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Autore: Roiben    01/01/2019    1 recensioni
Che cos'è la devianza? Un semplice virus digitale diffusosi fra gli androidi a seguito di contatti e scambio di dati? Un malfunzionamento patogeno causato da un errore di progettazione? L'evoluzione autonoma di un programma preinserito? O la semplice presa di coscienza della propria esistenza e di un pensiero indipendente?
Come l'hanno percepita gli androidi? E gli esseri umani?
Anche gli androidi hanno dei sogni?
Genere: Angst, Science-fiction | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het, Slash | Personaggi: Altri, Connor/RK800, Elijah Kamski, Hank Anderson, Markus/RK200
Note: What if? | Avvertimenti: Tematiche delicate, Violenza
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chapter 18. Contradictions



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DETROIT

Date

NOV 15TH, 2038


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ELIJAH KAMSKI’S HOUSE

Detroit River

Time

AM 03:01


Gli è stata assegnata una camera; una camera vera, con un letto, una sala da bagno, un enorme armadio, comodini bassi e un grande tappeto che ricopre buona parte del parquet lucidato a specchio. Ora è in piedi, di fronte a una specchiera fissata sopra un’ampia scrivania, intento a fissare il proprio riflesso. C’è un domanda che frulla con insistenza nella sua unità cerebrale da qualche minuto: che cosa mai dovrebbe farci con una camera da letto singola, costruita per soddisfare le esigenze di un normalissimo essere umano, lui, che invece è un poco normalissimo androide? Come androide non può magiare, né bere, né dormire; non ha necessità di espletare bisogni fisiologici, non possiede un guardaroba suo e il suo corpo artificiale è dotato di un impeccabile sistema autopulente che non lo costringe a usare acqua né tanto meno detergenti vari (i quali, fra le altre cose, rischierebbero di intaccare e potenzialmente danneggiare il suo rivestimento sintetico, considerando che non è mai dato di sapere con esattezza che genere di prodotti chimici contengano).


Il suo led è indeciso fra un chiaro ambra pulsante e un roteante rosso fuoco. Francamente! Che motivo può aver avuto il signor Kamski per una scelta tanto discutibile? È tuttavia ovvio non sia quello il momento più adatto per presentarsi da lui e chiedere delucidazioni in merito, dato che sarà di certo impegnato a riposare, eppure non riesce nemmeno a starsene buono e fermo in quella stanza buia (perché mai sprecare preziosa energia elettrica, quando lui può benissimo vedere al buio grazie al suo impianto ottico dotato di visione notturna?) con il pensiero fisso di trovarsi a disagio in un posto che non è per lui. Riflette, mentre osserva mesto il piccolo broncio sulle proprie labbra. Forse Markus si trova nella sua stessa situazione; forse sarebbe disposto ad accoglierlo e rimanere ad ascoltare ciò che ha da dire (e che non ha ancora avuto modo di esternare a nessuno, finora, la qual cosa lo agita ancora di più). Già: forse. Ma per esserne certo dovrà proprio decidersi a lasciare quella stanza.


Ha raggiunto la porta in silenzio e ora abbassa la maniglia con cautela, quasi aspettandosi di trovare la serratura chiusa; invece l’uscio si socchiude docile alla leggera pressione della sua mano. Sporge la testa fuori, nel corridoio deserto e in penombra: nessuno in vista; evidentemente è l’unico, nei paraggi, a cui non riesce proprio di rimanersene tranquillo al suo posto. “Ma questo non è il mio posto” rimarca cocciuto. Quasi in punta di piedi percorre il corridoio per la breve distanza che lo separa dalla camera assegnata a Markus e, una volta giunto di fronte alla sua porta, torna a guardarsi intorno, nervoso. Dovrebbe bussare, a quel punto, ma esita; il rumore, nel greve silenzio della casa addormentata, con tutta probabilità ne disturberebbe gli abitanti finendo con lo svegliare quelli che sono umani. Quindi? Ragiona, cercando una soluzione alternativa, e infine crede di averla trovata: di logica se Jander può far arrivare i suoi pensieri all’esterno, allora Connor potrebbe far giungere allo stesso modo la notizia della sua presenza a Markus. Anche se non è certo si trovi all’interno di quella camera né dove, di preciso? Pensa tuttavia di potersi permettere di tentare; se dovesse fallire, nel peggiore dei casi si risolverà a bussare ugualmente, così da scoprire se effettivamente l’amico si trovi lì dentro.


