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Autore: Adeia Di Elferas    31/12/2018    1 recensioni
Caterina Sforza, nota come la Leonessa di Romagna, venne alla luce a Milano, nel 1463. Si distinse fin da bambina per la sua propensione al comando e alle armi, dando prova di grande prontezza di spirito e di indomito coraggio.
Bella, istruita, intelligente, abile politica e fiera guerriera, Caterina passò alla storia non solo come grande donna, ma anche come madre di Giovanni dalle Bande Nere.
La sua vita fu così mirabolante e piena di azione che ella stessa - a quanto pare - sul letto di morte confessò ad un frate: "Se io potessi scrivere tutto, farei stupire il mondo..."
[STORIA NON ANCORA REVISIONATA]
Genere: Drammatico, Generale, Guerra | Stato: in corso
Tipo di coppia: Nessuna
Note: nessuna | Avvertimenti: Contenuti forti, Tematiche delicate, Violenza | Contesto: Rinascimento
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Le glorie della famiglia Ordelaffi, con San Valeriano circondato dai quattro santi protettori di Forlì, spiccavano in quel giorno di sole sul portale della chiesa del Carmine.

Prima di entrare, Andrea Bernardi si fermò per un istante a osservare quel capolavoro di Marino Cedrini. Si ricordava ancora molto bene come fosse quella città, in mano agli Ordelaffi, ma, se fino a pochi anni prima era stato convinto che la Tigre fosse più che un valido sostituto dei suoi predecessori, ormai non ne era più tanto sicuro.

Era martedì, il 2 di aprile, e trascinati ancora dallo spirito della Pasqua appena passata, molti fedeli si erano radunati nelle chiese della città per pregare e attendere alla Messa. Il Novacula aveva scelto quella del Carmine solo perché la sapeva meno frequentata.

Non aveva voglia di incontrare gente, né di sentire le chiacchiere altrui. Non si faceva che parlare dell'ultima festa data dalla Contessa e lui, tra il rancore per non essere stato invitato nemmeno quella volta e il disappunto per non essere mai più stato cercato dalla Sforza, nemmeno per le notizie da Bologna che voleva darle, non aveva alcun interesse nel sentir pettegolezzi sul banchetto.

Entrò quasi in punta di piedi, a funzione già iniziata e restò di lato. Da lì, però, al momento della comunione, poteva vedere benissimo chi si metteva in attesa del Corpo di Cristo. E così, più o meno tra gli ultimi, vide comunicarsi anche Ottaviano Manfredi.

Il barbiere lo guardò con attenzione. Il giovane, sempre dal portamento elegante, malgrado gli abiti un po' dimessi, aveva preso l'ostia e poi si era inginocchiato in preghiera accanto all'altare. Visto che ormai la comunione stava volgendo al termine, anche Andrea si mise in moto per riceverla, e così, per un po', lo perse di vista.

Manfredi teneva le mani giunte davanti al viso, tanto strette da farsi quasi male. Quel giorno una profonda inquietudine l'aveva portato alla chiesa del Carmine, una delle predilette degli Ordelaffi, che, di fatto, erano suo consanguinei. Era stato come un richiamo impossibile da ignorare e così aveva disertato il Duomo e si era recato lì.

Mentre cercava di pregare, però, con l'ostia che non andava né avanti né indietro in gola, l'unica cosa a cui riusciva a pensare era Caterina.

Erano ormai due giorni che non si parlavano e lui non voleva arrivare al momento della partenza per Firenze senza essersi realmente riappacificato con lei. Si erano incontrati, quella notte, ma avevano fatto di tutto fuorché discutere e chiarirsi.

Mentre si rialzava, facendosi il segno della croce e cacciando finalmente nello stomaco l'ostia, Ottaviano ripensò alle ore confuse che avevano trascorso insieme. Si erano cercati, si erano voluti e si erano presi, ma non avevano risolto nulla. A lui non bastava più, una relazione così.

Tornando al suo posto, si passò distrattamente una mano sul collo. Appena sotto al bavero del giubbone, portava ancora addosso il segno dei denti della sua amante. Era come un marchio e se da un lato cercava di vederlo come una medaglia al valore, dall'altro lo faceva sentire solo un capo di bestiame, una delle tante bestie che ingrossavano la mandria a disposizione della Leonessa.

