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Autore: Carlos Olivera    17/07/2009    5 recensioni
Erik è un ragazzo come tanti altri, ma non ha alcun ricordo del proprio passato, nulla che risalga a prima degli ultimi quattro mesi.
Vive a New York, coi suoi genitori adottivi, Hank e Betty, che lo hanno trovato e accolto, trattandolo come il figlio che non avevano mai potuto avere.
Lui è felice della sua vita, sente di poter ottenere qualsiasi cosa, ma alla vigila del compimento del suo più grande sogno una voce misteriosa lo chiama: è una voce sconosciuta, che porta con sè qualcosa, qualcosa di oscuro, e il miraggio di un'esistenza lontana, spesa al fianco di esseri senza patria e senza gloria, il cui solo destino è essere odiati da tutti l'universo.
I compagni di un tempo sono diventati nemici, e i vecchi rancori sono pronti ad esplodere nuovamente, distruggendo quella piccola parvenza di felicità.
Man mano che i ricordi riaffiorano, Erik si trova costretto a dover fare una scelta tra la vecchia e la nuova vita, tra l'accettazione di cio che possiede, ma soprattutto di ciò che è, il tutto legato ad una promessa fatta ad una persona cara, ma che comporterebbe l'addio, definitivo e inevitabile, di tutto ciò che lo ha reso felice.
Genere: Drammatico | Stato: completa
Tipo di coppia: non specificato
Note: Alternate Universe (AU) | Avvertimenti: nessuno
Capitoli:
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- Questa storia fa parte della serie 'Millennium War'
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PRIMO GIORNO

PRIMO GIORNO

 

 

Un caldo sole di fine estate salutava l’inizio di un nuovo giorno per la Grande Mela, una città che non conosceva mai un attimo di riposo, eternamente preda del traffico, del caos e della vita metropolitana.

  Strade, taxi, stazioni della metro e autobus si riempivano di pendolari diretti al lavoro, a Wall Street la Borsa si preparava ad aprire le contrattazioni con il caratteristico rintocco della campana, Central Park, campi da basket e da baseball erano affollati di ragazzi che si godevano gli ultimi scampoli di libertà prima dell’imminente inizio delle scuole e i turisti, tanti come sempre, affollavano i luoghi simbolo conosciuti in tutto il mondo, da Liberty Island al Rockfeller Center.

  Lontano dalla frenesia del centro, in una piccola casa a due piani di Jackson Heights, nel Queens, il giovane Erik Landry stava finendo di fare colazione, a base di caffè e pane tostato.

  I genitori, Hank e Betty Landry, erano già usciti per andare al lavoro: il padre Hank era sergente di polizia, Betty Hill invece faceva la pediatra. Bravissime persone, di solidi principi morali e capaci di dare un amore senza confini ad un figlio che, in linea teorica, non era neanche loro.

  Erik, infatti, era stato adottato: i coniugi Landry lo avevano trovato svenuto nel bel mezzo di un lago a pochi passi dal loro cottage a Glacier National Park, nel Montana, ormai quattro mesi prima.

  Forse a causa dello shock o a seguito di un incidente dalle circostanze mai chiarite il ragazzo non ricordava assolutamente nulla di sé, e a parte il suo nome non sapeva dire con esattezza né chi fosse né quanti anni avesse né tantomeno come fosse finito aggrappato ad un isolotto con indosso un vecchio soprabito nero simile ad una mantella piena di strappi e lacerazioni che avevano fatto pensare fin da subito alla vittima di un orso.

  Hank Landry, colui che per primo lo aveva avvistato e soccorso, aveva tentato di scoprire qualcosa di lui, ma dopo due settimane di attesa nessuno aveva segnalato la scomparsa, a Glacier, di un ragazzo sui diciotto anni con capelli argentei e occhi azzurri, e anche i profili di ragazzi scomparsi in tutti gli Stati Uniti che possedevano le stesse caratteristiche si erano rivelati incompatibili con il caso in questione.

  Vista la totale mancanza di risposte anche dopo un mese di appelli e segnalazioni alla fine i Landry, che desideravano un figlio più di ogni altra cosa e che nel contempo erano impossibilitati ad averlo, avevano deciso di adottarlo, e terminata la vacanza lo avevano portato nella loro casa di New York, che da quel momento era diventata anche casa sua.

  Erik era un ragazzo mite, amichevole, estremamente capace, anche se un po’ introverso, una cosa dovuta con molta probabilità alla situazione che aveva vissuto e all’impossibilità di ricordare qualcosa della sua vita che risalisse a prima di quella mattina di giugno.

  In compenso si era rivelato un vero genio: parlava senza difficoltà ben sette lingue, Inglese, Francese, Spagnolo, Giapponese, Tedesco, Cinese e Italiano, e altre due, Arapaho e Cheyenne, le aveva imparate nei soli venti giorni che aveva trascorso a Glacier; stupito e meravigliato da una tale predisposizione all’apprendimento Hank un giorno aveva provato a sottoporgli un test d’intelligenza riservato solitamente ai docenti universitari, ed era venuto fuori un quoziente intellettivo pari a 289, di gran lunga superiore a quello di qualunque cervellone degli USA.

