PRIMO GIORNO
Un caldo sole di fine estate salutava l’inizio di un nuovo
giorno per
Strade, taxi,
stazioni della metro e autobus si riempivano di pendolari diretti al lavoro, a
Wall Street
Lontano dalla
frenesia del centro, in una piccola casa a due piani di Jackson Heights, nel
Queens, il giovane Erik Landry stava finendo di fare colazione, a base di caffè
e pane tostato.
I genitori, Hank e
Betty Landry, erano già usciti per andare al lavoro: il padre Hank era sergente
di polizia, Betty Hill invece faceva la pediatra. Bravissime persone, di solidi
principi morali e capaci di dare un amore senza confini ad un figlio che, in
linea teorica, non era neanche loro.
Erik, infatti, era
stato adottato: i coniugi Landry lo avevano trovato svenuto nel bel mezzo di un
lago a pochi passi dal loro cottage a Glacier National Park, nel Montana, ormai
quattro mesi prima.
Forse a causa
dello shock o a seguito di un incidente dalle circostanze mai chiarite il
ragazzo non ricordava assolutamente nulla di sé, e a parte il suo nome non
sapeva dire con esattezza né chi fosse né quanti anni avesse né tantomeno come
fosse finito aggrappato ad un isolotto con indosso un vecchio soprabito nero
simile ad una mantella piena di strappi e lacerazioni che avevano fatto pensare
fin da subito alla vittima di un orso.
Hank Landry, colui
che per primo lo aveva avvistato e soccorso, aveva tentato di scoprire qualcosa
di lui, ma dopo due settimane di attesa nessuno aveva segnalato la scomparsa, a
Glacier, di un ragazzo sui diciotto anni con capelli argentei e occhi azzurri,
e anche i profili di ragazzi scomparsi in tutti gli Stati Uniti che possedevano
le stesse caratteristiche si erano rivelati incompatibili con il caso in
questione.
Vista la totale
mancanza di risposte anche dopo un mese di appelli e segnalazioni alla fine i
Landry, che desideravano un figlio più di ogni altra cosa e che nel contempo
erano impossibilitati ad averlo, avevano deciso di adottarlo, e terminata la
vacanza lo avevano portato nella loro casa di New York, che da quel momento era
diventata anche casa sua.
Erik era un
ragazzo mite, amichevole, estremamente capace, anche se un po’ introverso, una
cosa dovuta con molta probabilità alla situazione che aveva vissuto e all’impossibilità
di ricordare qualcosa della sua vita che risalisse a prima di quella mattina di
giugno.
In compenso si era
rivelato un vero genio: parlava senza difficoltà ben sette lingue, Inglese,
Francese, Spagnolo, Giapponese, Tedesco, Cinese e Italiano, e altre due,
Arapaho e Cheyenne, le aveva imparate nei soli venti giorni che aveva trascorso
a Glacier; stupito e meravigliato da una tale predisposizione all’apprendimento
Hank un giorno aveva provato a sottoporgli un test d’intelligenza riservato solitamente
ai docenti universitari, ed era venuto fuori un quoziente intellettivo pari a
289, di gran lunga superiore a quello di qualunque cervellone degli USA.
A dispetto di
questa sconfinata genialità Erik era una persona semplice, che non chiedeva altro
che ricambiare il favore che quelle due brave persone, che ormai chiamava padre
e madre, gli avevano fatto, pertanto appena giunto a New York si era messo
subito alla ricerca di un lavoro, trovandolo non molto tempo dopo in un
minimarket non molto lontano gestito da un cinoamericano, tale Billy Chow.
Terminata la
colazione Erik uscì di casa, guardandosi bene di chiudere la porta a chiave,
quindi, inforcata la sua bicicletta, un regalo di suo padre, si diresse al
lavoro, raggiungendo rapidamente il minimarket, situato in una strada centrale
del quartiere.
«Buongiorno signor
Chow.» disse appena entrato
«Buongiorno Erik.»
rispose il proprietario, impegnato in quel momento al bancone «Mattiniero come
sempre.»
«Cosa vuole farci.
La puntualità è sempre un bene, e mio padre non fa che ripetermelo.»
«Tuo padre è un
vero uomo. Ce ne fossero di più di persone come lui».
La mattinata
trascorse senza alcun problema, malgrado i problemi in una zona come il Queens
fossero all’ordine del giorno, ma la presenza della vicina stazione di polizia
scoraggiava anche i delinquenti più determinati a tentare qualche colpo bassi
ai danni del signor Chow, che in venticinque anni di onorata carriera era tra i
pochi commercianti del quartiere, e forse di tutta New York, a non aver ancora
subito nessun furto.