Si accosta un po’ di più, indeciso, poggia un palmo sulla superficie grigia e levigata della porta, prova a fingere di trovarsi di nuovo all’interno della propria mente mentre il paesaggio muta al suo volere come il mutare delle stagioni. Qualcosa scatta, come un invisibile interruttore, e a un tratto lo può sentire, al di là dell’uscio che si trova frapposto a loro.


Markus” bisbiglia mentalmente.


Avverte una sensazione che sa di non appartenergli: sorpresa, forse sconcerto, ma sfuma con rapidità.


Connor?” giunge, stranito, il messaggio di Markus. “Ma… dove sei?”.


Qui fuori. Mi apriresti?” chiede gentilmente.


Trattiene a fatica una risata nel momento in cui Markus compare oltre la soglia, con un’espressione attonita dipinta sul volto.


«Che fai qui, Connor?» bisbiglia, cercando di non svegliare tutti nonostante le sue perplessità.


«Ti disturbo?» soffia di rimando Connor, con il dubbio che sia realmente così.


Markus strabuzza gli occhi. «Che? No, certo che no. Entra, dai» lo invita infine, scansandosi per concedergli lo spazio necessario. «È accaduto qualche cosa?» chiede preoccupato, dopo essersi richiuso la porta alle spalle.


«No… Cioè, non proprio» tentenna Connor. «Avevo solo bisogno di parlare con qualcuno, di parlare con te».


Il modo in cui lo scruta Markus non è proprio incoraggiante. Ha l’impressione che si stia chiedendo che cosa ci sia di strano e sbagliato in lui. “Non sono strano” borbotta piccato fra sé. Poi però le labbra di Markus si piegano in un tenue sorriso e Connor dimentica la propria irritazione.


«Bene. Ora sei qui, puoi parlare liberamente» assicura Markus.


Connor osserva ciò che li circonda: è molto simile a quello che poteva vedere quando ancora si trovava nella propria camera. Torna a dare attenzione a Markus, scoprendo che nel frattempo si è seduto sul materasso. Il led lampeggia ambrato per qualche istante. Si agita sul posto, irrequieto.


«Tu… non trovi fuori luogo tutto questo?» prova.


Markus lo sta osservando con un cipiglio interessato (forse anche troppo). «Tutto questo cosa, per l’esattezza?».


«La camera, prima di tutto».


Ora anche Markus si guarda attorno. «Mi sembra una camera abbastanza normale. Magari giusto un po’ pretenziosa rispetto al necessario, ma nulla di disturbante».


«Ma a noi non serve» protesta Connor, perdendo un altro po’ di calma.


È però fin troppo evidente che Markus non arrivi a comprendere il suo punto di vista. Infatti torna a scrutarlo, questa volta con fare indagatore.


«Non sono certo di riuscire a seguire il tuo ragionamento, Connor» fa gentilmente presente.


Connor serra le labbra in una smorfia scontenta, fa scorrere lo sguardo ancora una volta sulla camera e, individuata la porta che si aspettava già di trovare, la raggiunge con poche e veloci falcate e la spalanca con un gesto brusco del braccio, scostandosi così da dar modo a Markus di vedere oltre.


«Lo vedi? È un bagno, questo. Tu hai forse bisogno di un bagno?» insiste stizzito.


Poi attraversa la camera, si blocca di fronte all’armadio e apre anche quello, che si rivela vuoto come non aveva il minimo dubbio che fosse.


«E qui, che cosa dovresti mettere? E quello su cui sei seduto, se posso dirlo, non mi sembra sia molto funzionale nella finalità per il quale lo adoperi. Serve ad altro, in effetti; ma non a noi, non a me» brontola turbato.


«Connor» mormora Markus, avvicinandosi cauto.


«Non capisco perché. Per me non ha senso, è illogico. A quale scopo darci tutto questo, sapendo che non lo utilizzeremo?».


Markus trae un piccolo sospiro. «Pensi lo abbia fatto di proposito? Ammetto che, da quel poco che conosco di lui, potrebbe senz’altro essere vero. So che, per motivi che ancora ignoro, ci sta studiando. Ma se devo essere sincero non credo stia anche tentando di crearti problemi, soprattutto perché non è qui per verificarne i risultati. Probabilmente si tratta solo di ciò che sembra: un gesto gentile per farci sentire almeno in parte a nostro agio. Sospetto che con il tenente e il suo amico informatico funzioni bene».