  A dispetto di questa sconfinata genialità Erik era una persona semplice, che non chiedeva altro che ricambiare il favore che quelle due brave persone, che ormai chiamava padre e madre, gli avevano fatto, pertanto appena giunto a New York si era messo subito alla ricerca di un lavoro, trovandolo non molto tempo dopo in un minimarket non molto lontano gestito da un cinoamericano, tale Billy Chow.

  Terminata la colazione Erik uscì di casa, guardandosi bene di chiudere la porta a chiave, quindi, inforcata la sua bicicletta, un regalo di suo padre, si diresse al lavoro, raggiungendo rapidamente il minimarket, situato in una strada centrale del quartiere.

  «Buongiorno signor Chow.» disse appena entrato

  «Buongiorno Erik.» rispose il proprietario, impegnato in quel momento al bancone «Mattiniero come sempre.»

  «Cosa vuole farci. La puntualità è sempre un bene, e mio padre non fa che ripetermelo.»

  «Tuo padre è un vero uomo. Ce ne fossero di più di persone come lui».

  La mattinata trascorse senza alcun problema, malgrado i problemi in una zona come il Queens fossero all’ordine del giorno, ma la presenza della vicina stazione di polizia scoraggiava anche i delinquenti più determinati a tentare qualche colpo bassi ai danni del signor Chow, che in venticinque anni di onorata carriera era tra i pochi commercianti del quartiere, e forse di tutta New York, a non aver ancora subito nessun furto.

  Erik, fra le altre cose, era un lavoratore indefesso e infaticabile; faceva qualsiasi cosa gli si chiedesse, e soprattutto la faceva bene, ed era una fortuna che sulla sua strada non avesse incontrato persone di pochi principi che si fossero approfittate di quella sua infaticabilità, senza contare il fatto che si trattava di un ragazzo estremamente bonario, che molto difficilmente alzava la voce e assolutamente incapace di alzare le mani, ma era difficile stabilire se questo spasmodico attaccamento al lavoro e l’estrema affidabilità che lo caratterizzavano fossero da attribuirsi alla sua stessa persona o a quella del suo padre adottivo, che faceva di tali virtù i suoi cavalli di battaglia.

  Poco dopo mezzogiorno, quando stava per scattare il break, lo stesso signor Landry, con in mano una busta di carta da pacchi, entrò nel minimarket per far visita al figlio, come aveva cominciato a fare da che Erik aveva cominciato a lavorare lì; essendo agente sul campo, e non trovandosi particolarmente a suo agio con l’uniforme, indossava abiti civili, ma aveva la pistola e il distintivo sempre a portata di mano.

  «Ciao Billy.»

  «Sergente Landry.»

  «Dov’è il mio ragazzo?»

  «Dove vuoi che sia? A sgobbare. Non sta fermo un minuto. Reparto frigo.»

  «Grazie».

  Erik in quel momento stava infatti sistemando alcuni panetti di burro nel loro scaffale, solo l’ennesimo incarico che aveva portato a termine dall’inizio della giornata, e fu necessario che Hank si schiarisse due volte la gola perché il ragazzo si decidesse ad accorgersi di lui.

  «Ah, papà.»

  «Finalmente. È mezz’ora che sono qui.»

  «Mi dispiace, ero così preso che non ti ho sentito.»

  «Non cambierai mai.»

  «Ma cosa ci fai qui? Credevo fossi al lavoro.»

  «Infatti, ma ho staccato per il pranzo.»

  «Il pranzo?!»

  «Senti un po’, ma sai che ore sono? Te lo dico io, è mezzogiorno passato. Il tuo break è cominciato dieci minuti fa.»

  «Accidenti. Non mi ero accorto che fosse così tardi.»

  «Sei proprio uguale a me. A meno che non mi rimbombino le trombe del giudizio nelle orecchie nessuno mi stacca dal mio lavoro.

  Forza, togliti quel grembiule e andiamo a mangiare. Hamburger?»

  «D’accordo».

  A dire la verità Erik non amava particolarmente gli hamburger, li trovava pesanti e duri da digerire, ma ad Hank piacevano, e così padre e figlio andarono in un vicino McDonald, a quell’ora pieno di gente, soprattutto impiegati degli uffici attigui; non c’erano agenti di polizia, ma era piuttosto normale, perché proprio di fronte alla stazione c’era una tavola calda che usavano praticamente tutti.

  Si sedettero in un tavolo accanto alla parete vetrata che dava sulla strada, non troppo lontano dall’ingresso, e dopo qualche minuto Hank tornò con un vassoio pieno di panini, patatine fritte e bibite ghiacciate, queste ultime assolutamente ideali per combattere il caldo che ancora attanagliava la Grande Mela.

