviazione... chiamiamola a forbice.” Germania tornò a indicare Smolensk, calcò con la punta del dito la sezione della mappa che andava da Smolensk a Mosca. Una distanza lunga quanto il suo mignolo. “Una parte delle divisioni, principalmente composte dai reparti di fanteria, rimarrà fra Mosca e Smolensk, occupandosi di sterminare le forze russe rimaste che sicuramente tenteranno di rifugiarsi nella capitale. L’altra parte, invece, a cui ci uniremo anche noi, convergerà verso il sud del territorio e...”

Romano passò affianco a Italia, gli urtò la spalla, immettendosi anche lui nel raggio di luce che fuoriusciva dallo spigolo della porta socchiusa, e spinse l’anta con un colpetto al piede, sollevando un ennesimo cigolio dei cardini arrugginiti. Si diede una spolverata alla giacca pulita che aveva appena indossato sopra la camicia dell’uniforme, e sollevò le mani per pararsi dagli sguardi degli altri tre. “Sì, siamo in ritardo, fateci il favore di risparmiare la ramanzina.”

Gli occhi di Spagna guizzarono su di lui e si lasciarono animare da un piccolo bagliore. Lui sciolse una mano dall’intreccio delle braccia e gli fece cenno di avvicinarsi. Aspettò che lo raggiungesse prima di parlargli a bassa voce. “Abbiamo appena cominciato.”

Romano si piantò lì a braccia conserte – la stessa posizione che Spagna aveva tenuto fino a quel momento – e soffiò via una ciocca dalla fronte. “Che palle.”

Prussia scosse le spalle. “Non eravamo ancora arrivati al sodo, tanto.”

Italia accostò la porta alle sue spalle, anche lui si risistemò l’uniforme, e gli sgattaiolò dietro. S’infilò fra le luci tenui, nell’odore di pelle vecchia emanata dalle poltrone accostate alle pareti e in quello del tabacco che gli ufficiali avevano fumato durante le riunioni precedenti. Arrivò al tavolo tenendo la fronte bassa, lasciandosi guidare solo dalla presenza di Germania, e anche lui concentrò l’attenzione sullo studio della carta.

 Una doppia curva a forma di forbice scendeva dal settore di Bryansk, poco sotto Smolensk, attraversava il fiume e si tuffava in Ucraina, fermando il suo tragitto molto più a est di Kiev, ma sullo stesso asse trasversale. Nello stesso punto, sulla città contrassegnata dal nome ‘Lokhvitsa’, i segni di matita avevano fatto convergere anche i movimenti delle Armate Sud provenienti dal territorio invaso dal comando di Austria. Una sacca, un doppio artiglio che soffocava tutto il settore di Uman.

Italia socchiuse la bocca e storse un sopracciglio. Non capì quella strategia. Fece per aprir bocca, ma Romano diede voce ai suoi pensieri.

“Cos’è questo?” Romano strabuzzò le palpebre e posò le punte delle dita accanto all’insegna di Kiev su cui non era ancora stato affisso nessun segnalino. Le bandierine che contrassegnavano le divisioni tedesche erano tutte ferme al di là del Dnepr, come in preparazione di un agguato. “Hai sul serio idea di portare anche noi a Kiev? Pensavo che fosse solo un’ipotesi, solo nel caso qua a Smolensk non fossimo riusciti a chiudere in tempo la sacca. Solo se...” Scrutò Germania con quegli occhi scettici. “Se non fossimo riusciti a prendere Mosca.”

Germania si spostò e tornò a portarsi dall’altro capo del tavolo, gli diede la schiena camminando. “Ero già stato chiaro sulle motivazioni che mi stanno spingendo a Kiev anziché a Mosca.”

“Solo perché secondo te Russia scenderà per proteggere sua sorella?” insistette Romano. “È di Russia che stiamo parlando, dannazione, non puoi essere sicuro che si farà condizionare da un motivo simile, da una cosa così,” tentennò, “emotiva.”