A Messa finita, Bernardi fece l'ultima genuflessione e si accodò agli altri per uscire, e, quando era già sul portone, si voltò indietro un'ultima volta, mosso da una strana curiosità.

Trovò subito chi cercava: Ottaviano Manfredi si era rimesso in ginocchio, rivolto all'altare, il capo chino e le spalle incassate. Se non fosse stato certo che un uomo del suo livello non potesse mostrarsi tanto debole, il Novacula avrebbe giurato che il faentino stesse piangendo.

 

Ercole d'Este si schiarì la voce, guardando uno per uno tutti gli emissari che aveva davanti a sé. Si sentiva molto più teso di quanto avesse creduto possibile. Ciò che stava per leggere, si diceva, era ciò per cui era stato ingaggiato, tuttavia temeva di fare qualche immane disastro.

Tra i presenti, suo figlio Alfonso era quello più disattento, in quel momento. Anche quando il padre iniziò a parlare, sollevando i primi commenti da parte dei messi fiorentini, veneziani e pisani, l'erede del Duca di Ferrara non faceva altro che osservare il viso del padre, senza ascoltare nemmeno una parola.

Si stringeva una mano nell'altra, i guanti di pelle che coprivano la deformità a cui il mal francese l'aveva costretto, e si mordeva il labbro, teso, gli occhi rivolti al genitore.

Ne guardava i capelli grigi, pettinati a dovere per quell'occasione, e gli occhi cerchiati, di un uomo che aveva perso il sonno, per redigere quel lodo che – lo si sapeva – avrebbe comunque scontentato tutti. Ne guardava le mani, da vecchio, e le spalle, non del tutto simmetriche.

Ercole veniva spesso soprannominato Tramontana, per il suo carattere glaciale, per il suo sangue freddo e la sua capacità di essere impietoso.

Eppure in quel momento, mentre elencava i termini della pace, ad Alfonso sembrava solo un anziano, dalla voce ancora tonante, ma a tratti incerta, dalla presa ancora forte, ma tremula, quando si agitava.

Poi, però, mentre nel guardarlo arrivava quasi a provare per lui empatia e un po' di pietà, si ricordò di Anna Maria, di quello che il Duca aveva costretto sia lui sia lei a fare. Ricordò delle notti in cui era stato obbligato a giacere con lei, e doveva ringraziare che la Sforza, per quanto subisse passivamente la sua presenza, non l'avesse mai trattato come se le usasse violenza. Era una donna intelligente, troppo intelligente per lui, e aveva sempre accettato il suo destino infelice fino a morirne.

La rabbia, per gli anni di tormento che aveva passato e per il rimorso che tutt'ora lo attanagliava nel pensare a cosa ne era stato di sua moglie, gli tolse ogni briciolo di compassione e così, finalmente, riuscì ad ascoltare quel che suo padre diceva, senza più lasciarsi distrarre da altro.

Quando la lunga dissertazione di Ercole arrivò al termine, il salone parve esplodere. Sotto lo sguardo impotente dell'Este, tutti, dai veneziani ai pisani, finanche ai fiorentini, che erano stati, di fatto, i più favoriti da quel lodo, si misero a gridare, recriminare e accusare.

Ciò che il Duca aveva stabilito aveva, come previsto, scontentato tutti, ma c'era un dettaglio che l'uomo non aveva calcolato: dal lato dei veneziani arrivava, ben distinto e accusatorio, un grido continuo che lo accusava di aver fatto il doppio gioco.

Il lodo prevedeva che a Firenze restasse il controllo delle gabelle di Pisa e la scelta del Podestà della città – a patto che egli venisse affiancato anche da un funzionario estense, che ne controllasse l'operato – mentre ai pisani sarebbe rimasto il controllo della cittadella e delle fortezze di Cascina, Stampace e Torre di Foce. In più Firenze sarebbe tornata pienamente padrona del Casentino.

Venezia, invece, avrebbe dovuto accontentarsi di un risarcimento da parte di Firenze per le spese di guerra, che ammontava a centottantamila ducati da versarsi in dodici anni, in rate annue da quindicimila ducati.

Ercole, mentre qualcuno dei suoi cercava di riportare l'ordine in sala, osservava basito quelli che gli stavano davanti, forse chiedendosi il perché di un tanto acceso scontro. Era come se tutti ce l'avessero con lui, e lui non ne capisse il motivo.