  Mangiarono tranquillamente, conversando tra di loro, ed Erik ad un certo punto si domandò perché suo padre avesse preso così tanta roba visto e considerato che era in dieta, una dieta impostagli dalla moglie e che gli costava sonore ripassate ogni qualvolta la infrangeva.

  La risposta venne dallo stesso Hank.

  «Approfittane finché puoi. Stasera dovrai accontentarti di due uova al tegamino.»

  «Perché? È successo qualcosa?»

  «Mi ha telefonato tua madre. Deve coprire l’assenza di una collega che è stata messa al tappeto da un’influenza fuori stagione.

  Non rientrerà prima di mezzanotte, quindi stasera dovrò cucinare io.»

  «Aspetta, non è il caso che ti preoccupi. Posso pensarci io.»

  «Non dirlo nemmeno per scherzo. Lavori come un forsennato dalla mattina alla sera, ci manca solo che tu ti mezza davanti ai fornelli appena arrivi a casa.

  Anzi, sai cosa facciamo? Finito il turno da Chow vai a divertirti a Manhattan. Un mio collega mi ha regalato un biglietto per l’incontro di stasera al Madison.»

  «Ma io… veramente…»

  «Non fare storie.

  Anzi, visto che siamo in argomento, ho qui un altro regalo per te».

  Hank aprì dunque la busta che aveva con sé e mise davanti al figlio una cartellina con la copertina rigida ricoperta da pregiato tessuto blu su cui era disegnato il simbolo della City University of New York; Erik la guardò interdetto.

  «Ma cosa…»

  «Il rettore dell’università di New York è un mio vecchio amico. Mi sono permesso di inviargli i risultati del test per il quoziente intellettivo che ti abbiamo fatto fare, e ne è stato entusiasta. Ti ha concesso seduta stante una borsa di studio e l’ingresso a pieno titolo alla facoltà di ingegneria che tanto desideravi di frequentare.»

  «Ma… papà, dici davvero!?»

  «Mai stato più serio. Del resto anche tua madre ed io concordavamo sul fatto che sarebbe un peccato non valorizzare il tuo talento, per non parlare del fatto che te lo sei ampiamente meritato.»

  «Però… come farò!? Così non potrò lavorare…»

  «Chow sarà felice quanto noi. Quando vado al negozio senza che tu ci sia dice che lo manderai in rovina a forza, perché per quello che fai ti paga troppo poco e a forza di premi di produzione andrebbe in rosso.

  Qui c’è tutto il necessario per ultimare l’iscrizione. Non dovrai fare altro che andare alla sede e regolarizzare la cosa. E sarà meglio che ti sbrighi, il prossimo anno accademico inizia tra due settimane».

  Erik non riuscì a trattenere le lacrime di gioia, e prese la cartellina stringendola con forza, cercando in ogni modo di non finire per piangerci sopra.

  «Grazie, papà.»

  «Siamo fieri di te, Erik».

  In quella tre ragazzi di colore, poco più che adolescenti, entrarono nel locale, e il loro atteggiamento, così guardingo e defilato, insospettì Hank fin da subito; prima che l’agente potesse fare qualcosa i tre sventolarono un revolver ciascuno che tenevano nelle tasche delle giacche, e appena uno, forse il capo, sparò in aria si scatenò il panico.

  «Fermi!» presero a gridare in tutte le direzioni «Non vi muovete! Rimanete seduti!».

  Quello che aveva sparato in aria si avventò subito sul bancone e minacciò una delle ragazze per farsi aprire la cassa, gli altri due invece presero a ripulire gli avventori da cellulari, portafogli, orologi e tutto quello che potevano mettersi in tasca.

  Hank attese che tutti e tre gli dessero le spalle, cercando nel contempo di muoversi senza essere notato, e appena fu sicuro scattò in piedi con la glock d’ordinanza ben stretta in mano.

  «Polizia!» gridò.

  Per sua somma sfortuna la gamba del tavolino al quale era seduto lo tradì, facendolo barcollare, e uno dei tre, accortosi di lui nell’istante stesso in cui si alzava, gli puntò contro il suo revolver, e poi, più per paura che per decisione, sparò un colpo.

  Erik vide suo padre venire ferito, seppur non gravemente, al braccio destro, quello che impugnava l’arma, e cadere in ginocchio gemendo dal dolore.

  «Papà!» gridò precipitandosi verso di lui, incurante del pericolo

  «Niente di grave.» mugugnò lui tenendosi la ferita.

  Vedendolo così, ferito e dolorante, Erik avvertì una sensazione stranissima, tanto che per un attimo gli mancò il respiro, e subito dopo fu come se una serie ininterrotta di immagini gli passassero velocissime davanti agli occhi.

  Non sapeva cosa gli stesse succedendo, ma aveva come l’impressione di aver già vissuto una scena simile. Era tutto sfocato, confuso, come quando cercava di ricordare qualcosa del suo passato, ma vedeva chiaramente una figura inginocchiata a terra che non era suo padre, nel bel mezzo di quello che sembrava un deserto, o comunque un paesaggio brullo e senza vita; questo qualcuno, che lui vedeva dinnanzi a sé ad una decina di metri, vestiva di nero, e aveva qualcosa tra le mani, o meglio, sui polsi, qualcosa che brillava.

