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Autore: Adeia Di Elferas    03/01/2019    1 recensioni
Caterina Sforza, nota come la Leonessa di Romagna, venne alla luce a Milano, nel 1463. Si distinse fin da bambina per la sua propensione al comando e alle armi, dando prova di grande prontezza di spirito e di indomito coraggio.
Bella, istruita, intelligente, abile politica e fiera guerriera, Caterina passò alla storia non solo come grande donna, ma anche come madre di Giovanni dalle Bande Nere.
La sua vita fu così mirabolante e piena di azione che ella stessa - a quanto pare - sul letto di morte confessò ad un frate: "Se io potessi scrivere tutto, farei stupire il mondo..."
[STORIA NON ANCORA REVISIONATA]
Genere: Drammatico, Generale, Guerra | Stato: in corso
Tipo di coppia: Nessuna
Note: nessuna | Avvertimenti: Contenuti forti, Tematiche delicate, Violenza | Contesto: Rinascimento
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Mancava ancora almeno un'ora all'alba, ma Manfredi si era già svegliato. Un po' il letto scomodo e un po' una serie di incubi, a cui non era avvezzo, l'avevano strappato presto dal sonno.

Lui e il suo piccolo seguito avevano trovato alloggio in un'osteria, poco lontano dal monastero di San Benedetto. Erano arrivati che faceva già buio, ma il locandiere li aveva accolti subito, in modo anche abbastanza caloroso e senza fare troppe domande sulla loro provenienza e sulla loro destinazione.

Non riuscendo più a prendere sonno, il faentino si stava già preparando per la partenza. Avrebbe tirato giù dal letto anche i suoi compari. Non gli importava se, eccezion fatta per Francesco Fortunati, non erano abituati alle levatacce. Voleva partire presto e affrontare la traversata delle montagne nelle ore centrali della giornata, evitando di trovarsi a metà passo quando fosse scesa la sera.

Infilò le brache di cuoio e gli stivali e poi, per tonificarsi un po', prima di mettersi il camicione andò un momento alla finestra. L'aprì, inspirando con forza l'aria fredda che profumava ancora di notte.

Tutt'attorno, c'era solo silenzio. Silenzio e buio. Alla luce stentata di uno spicchio di luna, si potevano indovinare i profili altezzosi e nobili delle conifere e, con un po' più precisione, il profilo della strada che iniziava a inerpicarsi, sparendo poi tra le prime montagnole.

Era una calma così perfetta e profonda, che quasi lo spaventava. In tutta la sua vita, inconsciamente, aveva sempre cercato di ritagliarsi qualche parentesi di pace, ma c'era riuscito molto di rado.

Quelle montagne, con i loro rumori ovattati e il loro profumo conturbante, lo mettevano quasi a disagio. Voleva apprezzarle, ma la loro impassibilità non faceva altro che indurlo a chiedersi se per caso anche l'Oltretomba fosse così. Non che si sentisse degno della salvezza eterna, ma si domandava ugualmente se il Paradiso, invece che una serie di canti e luci fosse stato solo un luogo di pace e silenzio, come quel posto...

Un respiro un po' troppo fondo, lo fece tossire e così Ottaviano richiuse in fretta la finestra, chiedendosi se quello non fosse il primo segno di un prossimo invecchiamento. Avrebbe compiuto ventisette anni in agosto, ma per tanti motivi se ne sentiva molti di più.

Distrattamente, si massaggiò il collo, ritrovandovi il segno lasciato dai denti della Tigre una delle ultime volte in cui avevano condiviso il letto. Si lasciò scappare un sorriso, e cominciò a pensare a Caterina. Quella notte, anche nei suoi incubi, non aveva fatto altro che rivedersela davanti. L'unica consolazione, in quei sogni agitati, era stata che Caterina appariva sempre come l'unico aiuto, sempre come qualcosa di positivo, come la sua unica alleata e, anche quando non riusciva a far nulla di concreto per lui, se non altro era dalla sua parte.

Era come un pensiero fisso, di sottofondo, qualcosa che non poteva e non voleva togliersi di dosso.

Con un sospiro pesante, agguantò il giubbone e lo infilò, pensando che fosse arrivato il momento di chiamare gli altri e far preparare i cavalli. Voleva passare un momento al monastero e poi mettersi in viaggio.

I sei uomini lasciarono l'osteria che il sole stava appena spuntando oltre l'orizzonte. Manfredi fu l'ultimo a montare in sella, perché, essendo andato un momento alla vicina cappella del monastero, si era fatto attendere.

