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Autore: Adeia Di Elferas    06/01/2019    1 recensioni
Caterina Sforza, nota come la Leonessa di Romagna, venne alla luce a Milano, nel 1463. Si distinse fin da bambina per la sua propensione al comando e alle armi, dando prova di grande prontezza di spirito e di indomito coraggio.
Bella, istruita, intelligente, abile politica e fiera guerriera, Caterina passò alla storia non solo come grande donna, ma anche come madre di Giovanni dalle Bande Nere.
La sua vita fu così mirabolante e piena di azione che ella stessa - a quanto pare - sul letto di morte confessò ad un frate: "Se io potessi scrivere tutto, farei stupire il mondo..."
[STORIA NON ANCORA REVISIONATA]
Genere: Drammatico, Generale, Guerra | Stato: in corso
Tipo di coppia: Nessuna
Note: nessuna | Avvertimenti: Contenuti forti, Tematiche delicate, Violenza | Contesto: Rinascimento
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Fortunati era ancora così sconvolto per quello che era accaduto da riuscire a mala pena a parlare, tuttavia gli altri quattro lasciarono a lui il compito di spiegare il tutto all'Abate del convento di San Benedetto.

Con immensa fatica erano riusciti a portare il cadavere di Ottaviano Manfredi fino alla chiesa, ma lì si erano dovuto fermare, in attesa di avere il permesso di portarlo al riparo.

L'Abate, quando si vide davanti il piovano con l'abito imbrattato di sangue e il viso pallido come quello di un morto, credette che fosse stato ferito da qualche delinquente lungo la via e gli chiese immediatamente se avesse bisogno di cure.

Francesco, scuotendo il capo con forza, riuscì a balbettare qualche frase che riassunse la situazione all'altro religioso, il quale, vigoroso come in tutte le cose che faceva, non perse tempo e uscì di persona a controllare se ciò che gli era stato detto corrispondeva al vero.

Illuminato dal sole pieno di quel 13 aprile, sotto a un cielo che si era fatto terso come fosse piena estate, in terra c'era in effetti un corpo, straziato e insanguinato, il viso talmente trasfigurato da rendere difficile credere che fino a poco prima quello fosse un uomo.

Con uno sguardo rapido, l'Abate guardò il sentiero e notò la lunga striscia rossa che mostrava il percorso fatto da quegli uomini per trasportare la vittima fino a lì. Circospetto, quasi temendo che qualcuno degli aggressori potesse essere ancora in agguato, fece cenno di seguirlo in chiesa.

Fortunati aiutò gli altri quattro a risollevare il corpo di Ottaviano. Era difficile da spostare soprattutto per colpa dei fendenti che avevano quasi staccato gli arti dal busto. C'era il rischio, si rese conto anche l'Abate, osservando i suoi inattesi ospiti, di perdere qualche pezzo cammin facendo.

“Aspettate... Posatelo qui...” fece il religioso, indicando il pavimento, già immaginandosi la fatica di ripulire il sangue, ma non trovando idee migliori: “Vado a chiamare qualcuno dei miei confratelli... Abbiamo un avello vuoto, lo metteremo lì.”

Rimasti soli, i quattro forlivesi e Fortunati si misero a fissare il corpo e poi, nel silenzio quasi irreale di quella chiesa, fu proprio il fiorentino a ritrovare la parola: “Cosa facciamo, adesso?”

“Scriviamo alla Contessa e...” prese a dire uno, stringendosi le mani sporche di rosso l'una nell'altra.

“E che le diciamo? Non è una cosa da scrivere per lettera...” si oppose un altro.

“Dobbiamo andare subito a Forlì e spiegarle cos'è successo.” propose un terzo.

“E se lungo la strada ci uccidessero, come hanno fatto con lui?” domandò i quarto.

“Non ci hanno uccisi stamattina, non lo faranno più. Non è noi che volevano...” sussurrò il piovano, chiudendo un istante gli occhi e sospirando.

Quando l'Abate tornò, assieme a una manciata di frati, chiese ai cinque uomini se a loro andasse bene una sistemazione temporanea nella chiesa e nessuno di loro ebbe da ridire.

“Chi era quest'uomo?” domandò il religioso, mentre i suoi sottoposti lo manovravano con cura, per portarlo in canonica, dove l'avrebbero lavato, coperto di balsami e sistemato come meglio riuscivano.