  La visione durò diversi secondi, durante i quali Erik sentì di stare perdendo sempre più i contatti con la realtà, anzi di stare perdendo sé stesso; il suo sguardo si spense per un istante, come un automa a cui viene impartito un nuovo ordine, e quando si riaccese sembrava completamente diverso da prima.

  Lentamente, mentre tutti o molti osservavano attoniti la scena, il ragazzo si alzò in piedi, poi, a testa bassa, cominciò a camminare verso il rapinatore che aveva sparato a suo padre; i capelli nascondevano quasi interamente il suo volto, ma questo non servì ad impedire al giovane nero di provare una sensazione di paura.

  «Fermo!» disse mostrandosi autoritario «Non ti muovere!».

  Erik non diede segno di voler ubbidire, e continuò imperterrito a camminare.

  «Ti avverto, fai un altro passo e ti faccio saltare la testa!» ma neanche questa minaccia fu sufficiente.

  «Erik, attento!».

  Poi, quando il rapinatore, spazientito, tentò nuovamente di fare pressione sul grilletto lui, veloce come un fulmine, gli afferrò il braccio, girandoglielo da una parte all’altra con uno sforzo apparentemente minimo; si sentirono tutte le articolazioni, dalla spalla, al gomito al polso andare fuori assetto, e le ossa dell’avambraccio andare in frantumi a causa del contraccolpo, e quel poveraccio gridò così forte che a momento avrebbe spaccato i vetri.

  «Il braccio!» urlò piangendo.

  I suoi compagni, inizialmente attoniti, fecero per reagire; Erik, con freddezza, lasciò andare la sua prima vittima, ormai incapace di rimanere anche solo in piedi dal dolore che provava, quindi, lanciatosi sul secondo rapinatore, gli assestò un pugno allo stomaco tanto potente da tramortirlo e farlo volare fuori dal locale mandando in pezzi una delle vetrine.

  Il loro capo, spaventato come non mai, lasciò perdere del tutto la cassa ancora mezza piena, e saltato nuovamente il bancone afferrò una bambina di sei o sette anni, mettendosela davanti come scudo.

  «Non fare un’altra mossa, o questa mocciosa finisce all’altro mondo!».

  Prima ancora che potesse concretizzare in qualche modo la sua minaccia fu come se una mano invisibile gli avesse inferto un colpo tremendo al torace, costringendolo a mollare la presa, e con la stessa velocità già dimostrata in precedenza Erik si avventò su di lui, disarmandolo con un colpo secco per poi afferrarlo saldamente per il collo con una mano e sollevarlo in aria come fosse una piuma.

  Quel poveraccio cercò in tutti i modi di liberarsi, ma la stretta che gli mozzava il respiro non avrebbe avuto nulla da invidiare all’abbraccio letale di un serpente; tentò anche di costringere Erik a mollare la presa tirandogli dei pugni al braccio, ma era come colpire un tubo d’acciaio tanto la sua pelle e le sue ossa apparivano dure sotto quella maglietta leggera che indossava.

  Le sue labbra divennero viola, gli occhi quasi gli schizzarono via dalle orbite, poi, quando fu svenuto per mancanza di ossigeno, Erik lo lasciò andare, e in quel preciso momento il ragazzo, scosso da un leggero tremore, parve tornare completamente in sé.

  Non aveva la minima idea di quello che aveva appena fatto: gli ultimi due minuti erano stati per lui come un’occhiata in un caleidoscopio, dove tutto vorticava incessantemente senza che lui potesse fare niente per impedire ciò che accadeva, ma solo lasciarsi trasportare.

  L’unica cosa che ricordava nitidamente era il volto agonizzante di quel povero disgraziato, e vederlo così, ridotto ad uno straccio proprio ai suoi piedi, gli fece capire che doveva essere stato lui a ridurlo in quello stato, e a quel punto ebbe paura; voltatosi, si vide addosso gli sguardi di tutti i presenti: molti erano increduli, e fra questi suo padre, altri disorientati, altri ancora terrorizzati.

  La bambina che aveva salvato corse tra le braccia del padre, e qualche momento dopo, allertati dal vetro in frantumi e dal corpo del rapinatore riverso sul marciapiede, due poliziotti in pattuglia entrarono nel fastfood, e vedendo Erik in piedi davanti al bancone gli puntarono contro le armi intimandogli di alzare le mani, ma Hank, che li conosceva, li richiamò.

  «No, fermi. È mio figlio, e non ha fatto niente».

  Venne chiamata un’ambulanza, sia per i rapinatori, che avevano rispettivamente un braccio rotto ridotto ad un budino, tre costole spezzate e un principio di asfissia, sia per Hank, che ricevette solo una medicazione sul posto per pulire la ferita e applicare una fasciatura.

