Il
Gioiello del Vaticano
Capitolo
8 - L’Appeso
Nei
Tarocchi, la carta dell’Appeso rappresenta l’esaltazione della
spiritualità che
sovrasta la fisicità. Può indicare misticismo, devozione a Dio. Può
significare
l’abbraccio con filosofie superiori che trascendono l’umano,
dimenticando il
materiale. Indica una persona disinteressata che sa sacrificarsi per un
credo,
un ideale. Può anche indicare una persona di fede, un sacerdote, come
anche un
sognatore, un utopista.
Al negativo, però, indica chi si nutre di illusioni, chi progetta senza
saper
realizzare, chi è amato senza sapere ricambiare.
«Affrettatevi.
Possiamo ancora salvare le persone colpite», mormorò Leonardo, porgendo
alla
suora le istruzioni per guarire le consorelle dall’avvelenamento.
«Complimenti,
da Vinci», si intromise Giuliano, ma la risposta dell’artista non fu
più di un
debole cenno del capo.
«Grazie,
maestro», aggiunse la badessa, con un sorriso colmo di riconoscenza.
Al
contrario,
Lupo Mercuri e i suoi scagnozzi rivolsero al prodigioso fiorentino un
ultimo
sguardo contrariato, prima di uscire a grandi passi dal dormitorio del
convento. Vedendoli andarsene a passo di carica, Leonardo non riuscì a
trattenere una risata soddisfatta e, in fondo, di sollievo.
Dovette
però
ammettere che, senza la loro oscura presenza in quella stanza, l’aria
era
decisamente più leggera e respirabile, così tanto che sentì i suoi
polmoni
implorarlo per averne di più, e l’artista assecondò quel bisogno.
Lasciò cadere
le braccia lungo i fianchi, alzò il capo al soffitto e respirò
profondamente.
Chiuse
gli
occhi e sentì la freschezza del mattino liberarlo dalle paure e dalle
angosce
di quegli ultimi giorni al convento, e le sue labbra si piegarono in un
sorriso.
Quando
riaprì
gli occhi, però, qualcosa era cambiato.
La
stanza del convento era
vuota. Completamente.
Niente
più letti di legno,
niente più lenzuola insanguinate, e nessuna persona sdraiata su quei
giacigli.
Il
silenzio, e nient’altro, a
saturare l’aria.
Leonardo
provò a muoversi, ma i
suoi muscoli erano improvvisamente indolenziti, pesanti come massi, e
anche
solo compiere un passo richiese uno sforzo disumano.
Sollevò
lo sguardo in direzione
di una delle finestre, per scorgere qualcosa al di là di esse, ma vide
solo il
vuoto. La campagna fiorentina era sparita, ingoiata da una nebbia densa
e bianca
come la neve, e non c’era possibilità di vedere altro che quel candore.
Quando
provò di nuovo a
muoversi, le gambe cedettero per lo sforzo, le energie lo
abbandonarono, e perse
i sensi.
Non
sapeva dire quando tempo
fosse passato. Forse giorni. Forse un battito di ciglia.
Quando
però riuscì a
risvegliarsi, non era più nel convento, ma in un luogo a lui
sconosciuto.
Da
Vinci giaceva a terra, la
guancia premuta contro un pavimento liscio e freddo come il ghiaccio.
Le forze
però sembravano essere tornate, e l’artista riuscì a sistemarsi seduto
e a
trascinarsi verso una delle pareti di quella stanza misteriosa, per
poter avere
il muro come supporto alle sue spalle mentre aspettava che i capogiri
cessassero.
Nemmeno
da quella prospettiva,
però, riuscì a riconoscere quel luogo, o almeno a capire di che cosa si
trattasse.
Le
pareti erano nere come la
pece, lucidate alla perfezione ma così oscure da soffocare anche il più
tenue
raggio di luce. Alte, imponenti, si innalzavano come a voler
raggiungere il
cielo, ma tutto ciò a cui riuscivano ad arrivare era il soffitto di
quella
stanza, anch’esso cupo e buio.
Un
debole tintinnio metallico
catturò l’attenzione dell’artista, che si voltò subito in direzione di
quel suono.