“Ottaviano Manfredi, di Faenza.” rispose Francesco, con la voce che tremava appena.

L'Abate deglutì e poi, dopo essersi passato una mano sulla guancia coperta da una fitta barba nera, chiese, per essere sicuro di aver capito bene: “L'amante della Sforza di Forlì?”

Il fatto che perfino un uomo di chiesa, che viveva in un monastero in mezzo alle montagne conoscesse Manfredi più per quel motivo che non per la sua ascendenza, fece scattare una molla, nel cervello di Fortunati. D'un tratto la sua mente iniziò a lavorare in modo diverso, vagliando con maggior oggettività le reali cause che, forse, avevano portato a quell'attentato.

“Sì, è lui.” annuì, rendendosi conto che l'Abate attendeva una conferma.

L'uomo si fece allora il segno della croce e sussurrò: “Che Dio ci aiuti...”

Dopo aver ricomposto il cadavere di Ottaviano e averlo adagiato in un avello in pietra, mentre cominciava a scendere la sera, i monaci dedicarono al morto una solenne veglia, facendo risuonare le pareti della chiesa di San Benedetto di canti e benedizioni.

Nel frattempo, in canonica, Fortunati e gli altri ancora non aveva deciso che fare e più ci ragionavano, più la tensione tra loro cresceva. Alla fine si era deciso di andare a Forlì, per dare la notizia alla Sforza a voce e non lasciare il messaggio a una fredda lettera. Tuttavia nessuno pareva intenzionato a prendere l'iniziativa e andare da lei.

Il piovano ci aveva pensato a mente un po' più fredda e aveva capito una cosa: i quattro uomini che aveva davanti erano dei poveracci, risaputamente inadatti al combattere, e la Tigre, forse, nel sentire la loro testimonianza si sarebbe subito dimenticata di loro, mettendosi a cercare i veri colpevoli. Se, invece, a raccontarle il tutto fosse stato lui in persona, la Contessa avrebbe reagito in modo molto diverso.

Fortunati la conosceva abbastanza bene, aveva raccolto le sue confessioni più di una volta e aveva imparato a capirla. A colpo fresco, la mente confusa dal dolore e dalla paura, sicuramente avrebbe finito per ritenerlo responsabile, come se lui da solo potesse far fronte all'attacco di trenta uomini armati. Non poteva andare da lei, non subito, almeno. Passato del tempo, ragionandoci sopra, Caterina avrebbe capito e l'avrebbe perdonato, se non addirittura cercato per trovare in lui conforto.

“Andate voi.” disse infine il piovano, guardando gli altri quattro: “Io devo essere per forza a Firenze nel giro di un paio di giorni, per ordine espresso della Contessa. Vi darò un mio scritto da portare, così avrà una versione dei fatti anche da parte mia.”

Poiché i forlivesi si guardavano l'un l'altro, spaventati, Francesco optò per una soluzione che gli piaceva poco, ma che credeva necessaria. Prese delle monete dalla sua scarsella e ne offrì una parte a ciascuno di loro.

“E va bene...” soffiò quello che tra di loro pareva più intraprendente: “Ma non partiremo che all'alba. Di notte meglio stare al riparo. Non voglio fare la fine di quel poveraccio...”

Il piovano fu a un passo da ricordargli che Manfredi era stato trucidato alla luce del sole e non della luna, ma preferì tacere. Era già qualcosa averli convinti.

“Va bene. Partirò anche io all'alba. E che Dio ci aiuti tutti quanti.” concluse, richiudendo il cordino della scarsella, ormai quasi vuota, e facendosi il segno della croce, mentre dalla chiesa arrivavano le prime battute di un altro canto funebre.

 

Erano le quattro del pomeriggio, e quel 14 aprile, nella quiete dell'aria che profumava di primavera, la Sforza era nel cortile d'addestramento assieme ad alcuni soldati, Galeazzo e Bernardino.

Aveva addosso ancora la strana sensazione del giorno prima, ma cercava di non pensarci e, appoggiata all'asta per cavalli, osservava il figlio più grande duellare con il maestro d'armi e il più piccolo imparare a impugnare correttamente una mazza chiodata.