Mentre si issava sulla sua bestia, con la coda dell'occhio notò una presenza che lo convinceva poco.

Si trattava, a prima vista, di un contadino. Era vestito in modo estremamente modesto, tanto da essere addirittura scalzo, e camminava lentamente. Poteva essere un viandante o semplicemente un uomo che andava al suo campo – anche se in zona non se ne vedevano, visti i pendii scoscesi – o che tornava a casa.

Non ci sarebbe stato nulla di strano, se non fosse stato per la roncola che portava in mano. Era uno strumento di lavoro, non c'era dubbio, ma a Ottaviano pareva strano il modo in cui lo impugnava.

Era come se portasse con sé un'arma e non un attrezzo.

Scuotendo un po' tra sé la testa, richiamato alla realtà da Fortunati che gli chiedeva se potessero partire, il faentino confermò: “Sì, andiamo.”

A passo moderato, percorsero due miglia, arrivando fino in una località che – spiegò Fortunati, che aveva già fatto quel percorso più volte – si chiamava Cellette. Il piovano e Manfredi stavano parlottando da un po', i cavalli che procedevano l'uno affianco all'altro, mentre gli altri quattro uomini stavano a qualche decina di metri dietro di loro.

Arrivati a un passo un po' stretto, i due uomini smisero di chiacchierare, e, senza che nessuno dei due capisse da dove erano arrivati, circa trenta uomini si pararono loro davanti. Si erano messi rapidamente in formazione, quasi fossero uno squadrone di soldati, ma avevano addosso abiti da civile, e le armi che brandivano erano per lo più attrezzi da campagna come roncole e forconi.

“Dio, proteggici...” sussurrò Fortunati, con un soffio appena udibile.

Ottaviano, atterrito quanto il piovano, si guardò alle spalle e si rese subito contro che gli altri quattro erano troppo lontani e che, comunque, avrebbero potuto ben poco contro quell'accozzaglia di uomini.

Non capiva perché mai potessero avercela con loro, ma il modo in cui li guardavano, immobili, come in attesa, lasciava pochi dubbi sulle loro intenzioni.

Uno, che sembrava il più vecchio, si avvicinò al faentino e gli lasciò intendere che volesse discutere un momento con lui.

Teso, questi posò con cautela una mano sull'elsa della spada, ma si rese immediatamente conto di essere stato troppo leggero, ad appendere l'arma alla sella. A quel modo, se avesse dovuto estrarla, ci avrebbe messo troppo tempo.

Lo sconosciuto gli si portò appresso, tanto che, con un gesto repentino, riuscì a colpirlo con la punta della sua ronca. Manfredi avvertì il colpo, forte e inatteso, che impattò sulla corazzina. Che portava sotto al giubbone.

Ringraziò Dio per aver avuto l'intuizione di infilarla, quella mattina, ma la botta l'aveva presa comunque e per un paio di secondi non riuscì a respirare.

Tuttavia era un uomo d'armi, sapeva essere svelto e pronto a ogni occasione e così, prima che l'aggressore riuscisse a caricare un secondo colpo e ferirlo in qualche modo, il giovane diede fondo a tutto il suo fiato e ordinò: “Scappiamo!” voltando subito il cavallo e dando di speroni con tanta forza che la bestia nitrì furiosa, impennandosi e poi partendo di scatto, ripercorrendo a ritroso la via.

Anche Francesco tentò di fare altrettanto, ma era troppo terrorizzato, forse, per dare ordini netti alla sua bestia, che, confusa quanto lui, invece di scappare da dove erano venuti, si mise a correre avanti, oltrepassando il picchetto di assalitori che, con grande sorpresa del piovano – che continuava a sciorinare senza sosta le sue preghiere, le mani strette tanto saldamente alle briglie da non sentirsi più le dita – lo ignorarono del tutto, lasciandolo passare senza neppure guardarlo.

Ottaviano voltò appena il capo, per vedere che ne fosse stato di Fortunati e, non scorgendolo, si chiese se non fosse già morto.

Il suo cavallo correva tanto veloce che quando passò accanto ai suoi quattro uomini di scorta, gridando loro di scappare, questi non riuscirono a capire cosa avesse detto e rimasero immobili come statue.

Quando poi videro correre in direzione del faentino una trentina di uomini che brandivano minacciosamente delle armi, rimasero così basiti da non riuscire nemmeno a sorprendersi, nell'accorgersi di essere stati lasciati illesi.

