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Autore: Adeia Di Elferas    03/01/2019    1 recensioni
Caterina Sforza, nota come la Leonessa di Romagna, venne alla luce a Milano, nel 1463. Si distinse fin da bambina per la sua propensione al comando e alle armi, dando prova di grande prontezza di spirito e di indomito coraggio.
Bella, istruita, intelligente, abile politica e fiera guerriera, Caterina passò alla storia non solo come grande donna, ma anche come madre di Giovanni dalle Bande Nere.
La sua vita fu così mirabolante e piena di azione che ella stessa - a quanto pare - sul letto di morte confessò ad un frate: "Se io potessi scrivere tutto, farei stupire il mondo..."
[STORIA NON ANCORA REVISIONATA]
Genere: Drammatico, Generale, Guerra | Stato: in corso
Tipo di coppia: Nessuna
Note: nessuna | Avvertimenti: Contenuti forti, Tematiche delicate, Violenza | Contesto: Rinascimento
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Ottaviano Manfredi non riusciva a prendere sonno. Avrebbe tanto voluto farlo, perché quella era l'ultima notte che passava a Forlì: sarebbe partito a giorno fatto e non sapeva quando sarebbe riuscito a tornare.

Caterina dormiva accanto a lui, stretta al suo petto, come se si stesse aggrappando a uno scoglio per non farsi portare via dalla corrente. Stava facendo qualcuno dei suoi incubi, era facile da capirlo per come borbottava di quando in quando e per come le sue mani e le sue braccia a tratti si muovevano, mimando, forse, una lotta.

Il faentino non era infastidito da quell'agitazione. Era solo felice che la sua donna l'avesse accettato, in quelle ultime notte, senza scacciarlo, dimostrando, finalmente, di fidarsi di lui.

Però, più cercava di assopirsi – anche in vista del viaggio che l'attendeva – più si sentiva mancare la terra sotto ai piedi. Sapeva che era necessario, per lui, andare a Firenze, ma all'improvviso era come se la paura sommersa di qualcosa lo stesse cercando di convincere a non partire.

Con un sospiro pesante, mentre la Sforza soffiava qualcosa che assomigliava a 'Giacomo', seguito a breve distanza da un chiaro 'Ludovico Marcobelli', Ottaviano si mise a fissare il soffitto che, con quel buio, pareva un abisso. Si fece venire addirittura le vertigini, mettendosi a ragionare su concetti astratti, che l'avevano sempre affascinato e spaventato in egual misura, quali la vita, la morte, l'eternità e la compiutezza del tempo. In una sorta di soliloquio antitetico, la sua mente lo stava portando in ambiti che lo atterrivano e così, appena si rese conto che il suo cuore batteva troppo in fretta, cercò di pensare ad altro.

Sistemandosi un po' meglio sul cuscino, la pelle rovente della sua amante che lo scaldava, fece un ripasso silenzioso di ciò che era già stato preparato per il viaggio e di ciò che ancora andava messo a punto.

Sarebbe partito con un totale di sei cavalli al seguito e Fortunati. Non aveva molti bagagli, di per sé, ma aveva dovuto pensare anche al trasporto di quelli del piovano. Anche se Francesco era stato vago, quando Manfredi aveva visto la mole di roba che aveva deciso di portarsi appresso, trattandosi soprattutto di carte e documenti, aveva capito che il religioso andava a Firenze non solo per accompagnare lui, ma anche per altri affari. Probabilmente era stata la stessa Caterina a dargli degli incarichi da portare a termine, quasi per certo riguardanti la travagliata eredità del defunto Giovanni Medici.

I sessanta ducati d'oro che Luffo Numai gli aveva consegnato quel giorno erano già andati quasi tutti tra il pagare i cavalli e i rispettivi conducenti e saldare qualche piccolo debito lasciato in giro.

Dovevano ancora decidere di preciso che via seguire, perché Manfredi non ci teneva, a passare da Castrocaro, anche se sia Fortunati sia il loro piccolo seguito, sembravano decisi a preferire quella strada, perché più diretta e, almeno in teoria, più sicura dei boschi.

Il faentino chiuse gli occhi per qualche istante, sperando così di riuscire ad addormentarsi, ma gli si ripropose la scena di quel pomeriggio, quando Ottaviano Riario aveva cercato di convincerlo ad accettare la sua scorta.