Erik, fra le altre
cose, era un lavoratore indefesso e infaticabile; faceva qualsiasi cosa gli si
chiedesse, e soprattutto la faceva bene, ed era una fortuna che sulla sua
strada non avesse incontrato persone di pochi principi che si fossero
approfittate di quella sua infaticabilità, senza contare il fatto che si
trattava di un ragazzo estremamente bonario, che molto difficilmente alzava la
voce e assolutamente incapace di alzare le mani, ma era difficile stabilire se questo
spasmodico attaccamento al lavoro e l’estrema affidabilità che lo
caratterizzavano fossero da attribuirsi alla sua stessa persona o a quella del
suo padre adottivo, che faceva di tali virtù i suoi cavalli di battaglia.
Poco dopo
mezzogiorno, quando stava per scattare il break, lo stesso signor Landry, con
in mano una busta di carta da pacchi, entrò nel minimarket per far visita al
figlio, come aveva cominciato a fare da che Erik aveva cominciato a lavorare
lì; essendo agente sul campo, e non trovandosi particolarmente a suo agio con
l’uniforme, indossava abiti civili, ma aveva la pistola e il distintivo sempre
a portata di mano.
«Ciao Billy.»
«Sergente Landry.»
«Dov’è il mio
ragazzo?»
«Dove vuoi che
sia? A sgobbare. Non sta fermo un minuto. Reparto frigo.»
«Grazie».
Erik in quel
momento stava infatti sistemando alcuni panetti di burro nel loro scaffale,
solo l’ennesimo incarico che aveva portato a termine dall’inizio della
giornata, e fu necessario che Hank si schiarisse due volte la gola perché il
ragazzo si decidesse ad accorgersi di lui.
«Ah, papà.»
«Finalmente. È
mezz’ora che sono qui.»
«Mi dispiace, ero
così preso che non ti ho sentito.»
«Non cambierai
mai.»
«Ma cosa ci fai
qui? Credevo fossi al lavoro.»
«Infatti, ma ho staccato
per il pranzo.»
«Il pranzo?!»
«Senti un po’, ma
sai che ore sono? Te lo dico io, è mezzogiorno passato. Il tuo break è
cominciato dieci minuti fa.»
«Accidenti. Non mi
ero accorto che fosse così tardi.»
«Sei proprio
uguale a me. A meno che non mi rimbombino le trombe del giudizio nelle orecchie
nessuno mi stacca dal mio lavoro.
Forza, togliti
quel grembiule e andiamo a mangiare. Hamburger?»
«D’accordo».
A dire la verità
Erik non amava particolarmente gli hamburger, li trovava pesanti e duri da
digerire, ma ad Hank piacevano, e così padre e figlio andarono in un vicino
McDonald, a quell’ora pieno di gente, soprattutto impiegati degli uffici
attigui; non c’erano agenti di polizia, ma era piuttosto normale, perché
proprio di fronte alla stazione c’era una tavola calda che usavano praticamente
tutti.
Si sedettero in un
tavolo accanto alla parete vetrata che dava sulla strada, non troppo lontano
dall’ingresso, e dopo qualche minuto Hank tornò con un vassoio pieno di panini,
patatine fritte e bibite ghiacciate, queste ultime assolutamente ideali per
combattere il caldo che ancora attanagliava
Mangiarono
tranquillamente, conversando tra di loro, ed Erik ad un certo punto si domandò
perché suo padre avesse preso così tanta roba visto e considerato che era in
dieta, una dieta impostagli dalla moglie e che gli costava sonore ripassate
ogni qualvolta la infrangeva.
La risposta venne
dallo stesso Hank.
«Approfittane
finché puoi. Stasera dovrai accontentarti di due uova al tegamino.»
«Perché? È
successo qualcosa?»
«Mi ha telefonato
tua madre. Deve coprire l’assenza di una collega che è stata messa al tappeto
da un’influenza fuori stagione.
Non rientrerà
prima di mezzanotte, quindi stasera dovrò cucinare io.»
«Aspetta, non è il
caso che ti preoccupi. Posso pensarci io.»
«Non dirlo nemmeno
per scherzo. Lavori come un forsennato dalla mattina alla sera, ci manca solo
che tu ti mezza davanti ai fornelli appena arrivi a casa.
Anzi, sai cosa
facciamo? Finito il turno da Chow vai a divertirti a Manhattan. Un mio collega
mi ha regalato un biglietto per l’incontro di stasera al Madison.»
«Ma io…
veramente…»
«Non fare storie.
Anzi, visto che
siamo in argomento, ho qui un altro regalo per te».
Hank aprì dunque
la busta che aveva con sé e mise davanti al figlio una cartellina con la
copertina rigida ricoperta da pregiato tessuto blu su cui era disegnato il
simbolo della City University of New York; Erik la guardò interdetto.