Galeazzo se la stava cavando egregiamente e la sua unica pecca stava nel fisico non ancora abbastanza forte e sviluppato per tenere realmente testa al suo insegnante. Tuttavia la madre, nel vederlo così agile e tutto sommato preciso, si sentì rincuorare. In momenti come quelli, le pareva che il futuro sarebbe stato un po' meno grigio del previsto, avendo accanto un figlio tanto meritevole e sveglio.

“Vedete – stava dicendo un soldato a Bernardino – se la tenete così, rischiate di rompervi un polso per colpa dell'impatto... Se invece sistemate meglio le dita, a questo modo, dovreste riuscire a colpire senza farvi male...”

Il piccolo Feo annuì, tuttavia, per quanto gli venisse rispiegato di continuo, non riusciva a capire come dovesse fare e finiva per innervosirsi, borbottando frasi come: “Meglio un pugno che questo affare...”

“Madre...” Bianca arrivò accanto alla Sforza con passo svelto e lo sguardo corrucciato.

“Che c'è?” chiese subito la donna, smettendo di osservare i due figli e concentrandosi su di lei.

“Mi hanno chiesto di venirvi a cercare.” spiegò la ragazza, schiarendosi la voce: “Il castellano e messer Numai. Vi aspettano nella Sala della Guerra assieme agli uomini che scortavano messer Manfredi.”

“E che ci fanno qui, gli uomini che scortavano Manfredi?” domandò Caterina, lasciando la sbarra dei cavalli e sentendo uno strano brivido correrle lungo la schiena: “Hanno incontrato qualche difficoltà lungo la strada? Fortunati è con loro? E Manfredi dov'è?”

La Riario scosse il capo: “Io non so nulla, non mi è stato detto nulla... Solo di venirvi a cercare. Ma comunque né Manfredi né Fortunati sono con loro...”

Cominciando a figurarsi le più disparate eventualità, la Tigre lasciò in fretta il cortile, seguita a ruota dalla figlia. Entrò nella sala della guerra senza annunciarsi e restò un po' spiazzata nel vedere come tutti i presenti la fissavano.

Oltre al castellano, a Numai e ai quattro improvvisati uomini di scorta che erano partiti due giorni prima assieme a Fortunati e Manfredi, nella Sala della Guerra c'erano anche suo figlio Ottaviano e Dionigi Naldi.

In particolare fu lo sguardo del Riario a turbarla. Non ricordava di averlo mai visto così. Pareva folgorato, come se gli fosse caduto in testa un masso e ancora non avesse capito cosa fosse capitato.

“Tenete, mia signora...” fece a voce bassa Cesare Feo, offrendole un calice di vino.

“Non ho sete.” si oppose lei, scostando il bicchiere: “Che cos'è successo?”

Gli uomini presenti si guardarono l'un l'altro, in ansia e alla fine solo Luffo Numai ebbe il coraggio di aprir bocca: “Poco dopo San Benedetto, vicino a Cellette, messer Manfredi e il suo seguito sono stati aggrediti da trenta uomini.”

Caterina registrò a fatica quell'informazione, ma, vedendo i quattro folrivesi che erano partiti con il faentino ritti davanti a lei, apparentemente illesi e in perfetta salute, si permise di essere ottimista e indagò: “Manfredi dov'è?”

Il Consigliere abbassò lo sguardo e, dopo essersi morso il labbro, lo risollevò, dicendo: “Messer Manfredi è caduto vittima degli aggressori. È stato ucciso.”

La Sforza non capì immediatamente quanto le era stato detto. Aveva sentito un singulto strozzato arrivare alle sue spalle, probabilmente da sua figlia Bianca. Poi, incrociando lo sguardo di suo figlio Ottaviano, che si stava appannando per via delle lacrime, si sentì mancare.

Si appoggiò appena in tempo al mobile a muro, il sangue che si trasformava in ghiaccio nelle vene, e poi sussurrò: “Come..?”

“Messer Manfredi è stato circondato e ucciso.” ribadì Numai, rendendosi conto che la sua signora faticava ad afferrare quel concetto, per quanto chiaro ed elementare: “Questi uomini sono qui per spiegarvi l'accaduto nei dettagli e portano con loro una lettera di messer Fortunati, che ha dovuto forzatamente proseguire il viaggio verso Firenze e si scusa moltissimo per non essere qui e...”