“Se non vuoi gli uomini di mia madre – gli aveva detto, guardando altrove, quasi vergognandosi per quella proposta così accorata – accetta quelli che pagherò di mia tasca. È tutto un pericolo, là fuori, dai retta a me. Non ti chiedo nulla in cambio, voglio solo che non ti capiti niente di male.”

Manfredi aveva rifiutato e lo sguardo che l'amico gli aveva dedicato era stato terribile: un misto tra l'indignato e il deluso.

Senza provare più a convincerlo, il forlivese gli aveva voltato le spalle, e, andandosene, l'aveva messo in guardia: “Fai come vuoi, ma sappi che se ti succederà qualcosa, lei non te lo perdonerà mai.”

Uno scatto improvviso della Tigre fece sobbalzare anche il faentino che, afferrandola più saldamente, le chiese: “Brutto sogno?”

Caterina, sentendosi ancora le mani sporche del sangue di Ludovico Marcobelli, ci mise un po', prima di rispondere: “Sì, sì... Solo un incubo...”

Nella speranza di togliersi di dosso la sensazione orrenda che ciò che aveva sognato le aveva lasciato, la Sforza si rigirò più volte nel letto, fino a che il suo amante, ormai rinunciando a trovare pace, le disse: “Io non riesco a dormire. Tu?”

La Tigre non profferì parola, ma, rendendosi conto che l'abbraccio del faentino si era fatto più deciso, provò a cercarlo e, trovandolo anche più impaziente di quanto avesse creduto, ne approfittò, accantonando l'idea di rituffarsi subito tra le braccia di Morfeo.

Passandogli lentamente una mano sul petto, seguendo la labirintica trama disegnata da tutte le cicatrici che ne segnavano la pelle, arrivò fino al collo, dove lei stessa aveva lasciato traccia del suo passaggio, la Sforza iniziò a baciarlo e poi si sistemò sopra di lui, che stava iniziando a indagarla allo stesso modo.

Manfredi non aveva realmente pianificato quel secondo slancio di passione, ma vedere la donna tanto disponibile gli piacque e finalmente, tra i suoi baci, i suoi morsi e i suoi sospiri, l'uomo riuscì a dissipare parte delle nuvole che gli adombravano l'anima.

Non doveva mancare molto all'alba, ma Ottaviano, quella volta, non ebbe problemi ad addormentarsi, stanco nel corpo e tranquillo nel cuore. Fu la Contessa, invece, a restare sveglia per un po'.

C'era stato qualcosa, nel modo in cui il faentino l'aveva cercata, che le aveva lasciato addosso una strana sensazione. Era stato quasi come l'ultima volta in cui lei e Giovanni si erano amati. Come se Manfredi temesse, parimenti al Medici che stava partendo per il fronte, di non tornare mai più.

Con un sospiro lento, mentre dalla finestra si vedeva il cielo assumere una sfumatura appena più chiara rispetto al buio totale di quella notte di nubi, la Leonessa si riaggrappò ancora una volta al suo amante, sperando che qualche ora di sonno potesse aiutarla ad affrontare con spirito più leggero il giorno seguente.

Quando si ridestarono, praticamente nello stesso momento, il sole era già alto, ma Manfredi insistette per passare ancora un po' di tempo insieme. Non voleva per nessun motivo lasciare la tana e Caterina l'aveva capito.

“Non partire.” gli disse, passandogli una mano tra i lunghi capelli biondi: “Resta qui con me. Mi aggiusto io, con Firenze.”

L'uomo, per la prima volta, fu tentato di accettare, di dirle che gli stava bene lasciarsi risolvere da lei i problemi, che preferiva restarsene a Ravaldino a farle da cavalier servente, piuttosto che comportarsi da uomo e far quel che doveva.

Ma fu solo un lampo, e, appena passato, Ottaviano ribatté: “No, devo andare.”

Non sapendo che altro dire per provare a trattenerlo, la Sforza rimase sotto le coperte e lo guardò mentre si rivestiva. Prendeva i suoi abiti uno per volta, svogliato, e per infilarseli ci metteva il doppio del tempo necessario. Tuttavia non accennava a ripensarci.

“Ascolta, Tigre... Non mi piacciono gli adii, nemmeno quando si spera di rivedersi presto.” fece lui, un po' ruvido, mentre le dava le spalle.

“Lo so.” annuì lei.