«Ma cosa…»
«Il rettore
dell’università di New York è un mio vecchio amico. Mi sono permesso di
inviargli i risultati del test per il quoziente intellettivo che ti abbiamo
fatto fare, e ne è stato entusiasta. Ti ha concesso seduta stante una borsa di
studio e l’ingresso a pieno titolo alla facoltà di ingegneria che tanto
desideravi di frequentare.»
«Ma… papà, dici
davvero!?»
«Mai stato più
serio. Del resto anche tua madre ed io concordavamo sul fatto che sarebbe un
peccato non valorizzare il tuo talento, per non parlare del fatto che te lo sei
ampiamente meritato.»
«Però… come farò!?
Così non potrò lavorare…»
«Chow sarà felice
quanto noi. Quando vado al negozio senza che tu ci sia dice che lo manderai in
rovina a forza, perché per quello che fai ti paga troppo poco e a forza di
premi di produzione andrebbe in rosso.
Qui c’è tutto il
necessario per ultimare l’iscrizione. Non dovrai fare altro che andare alla
sede e regolarizzare la cosa. E sarà meglio che ti sbrighi, il prossimo anno
accademico inizia tra due settimane».
Erik non riuscì a
trattenere le lacrime di gioia, e prese la cartellina stringendola con forza,
cercando in ogni modo di non finire per piangerci sopra.
«Grazie, papà.»
«Siamo fieri di
te, Erik».
In quella tre
ragazzi di colore, poco più che adolescenti, entrarono nel locale, e il loro
atteggiamento, così guardingo e defilato, insospettì Hank fin da subito; prima
che l’agente potesse fare qualcosa i tre sventolarono un revolver ciascuno che
tenevano nelle tasche delle giacche, e appena uno, forse il capo, sparò in aria
si scatenò il panico.
«Fermi!» presero a
gridare in tutte le direzioni «Non vi muovete! Rimanete seduti!».
Quello che aveva
sparato in aria si avventò subito sul bancone e minacciò una delle ragazze per
farsi aprire la cassa, gli altri due invece presero a ripulire gli avventori da
cellulari, portafogli, orologi e tutto quello che potevano mettersi in tasca.
Hank attese che
tutti e tre gli dessero le spalle, cercando nel contempo di muoversi senza
essere notato, e appena fu sicuro scattò in piedi con la glock d’ordinanza ben
stretta in mano.
«Polizia!» gridò.
Per sua somma
sfortuna la gamba del tavolino al quale era seduto lo tradì, facendolo
barcollare, e uno dei tre, accortosi di lui nell’istante stesso in cui si
alzava, gli puntò contro il suo revolver, e poi, più per paura che per
decisione, sparò un colpo.
Erik vide suo
padre venire ferito, seppur non gravemente, al braccio destro, quello che
impugnava l’arma, e cadere in ginocchio gemendo dal dolore.
«Papà!» gridò
precipitandosi verso di lui, incurante del pericolo
«Niente di grave.»
mugugnò lui tenendosi la ferita.
Vedendolo così,
ferito e dolorante, Erik avvertì una sensazione stranissima, tanto che per un
attimo gli mancò il respiro, e subito dopo fu come se una serie ininterrotta di
immagini gli passassero velocissime davanti agli occhi.
Non sapeva cosa
gli stesse succedendo, ma aveva come l’impressione di aver già vissuto una
scena simile. Era tutto sfocato, confuso, come quando cercava di ricordare
qualcosa del suo passato, ma vedeva chiaramente una figura inginocchiata a
terra che non era suo padre, nel bel mezzo di quello che sembrava un deserto, o
comunque un paesaggio brullo e senza vita; questo qualcuno, che lui vedeva
dinnanzi a sé ad una decina di metri, vestiva di nero, e aveva qualcosa tra le
mani, o meglio, sui polsi, qualcosa che brillava.
La visione durò
diversi secondi, durante i quali Erik sentì di stare perdendo sempre più i
contatti con la realtà, anzi di stare perdendo sé stesso; il suo sguardo si
spense per un istante, come un automa a cui viene impartito un nuovo ordine, e
quando si riaccese sembrava completamente diverso da prima.
Lentamente, mentre
tutti o molti osservavano attoniti la scena, il ragazzo si alzò in piedi, poi,
a testa bassa, cominciò a camminare verso il rapinatore che aveva sparato a suo
padre; i capelli nascondevano quasi interamente il suo volto, ma questo non
servì ad impedire al giovane nero di provare una sensazione di paura.
«Fermo!» disse
mostrandosi autoritario «Non ti muovere!».
Erik non diede
segno di voler ubbidire, e continuò imperterrito a camminare.
«Ti avverto, fai
un altro passo e ti faccio saltare la testa!» ma neanche questa minaccia fu
sufficiente.
«Erik, attento!».