“Quando è successo?” chiese la Contessa, appena udibile, il volto che aveva perso ogni colore e le iridi verdi che vagavano sperse senza posarsi su nessuno in particolare.

Il silenzio nella stanza si era fatto così denso e palpabile che quando uno dei testimoni parlò, la sua voce, ridotta a un filo, ebbe la stessa risonanza di un grido: “Ieri mattina, poco dopo l'alba.”

“Ieri mattina, poco dopo l'alba.” fece eco la Sforza, senza intonazioni, e senza tradire particolari emozioni, almeno non finché chiese: “San Benedetto, a piedi, dista nemmeno mezza giornata, da qui. Perché siete arrivati a dirmelo solo ora?”

Sentendosi osservati non solo dalla Leonessa, che per la prima volta, da che aveva avuto la notizia, riusciva a guardarli in viso, ma anche da Naldi, da Numai, dal castellano e dai due figli della Contessa, i quattro uomini rimasero zitti. Iniziavano a sudare freddo e cominciavano anche a capire come mai Fortunati, che la conosceva bene, avesse preferito andare dritto e filato a Firenze, lasciando che fossero loro ad assorbire il colpo al posto suo.

Non ottenendo risposte, alla donna fu facile capire il motivo di quel ritardo: avevano avuto paura della sua reazione.

“Fuori.” soffiò la Tigre, restando saldamente aggrappata al legno del mobile: “Fuori.”

Nessuno si mosse, però, eccetto Ottaviano, che si asciugò il naso con la manica del giubetto di raso, uscendo quasi di corsa dalla Sala della Guerra, così sconvolto dalla morte del suo unico amico da non avere nemmeno il ritegno di trattenere i gemiti di dolore, una volta in corridoio.

“Fuori!” gridò a quel punto Caterina: “Fuori di qui! Tutti fuori!”

Solo a quel punto, come un sol uomo, tutti i presenti capirono che fosse necessario levarsi di torno.

L'unica che ebbe il coraggio di rimanere fu Bianca. Sua madre non si era accorta di averla ancora alle spalle e così sobbalzò, quando, ancora aggrappata al mobile, sentì la sua mano sfiorarle la spalla, in segno di vicinanza.

“Ho detto che voglio tutti fuori di qui.” ripeté la donna, riconoscendo il tocco della Riario: “Anche tu.”

“No, io resto.” la decisione con cui la giovane aveva parlato, per qualche istante parve far breccia nella Tigre, ma si trattò solo di un istante.

“Esci di qui, Bianca. Esci, prima che...” l'avvertì, senza finire la minaccia.

Addolorata per quella reazione, desiderando anche lei trovare qualcuno che la consolasse, la ragazza ritrasse la mano e, silenziosa, uscì come le era stato chiesto di fare.

Rimasta sola, Caterina tentò di piangere, ma non ci riuscì. Era stata una notizia così improvvisa da renderla più incredula, che non addolorata. Avrebbe voluto trattenere la figlia e cercare in lei il conforto di cui sentiva già di avere bisogno, ma la realtà era che la confusione che le sie era creata in mente era più forte di ogni altra cosa.

Staccandosi a fatica dal mobile, arrivò fino alla mappa dell'Italia e la osservò per lungo tempo. Si chiese chi potesse averle fatto un simile torto, perché l'avesse fatto e cosa credesse di ottenere, colpendola in modo tanto subdolo.

Ovunque posasse lo sguardo, le pareva di vedere solo nomi nemici, colori ostili e stemmi stranieri.

Voleva unire tutti i signori di Romagna sotto un'unica bandiera per combattere i francesi e il papa, ma come poteva riuscirci, se si trovava a sospettare di ciascuno di loro per la morte del suo Manfredi?

Le ci volle ancora una mezz'ora piena, prima di trovare la forza di mandare a chiamare di nuovo i quattro testimoni della morte del suo amante. Voleva i dettagli, voleva sapere tutto, voleva capire e, ancor più di tutto il resto, voleva capire.