  «Stai bene?» domandò il sergente mentre veniva medicato seduto sul portello posteriore dell’ambulanza a Erik, che continuava a guardare in basso, come se si vergognasse

  «Io… sì.»

  «Ciò che hai fatto è stato estremamente avventato. Avresti potuto rimetterci la vita, lo sai?»

  «Io… non so cosa mi sia successo. Ho agito senza riflettere.»

  «Queste sono le classiche situazioni in cui riflettere è la prima cosa da fare. Guarda me. Ho agito d’impulso e per poco non mi prendevo una palla in testa.

  Il tuo è stato un gesto coraggioso e altruistico, questo non lo metto in dubbio, ma che poteva costarti molto caro. Ad ogni modo, sono rimasto molto colpito.

  Dove hai imparato a combattere in quel modo?»

  «Non… non lo so.»

  «Immagino tu abbia preso delle lezioni di arti marziali prima di incontrarci, e non ti avrei mai attribuito una simile forza. Comunque» disse Hank alzandosi in piedi a medicazione terminata «Per oggi non ci pensiamo più. Ma non fare mai più niente di tanto pericoloso, ci siamo intesi?»

  «Sì…»

  «Bene. Ora vai a casa. Avvertirò Chow dell’accaduto.»

  «Ma come, e tu?»

  «Non sarà questo graffietto a fermarmi. Tornerò a fine turno».

 

Erik alla fine non andò all’incontro al Madison, e arrivato a casa si chiuse in camera sua, in parte per la vergogna per essere stato rimproverato e redarguito per la prima volta da suo padre in parte perché non riusciva a dare un senso a quello che gli era successo.

  A dispetto delle previsioni sua madre Betty tornò a casa all’ora convenzionale, questo grazie ad un repentino ripensamento della dottoressa che avrebbe dovuto sostituire e che all’ultimo momento si era presentata in ospedale, arrivando giusto in tempo per impedire al marito, a sua volta rincasato da poco, di mandare a fuoco la cucina coi suoi maldestri tentativi di cucinare qualcosa che non fossero le solite uova e omelette.

  Dopo poco essere rientrata la donna andò a bussare alla porta di Erik, ed entrata lo trovò disteso sul letto intento a rigirarsi tra le mani la palla da baseball di suo padre con la quale avevano anche fatto insieme un paio di lanci nel cortile davanti casa.

  «Mamma».

  Betty Hill era una donna che, malgrado avesse superato la cinquantina, conservava un indubbio fascino; i capelli, biondi, erano ancora vivi e fluenti, raccolti in una coda che ricadeva sulla spalla, gli occhi erano verde pino e sul viso non vi era più di qualche ruga. Inoltre, malgrado non avesse mai avuto figli, nel suo sguardo traspariva l’amore e l’affetto propri di una madre, e proprio come Hank considerava Erik un dono del cielo, che le aveva fatto provare finalmente le gioie e le soddisfazione dell’essere mamma e che tante volte aveva invidiato alle sue due sorelle.

  «Tuo padre mi ha raccontato tutto.» disse senza cattiveria o tono di rimprovero, ma solo con tanta amorevolezza «Vuoi parlare?».

  Erik temporeggiò, guardando ora in aria ora a terra, poi distolse lo sguardo, e Betty si sedette a sua volta sul letto.

  «Potrei parlarne se avessi qualcosa da dire. Il problema è che non so neppure io cosa sia successo.»

  «Raccontami quello che hai provato.»

  «Ho paura che se lo facessi mi prenderesti per matto.»

  «Non mi permetterei mai di pensare una cosa del genere. Non avere paura».

  Nuovamente il ragazzo non seppe come comportarsi, poi però decise di dare fiducia a quella donna che chiamava mamma pur conoscendola solo da pochi mesi.

  «Allora?»

  «Io… non so come descriverlo. All’improvviso, ho cominciato a sentire qualcosa ribollire dentro di me. Quello a cui stavo assistendo ha avuto come l’effetto di ridestare un qualcosa di sconosciuto, che mi attirava, non lo nascondo, ma che al contempo mi terrorizzava.

  Era come… un altro me.»

  «Un altro te?»

  «Una persona diversa. Forte, carismatica, aggressiva, quasi malvagia. Vedere ciò che ha fatto, o che ho fatto a quei tre banditi è stata la cosa che mi ha spaventato di più. Io non sarei mai capace di far nulla di simile.

  Non ho forza, non so combattere, eppure l’ho fatto. Com’è stato possibile?»

  «Tuo padre ipotizza sia una parte della tua natura che è stata cancellata dall’amnesia e che gli eventi hanno in qualche modo rievocato.»

  «Ma se così fosse, che razza di persona ero? Ho spezzato un braccio, rotto tre costole e quasi strozzato una persona, e al mio risveglio avevo come l’impressione che ciò che avevo fatto fosse in qualche modo piacevole per l’altro me. Che ci provasse gusto».

  Erik si girò verso la madre, guardandola con gli occhi di un bambino spaventato.

  «Che razza di persona ero?».