Poi, quando il
rapinatore, spazientito, tentò nuovamente di fare pressione sul grilletto lui,
veloce come un fulmine, gli afferrò il braccio, girandoglielo da una parte
all’altra con uno sforzo apparentemente minimo; si sentirono tutte le
articolazioni, dalla spalla, al gomito al polso andare fuori assetto, e le ossa
dell’avambraccio andare in frantumi a causa del contraccolpo, e quel poveraccio
gridò così forte che a momento avrebbe spaccato i vetri.
«Il braccio!» urlò
piangendo.
I suoi compagni,
inizialmente attoniti, fecero per reagire; Erik, con freddezza, lasciò andare
la sua prima vittima, ormai incapace di rimanere anche solo in piedi dal dolore
che provava, quindi, lanciatosi sul secondo rapinatore, gli assestò un pugno
allo stomaco tanto potente da tramortirlo e farlo volare fuori dal locale
mandando in pezzi una delle vetrine.
Il loro capo,
spaventato come non mai, lasciò perdere del tutto la cassa ancora mezza piena,
e saltato nuovamente il bancone afferrò una bambina di sei o sette anni,
mettendosela davanti come scudo.
«Non fare un’altra
mossa, o questa mocciosa finisce all’altro mondo!».
Prima ancora che
potesse concretizzare in qualche modo la sua minaccia fu come se una mano
invisibile gli avesse inferto un colpo tremendo al torace, costringendolo a
mollare la presa, e con la stessa velocità già dimostrata in precedenza Erik si
avventò su di lui, disarmandolo con un colpo secco per poi afferrarlo
saldamente per il collo con una mano e sollevarlo in aria come fosse una piuma.
Quel poveraccio
cercò in tutti i modi di liberarsi, ma la stretta che gli mozzava il respiro
non avrebbe avuto nulla da invidiare all’abbraccio letale di un serpente; tentò
anche di costringere Erik a mollare la presa tirandogli dei pugni al braccio,
ma era come colpire un tubo d’acciaio tanto la sua pelle e le sue ossa
apparivano dure sotto quella maglietta leggera che indossava.
Le sue labbra
divennero viola, gli occhi quasi gli schizzarono via dalle orbite, poi, quando
fu svenuto per mancanza di ossigeno, Erik lo lasciò andare, e in quel preciso
momento il ragazzo, scosso da un leggero tremore, parve tornare completamente
in sé.
Non aveva la
minima idea di quello che aveva appena fatto: gli ultimi due minuti erano stati
per lui come un’occhiata in un caleidoscopio, dove tutto vorticava
incessantemente senza che lui potesse fare niente per impedire ciò che accadeva,
ma solo lasciarsi trasportare.
L’unica cosa che
ricordava nitidamente era il volto agonizzante di quel povero disgraziato, e
vederlo così, ridotto ad uno straccio proprio ai suoi piedi, gli fece capire
che doveva essere stato lui a ridurlo in quello stato, e a quel punto ebbe
paura; voltatosi, si vide addosso gli sguardi di tutti i presenti: molti erano
increduli, e fra questi suo padre, altri disorientati, altri ancora
terrorizzati.
La bambina che aveva
salvato corse tra le braccia del padre, e qualche momento dopo, allertati dal
vetro in frantumi e dal corpo del rapinatore riverso sul marciapiede, due
poliziotti in pattuglia entrarono nel fastfood, e vedendo Erik in piedi davanti
al bancone gli puntarono contro le armi intimandogli di alzare le mani, ma
Hank, che li conosceva, li richiamò.
«No, fermi. È mio
figlio, e non ha fatto niente».
Venne chiamata
un’ambulanza, sia per i rapinatori, che avevano rispettivamente un braccio
rotto ridotto ad un budino, tre costole spezzate e un principio di asfissia,
sia per Hank, che ricevette solo una medicazione sul posto per pulire la ferita
e applicare una fasciatura.
«Stai bene?»
domandò il sergente mentre veniva medicato seduto sul portello posteriore dell’ambulanza
a Erik, che continuava a guardare in basso, come se si vergognasse
«Io… sì.»
«Ciò che hai fatto
è stato estremamente avventato. Avresti potuto rimetterci la vita, lo sai?»
«Io… non so cosa
mi sia successo. Ho agito senza riflettere.»
«Queste sono le
classiche situazioni in cui riflettere è la prima cosa da fare. Guarda me. Ho
agito d’impulso e per poco non mi prendevo una palla in testa.
Il tuo è stato un
gesto coraggioso e altruistico, questo non lo metto in dubbio, ma che poteva costarti
molto caro. Ad ogni modo, sono rimasto molto colpito.
Dove hai imparato
a combattere in quel modo?»
«Non… non lo so.»
«Immagino tu abbia
preso delle lezioni di arti marziali prima di incontrarci, e non ti avrei mai
attribuito una simile forza. Comunque» disse Hank alzandosi in piedi a
medicazione terminata «Per oggi non ci pensiamo più. Ma non fare mai più niente
di tanto pericoloso, ci siamo intesi?»