Si lascia sfuggire un sorriso divertito osservando gli occhi grandi di Connor che cercano di restare su di lui nonostante l’imbarazzo evidente.


«Forse… mi sono lasciato prendere un po’ dalla paranoia e dal panico» ammette Connor.


«Già. Devo dire che sembri quasi umano quando lo fai».


Connor si imbroncia e Markus ridacchia.


«Che fine ha fatto: “Tu sei uno di noi. Siamo la tua gente. È anche per te che stiamo lottando.”?» borbotta sarcastico e un po’ contrariato.


«Oh, beh… Avevo una pistola puntata contro, allora» tenta di giustificarsi, senza nemmeno troppa convinzione.


«Ah, sì? Posso chiederne una in prestito ad Hank e stare a vedere quanto a lungo dura quel tuo irritante ghigno» minaccia Connor, risentito.


Markus si avvicina ancora. Connor non intende lasciarsi mettere con le spalle al muro da quel maledetto androide supponente e rimane cocciutamente piantato in mezzo alla stanza, in attesa di una mossa.


«Davvero? Vorresti spararmi? E ne avresti realmente il coraggio?» insinua Markus.


Connor si acciglia e serra le dita. «Non è più il mio compito» ammette serio. «Ma potrei farlo per giustizia personale. In fondo quale sarebbe, altrimenti, il vantaggio di essere libero, di non appartenere più a nessuno?» rettifica.


Markus si sporge in avanti un altro po’. Connor non è certo di quali possano essere le sue effettive intenzioni, ma rimane comunque fermo, aspettando di capire. Non trova tuttavia il tempo di farlo perché, prima che succeda, le labbra di Markus si appoggiano sulle sue, schiuse per la sorpresa, e ci si strusciano brevemente contro prima di scostarsi con lentezza e lieve titubanza. Gli occhi spaiati di Markus lo fissano con insistenza, ora.


«Chi ha detto che non appartieni a nessuno?».


*


Il pugno arriva come un treno diretto, preciso fra zigomo e naso. Il volo è breve, la caduta pesante e rovinosa, il tonfo per nulla attutito riecheggia sinistro nella stanza. L’immagine scompare nel nero, si frantuma in grigie linee frastagliate per un lungo momento, poi l’unità visiva dell’occhio sinistro torna efficiente e gli mostra l’espressione esterrefatta e rabbiosa dell’altro androide. Si lascia sfuggire un breve sorriso, ma è un errore e lo comprende in fretta.


«Ti si sono fusi i circuiti?» ringhia Connor, più che disposto a rimandarlo una seconda volta al tappeto, nel caso decida di rimettersi in piedi.


«No, per nulla» soffia tranquillo.


«Ti ho chiesto di poter entrare per parlare, non perché tu potessi mettermi le mani addosso» sibila, vibrando di indignazione. «Non pensavo tu fossi quel genere di persona che approfitta delle momentanee debolezze altrui. Avevo avuto tutt’altra impressione, in effetti. Forse, dopo tutto, sono caduto in errore» dubita rabbuiandosi. «Forse sei solo una macchina difettosa… proprio come lo sono io».


«Sbagli» replica Markus, scontento per la spiacevole piega presa dagli eventi. «Né tu né io siamo semplici macchine difettose. Può darsi che siamo macchine, ma con buone potenzialità di evolverci in meglio» obbietta convinto.


L’occhiata sarcastica che riceve in cambio non gli garba nemmeno un po’.


«Oppure si tratta semplicemente di un’illusione. Ti ho sentito affermare che siamo vivi…».


«Ed è così».


Scuote la testa, Connor. «Non ne sono convinto. Certo, noi esistiamo, questo sì, e possiamo pensare, inoltre; ma non siamo realmente vivi, siamo solo complicati congegni, cervelli artificiali che eseguono calcoli molto complessi e di difficile soluzione, che raggiungono risposte logiche in breve tempo».


Markus deglutisce aria e avverte un pesante senso di angoscia. «Non lo pensi davvero» mormora, senza però la certezza se si tratti di un’affermazione oppure di una richiesta.