“Non si tratta solo di questo,” gli rispose Germania, brusco. “Ora che ho finalmente affrontato Russia di persona, so a cosa dare la priorità. E ti assicuro che è lui la priorità, non la sua capitale. Senza contare il fatto che la conquista del territorio ucraino porterebbe vantaggi enormi all’esercito e alla continuazione dell’avanzata.”

Prussia annuì, lo assecondò con aria convinta. “Impadronirci dell’Ucraina significherebbe conquistare il Bacino del Caucaso. Significherebbe quindi avere tutto il petrolio in mano nostra, tutte le materie prime, e lasciare Russia a secco, senza carburante e senza linfa vitale con cui continuare la difesa.” Anche lui spostò l’attenzione sul territorio ucraino a diretto contatto con la Romania, dove s’incuneavano i giacimenti petroliferi e carboniferi. Si soffermò su Kiev circondata dalle armate che erano entrate da sud. I suoi occhi s’incupirono. “Ucraina ora sarà molto debole, se la ferita che si è procurata è grave quanto avete detto. Insistere su di lei che è già moribonda sarà sicuramente la mossa più ragionevole, ci costerà meno fatica rispetto che ritentare con Madre Russia.”

Spagna alzò gli occhi al soffitto, arricciò una smorfia meditabonda, e si strinse il mento. Si diede una strofinata alle guance. Lasciare il nemico senza terreno da cui succhiare le materie prime e sfruttare parte del territorio conquistato per proseguire l’avanzata sulla capitale solo in un secondo momento? Come idea non è nemmeno troppo assurda, però... Riabbassò gli occhi sulla mappa. Quelle armate tedesche già così distanti dal confine con la Polonia, quello sfondamento che aveva sfasciato l’Unione Sovietica con la prepotenza di una pioggia di frecce, e la furia della Wehrmacht che continuava a macinare terreno con la stessa violenza dei suoi panzer. Germania ha cominciato questa battaglia avendo in mente una Guerra Lampo, un Blitzkrieg. È su questo che ha basato la sua strategia, è su questo che ha studiato la distribuzione delle armate, il percorso dell’esercito e tutto il resto. E quello che sta pensando di fare ora romperà tutte quelle premesse che si è imposto fin dall’inizio, svierà tutte le regole. Se avesse davvero voluto prendere il Caucaso per primo, allora avrebbe dovuto pensarci subito, senza imbastire un Blitzkrieg. Gli venne da sorridere. Un sorriso triste. Un Blitzkrieg così ben riuscito, ironicamente.

Spagna scosse il capo e dovette strofinarsi le braccia per raschiare via quella sensazione di freddo e di disagio, nonostante il tepore della sala e la calura estiva che soffocava la città. È proprio vero che Russia fa diventare tutti matti. Per di più ora Germania sta facendo i conti con gli spazi troppo ampi del territorio sovietico, in cui è facile disperdere le forze, poi la fanteria rimasta indietro rispetto ai corpi corazzati, i fianchi che non possono essere protetti, l’esercito di Russia inaspettatamente numeroso, poi il fatto che lui abbia a disposizione riserve di materiale e carburante illimitate. Senza considerare l’ipotesi ben più grave che...

“Germania, considera però anche questo.” Spagna trovò l’audacia di cercare lo sguardo di Germania. Gli occhi di tutti furono su di lui. “Ormai siamo quasi alla fine di luglio. Agosto è alle porte e anche quello passerà in un lampo, esattamente come è passato velocemente il tempo fino a ora. Poi arriverà settembre, e con settembre arriveranno le prime piogge, i primi freddi, le prime nevi.” Strinse i pugni sulla mappa e le unghie graffiarono la carta. “Se qualcosa dovesse andare storto e se noi impiegassimo più tempo del previsto durante le operazioni in Ucraina – cosa altamente probabile considerando la vicinanza alle paludi e la cedevolezza del terreno che rischia di rallentare i carri – allora poi un’avanzata su Mosca sarebbe folle. Con l’arrivo dell’inverno...” Nei suoi occhi lampeggiò un’immagine che gli fece accapponare la pelle. Vide già l’Unione Sovietica vestita di un freddo cappotto di neve, le spirali di ghiaccio a vorticare attorno all’imponente stazza di Russia, il vento a ululargli addosso e a sferzare violente frustate d’aria dovunque lui scavasse le sue impronte, il cielo nero alle sue spalle, e i nuvoloni di maltempo a brontolare attorno alla sua aura sempre più potente e minacciosa, a riflettersi nei suoi occhi lividi che giuravano vendetta. Spagna prese fiato. “Russia diventerebbe invincibile. E tu lo sai.”