«Sì…»
«Bene. Ora vai a
casa. Avvertirò Chow dell’accaduto.»
«Ma come, e tu?»
«Non sarà questo
graffietto a fermarmi. Tornerò a fine turno».
Erik alla fine non andò all’incontro al Madison, e
arrivato a casa si chiuse in camera sua, in parte per la vergogna per essere
stato rimproverato e redarguito per la prima volta da suo padre in parte perché
non riusciva a dare un senso a quello che gli era successo.
A dispetto delle
previsioni sua madre Betty tornò a casa all’ora convenzionale, questo grazie ad
un repentino ripensamento della dottoressa che avrebbe dovuto sostituire e che
all’ultimo momento si era presentata in ospedale, arrivando giusto in tempo per
impedire al marito, a sua volta rincasato da poco, di mandare a fuoco la cucina
coi suoi maldestri tentativi di cucinare qualcosa che non fossero le solite
uova e omelette.
Dopo poco essere
rientrata la donna andò a bussare alla porta di Erik, ed entrata lo trovò
disteso sul letto intento a rigirarsi tra le mani la palla da baseball di suo
padre con la quale avevano anche fatto insieme un paio di lanci nel cortile
davanti casa.
«Mamma».
Betty Hill era una
donna che, malgrado avesse superato la cinquantina, conservava un indubbio
fascino; i capelli, biondi, erano ancora vivi e fluenti, raccolti in una coda
che ricadeva sulla spalla, gli occhi erano verde pino e sul viso non vi era più
di qualche ruga. Inoltre, malgrado non avesse mai avuto figli, nel suo sguardo
traspariva l’amore e l’affetto propri di una madre, e proprio come Hank
considerava Erik un dono del cielo, che le aveva fatto provare finalmente le
gioie e le soddisfazione dell’essere mamma e che tante volte aveva invidiato
alle sue due sorelle.
«Tuo padre mi ha
raccontato tutto.» disse senza cattiveria o tono di rimprovero, ma solo con
tanta amorevolezza «Vuoi parlare?».
Erik temporeggiò,
guardando ora in aria ora a terra, poi distolse lo sguardo, e Betty si sedette
a sua volta sul letto.
«Potrei parlarne
se avessi qualcosa da dire. Il problema è che non so neppure io cosa sia
successo.»
«Raccontami quello
che hai provato.»
«Ho paura che se
lo facessi mi prenderesti per matto.»
«Non mi
permetterei mai di pensare una cosa del genere. Non avere paura».
Nuovamente il
ragazzo non seppe come comportarsi, poi però decise di dare fiducia a quella
donna che chiamava mamma pur conoscendola solo da pochi mesi.
«Allora?»
«Io… non so come
descriverlo. All’improvviso, ho cominciato a sentire qualcosa ribollire dentro
di me. Quello a cui stavo assistendo ha avuto come l’effetto di ridestare un
qualcosa di sconosciuto, che mi attirava, non lo nascondo, ma che al contempo
mi terrorizzava.
Era come… un altro
me.»
«Un altro te?»
«Una persona
diversa. Forte, carismatica, aggressiva, quasi malvagia. Vedere ciò che ha
fatto, o che ho fatto a quei tre banditi è stata la cosa che mi ha spaventato
di più. Io non sarei mai capace di far nulla di simile.
Non ho forza, non
so combattere, eppure l’ho fatto. Com’è stato possibile?»
«Tuo padre
ipotizza sia una parte della tua natura che è stata cancellata dall’amnesia e
che gli eventi hanno in qualche modo rievocato.»
«Ma se così fosse,
che razza di persona ero? Ho spezzato un braccio, rotto tre costole e quasi
strozzato una persona, e al mio risveglio avevo come l’impressione che ciò che
avevo fatto fosse in qualche modo piacevole per l’altro me. Che ci provasse
gusto».
Erik si girò verso
la madre, guardandola con gli occhi di un bambino spaventato.
«Che razza di
persona ero?».
La sua espressione
così spaventata e innocente colpì molto Betty, che gli mise amorevolmente una
mano sulla guancia.
«Non devi aver
paura di ricordare, Erik. I ricordi sono il nostro bene più prezioso.»
«E se questi
ricordi non mi piacessero? E se scoprissi che prima di incontrare voi ero una
persona crudele, che provava piacere nel fare del male?»
«Il fatto che tu
ti ponga questa domanda è segno che, qualora ciò dovesse essere vero, saresti
pronto a voltare pagina.
Finché c’è pentimento,
pentimento sincero, c’è spazio anche per il perdono. Semmai un giorno tu
dovessi riuscire a recuperare la memoria, e ricordassi di essere stato una
persona crudele, le esperienze vissute in questo periodo di tempo ti avranno
dato l’impulso a cambiare.»