Scattò in piedi, cosa che si rivelò un grave errore per il suo già
precario
equilibrio, ma per fortuna la parete fu di nuovo il suo sostegno.
Recuperate
le forze, mosse
qualche passo barcollando, ma deciso a seguire quel suono.
Sentì
gli occhi bruciare e li
serrò con forza per placare le fiamme.
Quando
li riaprì, era altrove.
Quella
nuova stanza, al
contrario della precedente, era completamente bianca.
Le
pareti, il pavimento, il
soffitto, i mobili… ogni cosa era di marmo, di un marmo così candido da
riuscire quasi ad accecarlo.
Ma
non era la sola differenza
rispetto alla sala precedente.
Non
era più solo.
Al
centro del salone, una
figura misteriosa sedeva su un esile sgabello, chinata su di un tavolo.
Qualunque azione stesse svolgendo, era celata sotto ad un drappo di
velluto
nero, insieme all’identità di quella persona sconosciuta.
Quel
tintinnio metallico
risuonò di nuovo in tutta la stanza, più forte e nitido di prima, e
Leonardo
capì, osservando i movimenti sotto al mantello, che proveniva proprio
dall’individuo misterioso.
L’artista
mosse qualche passo
in quella direzione, ma poco dopo un altro attore entrò in scena.
Non
si trattava, però, di una
figura distinta e definita come la prima. Al contrario, il suo profilo
era evanescente,
fumo nero che si diradava lungo i suoi contorni, e lasciava dietro di
sé una
scia di cenere e polvere.
Aveva
però le fattezze di una
persona, di un uomo alto e robusto, che si muoveva in modo deciso e
sicuro
verso il lato del tavolo opposto alla persona seduta.
Da
quella coltre densa e cupa,
però, Leonardo riconobbe chiaramente la forma di una mano: ossuta,
scheletrica,
e dalle unghie lunghe e sporche di carbone. E stretto tra quelle dita
prive di
pelle, stringeva un cuore. Un cuore ancora pulsante.
Una
risata riecheggiò tra le
candide pareti, ma impregnata di malvagità, sadica, crudele, perversa.
D’istinto,
da Vinci mosse un
passo indietro, e il suo sguardo vagò subito fino a quella misteriosa
figura
chinata sul tavolo. Per qualche ragione, pregò che anch’essa scappasse,
chiunque egli o ella fosse, ma niente del genere accadde.
Tutto
ciò che quella persona fece
fu alzarsi in piedi, senza però allontanarsi dallo scrittoio. Al
contrario,
iniziò a camminare intorno ad esso con passi lenti e stanchi, e ad ogni
suo
movimento il tintinnio risuonò.
Solo
allora, Leonardo vide.
Massicce
catene di ferro
seguivano ogni mossa, ogni gesto, ormai non più celate dal velluto
nero, e osservandole
da Vinci si chiese come fosse possibile trascinarle, tanto apparivano
pesanti.
Nonostante
tutto, la figura
raggiunse l’altro lato del tavolo, dove una bilancia d’oro era
magicamente
comparsa, e il lucido marmo bianco la rifletteva come uno specchio.
L’altra
presenza, la nube di fumo nero, allungò la mano verso uno dei piatti e
lasciò
cadere il cuore.
Il
meccanismo della bilancia si
azionò, il primo piatto si abbassò e la sua controparte rispose.
E
su di essa, la seconda
chiave.
Sotto
il velluto nero, un’altra
mano si avvicinò alla bilancia. Candida, aggraziata, ma incerta e
tremolante.
Prima
di poter sfiorare la
chiave, una lacrima cadde sul piatto.
In
quei pochi secondi, da Vinci
prese coraggio e si avvicinò a quelle misteriose presenze, lo sguardo
che
vagava dalla bilancia al mantello nero.
Quando
poi la mano raggiunse la
chiave, posata sul piatto, il velluto scivolò via dal capo, rivelando
l’identità
della povera anima incatenata.
Gli
occhi vuoti e vacui, lo
sguardo perso, le forze prosciugate… ma era lei.
Era
Gemma.
Leonardo
riaprì
gli occhi di scatto, inspirando tutta l’aria che poté.