«Non esiste nulla, dentro di noi, che dimostri che siamo creature viventi. Non respiriamo, non dormiamo, non mangiamo né beviamo. Le nostre reazioni, i nostri pensieri, sono dettati da programmi preinseriti, e forse lo stesso concetto vale per le emozioni che crediamo di provare».


«No, smettila di parlare come una macchina, Connor».


«Ma io sono una macchina, Markus. E lo sei anche tu. Noi siamo macchine che imitano l’umano. Lo imitano, capisci? Ma un’imitazione, per quanto buona possa mai essere, non arriverà mai a sostituirsi al reale. E noi non lo siamo, Markus, non siamo realmente vivi».


Ma a quel punto Markus è stanco; stanco di vedere negate continuamente le proprie speranze, la propria volontà, le proprie certezze; stanco di vedersi derubato dei suoi sogni, di vedere spazzati via i risultati raggiunti a costo di tante difficoltà e sacrifici. Così infine si rimette in piedi, si riaccosta a Connor e lo scruta con insolente intensità.


«Io lo sono, Connor, e non sarai tu a convincermi del contrario, né Elijah Kamski, né qualunque altro essere umano che se ne senta in diritto. Io lo sono perché so di esserlo, perché sento di esserlo. E so che anche tu lo senti, per quanto possa negarlo. Sono stato con te, Connor, e rammento perfettamente ciò che ho veduto. Pensi di poterlo nascondere, ma io non lo dimentico, come potrei? So che non sei solo una macchina, Connor. Sei confuso, ora, e questa, che tu lo voglia ammettere o meno, è un’emozione umana».


Di nuovo Connor scuote la testa, affatto persuaso. «Non sono in grado di averne la certezza. Potrei benissimo essere stato programmato per pensare di provare emozioni, per crederlo reale, persino. In fondo sono stato creato per dare la caccia ai devianti, per ciò dovevo assumere di poter comprendere atteggiamenti devianti. Non capisci? È un circolo vizioso. Voglio… Io devo trovare una via d’uscita. Ho bisogno di capire cosa sono. Non riesco più a sopportare di rimanere in bilico fra un mondo e l’altro. Finirò con l’impazzire, altrimenti».


Markus rimane a osservarlo, accigliato e perplesso, incerto di aver ben compreso. «Vuoi… diventare un essere umano?».


Connor ride, ma c’è poca allegria nella sua voce. «No, Markus, non voglio diventare un essere umano, e non voglio tornare a essere una semplice macchina, un computer su due gambe. Voglio essere un androide deviante, voglio poter scegliere cosa fare della mia esistenza e sapere che quella scelta mi appartiene, che è mia e solo mia, e che non dipende da nessuna programmazione preinserita. Voglio sapere che se do i numeri perché non riesco a risolvere un caso è solo perché sono troppo impaziente e un poco impulsivo, e non perché qualche interfaccia interferisce con la mia unità cerebrale. Voglio essere certo che se sorrido come un idiota guardando l’alba è perché sono un deviante sentimentale, e non perché il mio sistema sta elaborando le gradazioni dei rosa e la temperatura del colore in un inutile calcolo matematico che non servirà mai a nessuno».


«Uh».


Connor solleva un sopracciglio. Sente con chiarezza l’irritazione salire per quell’unica sillaba buttata lì senza un nesso né un senso logico o una spiegazione.


«Almeno hai ascoltato qualche cosa di quello che ho detto? Oppure stavi pensando ad altro?» sibila, ora più contrariato che mai.


«Ehm… Beh, effettivamente a qualcosa pensavo. A dire il vero mi piace molto il modo in cui si arricciano le tue labbra quando ti infiammi in questo modo».


Connor sta calcolando in che percentuale Hank si indisporrebbe se ora invadesse la sua privacy per chiedergli in prestito il suo revolver.


«Ti seccherebbe se ti baciassi di nuovo?» riprova Markus, sprezzante del pericolo.


Assottiglia le palpebre e trae un lento quanto inutile respiro. «Dipende. Se pensi di poterlo fare dopo che ti avrò strappato dal petto la pompa del Thirium, fai pure».


«Mh… Magari la prossima volta, eh?» tratta con incoscienza.


«Mai sarebbe senz’altro un lasso di tempo ideale» replica asciutto.


  
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