  La sua espressione così spaventata e innocente colpì molto Betty, che gli mise amorevolmente una mano sulla guancia.

  «Non devi aver paura di ricordare, Erik. I ricordi sono il nostro bene più prezioso.»

  «E se questi ricordi non mi piacessero? E se scoprissi che prima di incontrare voi ero una persona crudele, che provava piacere nel fare del male?»

  «Il fatto che tu ti ponga questa domanda è segno che, qualora ciò dovesse essere vero, saresti pronto a voltare pagina.

  Finché c’è pentimento, pentimento sincero, c’è spazio anche per il perdono. Semmai un giorno tu dovessi riuscire a recuperare la memoria, e ricordassi di essere stato una persona crudele, le esperienze vissute in questo periodo di tempo ti avranno dato l’impulso a cambiare.»

  «Ne sei davvero sicura?»

  «Più di ogni altra cosa. Te l’ho detto, i ricordi sono la vita. Chi lo sa, al loro interno potresti trovare ciò che ti spinge a combattere, e magari scopriresti che si tratta di un nobile ideale.»

  «Un nobile ideale…».

  Di nuovo, per un istante, Erik ebbe la sensazione di aver già vissuto quella scena, e di essersi sentito dire quelle stesse parole, o meglio, parole molto simili; a pronunciarle era una voce gentile, armoniosa, candida come la neve.

 

Non perdere mai di vista il tuo ideale. È il più nobile di tutti

 

  «Adesso non pensarci.» disse Betty abbracciandolo e portandolo a sé «Le memorie torneranno con il tempo, e vedrai che alla fine scoprirai di essere stato una persona dal cuore nobile.»

  «Mamma…»

  «Noi ti aiuteremo, Erik. Ti aiuteremo a ricordare. La tua felicità ci sta a cuore più di qualsiasi altra cosa.

  Con te, questa famiglia ha ritrovato la vita, una vita che mai avremmo sperato di conoscere».

  L’atmosfera cominciò a quel punto a farsi un po’ più serena, e dopo qualche minuto Erik cominciò a sentirsi un po’ meglio più rilassato.

  Calmatosi, scese in sala da pranzo per la cena, incontrando Hank, che dopo essersi scusato per il tono forse un po’ troppo severo che aveva usato quel pomeriggio disse di aver apprezzato ciò che il suo ragazzo aveva fatto, ma che non ci riprovasse mai più se gli stava a cuore la salute del suo vecchio, che stava quasi per avere un infarto.

  La battuta fu accolta con un’allegra risata da parte di madre e figlio, e la cena, inaspettatamente abbondante, trascorse nella solita allegria, tra amichevoli discussioni; alzatosi da tavola però Erik non spese parte della serata alla sua solita maniera, ovvero leggendo qualcuno degli innumerevoli libri che Hank aveva collezionato in anni di passione per la letteratura, soprattutto europea; andò invece subito a letto, poiché sentiva il bisogno di calmarsi un po’ e riordinare le idee, senza contare che aveva promesso a sua madre di accompagnarla, il giorno dopo, a fare shopping a Manhattan.

  Si addormentò subito, come se non avesse pensieri, osservando la grande acacia che cresceva poco fuori dalla sua finestra, e alle angosce del giorno fece spazio la quiete del sonno.

 

La città, silenziosa, svettava in ogni direzione, e rassomigliava incredibilmente ad un incrocio tra le megalopoli futuristiche dei film di fantascienza, con altissimi grattacieli e strade su più livelli, e un agglomerato urbano del terzo mondo, dove tutto era vecchio, corroso e decadente.

  Il cielo era plumbeo, e dalle nuvole dense, ondeggianti, degne dell’Apocalisse, usciva una luce irreale, mentre di tanto in tanto rimbombavano i tuoni.

  I palazzi sapevano di vecchio, erano polverosi e lasciati all’incuria, e alcuni vetri erano infranti.

  Sul fondo, lontano, arroccato su di un’alta collina, si stagliava un gigantesco palazzo, costituito da un basso corpo centrale di forma rettangolare da cui svettavano tre altissime guglie, con quella centrale a dominare sulle altre.

  Da solo, nel silenzio più assoluto, rotto solo dal rumore dei suoi stessi passi, un individuo ammantato di nero, con indosso una lunga sopravveste e il volto completamente nascosto dal cappuccio, camminava senza meta al centro della strada sopraelevata, deserta e malmessa, ma assolutamente dritta, calpestando talvolta mucchi di sterpi rinsecchite che fuoriuscivano dall’asfalto crepato.

  Dietro la schiena, assicurata per mezzo di una cintura, portava una spada, una bella lama diritta lunga circa un metro con un impugnatura d’avorio terminante in una testa d’aquila.

  Improvvisamente si fermò, impietrito, e prese a guardarsi lentamente intorno, come se avesse avvertito un pericolo.

  «Benvenuto!» disse d’un tratto una voce profonda e dal tono insieme amichevole e provocatorio.