Provò
a
rialzarsi dal letto, ma si sentì strattonare da qualcosa, una stretta
attorno
ai polsi che gli impedì qualsiasi movimento.
«Mi
sbagliavo…», mormorò, con un filo di voce. «Mi sbagliavo… mi
sbagliavo…»,
ripeté più e più volte.
Era
sveglio, ma
l’immagine di quel volto, così vuoto e perso, privato di qualsiasi
emozione o
vitalità, lo aveva colpito più di quanto non volesse ammettere.
Se
poi
ripensava a quella discussione, a quelle parole intrise di veleno e
ribrezzo
dettate solo dal contagio, si sentiva ancora peggio. Perché lo aveva
visto nel
suo sguardo: non era quella la verità. Non ci era neanche lontanamente
vicino.
Sentiva
le voci
di Nico e di Giuliano de’ Medici chiamarlo, parlargli, porgli delle
domande, ma
non riusciva a rispondere, la sua mente non pensava ad altro che ad
una
persona.
Una
giovane
donna che, a sua insaputa, era proprio lì fuori, in piedi, appena
accanto alla
porta del dormitorio.
Gemma
aveva
sentito tutto e, per quanto provasse a negarlo, un sospiro di sollievo
era
sfuggito dalle sue labbra appena certa che Leonardo fosse sopravvissuto
al
contagio.
Prima
di darsi
tempo di pensarlo, però, scosse la testa e si allontanò. Si era
trattenuta anche
troppo a lungo, e il viaggio verso Roma sarebbe stato lungo. Dover
tornare in
Vaticano e riferire al papa che il piano era fallito… non sarebbe stato
facile.
Scese le scale verso il cortile con un passo via via più lento, al
pensiero di
quello che l’avrebbe aspettata una volta attraversato il portone e
lasciato il
convento.
Raggiunto
il chiostro,
però, il suo sguardo venne catturato dalla statua di Sant’Antonio, la
stessa
scultura che aveva fatto da tramite per il veleno e che era stata
strumento del
contagio.
Sapeva
che era
una pessima idea, che se qualcuno dei suoi collaboratori l’avesse vista
sarebbero sorte strane domande, e che lei per prima non doveva
pensarci, ma fu
più forte di qualsiasi buon senso.
Lentamente,
raggiunse il piccolo podio di pietra, incorniciato da un modesto arco
di
mattoni grezzi e da alcune piante rampicanti.
Congiunse
le
mani in grembo, sollevò lo sguardo verso il volto del santo patrono, e
lentamente si inginocchiò davanti alla sua statua. Il suo volto perse
qualsiasi
traccia di arroganza o di superbia, e al loro posto calò un velo di
malinconia.
La
sua mente si
allontanò da tutto: Roma, Firenze, il papa, la sua missione, perfino
Leonardo.
Da
tutto tranne
che da un pensiero. Da una persona.
E
a quella
persona rivolse la sua preghiera.
Angolo
dell’autrice
Buonsalve
a
tutt*!
Trovata
la cura
per salvare le suore, ore servirà una medicina per curare Leonardo dai
sensi di
colpa per quello che ha detto a Gemma. Essere stato contagiato è
un’attenuante?
Oppure ha davvero esagerato, a prescindere?
Inoltre,
so che
non dovrei dirlo, ma è stato buttato lì qualche dettaglio che piano
piano
ricomporrà quel puzzle che è la vita di Gemma, la sua storia e il suo
passato. Sono
sempre curiosa di sapere che teorie possono scaturire anche solo da
poche
frasi, sia in questo capitolo che in quelli precedenti. Idee?
Che
dire,
questo è l’ultimo capitolo del 2018, ma dal momento che il prossimo
sarà
mercoledì 2 gennaio, rimando gli auguri di buon anno ad allora. Qui, mi
limito
a farvi tantissimi auguri di buon Natale e a ringraziarvi per avermi
letto e
per continuare a leggermi. Se aveste voglia di farmi un piccolo regalo
per
queste feste, sarei felicissima di leggervi nelle recensioni e di
sapere che
cosa ne pensate.
Intanto,
un
bacione grandissimo!
Amy
W. Gildeary