Affiancata da Cesare Feo e da Luffo Numai, sedutasi dietro la scrivania del castellano, diede udienza ai testimoni e poi si fece leggere la lettera scritta da Francesco Fortunati. La donna avrebbe tanto voluto ordinare di correre dietro al fiorentino, metterlo in catene e portarlo davanti a lei, affinché potesse punirlo, per aver permesso una simile tragedia. Ma riuscì a tacitarsi. Era una vera fortuna, che il piovano avesse deciso di non palesarsi a Forlì, altrimenti, forse, la Tigre non sarebbe riuscita a trattenersi.

“Adesso dov'è, il corpo?” chiese, lo sguardo basso e le mani che giocherellavano con il suo nodo nuziale.

Visto il primo scatto che aveva avuto, nel sentire della morte dell'amante, erano tutti un po' sorpresi, nel vederla così calma. Era mesta, quello era chiaro, ma sembrava anche permeata da una tranquillità che metteva i presenti ancor più in ansia. Dava l'idea di essere un cielo nero, pronto a scatenare la tempesta.

“Alla chiesa del monastero di San Benedetto.” rispose prontamente uno dei testimoni: “Lo hanno sistemato in una tomba temporanea, ma l'Abate attende ordini...”

Caterina smise di passarsi l'anello da un dito all'altro e decretò, rivolgendosi al castellano, ma senza guardarlo: “Mandiamo un messaggero veloce a questo Abate. Ditegli che se nessuno, Faenza soprattutto, ha reclamato il corpo, allora me lo prendo io e lo seppellisco qui, a mie spese.”

Cesare Feo chinò il capo in segno di assenso e, comprendendo che era un ordine da eseguire subito, lasciò con discrezione lo studiolo per cercare una staffetta rapida come il vento.

“Questo è tutto, per ora...” concluse la Sforza, congedando tutti con un cenno della mano, ma fermando all'ultimo il testimone che sembrava più incline a parlare: “Aspettate un attimo, voi...”

Questi, deglutendo, allacciò le mani in grembo e rimase in attesa, mentre tutti gli altri uscivano, quasi sollevati che quel lungo confronto fosse terminato.

“Manfredi...” cominciò a dire la Contessa, con un paio di colpi di tosse, che tentavano di sciogliere il nodo che sentiva nella gola: “Ottaviano – si corresse, pensando che almeno quella volta fosse lecito usare il suo nome di battesimo – si è accorto di quello che gli stava capitando?”

L'uomo, che, di comune accordo con gli altri, aveva taciuto sulla lunga agonia del faentino, mosse il peso da un piede all'altro e poi, poco convinto, rispose: “Io non saprei...”

“Oh, avanti!” esclamò la Leonessa, leggendo in quel mezzo borbottio una menzogna: “Parlate chiaro o giuro che vi metto ai ceppi!”

A quel punto, scosso dal tono bellicoso della donna, il forlivese capì che insistere con quell'omissione non aveva senso: “Dopo che è stato ferito a morte, mia signora, è rimasto in terra, cosciente e vivo per oltre un'ora. Il piovano l'ha confessato, anche se ci ha detto che messer Manfredi non riusciva a parlare, per via... Be', ecco, per come l'hanno conciato, mia signora. L'ha assolto e dopo un po' è morto.”

In un collegamento infido fatto dalla sua mente, Caterina risentì la stretta di suo figlio Livio, che l'abbracciava, mentre gli mancava il fiato e sentiva la morte avvicinarsi. Non riuscendo a immaginarsi in che stato potesse essere Manfredi, lo immaginò simile a quel bambino che aveva cercato di afferrare gli ultimi attimi di vita che gli restavano.

Pensare a Manfredi, così vitale e bruciante, steso in terra in una pozza del suo stesso sangue ad aspettare inerme la fine, fece stringere lo stomaco alla Tigre. Impedendosi di ragionarci oltre, alla fine la donna si alzò e aggirò la scrivania, indicando la porta all'uomo che aveva davanti.

“Adesso è davvero tutto.” gli sussurrò e lo accompagnò fuori.

Poteva solo aspettare che arrivasse una risposta da San Benedetto e, in caso l'Abate le avesse lasciato i resti del suo amante, allora avrebbe potuto pensare al funerale. Nel frattempo, decise di andare dall'Oliva.

Non si meravigliò di vederlo già edotto su ogni cosa, e così gli disse: “Cercate i colpevoli, non mi importa quanto mi costerà. Voglio i nomi.”

“Volete anche che li faccia catturare?” chiese il capo delle spie, nonché notaio della Contessa.