Anche Italia provò lo stesso guizzo di paura che lo fece sobbalzare, come se il ghiaccio evocato da quelle parole gli si fosse infilato sotto i vestiti. Romano fece lo stesso. Strinse i denti sul labbro inferiore, tamburellò le dita sulle braccia incrociate, e premette quello sguardo inquisitorio su Germania.

Germania rimase freddo e implacabile. “Ma Russia sarà sconfitto definitivamente ben prima dell’inverno.”

Prussia annuì e lo assecondò. “Anche io ho avuto l’impressione che Russia sia già abbastanza devastato, sia per la conquista così rapida di Smolensk sia per l’incidente di Ucraina. Sconfiggerlo prima dell’inverno non sarà di certo un problema.” Si allontanò dalle occhiatacce di Spagna e di Romano, ignorò tutta la loro preoccupazione. “La guerra finirà entro quest’estate, noi saremo fuori dall’Unione Sovietica prima che possa sfiorarci anche un singolo fiocco di neve, e allora tanti saluti.”

Spagna lo fronteggiò a muso duro. “Ma è a Mosca che stanno convergendo tutte le forze,” insistette. “Se andiamo ora su Mosca, se schiacciamo subito le loro armate, poi non avranno nulla con cui difendersi. Sarà dura ma possiamo farcela. Se Mosca invece rimarrà intatta, c’è più probabilità che poi Russia sposti il comando tattico, non lo so, in Siberia, e che quindi mantenga attivo l’esercito.”

Prussia girò il capo, arrivando a una piuma dal suo viso, e lo tenne sottotiro con quei rossi occhi da litigata che Spagna conosceva bene. “Ma noi dobbiamo dare la precedenza alla distruzione dell’esercito, e non della capitale. Abbiamo bisogno di riserve petrolifere, del grano, e del carbone. Inoltre, se uccidessimo Ucraina, per Russia sarebbe un trauma e sicuramente lo indebolirebbe, sia dal punto di vista fisico sia dal punto di vista mentale.”

Italia allontanò di colpo lo sguardo dalla mappa e strizzò la mano bendata sulla manica della giacca, contenendo un fremito di disagio. Cercò di non pensare troppo al fatto che il nome ‘Ucraina’ avrebbe potuto sparire di lì a qualche settimana da qualsiasi cartina geografica.

“Quindi...” Romano tamburellò le dita sulle braccia e mostrò un’espressione ancora increspata di scetticismo. “Quali sono i piani da adesso in poi? Qual è la direttiva definitiva?”

Germania si distanziò dalla porzione già invasa dell’Unione Sovietica, dai punti della mappa già trafitti dai segnalini, e guardò verso est, dove Mosca giaceva ancora isolata e immacolata. “Lo scopo delle prossime operazioni innanzitutto sarà quello di prevenire e impedire a qualsiasi forza nemica di rifugiarsi nelle profondità della Russia, soprattutto ora che le armate del Gruppo Sud sono riuscite a sfondare la Linea Stalin e stanno mettendo in fuga verso est tutte le armate sovietiche. L’obiettivo più importante non sarà Mosca, ma la Crimea e le conquiste del bacino carbonifero del Donez, l’interruzione dei rifornimenti russi e petrolio dai territori del Caucaso, l’isolamento di Leningrado e il congiungimento con i finlandesi dalla Carelia.” Tornò a posare due dita su Smolensk. “Da Smolensk...”

Tutti tesero gli sguardi verso il centro del tavolo, persino Italia zampettò di un passo in avanti per seguire meglio.