«Ne sei davvero
sicura?»
«Più di ogni altra
cosa. Te l’ho detto, i ricordi sono la vita. Chi lo sa, al loro interno
potresti trovare ciò che ti spinge a combattere, e magari scopriresti che si
tratta di un nobile ideale.»
«Un nobile
ideale…».
Di nuovo, per un
istante, Erik ebbe la sensazione di aver già vissuto quella scena, e di essersi
sentito dire quelle stesse parole, o meglio, parole molto simili; a pronunciarle
era una voce gentile, armoniosa, candida come la neve.
Non perdere mai di
vista il tuo ideale. È il più nobile di tutti
«Adesso non
pensarci.» disse Betty abbracciandolo e portandolo a sé «Le memorie torneranno
con il tempo, e vedrai che alla fine scoprirai di essere stato una persona dal
cuore nobile.»
«Mamma…»
«Noi ti aiuteremo,
Erik. Ti aiuteremo a ricordare. La tua felicità ci sta a cuore più di qualsiasi
altra cosa.
Con te, questa
famiglia ha ritrovato la vita, una vita che mai avremmo sperato di conoscere».
L’atmosfera
cominciò a quel punto a farsi un po’ più serena, e dopo qualche minuto Erik
cominciò a sentirsi un po’ meglio più rilassato.
Calmatosi, scese
in sala da pranzo per la cena, incontrando Hank, che dopo essersi scusato per
il tono forse un po’ troppo severo che aveva usato quel pomeriggio disse di
aver apprezzato ciò che il suo ragazzo aveva fatto, ma che non ci riprovasse
mai più se gli stava a cuore la salute del suo vecchio, che stava quasi per
avere un infarto.
La battuta fu
accolta con un’allegra risata da parte di madre e figlio, e la cena,
inaspettatamente abbondante, trascorse nella solita allegria, tra amichevoli
discussioni; alzatosi da tavola però Erik non spese parte della serata alla sua
solita maniera, ovvero leggendo qualcuno degli innumerevoli libri che Hank
aveva collezionato in anni di passione per la letteratura, soprattutto europea;
andò invece subito a letto, poiché sentiva il bisogno di calmarsi un po’ e
riordinare le idee, senza contare che aveva promesso a sua madre di
accompagnarla, il giorno dopo, a fare shopping a Manhattan.
Si addormentò
subito, come se non avesse pensieri, osservando la grande acacia che cresceva
poco fuori dalla sua finestra, e alle angosce del giorno fece spazio la quiete
del sonno.
La città, silenziosa, svettava in ogni direzione, e
rassomigliava incredibilmente ad un incrocio tra le megalopoli futuristiche dei
film di fantascienza, con altissimi grattacieli e strade su più livelli, e un
agglomerato urbano del terzo mondo, dove tutto era vecchio, corroso e
decadente.
Il cielo era
plumbeo, e dalle nuvole dense, ondeggianti, degne dell’Apocalisse, usciva una
luce irreale, mentre di tanto in tanto rimbombavano i tuoni.
I palazzi sapevano
di vecchio, erano polverosi e lasciati all’incuria, e alcuni vetri erano
infranti.
Sul fondo,
lontano, arroccato su di un’alta collina, si stagliava un gigantesco palazzo,
costituito da un basso corpo centrale di forma rettangolare da cui svettavano
tre altissime guglie, con quella centrale a dominare sulle altre.
Da solo, nel
silenzio più assoluto, rotto solo dal rumore dei suoi stessi passi, un
individuo ammantato di nero, con indosso una lunga sopravveste e il volto
completamente nascosto dal cappuccio, camminava senza meta al centro della
strada sopraelevata, deserta e malmessa, ma assolutamente dritta, calpestando
talvolta mucchi di sterpi rinsecchite che fuoriuscivano dall’asfalto crepato.
Dietro la schiena,
assicurata per mezzo di una cintura, portava una spada, una bella lama diritta
lunga circa un metro con un impugnatura d’avorio terminante in una testa
d’aquila.
Improvvisamente si
fermò, impietrito, e prese a guardarsi lentamente intorno, come se avesse
avvertito un pericolo.
«Benvenuto!» disse
d’un tratto una voce profonda e dal tono insieme amichevole e provocatorio.
Quello alzò lo
sguardo alla propria destra, scorgendo, sulla cima di un grattacielo che
torreggiava proprio accanto alla strada, la figura di un giovane che lo
osservava con le mani incrociate sul petto; vestiva con lo stesso abito nero,
ma il cappuccio era abbassato, lasciando scoperto un volto serio e gioviale al
tempo stesso, contornato da lunghi capelli neri e arricchito da due occhi
sempre neri dallo sguardo altamente enigmatico.
«Chi sei?» domandò
l’individuo sulla strada
«Di solito è
l’ospite a doversi presentare per primo.