Alfonso deglutì un paio di volte, quasi tentato di affiancare il padre e far quadrato con lui in qualche modo, ma poi si disse che, a parti invertite, il granitico Duca di Ferrara non avrebbe mosso un dito per aiutarlo.

Non aveva nemmeno più voglia di assistere a quello spettacolo, triste come vedere delle fiere selvatiche prese a frustate da un domatore stanco. L'unica cosa che gli stava lasciando dentro quella situazione era una nuove consapevolezza: la Tramontana, per quanto fredda e impetuosa, poteva a volte scontrarsi contro un muro e la sua potenza, tutta di colpo, le si poteva ritorcere contro.

E così, con uno svolazzo del mantello, il giovane Este se ne andò, deciso a trascorrere il resto della sua giornata tra la sua fonderia e la compagnia di qualche donna di quelle che piacevano a lui, di quelle che suo padre disprezzava, ovvero non più giovanissime, grasse e molli, ignoranti come capre, ma capaci di apprezzarlo per quello che era.

 

Quando Bianca mise in mano a Giovannino il pupazzo di pezza che gli aveva preparato, il bambino la guardò con riconoscenza e poi balbettò qualche mezza parola dal dubbio significato alla madre.

Caterina era stata felice di vedere come molti, alla rocca, avessero voluto dare un piccolo omaggio al suo figlio più piccolo, tuttavia, quel 6 aprile, tutto riusciva a fare, fuorché essere allegra per il primo compleanno del piccolo.

Quel giorno non riusciva a togliersi di mente i fantasmi del passato, e, se anche ci riusciva per qualche istante, le si presentavano i problemi del presente.

Non era ancora riuscita a parlare in modo disteso con Manfredi, riuscendo solo o a riaccendere la lite, o a trascorrere con lui qualche ora di passione, senza cercare un vero dialogo.

Stava inoltre preparando la partenza di Cesare, che avrebbe raggiunto Roma, secondo i suoi calcoli, nel giro di una ventina di giorni. Raffaele aveva assicurato che non c'erano rischi, per il giovane, ma la Sforza sapeva che a mandare suo figlio nella tana del papa a rischiare era lei e non Cesare.

Conosceva suo figlio e la sua cieca fede. Se l'avessero convinto a fare qualcosa contro di lei, lasciandogli credere che a tal modo avrebbe glorificato Dio e il suo operato, sicuramente il Riario l'avrebbe fatto.

“Se vuoi – stava dicendo Bianca, accucciata in terra per stare accanto al fratello intento a esaminare il suo nuovo giocattolo – posso cucirgli un giubbone da soldato.”

Giovannino annuì e cominciò a giocare per conto suo, tutto concentrato sul pupazzo, quasi che la sorella e la madre non fossero nemmeno lì.

La Sforza teneva gli occhi su di lui, e, nel pelago dei suoi pensieri, si fece strada un'osservazione che, a tratti, aveva fatto spesso. Osservando le mani del bambino, poteva trovarle dalle dita abbastanza tozze. Erano molto diverse da quelle di Giovanni, e questo le dispiaceva. Aveva sperato che, crescendo, il piccolo avrebbe mostrato anche quel carattere del padre, e invece non era stato così.

Del Medici aveva i riccioli morbidi e abbastanza fitti e gli occhi dal taglio allungato – che però erano di un verde scurissimo, da sembrare quasi color pece – ma per il resto, dalle labbra al profilo del naso, a Caterina era ormai chiaro che assomigliasse di più a lei.

“Oggi Giovannino compie un anno...” sussurrò la Tigre, soprappensiero, una mano che accarezzava distratta il bracciolo ricoperto di stoffa della poltrona: “E domani Ottaviano ne compie venti.”

Bianca, nel sentirle fare quel genere di discorso, fece finta di niente, mettendosi a interagire con il piccolo, come a farle credere di non aver udito nemmeno mezza parola.

“Quando tuo padre – riprese la Contessa, rivolgendosi in modo inequivocabile alla figlia – mi ha messa incinta la prima volta, aveva quindici anni. Non è l'età giusta per avere dei figli. E poi io non lo volevo.”