Germania fece scivolare i polpastrelli verso il basso, ripercorse la doppia curva a forbice già tracciata sulla carta. “Il nostro Gruppo Panzer convergerà verso sud per riunirsi in una cooperazione con le armate a cui è stata affidata la conquista dell’Ucraina. Questo ci permetterà di annientare tutte le forze sovietiche che sono sopravvissute alla prima fase dell’attacco. Nel frattempo...” Indicò le armate di Austria che avevano già circondato Kiev, senza entrarvi. “Il Gruppo Armate Sud sferrerà un attacco su tutto il territorio, si impadronirà della regione industriale di Charkov e si dirigerà verso il Caucaso.”

Spagna sollevò un sopracciglio. “Non entrerà a Kiev?”

“No,” rispose Germania. “Ma vi porrà comunque un accerchiamento statico, senza penetrare la città. Ci occuperemo di Kiev solo quando la sacca nella zona di Uman sarà completa e solo quando il nostro Primo e Secondo Gruppo Panzer si saranno incontrati a Lokhvitsa per formare l’anello.”

“E quello che ci lasceremo indietro qua al centro?”

“In parte lascerò che la fanteria continui ad avanzare verso Mosca, e in parte...” Germania finì catturato da un’altra zona della carta topografica. A nord, dopo la traversata delle regioni baltiche, le armate guidate da Finlandia si trovavano a pochi centimetri da Leningrado. “Invierò delle divisioni a supportare quelle guidate da Finlandia, in modo da facilitargli la traversata verso Leningrado e l’accerchiamento della città.”

Spagna ci rimase di sasso. Quindi non solo toglieremo i gruppi corazzati dalla zona centrale per convergere in Ucraina e andare a riunirci con il gruppo di Austria, ma dimezzeremo anche la fanteria per poter sostenere l’attacco su Leningrado. Su una città che è comunque di minor importanza rispetto a Mosca. È sempre più assurdo.

“Aspetta...” Romano mise le mani avanti per arrestare il flusso d’informazioni che in qualche modo era riuscito a rassicurarlo. “Quindi in parte qualcosa rimarrà comunque davanti a Mosca? Non sarà una zona completamente scoperta.”

“Ovviamente,” confermò Germania. “Soprattutto per impedire che i sovietici tentino una ritirata. La fanteria del nostro Gruppo Armate Centro resterà in agguato a Mosca intanto che i gruppi corazzati convergeranno a sud. L’avanzata su Mosca non verrà completamente ignorata, ma solo messa in disparte e riservata alla fanteria.”

Spagna fece roteare gli occhi ed evitò di farsi vedere con addosso quell’espressione di disappunto. Che è come dire non avanzare, dato che per uno sfondamento del genere sono necessari i mezzi corazzati con cui noi convergeremo verso sud. Risalì la fronte con una strofinata di mano, fece correre le dita fra i capelli mossi e tornò giù spalmando un lungo sospiro rantolante contro il palmo. Accidenti a me, perché ho deciso di immischiarmi in questa guerra? Se solo non fosse per il fatto che devo proteggere Romano... Lo guardò, provò quell’innato bisogno di raggiungerlo, di tenerselo vicino, e fu invaso da un’altra ondata di tristezza e impotenza, la stessa che aveva provato nell’abbracciarlo un paio di giorni prima, quando Romano era scoppiato a piangere dopo la fine della battaglia, e anche durante l’abbraccio di riconciliazione nell’archivio di Berlino, quando lo aveva stretto così forte, come per paura che potesse guizzargli via dalle braccia, come per paura di averlo già perso nella spirale senza luce di quella guerra.

La voce di Germania ruppe ogni suo pensiero. “La chiave per distruggere Russia è distruggere chi gli sta attorno e chi lo protegge. Per questo do precedenza a Kiev, per questo voglio chiudere la sacca a Uman e creare più in fretta possibile delle teste di ponte sul Dnepr, in modo che il gruppo corazzato guidato da Austria possa congiungersi con il nostro.” Posò la mano sul punto di congiunzione previsto, quel cerchio su Lokhvitsa su cui loro sarebbero arrivati da nord e Austria con gli altri sarebbero arrivati da sud. “Quando i nostri gruppi si saranno ricongiunti, Kiev sarà già caduta, e a noi non resterà altro da fare che entrarci a piedi.”