Ottaviano, intanto, aveva dovuto far rallentare il suo cavallo, perché la strada era in discesa e rischiava di cadere. Trasecolò quando si ritrovò davanti il viandante scalzo che aveva notato quella mattina.

Fu tentato di chiedere aiuto a lui, per quanto forse non apparisse adatto a dargli man forte, ma appena l'ebbe davanti, il finto contadino sollevò la roncola, come se non attendesse altro e, spiccando un salto sorprendente, lo prese per il collo, ferendogli la testa.

Manfredi crollò in terra rovinosamente, e la sua cavalcatura, folle di paura, riuscì a stento a non ruzzolare, mettendosi subito a fuggire, come il suo istinto le suggeriva.

L'uomo, invece, rimase steso, senza fiato e preda del panico, con l'assalitore che – pur persa la roncola nella rocambolesca azione – faceva del suo meglio per tenerlo fermo e prigioniero.

Dalla ferita al capo, abbastanza superficiale da non avergli spaccato il cranio, usciva comunque copioso il sangue e il dolore era così lancinante che il faentino si sentiva sul punto di vomitare.

Era confuso, non capiva il motivo di quell'aggressione che, non era difficile capirlo, era stata pianificata. I nomi dei suoi nemici gli rimbalzavano per la mente, ma l'unica parola che sfiorava le sue labbra era il nome della donna che amava: Caterina.

Era qualcosa di futile e infantile, ma chiamarla lo stava aiutando a superare la paura di quel momento. Sapeva di non avere speranze. Erano in trenta contro di lui ed era disarmato e già ferito, senza soldati al seguito, sperso tra le montagne, distante almeno mezz'ora dal primo villaggio in cui trovare un aiuto valido.

Ripetere il nome della Tigre, gli dava l'illusione di poterla vedere arrivare da un momento all'altro, pronta a metter mano alla spada per salvarlo.

Quando, ancora avviluppato tra le braccia del mendace viandante, sentì le urla e vide, tra le lacrime di dolore che gli velavano gli occhi, arrivare anche gli altri assalitori, anche la voce gli morì in gola.

Caterina non sarebbe arrivata. Aveva cercato di salvarlo, di dargli una scorta degna di quel nome, quasi se lo sentisse che sarebbe capitato qualcosa, ma lui era stato troppo orgoglioso, aveva sbagliato, era stato sciocco, accecato dall'amor proprio.

Non provò nemmeno a ripararsi il viso, mentre lo colpivano. Sentiva le lame sfiorarlo, trapassarlo, risparmiandogli solo il torace e parte del ventre, coperti dalla corazzina. Ma i fendenti arrivavano alle braccia, alle gambe e al viso, senza tregua. Nel caos che albergava nella sua mente annebbiata dal dolore e dalla paura, si trovò a pensare che quelle erano tutte mani inesperte. Erano in trenta e non erano nemmeno capaci di uccidere un uomo solo. Aveva contato una decina circa di colpi veramente profondi, ma tutti gli altri erano solo un infierire inutile e crudele.

“Per quella strega della tua Tigre...” soffiò a un certo punto uno di loro, il fiato grosso per lo sforzo e affondò un colpo all'inguine del faentino, facendogli perdere i sensi.

Convinti che ormai fosse morto, coperti di sangue e a loro volta spaventati per quello che avevano fatto, gli aggressori si allontanarono da Manfredi, lo fissarono qualche istante e poi, nel vedere all'orizzonte un cavallo correre verso di loro, si sparpagliarono tra gli alberi e sparirono.

Quando Fortunati, che ci aveva messo parecchio a convincere la sua bestia a invertire senso di rotta, scorse Ottaviano – talmente coperto di sangue da essere irriconoscibile – scese di sella a cavallo ancora in corsa e, inciampando più volte sulla strada polverosa, raggiunse il giovane.

“Mio Dio... Mio Dio...” farfugliò, chinandosi su di lui, senza sapere dove mettere le mani.

Il bel viso era una maschera rossa, sfregiato, un orecchio tagliato e una profonda ferita sulla fronte.

Pure il collo aveva un taglio, ma meno grave. E poi c'erano tutte le altre ferite, alcune tanto nette da rendere difficile anche, eventualmente, spostarlo.