Il tono mesto con cui aveva parlato indusse comunque la Riario a dedicarle un'occhiata. La donna aveva lo sguardo vitreo, la mano si muoveva automaticamente sul bracciolo e il suo petto si alzava e si abbassava abbastanza rapido, come se quei pensieri la stessero agitando.

“Quando è nato lui – concluse la Sforza, indicando Giovannino – è stato tutto diverso.”

Bianca stava per decidersi a commentare in qualche modo, ma la madre si era alzata e, dopo essersi chinata per dare una carezza in fronte al suo ultimogenito, era andata alla porta.

“Pensaci bene, quando farai un figlio. Se sarà una scelta tua, sarà tutto più facile.” soffiò la donna, prima di andarsene.

Lasciatasi alle spalle la sala dei giochi, Caterina vagò per un po' per la rocca. Controllò i camminamenti, la sala delle armi e infine uscì, diretta al cantiere della cittadella. Con Pasqua i lavori avevano avuto una brevissima battuta d'arresto, ma lei li aveva fatti ricominciare il prima possibile.

Mentre passava in rassegna le varie parti della fortificazione – molte delle quali praticamente già ultimate – si soffermò più del dovuto accanto al Paradiso. La tentazione di entrarvi, dopo quasi quattro anni, era forte, ma si trattenne. Sapeva che si sarebbe solo fatta del male, e non le pareva necessario.

Non trovando più nulla da fare, se non magari un salto al Quartiere Militare per assicurarsi che tutto fosse in regola, la donna decise di cercare Manfredi. Era da almeno due giorni che voleva dirgli una cosa e non aveva ancora trovato l'occasione di farlo.

Siccome a Ravaldino non c'era, lo cercò per un po' in città e alla fine lo incrociò, per puro caso, mentre usciva da San Girolamo.

“Va bene.” gli disse, prima ancora di salutarlo.

“Che cosa?” domandò Ottaviano, accigliandosi.

“Che parti per Firenze. Ci ho pensato e se credi sia la cosa giusta, mi sta bene.” spiegò la donna, cominciando a camminargli accanto.

Il faentino fece schioccare la labbra e, parlando a voce bassa per non dare spettacolo coi passanti, mise in chiaro: “Non ho bisogno del tuo permesso.”

“No, ma so che preferisci comunque averlo.” fece lei, mal celando un sorriso soddisfatto.

Anche a Manfredi scappò un sorriso, che però seppe nascondere molto meglio, dicendo: “Ti lascio credere quello che vuoi, ma comunque sarei partito ugualmente.”

“Ti darò una scorta.” riprese allora la Leonessa, pragmatica, quasi stesse discutendo una delle sua campagne militari: “Almeno una trentina di uomini, non meno. Sei a rischio e...”

“Non se ne parla.” rifiutò subito lui: “Ti ho già detto, mi pare, che non sono il tuo mantenuto. So badare a me stesso e ho i mezzi per pagarmi una scorta per conto mio.”

“Quando hai detto che partirai?” chiese la donna, desiderosa di non urtarsi di nuovo.

“Tra una settimana, più o meno...” calcolò lui che, con Fortunati, aveva già predisposto la partenza per il 12, al massimo per il 13 di aprile.

“Va bene.” annuì lei, pensando che, con una settimana dalla sua, aveva un po' di tempo per convincerlo ad accettare una scorta degna di tal nome.

A Ottaviano tutta quella remissività parve sospetta, ma non voleva nemmeno lui riaccendere il litigio tra loro, così tentò di non darvi peso e disse: “Oggi è il compleanno del tuo figlio più piccolo, vero?”

“Sì.” annuì la donna: “E domani del mio figlio più grande.”

“Quanto sono strane, a volte, le coincidenze della vita...” sorrise Manfredi e, incurante degli sguardi famelici di alcuni forlivesi che stavano raggiungendo come loro la piazza, posò una mano sulla spalla della sua amante, stringendola un po' a sé, mentre camminavano, felice di sentire come lei non si sottraesse a quel gesto affettuoso e propose: “Mi accompagneresti dal festeggiato? Ho qualcosa per lui...”

“Che gli hai preso?” chiese la donna, incuriosita, avvolgendo, di rimando alla stretta del faentino, il fianco di lui e aggiustando l'andatura per essere in perfetta sincronia.