Prussia batté le mani davanti al petto, e tornò euforico come un bambino. “Quindi la nostra prossima mossa sarà riunirci con Austria. Ehi, Ita, sentito?” Si sporse a punzecchiarlo con soffici gomitate alla spalla. “Si torna assieme al principino. Contento?”

Italia fece un piccolo scatto, come risvegliato da un sogno, ma i suoi occhi rimasero assenti, persi in lontananza, fra le profondità di quella nazione che li stava già inghiottendo nelle sue viscere. “Oh, sì, è vero.” Sollevò gli angoli della bocca, tentò un sorrisino ma non riuscì ad alzare gli occhi da terra. Si strofinò il braccio con la mano bendata. “Che bello.” Ma cosa succederà da adesso in poi? La sua testa gonfia di pensieri non gli dava pace. Quello che ho detto a Russia...

“Perché io e Germania abbiamo fatto un patto,” esclamò il ricordo della sua stessa voce, riportandolo davanti a Russia, a proteggere Germania dalla sua ira. “Io proteggo lui e lui protegge me. E io sono stanco di essere salvato. Sono stanco di mettere nei guai qualcuno che amo solo per la mia debolezza.”

Italia tornò a stringersi nelle spalle e a tenere giunte le mani sul petto, sopra la croce di ferro. Giochicchiò con la catenina, strofinò le unghie sui bracci metallici. Il suo angolino sicuro. Quello che gli ho detto potrebbe spingerlo a fare qualcosa di male a Germania? Potrebbe fargli capire che Germania sarebbe disposto anche a mettere a repentaglio la guerra stessa se io finissi nei guai? Quindi io potrei essere la causa della perdita di Germania, potrei causargli un mare di guai anche adesso che ho solo cercato di proteggerlo.

Italia sospirò e lasciò ciondolare il capo in avanti. Spero davvero che Russia vada in Ucraina come ha detto Germania. Perché se me lo ritrovassi davanti per una seconda volta, non so proprio se riuscirei a essere coraggioso come lo sono stato adesso. Si strofinò la mano bendata che aveva ripreso a pulsare di dolore. Ripensò allo sparo esploso davanti agli occhi, a quella sfrecciata di dolore che gli aveva lacerato il palmo, e alla paura che gli aveva appesantito il cuore davanti alla visione di tutto quel sangue. Non so se riuscirei a sopportare altro dolore.

“Ma ora Austria cosa starà combinando?” intervenne Romano. “Loro sono andati veloci in Ucraina, anche più del previsto, e sono già praticamente alle porte di Kiev. Quindi perché perdere tempo con una sacca di questo genere quando potrebbero semplicemente sfondare con un colpo diretto sulla città?”

“Perché Kiev è difesa molto bene,” rispose Germania. “I sobborghi brulicano di fortezze, di bunker, e di ampi movimenti di resistenza che potrebbero mettere in difficoltà persino i nostri reparti corazzati. Il fianco nord delle armate di Austria ha un campo d’azione limitato a causa della Quinta Armata sovietica che sta resistendo meglio rispetto alle altre e impedisce loro un’azione rapida ed efficace. Per questo preferisco che compino un accerchiamento al posto dell’attacco diretto. In queste condizioni, non riuscirebbero mai a sfondare le mura della città, ed è meglio portare Kiev al logoramento.”

Spagna fece roteare lo sguardo, ma non nascose un fioco sorriso di nostalgia. “Austria s’infurierà a morte. Lui odia i cambi di programma così improvvisi.”

“Già, ma se la principessina avrà qualcosa da ridire, allora potrà farlo di persona.” Prussia sorrise, già fremente d’aspettativa, e spalancò la mano sulla carta, sentendosi in grado di sfondare l’Unione Sovietica con un pugno solo. “Rimettiamoci in marcia, signori. I miei consorti mi attendono.”

   
 
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