Francesco non capiva se fosse ancora vivo o meno, ma poi, all'improvviso, Manfredi ebbe un sussultò e riaprì uno degli occhi azzurri. Rantolava appena, il respiro reso ancor più difficoltoso dal sangue che ricadeva in gola, ma il piovano fu certo che ogni minimo suono che usciva dalle sue labbra sfatte fosse un grido di dolore.

Con uno sforzo immane, Ottaviano riuscì a muovere appena le dita e Fortunati cercò di interpretare quel gesto: “Volete che vi confessi?”

Chiudendo un istante la palpebra – l'unica che riuscisse ancora a muovere – il faentino gli fece capire che era proprio quello, che voleva.

Il piovano, chiedendosi dove fossero finiti gli altri quattro uomini che erano con loro, annuì febbrilmente e poi, ben sapendo che l'uomo che aveva davanti non avrebbe potuto rispondergli, iniziò a recitare le frasi di rito di ogni confessione, sforzandosi di usare un tono calmo e rassicurante.

“Ego te absolvo a peccatis tuis...” sussurrò alla fine, facendosi il segno della croce, mentre Manfredi, apparentemente ancora vigile e cosciente, chiudeva di nuovo l'occhio, da cui scivolò una lacrima.

Finita la confessione, il piovano gli restò accanto, senza dire nulla, posandogli una mano sul petto, uno dei pochi punti in cui le lame dei suoi assassini non avevano potuto scalfire le sue carni e attese.

L'iride azzurra del faentino era fissa al cielo, ancora accesa e viva, e il suo respiro rantolava ancora nella sua gola. Rimasero così per quella che a Francesco parve un'eternità. Si sentiva egli stesso in agonia, in quella strada deserta, in mezzo al silenzio della montagna.

Alla fine, senza un reale preavviso, mentre l'aria smetteva di entrargli nei polmoni, la luce lasciò la pupilla di Ottaviano e sul suo sguardo cadde come un velo, un'opacità che Fortunati conosceva bene e che lo fece sciogliere in lacrime all'istante.

 

“Sì, sì, tra una settimana, più meno – stava spiegando Cesare Riario ad Alessandro Orfeo – e dunque vi prego di scrivere al Duca affinché mi raccomandi al Cardinale Ascanio Sforza, nostro parente comune, perché la mia via è ancora in salita e ho bisogno di qualcuno che mi aiuti e mi sorregga.”

L'ambasciatore milanese osservò di sottinsu il secondogenito della Tigre, trovando quel modo di esprimersi quanto meno irritante, tuttavia sorrise a promise: “Non mancherò di farlo, Vostra Eccellenza.”

Il Riario fu tentato di chiedergli di non chiamarlo così. In fondo, non era ancora Arcivescovo. Però non gli era dispiaciuto, quell'appellativo, e così lasciò correre.

Aveva approfittato di quel momento per parlare con Orfeo, perché aveva notato che l'ambasciatore aveva la tendenza a scansarlo, quando lo incontrava fuori dalla rocca. Quella mattina, invece, la Contessa l'aveva convocato a Ravaldino e dunque non poteva sfuggirigli.

“Oh, perdonatemi, è arrivata vostra madre...” fece Alessandro, felice che la Sforza fosse finalmente giunta a salvarlo dalle pompose frasi da prelato del giovane Cesare.

Tuttavia la donna lo guardò appena, chiamandolo a sé con una mano e dicendo: “Andiamo a parlare nello studiolo.”

Orfeo non fece obiezioni e la seguì. Sia su per le scale, sia lungo il corridoio, però, la trovò strana.

Era distante, non nella sua solita maniera. Quello non era distacco, ma una sorta di distrazione che, era evidente, non riusciva a levarsi di dosso. Era come se stesse pensando a qualcosa, senza che nemmeno lei capisse cosa fosse di preciso.

Quando arrivarono allo studiolo, la donna chiese a Cesare Feo di aspettare fuori e, non appena l'uomo uscì, prese il suo posto dietro la scrivania.

All'inizio aveva pensato di discutere con l'ambasciatore nel cortile, dato che aveva poco da dirgli, ma poi una strana sensazione l'aveva presa fin nelle viscere e così si era detta che era meglio mettersi seduta. Non capiva se fosse qualche malanno o qualche sinistro presentimento: sapeva solo che si sentiva strana.

Cercò di dare la colpa alla notte pressoché insonne e cominciò il suo discorso: “Voglio che scriviate a mio zio che ho intenzione di fargli visita.”