“Oh, nulla di che...” scrollò le spalle lui, estraendo, con la mano libera, un pacchettino dalla scarsella: “Qualche biscotto... So che Bianca li fa più buoni, ma...”

“A Giovanni piaceranno moltissimo.” lo blandì Caterina, cercando di non mettersi a ragionare perfino su quel dettaglio.

La prima cosa che le era balenata in mente, infatti, era stata che se un uomo tutto sommato grandioso come Manfredi aveva preso solo qualche biscotto – tanto pochi da potergli stare nella scarsella – significava che davvero i soldi a sua disposizione erano pochi.

Poi, però, si disse che in fondo Giovannino per lui non era nulla e quindi qualche biscotto era già un dono più che eccessivo da parte sua, e, magari, le ristrettezze economiche non c'entravano proprio nulla.

“Certo che tuo figlio Giovanni è veramente molto bello. Lo sono quasi tutti, i tuoi figli, ognuno a modo suo...” soppesò Manfredi, mentre tornavano verso la rocca e passavano sotto la cupa statua bronzea di Giacomo: “Anche se forse il più bello di tutti è Bernardino.”

La Sforza non disse nulla, allentando appena la stretta attorno al fianco del suo amante. Anche se alla rocca tutti sapevano benissimo cosa c'era tra loro, preferiva non farsi vedere troppo espansiva con lui dai soldati.

Ottaviano, invece, lesse quell'allontanamento come un avvertimento, ma provò a rilanciare, piuttosto che a ritrarsi: “Pensa come sarebbe bello, un figlio nostro. Biondo, occhi chiari, fisico invidiabile...”

“Ma bisognerebbe sperare che non prendesse da te l'umiltà e da me la calma.” scherzò la Tigre, sperando, con quella mezza battuta, di chiudere quel genere di discorso per sempre.

 

Ludovico il Moro si fece il segno della croce, nel sentire che, a distanza appena di un mese esatto dal marito, anche Cecilia Simonetta era morta.

“Gaspare era mio parente...” borbottò il Duca, allacciando le grosse mani dietro la schiena: “E sua moglie Cecilia era figlia di una Visconti a sua volta...”

Ermes annuì, e così fece Calco e con lui il messo che era giunto al palazzo di Porta Giovia a dare la notizia.

“Tuttavia Cecilia era anche figlia di Cicco Simonetta e quell'uomo è stato un traditore, per la mia famiglia.” la voce dello Sforza si era fatta più tonante, mentre i suoi passi risuonavano lenti nella sala di rappresentanza, mentre si appropinquava al messaggero: “Vorrei ricordare a tutti i presenti che è stato decapitato per alto tradimento.”

Il silenzio che accolse la sua affermazione gli bastò come permesso a proseguire la propria filippica.

“Dunque un pater noster sarà il massimo che la sua anima avrà da me.” concluse, perdendo di colpo ogni voglia di prodigarsi in lunghi discorsi.

Scacciò il messo battendo le mani e poi tornò a sedersi sul suo scranno, chiedendo a Calco quale fosse il prossimo ospite da ascoltare.

“Non c'è più nessuno, mio signore – spiegò il cancelliere – per oggi abbiamo finito.”

“Quel Gaspare Visconti...” barbottò il Duca tra sé, lasciando il suo posto e andandosene senza nemmeno salutare il nipote e Calco: “Credeva di poter diventare grande scrivendo due poesie in croce... Mi sarebbe piaciuto vederlo al mio posto. Mi sarebbe proprio piaciuto...”

“Mio zio non ha ancora voluto dare udienza a Isabella, vero?” chiese Ermes, rivolgendosi al cancelliere, che stava frettolosamente rimettendo in ordine le proprie carte.

Questi scosse il capo: “Così come si rifiuta di parlare di quanto stabilito dall'Este. Sembra che la pace tra Firenze e Venezia non lo tocchi. Capisco che devono ancora ratificare il lodo, ma è questione di giorni, al massimo di poche settimane...”

“E della Francia? Il figlio del papa si è sposato o no, alla fine?” chiese ancora lo Sforza, che dopo qualche giorno di malattia si sentiva un pesce fuor d'acqua e voleva recuperare tutte le informazioni perse.