“E allora che ne dici di salutarci adesso? Tanto, meno risalto do alla mia partenza, meglio è per tutti, non credi?” propose il faentino, ormai quasi pronto per uscire.

La Contessa non era del tutto d'accordo. Avrebbe voluto seguirlo fino alle stalle, controllare con lui che tutto fosse in ordine, prima di lasciarlo andare. Raccomandarsi ancora una volta con Fortunati e poi restare sulle merlature a stringere gli occhi contro l'orizzonte, fino a che lui non fosse stato troppo lontano per poterlo vedere.

“Va bene.” disse invece, avvertendo la tensione che attraversava il suo amante.

Allora l'uomo, vestito ormai di tutto punto, eccezion fatta che per il giubbone ancora slacciato, appoggiò un ginocchio sul letto e si chinò su di lei.

Scivolando fuori dalle coperte, ignorando la fastidiosa sensazione della stoffa un po' ruvida degli abiti di lui contro la pelle nuda, Caterina lo baciò e lo abbracciò quasi con rabbia, sussurrandogli all'orecchio: “Torna da me.”

“Sono stato felice, in questa rocca.” fu la sola risposta che lui riuscì a darle, mentre ancora erano abbracciati.

Si perse ancora qualche istante nel sentore inconfondibile della sua donna, le mani che saggiavano la pelle liscia della sua schiena come se non l'avessero mai fatto prima, le sue labbra che assaggiavano il sapore del suo collo.

Poi, sforzandosi di non cedere proprio all'ultimo, Ottaviano si staccò da lei, si rimise in piedi, si allacciò il giubbone e la salutò con un cenno del capo, la gola troppo chiusa per riuscire a dire anche solo mezza parola.

Appena prima che potesse aprire la porta, però, fu la Contessa a prendere l'iniziativa. Lasciando il letto, gli si mise davanti, permettendogli di guardarla ancora una volta, senza veli né censure.

Posandogli una mano sul braccio gli disse: “Ti prego, Manfredi, accetta la scorta che voglio darti.”

Con gli occhietti azzurri che correvano su tutto il suo corpo, fermandosi poi, però, contro le sue iridi verdi e piene, il faentino rispose: “Ti ho detto di no.”

“Va' al diavolo, Manfredi.” ribatté lei, ma senza traccia di astio.

“Va' al diavolo anche tu, Tigre.” fece eco lui, lasciandosi scappare un sorriso.

Si diedero ancora un bacio, leggero e veloce, come se fosse solo il primo di una lunga serie, e poi, senza più riuscire a dirsi nulla, si dissero silenziosamente addio con uno sguardo e l'uomo lasciò la tana della Sforza, evitando perfino di voltarsi indietro, per paura di non riuscire ad andare oltre.

 

“Dovrebbe essere qui a momenti...” disse piano Fortunati a uno degli uomini che erano stati reclutati per quel viaggio: “Mi ha detto che voleva partire prima di mezzogiorno, e ormai non manca molto...”

Proprio mentre stava dicendo così, dalle scale arrivò a passo spedito Manfredi. Aveva un'espressione cupa e indecifrabile, ma il piovano poteva immaginare a cosa fosse dovuta.

“Siamo pronti per partire?” chiese il faentino, senza nemmeno salutare, gli occhi che correvano ai cavalli già carichi e agli uomini che l'avrebbero seguito.

Si trattava di quattro ragazzi che avevano accettato quell'incarico per fame. Sapevano che la paga era bassa, ma era sempre meglio di niente.

“Quando volete.” annuì Fortunati.

“Allora partiamo subito.” decretò Ottaviano, concludendo il pensiero solo nella sua mente con un malinconico: 'Prima che ci ripensi'.

A guardarli, mentre montavano in sella e si preparavano a lasciare il cortile di Ravaldino, c'erano solo una manciata di soldati, il castellano, e i tre Riario più vecchi.

Il maggiore se ne stava in un angolo, incapace di andare a salutare l'amico che, dopotutto, gli aveva detto il giorno prima di non voler perdersi in inutili frasi di prammatica o imbarazzanti abbracci.

Cesare, invece, borbottava sottovoce qualche preghiera. Verso il Manfredi non nutriva particolare simpatia, ma verso Fortunati sì, sapendo che in qualità di piovano di Cascina sarebbe stato un suo diretto sottoposto, quando fosse diventato Arcivescovo di Pisa.