Comunque, se proprio vuoi saperlo, qui molti mi chiamano Eien no Deian.»
«Eien
no Deian. L’Eterno Custode.»
«Ma tu
puoi chiamarmi Dusk, se preferisci.»
«Che
posto è questo?»
«Questa? Questa è la nostra casa.»
«Un
po’ misera come casa.» replicò l’individuo con tono di scherno
«Sì,
non lo metto in dubbio. Ma per quelli come noi, per i quali anche solo l’idea
di avere una casa risulta inconcepibile, direi che è sufficiente. E poi, siamo
solo all’inizio.»
«All’inizio di che cosa?»
«Della
ricostruzione. Fino a poco tempo fa questo pianeta era deserto e inabitabile,
ma con il passare del tempo diventerà il fulcro del nostro nuovo mondo.»
«E chi
sarà l’artefice di un tale prodigio? Tu?»
«Calma. Otterrai la risposta a questa domanda a tempo debito, e solo a
condizione che tu accetti la nostra offerta.»
«Di
che offerta parli?»
«C’è
sempre bisogno di gente capace tra le nostre fila. Ci stiamo preparando a far
conoscere all’universo la nostra esistenza, ma non possiamo farlo senza la
collaborazione di uomini affidabili e di grande potere.»
«Non
mi interessano le vostre proposte di alleanza. Non sono venuto qui per fare
amicizia. Sono qui per incontrare il mio Creatore.»
«Capisco. E se ti dicessi che con il nostro aiuto potresti
incontrarlo?».
Il
forestiero, il cui viso aveva cominciato ad intravedersi all’interno del
cappuccio, ebbe una strana reazione, e le sue labbra si mossero in
un’espressione mista di stupore ed incredulità; tuttavia, sembrava che quella
frase avesse avuto l’effetto di fargli riconsiderare la sua precedente
affermazione.
«Come
faccio ad essere sicuro che tu mi stia dicendo la verità?»
«Sono
un tuo simile. Lo siamo tutti. Conosciamo bene i sentimenti che ci legano ai
nostri Creatori. Ti pare che mentiremmo su una cosa del genere?».
Quello
parve convincersi, tanto che allontanò la mano dall’impugnatura della spada.
«Questo ed altro è nei poteri dell’Imperatore.»
«Chi è
l’Imperatore.»
«È la
nostra guida, il nostro ispiratore. Lui ha preso questo mondo decadente e lo ha
reso abitabile, lui sta permettendo anche qui la nascita della vita, e lui
saprà dare a tutti noi nuova vita, così da dare finalmente al nostro popolo la
dignità che merita.»
«E io
che ruolo dovrei avere in tutto questo?»
«Tu
dovresti solo prestarci la tua forza. Credimi, non sei il solo tra di noi che
aspira a fare i conti con il suo creatore, e tutti coloro che coltivano questo
desiderio molto presto lo vedranno realizzato».
C’era
grande enfasi nelle parole di Dusk, e alla fine il forestiero ne fu persuaso;
in fin dei conti, il loro aiuto gli sarebbe potuto tornare comodo, anche se
l’idea di riconoscere qualcuno, in questo caso l’Imperatore, come suo superiore
decisamente non gli piaceva.
«D’accordo, accetto».
Dask
fece uno strano sorriso, come un ghigno di soddisfazione senza però nulla di
malevolo, e ad un suo schiocco di dita decine di uomini avvolti in armature
nere prive di elmo e vesti di tessuto simile al lino comparvero da innumerevoli
piccoli portali di fumo nero, imbracciando delle armi che sembravano delle
lance ma la cui lama, lunga e larga, era tagliata in due parti uguali fino a
formare un bidente con al centro delle sfere rosso sangue. Portavano anche una
spada medievale alla cintura, ma solo uno di loro, probabilmente il capo, la
teneva in mano.
«E
questo che significa?» domandò il forestiero senza mostrarsi per questo
preoccupato o minacciato
«È
solo un piccolo test. Dobbiamo essere certi della tua abilità».
Di nuovo
Dusk schioccò le dita, e due nemici partirono insieme all’attacco brandeggiando
le loro aste; il forestiero li attese, poi afferrò l’arma di uno e lo
scaraventò lontano con un calcio, rubandogliela e usandola per disarmare il
secondo prima di stenderlo con un paio di colpi ben piazzati.
I loro
compagni puntarono dunque le lance contro di lui, generando dalle sfere dei
fasci di luce come fossero armi da fuoco; lo straniero però tese una mano, e
immediatamente davanti a lui si formò una barriera di luce che respinse senza
problemi tutti gli attacchi, quindi, con grande velocità, gli fu addosso,
mettendoli tutti al tappeto senza difficoltà.