“Pare che il padre della sposa continui a posticipare le nozze. Perché non vuole come genero il figlio del papa, a parer mio, ma ufficialmente perché non vuole che lo sposo vada all'altare deturpato dal mal francese.” spiegò il cancelliere, avviandosi verso l'ingresso assieme a Ermes: “Si dice che in questi giorni abbia il viso completamente coperto di croste e vescicole e che a volte indossi addirittura una maschera di velluto nero, per quanto se ne vergogna...”

Lo Sforza annuì in silenzio, ringraziando il cielo di avergli dato la capacità di trattenersi e di prestare attenzione in tutto quello che faceva. Trovava il mal francese una malattia ributtante e disdicevole. Al posto del Borja, non avrebbe retto l'onta.

“Ma badate bene...” soggiunse Calco, appena prima di separarsi dallo Sforza: “La bolla che il papa ha mandato a vostra sorella e a tutti i signori di Romagna è il segno che il tempo è finito. Se non sarà adesso in aprile, sarà in maggio o in giugno, o in autunno, ma alla fine quel diavolo di un papa metterà le mani su tutto.”

Ermes espirò con forza e poi salutò quello che ormai era un amico, dicendo: “Vedremo di stare a galla finché potremo e poi, Dio piacendo, annegheremo con onore.”

 

“Ma scherzate? Ma è una follia, una follia, vi dico...” disse Dionigi Naldi, vuotando il bicchiere d'un colpo e facendo segno all'oste affinché portasse loro ancora una caraffa: “Andare fino a Firenze voi solo, con qualche carrettiere e un mezzo prete? Voi siete pazzo...”

“Nessuno saprebbe che sono in viaggio.” fece notare Manfredi, una mano che correva nervosamente a una ciocca di capelli biondissimi che continuava a ricadergli sul viso.

“Doppiamente folle, se la pensate così!” esclamò Naldi, sollevando entrambe le mani e poi versandosi da bere: “Vi credono colpevole dell'assalto al Bentivoglio, colpevole dell'assassinio di Corbizzi, dato che io sono stato scagionato, colpevole di voler congiurare contro vostro cugino e colpevole di voler tradire Firenze. Ditemi voi se potete ritenervi al sicuro!”

Ottaviano cominciava a infastidirsi. Aveva incontrato Dionigi nella speranza che lui, uomo capace e coraggioso, sapesse infondergli quel pizzico di spavalderia che gli serviva per partire alla volta di Firenze più tranquillo e, invece, da che erano in osteria non aveva fatto altro che cercare di dissuaderlo.

“Che poi – stava dicendo, la lingua un po' impedita dal troppo vino – chi ve lo fa fare di lasciare il letto della Tigre, amico mio? Che ci andate a fare, a Firenze? Accettate una condotta dalla Sforza e vivete sereno!”

“Vi lascio anche il mio, di vino...” fece il faentino, trovando più fastidiose del previsto quelle allusioni alla relazione che c'era tra lui e Caterina.

Si era innamorato, di lei, se avesse potuto farla ragionare, l'avrebbe anche convinta a sposarlo, e invece tutti ne parlavano come se la loro fosse solo un'avventura passeggera, una delle tante storie raminghe della Leonessa.

“Lasciate...” si offrì Naldi, vedendo come l'amico stesse cercando affannosamente in tasca qualche moneta per pagare la consumazione: “Offro io. Così a Firenze vi ricorderete di me.”

“A buon rendere.” ribatté Manfredi e, lasciandosi volentieri alle spalle l'aria satura di odori e voci della locanda, uscì nella serata fresca di quell'aprile.

Quel giorno, quando aveva saputo della sua imminente partenza, anche Ottaviano Riario aveva cercato dapprima di dissuaderlo e poi di fornirgli una scorta a sue spese. Manfredi aveva rifiutato, troppo orgoglioso per accettare gli uomini dell'amico, quando aveva rifiutato più volte anche quelli della Contessa.

Prima di tornare alla rocca, il passo reso svelto dal desiderio di passare un po' di tempo con la Tigre, dato che ormai le notti che avevano a disposizione erano sempre meno, doveva passare a palazzo Numai.

Attese fuori dal portone qualche minuto, restando sulle sue, squadrando l'ampia facciata in mattoni rossi e poi, quando gli venne permesso di entrare, preferì rimanere sulla porta.