Bianca, invece, che avrebbe tanto voluto corrergli incontro e seguire il suo istinto, almeno per una volta, e palesare l'attrazione che provava per lui anche solo con un brevissimo bacio, anche a costo di incappare nelle ire di sua madre, si trattenne proprio notando come la Tigre non fosse presente.

Quell'assenza, per lei, era il segno più tangibile della pena della Contessa – perché se aveva deciso di non salutare pubblicamente il suo amante, l'aveva fatto solo per timore di mostrarsi troppo sconvolta dai suoi soldati – e quindi ebbe troppa paura, per andare oltre un casto saluto con la mano che, inutile illudersi, il faentino nemmeno notò.

Dando di speroni al suo cavallo, l'uomo guidò il piccolo corteo di sei cavalli fino al ponte, senza mai guardarsi alle spalle. Sapeva che Caterina non ci sarebbe stata, dunque riteneva di farsi solo una violenza, nel voler constatare personalmente la sua assenza.

Aveva già aggirato la statua del Barone Feo, pronto a prendere la via che l'avrebbe condotto fuori città e da lì a Castrocaro, in direzione Firenze, quando finalmente la Leonessa arrivò sui camminamenti di guardia.

Aveva tergiversato, aveva cercato di trattenersi, ma alla fine non aveva sopportato l'idea di lasciarlo andare così. Tuttavia, per quanto avesse fatto in fretta a vestirsi e lasciare la sua tana, la donna aveva appena fatto in tempo a vederlo dall'alto, mentre era già sulla via.

Le guardie di ronda fecero finta di non notare il modo in cui fissava il piccolo corteo allontanarsi, tanto meno il luccicare dei suoi occhi, che si fece evidente, quando Manfredi sparì all'orizzonte senza essersi mai voltato una volta. La donna si era attesa che lo facesse, ma Ottaviano aveva invece tirato dritto, senza nemmeno avere un breve cedimento, credendola, forse, più coriacea di quanto non fosse realmente.

Caterina, allora, si asciugò con rabbia una lacrima sfuggita prima che potesse ricacciarla indietro. Non capiva perché faceva così. In fondo non era la prima volta che si dovevano salutare per un po'. Era una sciocca, a sentirsi tanto disperata per quella partenza.

Quando fu sicura che nemmeno l'ultimo dei cavalli che accompagnavano Ottaviano fosse più in vista, la Sforza lasciò le merlature e tornò nelle viscere della rocca. Quel 12 aprile, con il suo cielo azzurro strisciato di cirri bianchi e con il suo profumo già primaverile, le pareva troppo crudele per poterlo sopportare.

 

Giovanni da Casale abbassò la lettera del Moro che stava leggendo e, sollevando le sopracciglia, chiese: “Ottaviano Manfredi?”

“Sì, mio signore – annuì il suo attendente – è alle porte della città e chiede di poter entrare per far riposare un momento i cavalli. Il Governatore ha già dato il suo consenso, ma attende di sapere se anche voi siete d'accordo.”

“Arriva da Forlì?” chiese Pirovano, lasciando da parte la corrispondenza e alzandosi.

“Sì.” annuì il soldato, seguendo il suo comandante fuori dallo studiolo, giù dalle scale del palazzo del Governatore e da lì fino in strada.

A Giovanni pareva strano che Manfredi volesse già far riposare i cavalli. Se arrivava da Forlì, non poteva che essere in strada da un'ora o due.

“Voglio incontrarlo.” disse in fretta: “Fatelo venire al mio alloggio al più presto.”

Quando Ottaviano venne scortato fino alla locanda in cui il milanese aveva preso una stanza, Fortunati e gli altri attesero appena dentro le mura, impazienti di conoscere il loro destino.

Nel trovarsi davanti il faentino, Giovanni da Casale non trovò le parole adatte per un bel po'. Anche l'altro si era chiuso in un rumoroso silenzio, ma non per questo si sentiva in difficoltà: in fondo era stato Pirovano a volerlo vedere, dunque spettava a lui parlare per primo.

“Dove siete diretto?” chiese alla fine il milanese, decidendosi a distogliere lo sguardo dall'uomo che non poteva non considerare un rivale.

“A Firenze.” spiegò Manfredi: “Per affari personali.”