  Quello alzò lo sguardo alla propria destra, scorgendo, sulla cima di un grattacielo che torreggiava proprio accanto alla strada, la figura di un giovane che lo osservava con le mani incrociate sul petto; vestiva con lo stesso abito nero, ma il cappuccio era abbassato, lasciando scoperto un volto serio e gioviale al tempo stesso, contornato da lunghi capelli neri e arricchito da due occhi sempre neri dallo sguardo altamente enigmatico.

  «Chi sei?» domandò l’individuo sulla strada

  «Di solito è l’ospite a doversi presentare per primo.

  Comunque, se proprio vuoi saperlo, qui molti mi chiamano Eien no Deian.»

  «Eien no Deian. L’Eterno Custode.»

  «Ma tu puoi chiamarmi Dusk, se preferisci.»

  «Che posto è questo?»

  «Questa? Questa è la nostra casa.»

  «Un po’ misera come casa.» replicò l’individuo con tono di scherno

  «Sì, non lo metto in dubbio. Ma per quelli come noi, per i quali anche solo l’idea di avere una casa risulta inconcepibile, direi che è sufficiente. E poi, siamo solo all’inizio.»

  «All’inizio di che cosa?»

  «Della ricostruzione. Fino a poco tempo fa questo pianeta era deserto e inabitabile, ma con il passare del tempo diventerà il fulcro del nostro nuovo mondo.»

  «E chi sarà l’artefice di un tale prodigio? Tu?»

  «Calma. Otterrai la risposta a questa domanda a tempo debito, e solo a condizione che tu accetti la nostra offerta.»

  «Di che offerta parli?»

  «C’è sempre bisogno di gente capace tra le nostre fila. Ci stiamo preparando a far conoscere all’universo la nostra esistenza, ma non possiamo farlo senza la collaborazione di uomini affidabili e di grande potere.»

  «Non mi interessano le vostre proposte di alleanza. Non sono venuto qui per fare amicizia. Sono qui per incontrare il mio Creatore.»

  «Capisco. E se ti dicessi che con il nostro aiuto potresti incontrarlo?».

  Il forestiero, il cui viso aveva cominciato ad intravedersi all’interno del cappuccio, ebbe una strana reazione, e le sue labbra si mossero in un’espressione mista di stupore ed incredulità; tuttavia, sembrava che quella frase avesse avuto l’effetto di fargli riconsiderare la sua precedente affermazione.

  «Come faccio ad essere sicuro che tu mi stia dicendo la verità?»

  «Sono un tuo simile. Lo siamo tutti. Conosciamo bene i sentimenti che ci legano ai nostri Creatori. Ti pare che mentiremmo su una cosa del genere?».

  Quello parve convincersi, tanto che allontanò la mano dall’impugnatura della spada.

  «Questo ed altro è nei poteri dell’Imperatore.»

  «Chi è l’Imperatore.»

  «È la nostra guida, il nostro ispiratore. Lui ha preso questo mondo decadente e lo ha reso abitabile, lui sta permettendo anche qui la nascita della vita, e lui saprà dare a tutti noi nuova vita, così da dare finalmente al nostro popolo la dignità che merita.»

  «E io che ruolo dovrei avere in tutto questo?»

  «Tu dovresti solo prestarci la tua forza. Credimi, non sei il solo tra di noi che aspira a fare i conti con il suo creatore, e tutti coloro che coltivano questo desiderio molto presto lo vedranno realizzato».

  C’era grande enfasi nelle parole di Dusk, e alla fine il forestiero ne fu persuaso; in fin dei conti, il loro aiuto gli sarebbe potuto tornare comodo, anche se l’idea di riconoscere qualcuno, in questo caso l’Imperatore, come suo superiore decisamente non gli piaceva.

  «D’accordo, accetto».

  Dask fece uno strano sorriso, come un ghigno di soddisfazione senza però nulla di malevolo, e ad un suo schiocco di dita decine di uomini avvolti in armature nere prive di elmo e vesti di tessuto simile al lino comparvero da innumerevoli piccoli portali di fumo nero, imbracciando delle armi che sembravano delle lance ma la cui lama, lunga e larga, era tagliata in due parti uguali fino a formare un bidente con al centro delle sfere rosso sangue. Portavano anche una spada medievale alla cintura, ma solo uno di loro, probabilmente il capo, la teneva in mano.

  «E questo che significa?» domandò il forestiero senza mostrarsi per questo preoccupato o minacciato

  «È solo un piccolo test. Dobbiamo essere certi della tua abilità».

  Di nuovo Dusk schioccò le dita, e due nemici partirono insieme all’attacco brandeggiando le loro aste; il forestiero li attese, poi afferrò l’arma di uno e lo scaraventò lontano con un calcio, rubandogliela e usandola per disarmare il secondo prima di stenderlo con un paio di colpi ben piazzati.

  I loro compagni puntarono dunque le lance contro di lui, generando dalle sfere dei fasci di luce come fossero armi da fuoco; lo straniero però tese una mano, e immediatamente davanti a lui si formò una barriera di luce che respinse senza problemi tutti gli attacchi, quindi, con grande velocità, gli fu addosso, mettendoli tutti al tappeto senza difficoltà.