“Allora, posso accordarvi questo prestito, se è davvero quel che volete – gli disse Luffo, fissandolo negli occhi, tentato di provare a dissuaderlo ancora una volta – ma mi chiedo che cosa ci farete con sessanta ducati appena...”

“Lo so io, che cosa ci devo fare.” fu la risposta del faentino che, mostrandosi tanto indisponente, sperava di evitare altre domande.

“E va bene. Ve li farò avere il giorno prima della vostra partenza.” sospirò il Consigliere della Tigre: “Ma sappiate che non sono tranquillo a non dire nulla alla Contessa.”

“Ditele anche solo una parola e vi giuro che ve ne farò pentire.” lo minacciò Manfredi e così l'altro, sollevando le mani in segno di resa, ribadì che gli avrebbe dato il denaro il giorno prima della sua partenza.

Ottaviano, moderatamente soddisfatto, lasciò il palazzo e si diresse senza altri indugi verso Ravaldino. Quei soldi gli sarebbero serviti per il viaggio, né più né meno. Avrebbe dovuto pagare vitto e alloggio del suo seguito – per quanto miserrimo – e quindi gli servivano liquidi. Ormai, se n'era reso conto con un velo di panico quella mattina, non aveva che pochi spiccioli utili a mala pena a bere un calice di vino in un'osteria di quart'ordine.

Lungo la via, soprattutto nei tratti più bui, il faentino sentì di nuovo crescere dentro di sé quell'inquietudine che l'aveva portato appena dopo Pasqua alla chiesa del Carmine e, un paio di giorni prima, a quella di San Girolamo. Accelerò il passo, quasi sentisse un'ombra inseguirlo, e quando intravide la statua di Giacomo Feo, per la prima volta da che aveva saputo di chi fosse quel profilo bronzeo, ne fu felice.

Quando giunse alla rocca, andò senza pensarci due volte alla porta della tana della Tigre. Bussò e gli venne subito aperto.

“Dove ti eri cacciato? Stavo quasi pensando che stanotte non saresti arrivato...” gli disse Caterina, lasciandolo entrare: “Ancora cinque minuti e ti assicuro che...”

Ottaviano, però, non le diede il tempo di continuare. La baciò, profondamente, stringendola poi a sé come avesse paura di vederla fuggire.

“È successo qualcosa?” chiese la donna, un po' spaventata da quell'atteggiamento, così diverso dai modi soliti del suo amante.

Lui scosse il capo e poi le sussurrò, gli occhietti azzurri che cercavano i suoi alla luce delle candele: “Niente. Ho solo voglia di stare con te, finché posso.”

C'era qualcosa, in quelle parole, che mise i brividi alla Sforza, ma, come tentava di fare spesso, la Contessa ricacciò indietro quella brutta sensazione e, sorridendo, disse: “Anche io ho voglia di stare con te, finché posso.”

Senza perdere altro tempo, Ottaviano riprese a baciarla e sperò, perdendosi in lei anche quella notte, di allontanare non solo le proprie paure, ma anche le ombre che sentiva incombere su tutti loro.

“Vorrei essere già andato a Firenze. Vorrei essere già tornato qui da te...” le sussurrò, quando, stanco e appagato, se la trovò stretta al petto, sotto alle lenzuola.

“Anche io lo vorrei.” disse piano lei, lasciando che il battere del cuore del suo amante, lento contro il suo orecchio, le riempisse la mente come il suono monotono e rassicurante di una campana: “Ti prego, Manfredi, accetta la scorta che voglio darti.”

Quella volta l'uomo non disse nulla, continuando a passarle con dolcezza una mano lungo la schiena. Era così felice che almeno quella notte fossero stati capaci di amarsi senza cercare di prevaricarsi l'un l'altro, senza graffiarsi, né ferirsi in altri modi, che preferì non rompere l'idillio con un ennesimo rifiuto.

Non capendo se quel silenzio fosse un mezzo assenso o una semplice richiesta di non parlarne più, Caterina si lasciò cullare dal calore della sua pelle e dal tocco della sua mano e, rinunciando a scacciarlo come faceva sempre, dopo che si erano amati, si assopì addosso a lui, approfittando di quello che la vita le offriva in quel momento, senza farsi, una volta tanto, troppe domande.

 

 
 
   
 
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