Rimasero
solo il comandante e un paio di altri, ma anche loro vennero sconfitti dopo una
coraggiosa per quanto inutile resistenza, e nel momento in cui mandava a nanna
l’ultimo nemico lo straniero vide Dusk saltare giù dal palazzo, atterrando
davanti a lui.
«Davvero
niente male.» disse mentre nelle sue mani comparivano una coppia di scudi
dorati del diametro di circa ottanta centimetri «Ma il vero esame comincia solo
adesso».
Solo allora
lo straniero decise di sguainare la spada, e quella lama dritta e levigata era
così ben fatta che bastava la poca luce lì presente a farla brillare come un
raggio di sole.
I due
contendenti corsero l’uno verso l’altro, e l’urto tra le rispettive armi
produsse, oltre che vaste scintille, anche un rumore assordante, come una
cannonata.
Erano tutti e due dotati di grande rapidità,
sia nei movimenti che nell’attacco, ma mentre il forestiero si concentrata
principalmente sull’offesa, difendendosi solo in situazioni di estrema
necessità, Dusk al contrario, vista anche la natura delle sue armi, passava
molto tempo a difendersi, ma questo non voleva dire che non fosse pericoloso; i
suoi due scudi, infatti, avevano le estremità affilate come rasoi, e di tanto
in tanto li lanciava come fossero dei frisbee, oppure sfruttava il meccanismo
che legava la superficie semisferica all’impugnatura per mezzo di una lunga
catena estendibile e ritirabile per mezzo di un meccanismo segreto,
trasformandoli in letali yo-yo, ma fortunatamente la spada del forestiero riusciva
sempre e comunque a parare prima che partisse il contrattacco.
Il combattimento
durò diversi minuti, ma per quanto venisse colpito, anche in maniera pesante,
Dusk non sanguinava, e anche dopo aver effettuato un brusco atterraggio, che
teoricamente avrebbe dovuto spezzargli una gamba, se l’era cavata con un
leggero digrignar di denti.
Ad un
tratto sembrò che il forestiero fosse messo in difficoltà, dal momento che Dusk
era riuscito ad avviluppare la catena di uno dei suoi scudi alla spada del
nemico.
«Non
sei abbastanza veloce, mi dispiace.» disse tentando di tirare l’arma a sé, ma
incontrando una sorprendente resistenza.
Lo straniero
parve accigliarsi, strinse i denti in un’esclamazione rabbiosa, e per un attimo
il suo avversario vide qualcosa, come due segni rossi e luminosi
materializzarsi sul suo viso; con una forza inaudita il forestiero lanciò una
sfera di magia rosso sangue che centrò in pieno Dusk, scaraventandolo lontano;
lo scudo avviluppato attorno alla spada perse la presa, ma fu un bene, perché Dusk
riuscì a muoverlo perché si piantasse a terra e, scavando un solco
profondissimo, fermasse il suo volo orizzontale, permettendogli di fermarsi.
Ritornato
a terra con le sue gambe, dopo uno spettacolare giro della morte, Dusk alla
fine crollò in ginocchio, completamente esausto.
Lo straniero lo guardò, tornando
apparentemente quello di sempre, quindi si abbassò il cappuccio, rivelando il
volto di un ragazzo sui diciotto anni con occhi azzurri e capelli d’argento che
ricadevano sulla fronte e dietro la nuca in lunghe frange.
«La
sfida è finita. Ho vinto.»
«Impressionante…»
disse Dusk ansimando «Sei davvero molto forte…».
Il ragazzo
lo osservò a lungo, ma improvvisamente accanto al suo nemico si aprì un portale
oscuro da cui schizzarono fuori tre fasci di luce simili a proiettili; lui,
colto alla sprovvista, si difese all’ultimo mettendo la spada dinnanzi a sé, e
strisciando sull’asfalto per parecchi metri, poi, quando risollevò lo sguardo,
vide un nuovo individuo in nero accanto a Dusk, ma questi, invece di un
soprabito, portava un lungo impermeabile nero chiuso sul davanti e un largo cappello;
aveva i capelli lunghi, di un colore ocra, e occhi marroni che trasmettevano
una sensazione glaciale, specchio di un’anima priva di emozioni che non fossero
oscure.
Nota dell’Autore
Salve a tutti!^_^
Eccomi qua con una
nuova storia che serve a creare un ponte fra i primi due episodi della trilogia
di Millennium War, ma che può essere letta tranquillamente a parte, anche senza
conoscere il resto della saga.
Come avrete notato i
capitoli non hanno numeri né titoli, ma solo “Giorni”.
Questa fan fiction infatti
si svolge nell’arco di 13 giorni, da qui il titolo, e ogni capitolo, diviso tra
un presente attuale e un passato narrato in flashback, in questo caso un sogno,
rappresenta un giorno reale.
Spero la troverete di
vostro gradimento, e mi raccomando recensite!
A presto!^_^
Carlos Olivera