Questa strinse le labbra e poi scosse il capo: “Per il momento no.”

Lasciato l'Oliva, la Sforza diede ordine di intensificare i controlli alle porte e di vietare il permesso ai suoi figli di uscire dalla rocca.

“Madre, io devo uscire da qui.” le disse il suo primogenito Ottaviano, raggiungendola nella sala delle armi, poco dopo che lei aveva spiccato l'ordine: “Ho vent'anni, non potete impedirmi di...”

“Di andare ad affogare il tuo dispiacere in un bordello?” le chiese lei, lasciando che la rabbia che provava storcesse un po' la sua voce: “Sarebbe un bel modo per onorare la memoria del tuo amico, non lo nego, ma ho deciso così e così farai. Se vuoi una donna, falla portare a Ravaldino, i soldi per farlo li hai, mi pare.”

“Far portare qui una donna di strada... Come fate voi con quel ragazzo, quando non trovate nessuno che vi aggrada tra i soldati di questa rocca?” la punzecchiò lui, più per un vano desiderio di vederla finalmente accendersi che non per cercare un reale scontro con lei.

“Ti avverto, Ottaviano: chiudi la bocca, prima di dire cose di cui ti pentirai.” lo minacciò lei, puntandogli contro l'indice, ma evitando di guardarlo negli occhi, per impedirsi di perdere la calma.

“Lo vendicherete?” chiese il Riario, riuscendo a non ribattere a quella frecciata.

“Non è una cosa che ti riguarda.” lo freddò lei.

“Invece sì – si ostinò Ottaviano – era mio amico e come tale io...”

“Tu cosa? Lo vendicherai? Andrai a pescare i suoi assassini e li ucciderai?” lo incalzò lei, afferrandolo per il bavero del giubbone e inducendolo a chinarsi un po' verso di lei, per poterlo vedere dritto negli occhi: “Sei un tale codardo che non vendicheresti nemmeno tua madre. Quindi non chiedere agli altri di fare quello che non sei in grado di fare tu per primo.”

“Io so che lo vendicherete.” non demordette lui, sperando, con quel guizzo di fegato, di far ricredere la Tigre.

Lasciandolo di scatto, la donna non lo guardò più, andando all'armario e prendendo una spada a cui si doveva fare il filo: “Non ho voglia di parlarti, né di vederti. Sparisci. E non uscire da questa rocca, finché non ti avrò dato espresso permesso, intesi? Siamo tutti in pericolo, adesso, molto più di prima e se non lo capisci, non so come spiegartelo.”

“Tanto se anche mi ammazzassero, voi non versereste nemmeno una lacrima, per me. Così come non ne state versando nemmeno mezza per lui.” sibilò il giovane, rendendosi conto solo in quel momento di essere arrabbiato, ancor più che in lutto.

Manfredi era stato l'unico amico veramente disinteressato che avesse mai avuto in vita sua, e si era convinto che per sua madre fosse qualcuno di importante. E invece, nel saperlo ucciso, la Tigre si comportava come una gatta: aspettava, osservava e se ne stava in disparte. Si era aspettato di vederla ordinare all'istante una caccia all'uomo, di mettere a morte i colpevoli, di far guerra, se necessario, ai mandanti di una simile atrocità. E invece si stava mettendo su uno sgabello a far il filo a una spada.

“Non sai di cosa stai parlando.” provò a zittirlo lei, ma quell'affermazione ebbe sul figlio l'effetto di una fiamma su una miccia.

“Lo so benissimo invece!” inveì lui, sollevando il mento, raddrizzando la schiena e allargando le spalle il più che potesse: “Per voi non era niente, come lo sono io! L'avete solo usato per i vostri comodi e adesso...”

“Taci!” lo rimbrottò la Sforza, lasciando lo sgabello con tanta irruenza da farlo rovesciare in terra, la spada in una mano e la pietra cote nell'altra: “Taci e vattene! Chiuditi nelle tue stanze e non uscirne finché non te lo dirò io!”

Sentendo, a tradimento, le lacrime tornare ad annebbiargli gli occhi e annodargli la lingua, il Riario non riuscì più a ribattere e, battendo un piede in terra in segno di frustrazione, se ne andò quasi di corsa, in un atteggiamento che alla madre ricordò troppo quello di un bambino viziato e non quello di un uomo di vent'anni.