“Quando, mia signora?” chiese l'Orfeo, non riuscendo a evitare ai suoi occhi di spalancarsi per la sorpresa.

“In maggio, o giugno... Prima devo sistemare alcune cose, ma credo che per allora potrei trovare il tempo di fare un viaggio a Milano.” soppesò la Tigre, che aveva maturato quell'idea nel corso delle ultime settimane: “Porterei con me Ottaviano e Bianca, magari.”

L'ambasciatore non diceva nulla. Quella decisione della Contessa gli pareva troppo repentina e strana, per poter essere qualcosa di tranquillo. Doveva esserci sotto qualcosa, qualche magagna che non riusciva a cogliere.

“Ma siete certa che sia saggio, lasciare il vostro Stato incustodito, soprattutto adesso?” domandò l'uomo, non trovando modi più discreti per indagare.

“Per la bolla del papa, dite?” chiese la Leonessa, passandosi una mano sulla fronte, più concentrata sul nodo che le stringeva lo stomaco senza motivo che non sul discorso che stava portando avanti con il milanese: “Quelli sono affari miei. E comunque a mio zio dite che devo ancora pensarci, che non c'è nulla di certo, ma cominciate a profilargli l'idea... Visto che per mio figlio Galeazzo ha promesso tanto, ma per ora non ha mantenuto nulla, credo che offrire ospitalità a me sarebbe già un buon modo per cominciare a scusarsi per la sua mancanza di interesse, non credete?”

Alessandro sollevò un po' le sopracciglia, ma non se la sentì di fare altre domande. Era chiaro che la Sforza non fosse del tutto in sé e gli pareva infruttuoso continuare. Aveva sperato che quella convocazione alla rocca portasse a qualcosa, ma pure in quell'occasione era stato deluso.

“Riferirò quanto avete detto a vostro zio – promise – se è tutto...”

Caterina cercò di pensarci un attimo. Si era attesa maggiori resistenze, dal milanese. Credeva che l'avrebbe riempita di domande, che avrebbe cercato di capire come mai voleva fare quel viaggio, ma in un certo senso fu felice di vederlo così sbrigativo.

“Sì, è tutto.” annuì e gli indicò la porta.

Aspettò che l'Orfeo la richiudesse alle sue spalle e poi si abbandonò contro lo schienale della sedia.

Non voleva abbandonare il suo Stato, ma aveva capito benissimo quali fossero le intenzioni del papa. Suo figlio era in Francia al solo scopo di tornare in Italia alla testa dell'esercito francese, e la Romagna sarebbe diventata il suo nuovo dominio.

La Tigre voleva salvare se stessa, i suoi figli e anche i suoi sudditi. Se si fosse arresa per tempo, una volta al sicuro nelle terre di suo zio, avrebbe potuto sperare che la sua gente ottenesse un trattamento più morbido e, al contempo, che il papa la lasciasse in pace. E poi, accanto al Moro, avrebbe potuto convincerlo a darle un ruolo nel governo, nella difesa, magari, e così avrebbe potuto aiutarlo a ristabilire il nome degli Sforza e a tenere Milano in vita.

E poi, pensò, alzandosi e sospirando, le mani dietro la schiena, lo sguardo che cadeva sulla poltrona che un tempo era stata di Giacomo, con un po' di fortuna avrebbe convinto anche Manfredi a seguirla. Quando fosse arrivato il Borja, anche lui avrebbe capito che Faenza era perduta e, se avesse imparato a mettere da parte il suo sconfinato orgoglio, avrebbe compreso che il suo posto era accanto a lei, a Milano.

Lasciando lo studiolo e permettendo a Cesare Feo di rientrarvi, la Contessa gli sussurrò: “Non voglio essere disturbata almeno fino a stasera.”

“Posso sapere, comunque, dove trovarvi, in caso avessi bisogno per un'urgenza?” chiese il castellano.

La donna si morse le labbra e poi rispose: “Sarò in camera mia. Non mi sento troppo bene e ho voglia di stare da sola. Cercatemi solo se veramente indispensabile.”

L'uomo chinò il capo e convenne: “Va bene, mia signora. E rimettetevi: abbiamo tutti bisogno di voi.”

La Sforza lo fissò per un istante, quasi stranita, come se quella frase, detta con tono quasi casuale, l'avesse colpita nel profondo.

Alla fine, con uno sbuffo che mascherava una risata un po' amara, Caterina commentò, andandosene: “Come dite voi, Cesare...”

 
 
   
 
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