“Come mai non avete una scorta?” chiese l'altro, allacciando le mani dietro la schiena e aggirando la scrivania, per fronteggiarlo meglio.

“Ce l'ho, una scorta. Un prete con quattro mulattieri.” sorrise Ottaviano.

“Non mi pare il caso di scherzare.” ribatté Pirovano.

“Siete sempre così rigido, voi...” sbuffò a quel punto il faentino: “Sentite, voglio solo sapere se posso fermarmi una mezz'ora, far bere i cavalli e far mangiare qualcosa a quelli che stanno con me.”

“Siete appena partiti, quindi mi chiedo perché mai...” cominciò a dire Giovanni, ma l'altro lo interruppe, esasperato.

“Perché non sono persone abituate a viaggiare e voglio arrivare a San Benedetto prima che sia notte! Se non mi fermo a farli mangiare, dovrò sentirli che si lamentano da qui fino alle montagne e vi assicuro che non ho la testa abbastanza salda per sopportarlo.” spiegò il faentino, allargando le braccia.

“La Contessa Sforza sa che siete qui? Sa che siete senza scorta? Come mai non ve ne ha data una lei stessa?” domandò Pirovano, quasi sperando di sentirsi dire che la donna aveva deciso di scaricarlo una volta e per tutte.

“Me l'ha offerta, ma non l'ho accettata.” fu la mesta dichiarazione dell'altro, che, volendo far le cose in fretta, non aveva voglia di inventarsi frottole: “Non voglio che una donna mi paghi la scorta, non lo posso sopportare. So difendermi anche da solo e non voglio che sia lei a farlo al posto mio.”

“Siete uno stupido, allora.” concluse il milanese, gli occhi scuri che setacciavano il viso stanco del faentino, cercando di capire se quel che aveva detto corrispondesse a verità: “Siete in pericolo e se lei voleva darvi una scorta è perché ne avete bisogno. Ebbene, vi darò io un manipolo di soldati per...”

Siccome il comandante delle truppe del Duca stava già andando alla porta, probabilmente per passare l'ordine al suo attendente, Ottaviano lo frenò, prendendolo per il braccio e mise in chiaro, con voce fredda: “Io non accetto aiuti nemmeno da te. Abbiamo diviso la stessa donna, l'abbiamo avuta sullo stesso letto e abbiamo mangiato dallo stesso piatto, ma non mi abbasso ad accettare aiuto da te.”

Quel passaggio repentino al tu e il tono gelido con cui gli aveva parlato colpirono l'orgoglio di Pirovano in pieno: “Fai come vuoi.” gli disse: “Io ti ho teso una mano, se non l'hai accettata, la colpa è solo tua. Se ti succederà qualcosa, io non me ne riterrò responsabile.”

“Posso far bere i miei cavalli e mangiare i miei uomini?” chiese Manfredi, prima di congedarsi, ritornando alla questione che aveva sollevato all'inizio.

“Sì.” accordò Giovanni: “Ma vi voglio fuori dalla città nel giro di un'ora.”

 

Dopo una giornata d'inferno, durante la quale non aveva trovato pace né allenandosi coi soldati, né stando con il suo ultimogenito, Caterina si era ritirata per la notte.

Si era portata in camera una caraffa di vino e il suo proposito di bere qualche calice mentre rileggeva un paio di novelle di Boccaccio le aveva regalato un paio d'ore di requie. Tuttavia, finito il vino e stanca di concentrarsi sulla pagina scritta, si trovò di nuovo da sola con se stessa.

Si chiedeva dove fosse Manfredi in quel momento, che stesse facendo, come si sentisse. Alternava momenti in cui lo immaginava sdraiato sul letto di una locanda a fissare il soffitto, pensando a lei e struggendosi per la loro lontananza, a momenti in cui lo poteva distintamente vedere in compagnia di qualche donna di strada, già dimentico di Ravaldino e di lei.

Avrebbe avuto un sacco di cose a cui pensare, dagli affari di Stato alle sorti della guerra tra Venezia e Firenze, ma di fatto non riusciva a distogliere la mente dal faentino.

Sapeva che sarebbe passato da Castrocaro e si chiedeva se, lì, avesse incontrato Giovanni da Casale e, se sì, che cosa si fossero detti. Non aveva notizie dirette da Pirovano da tempo e si era convinta che suo zio Ludovico alla fine avesse avuto la meglio. In fondo quel giovane era un soldato integerrimo, sicuramente il dovere aveva vinto sul piacere, trasformandolo di nuovo da uomo innamorato, a ligio servitore del Duca.