  Rimasero solo il comandante e un paio di altri, ma anche loro vennero sconfitti dopo una coraggiosa per quanto inutile resistenza, e nel momento in cui mandava a nanna l’ultimo nemico lo straniero vide Dusk saltare giù dal palazzo, atterrando davanti a lui.

  «Davvero niente male.» disse mentre nelle sue mani comparivano una coppia di scudi dorati del diametro di circa ottanta centimetri «Ma il vero esame comincia solo adesso».

  Solo allora lo straniero decise di sguainare la spada, e quella lama dritta e levigata era così ben fatta che bastava la poca luce lì presente a farla brillare come un raggio di sole.

  I due contendenti corsero l’uno verso l’altro, e l’urto tra le rispettive armi produsse, oltre che vaste scintille, anche un rumore assordante, come una cannonata.

  Erano tutti e due dotati di grande rapidità, sia nei movimenti che nell’attacco, ma mentre il forestiero si concentrata principalmente sull’offesa, difendendosi solo in situazioni di estrema necessità, Dusk al contrario, vista anche la natura delle sue armi, passava molto tempo a difendersi, ma questo non voleva dire che non fosse pericoloso; i suoi due scudi, infatti, avevano le estremità affilate come rasoi, e di tanto in tanto li lanciava come fossero dei frisbee, oppure sfruttava il meccanismo che legava la superficie semisferica all’impugnatura per mezzo di una lunga catena estendibile e ritirabile per mezzo di un meccanismo segreto, trasformandoli in letali yo-yo, ma fortunatamente la spada del forestiero riusciva sempre e comunque a parare prima che partisse il contrattacco.

  Il combattimento durò diversi minuti, ma per quanto venisse colpito, anche in maniera pesante, Dusk non sanguinava, e anche dopo aver effettuato un brusco atterraggio, che teoricamente avrebbe dovuto spezzargli una gamba, se l’era cavata con un leggero digrignar di denti.

  Ad un tratto sembrò che il forestiero fosse messo in difficoltà, dal momento che Dusk era riuscito ad avviluppare la catena di uno dei suoi scudi alla spada del nemico.

  «Non sei abbastanza veloce, mi dispiace.» disse tentando di tirare l’arma a sé, ma incontrando una sorprendente resistenza.

  Lo straniero parve accigliarsi, strinse i denti in un’esclamazione rabbiosa, e per un attimo il suo avversario vide qualcosa, come due segni rossi e luminosi materializzarsi sul suo viso; con una forza inaudita il forestiero lanciò una sfera di magia rosso sangue che centrò in pieno Dusk, scaraventandolo lontano; lo scudo avviluppato attorno alla spada perse la presa, ma fu un bene, perché Dusk riuscì a muoverlo perché si piantasse a terra e, scavando un solco profondissimo, fermasse il suo volo orizzontale, permettendogli di fermarsi.

  Ritornato a terra con le sue gambe, dopo uno spettacolare giro della morte, Dusk alla fine crollò in ginocchio, completamente esausto.

  Lo straniero lo guardò, tornando apparentemente quello di sempre, quindi si abbassò il cappuccio, rivelando il volto di un ragazzo sui diciotto anni con occhi azzurri e capelli d’argento che ricadevano sulla fronte e dietro la nuca in lunghe frange.

  «La sfida è finita. Ho vinto.»

  «Impressionante…» disse Dusk ansimando «Sei davvero molto forte…».

  Il ragazzo lo osservò a lungo, ma improvvisamente accanto al suo nemico si aprì un portale oscuro da cui schizzarono fuori tre fasci di luce simili a proiettili; lui, colto alla sprovvista, si difese all’ultimo mettendo la spada dinnanzi a sé, e strisciando sull’asfalto per parecchi metri, poi, quando risollevò lo sguardo, vide un nuovo individuo in nero accanto a Dusk, ma questi, invece di un soprabito, portava un lungo impermeabile nero chiuso sul davanti e un largo cappello; aveva i capelli lunghi, di un colore ocra, e occhi marroni che trasmettevano una sensazione glaciale, specchio di un’anima priva di emozioni che non fossero oscure.

 

 

Nota dell’Autore

Salve a tutti!^_^

Eccomi qua con una nuova storia che serve a creare un ponte fra i primi due episodi della trilogia di Millennium War, ma che può essere letta tranquillamente a parte, anche senza conoscere il resto della saga.

Come avrete notato i capitoli non hanno numeri né titoli, ma solo “Giorni”.

Questa fan fiction infatti si svolge nell’arco di 13 giorni, da qui il titolo, e ogni capitolo, diviso tra un presente attuale e un passato narrato in flashback, in questo caso un sogno, rappresenta un giorno reale.

Spero la troverete di vostro gradimento, e mi raccomando recensite!

A presto!^_^

Carlos Olivera

  
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