Colta da una strana malinconia, Caterina si alzò un momento dal letto per riporre il Decameron e, nel fare ciò, il suo sguardo si posò sulle poesie del Magnifico, copiate di proprio pugno da Giovanni, lasciate da lei sulla scrivania il giorno prima. Ripensare a quando era al suo fianco, le fece tornare in mente anche Giacomo e, come in una tragica giostra di memorie, arrivò a pensare anche a Girolamo.

Rimettendosi coricata, spente le candele, si rese conto che mancavano appena un paio di giorno all'undicesimo anniversario della sua morte. Non aveva nemmeno pensato a fargli dire una Messa.

Nemmeno Cesare od Ottaviano ci avevano pensato, tanto meno Bianca. Sapeva che i suoi tre figli più grandi conservavano un ricordo abbastanza edulcorato del padre e da un lato ci teneva che le cose restassero così.

Nel buio della stanza, mentre la notte si faceva via via più fonda, ripensò a quando, il 14 aprile del 1488, Girolamo era stato ucciso da uomini che lui reputava amici fidati, e poi fatto a pezzi dalla folla inferocita. Quel giorno, per lei, era cominciata una nuova vita. Era nata nel suo petto una nuova libertà e, intanto, senza che se ne avvedesse, tutt'attorno a lei aveva cominciato a formarsi una nuova gabbia.

Infrante le sbarre della sua prima prigionia – che l'aveva vista come moglie bistrattata, costretta a violenze e a prevaricazioni che non sopportava più – se ne stavano già creando di nuove: quelle della ragion di Stato, delle responsabilità politiche e, ancora più spesse delle precedenti, quelle della solitudine.

Era stata sola anche prima, questo lo sapeva, ma si era illusa di non esserlo. Le sue madri, suo padre, poi sua sorella Bianca, la sua domestica prediletta... Tutti quelli che aveva creduto amici si erano rivelati degli sconosciuti, capaci di tradirla, di pugnalarla alle spalle e venderla alla prima occasione. Eppure si era sforzata di credere il contrario, almeno finché poi non era morto Giacomo, lasciando cadere l'ultima grande illusione della sua vita.

Stanca, si rigirò nel letto un paio di volte e senza accorgersene, scivolò nel sonno. Dormì per un paio d'ore, agitandosi di continuo, gli incubi che la strattonavano dal palazzo Riario fino a Roma e da lì alla chiesa di Santo Stefano a Milano, per poi tornare al ponte dei Moratini.

Vedeva il cavallo di Giacomo davanti a sé, troppo lontano perché potesse scorgere bene la sua figura, e poi si accorse che qualcosa non andava. Come un'impercettibile aberrazione che rendeva tutto distorto.

Era la gravosa sensazione che provava ogni volta in cui stava per capitare qualche catastrofe, ed era la cosa peggiore che si potesse provare: sapere che qualcosa di irreparabile stava per accadere, ma non avere né il modo né il tempo per evitatlo.

Quando vide degli uomini aggrapparsi a Giacomo, trascinandolo giù dalla sella, al contrario di come aveva fatto nella realtà, corse loro incontro, per combatterli. Quando arrivò, gli assassini si erano già dileguati, e restava solo il corpo, sfatto e immerso nel sangue rovente versato dalle lame dei congiurati.

Inginocchiandosi in terra, inzuppandosi l'abito cremisi, la Tigre toccò il corpo – incredibilmente già freddo – e lo voltò. Il viso era irriconoscibile, ma la stazza e i capelli, lunghi e biondi, non erano quelli di Giacomo.

Senza fiato, con la gola in fiamme, la Sforza si svegliò di soprassalto, madida di sudore e folle di paura. Ci mise qualche minuto per calmarsi, convincendosi che il suo sogno era stato dettato dei suoi brutti pensieri, dalla solitudine e dalla stanchezza di quel lungo giorno.

Tuttavia non riuscì più a distendersi. Capendo che per lei la notte era finita ben prima del sorgere del sole, si cambiò e passò le ore che la separavano dall'alba a controllare gli uomini di ronda, preferendo stremarsi nel fisico, piuttosto che tornare nella morsa della propria immaginazione.

 
 
   
 
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