Furiosa anche per quel dettaglio, Caterina gettò in terra la spada, in un gesto di profonda ira. Il fragore del ferro contro il suolo le percosse il petto e le fece vibrare il cuore.

Risedutasi sullo sgabello, deglutì e si passò una mano sugli occhi, trovandoli asciutti. Cercò di pensare a Manfredi, di ricordarsi le ultime parole che si erano detti, o il suo profilo quando l'aveva visto uscire dalla sua tana, ma non ci riuscì.

Quello che la sua mente aveva disperatamente cercato di fare per anni e anni con il ricordo di Giacomo – riuscendoci solo fino a un certo punto – pareva essere riuscito a farlo all'istante con quello di Manfredi. Era come se per proteggerla, le stesse impedendo di ricordarlo, e, contemporaneamente, di rendersi conto di quanto era accaduto.

Si rialzò, riprese la spada e, con movimenti lenti e ripetitivi, nel silenzio tombale della sala delle armi, mentre fuori scendeva inesorabile la notte, la Leonessa si mise a fare il filo alla lama, svuotandosi la testa e il cuore da tutto, convinta che il passare delle ore l'avrebbe comunque, prima o poi, precipitata nella consapevolezza. E dunque era meglio approfittare di quel limbo di stordimento per ragionare sul da farsi in modo che, quando poi il contraccolpo sarebbe arrivato, ci fosse già un piano d'azione facile da seguire, evitando di farsi trascinare dalla sete di vendetta, come le era successo alla morte di Giacomo.

 

“Bianca! Ti stavo cercando..!” la voce della sua amica rimbalzò contro i timpani della Riario che, immobile sulla panca di pietra, guardava dritto davanti a sé, senza vedere alcunché: “Stai bene?”

La ragazza sollevò lo sguardo su di lei solo quando si sentì scuotere un po' per la spalla e in quel momento alla serva fu palese che l'altra avesse pianto. I suoi occhi blu scuro erano lucidi, le sclere arrossate e anche le sue guance erano ancora umide.

“Sono venuta a cercarti perché...” cominciò la ragazzina, che aveva frugato in lungo e in largo tutta la rocca al solo scopo di andare a dire all'amica che aveva scoperto che quella sera alcuni soldati erano rientrati dalle ronde sul confine si erano visto assegnare il turno per il bagno il mattino dopo e che quindi sarebbe stata una buona occasione per andare al loro nascondiglio a spiarli.

“Hai sentito cos'è successo?” la interruppe però la Riario, allungando una mano verso di lei, che, istintivamente, la prese tra le sue.

“No, che cosa? Qualcosa di brutto?” la domanda parve superflua a lei per prima, tuttavia la serva non riusciva a capire cosa avesse portato quello stato di disperazione in Bianca.

Si conoscevano da anni, ma non l'aveva mai visto con un viso tanto angosciato, né aveva sentito le sue mani tremare a quel modo.

“Hanno ucciso Manfredi.” rivelò la giovane, puntando lo sguardo in quello dell'amica, in cerca di un barlume di vicinanza e comprensione.

“Astorre? Il tuo sposo?” chiese invece questa, non capendo, in quel caso, l'evidente dolore dell'altra.

“No, Ottaviano...” la corresse la Riario, sottraendo quasi subito la mano dalla stretta dell'amica, nel vederla aggrottare la fronte, come se quella notizia non le paresse, in fondo, tanto tragica.

“Mi dispiace...” fece questa, come capendo di aver fatto un passo falso nel non mostrarsi troppo coinvolta: “Immagino che tua madre sia...”

“Mia madre...” sbuffò allora Bianca, alzandosi di scatto e voltandole le spalle: “Mia madre, sempre a lei si deve pensare. Anche io gli volevo bene. Piaceva anche a me. L'avrei amato, se non mi fosse stato impedito, se lui e mia madre non fossero stati...”

Non terminò la frase, perché, come se fosse stata evocata, la Tigre arrivò proprio in quel momento dalle scale e, nel sentire la voce della figlia, si fermò appena salito l'ultimo gradino.

La domestica ne approfittò per ritirarsi, farfugliando qualcosa che assomigliava a una richiesta di perdono, e così madre e figlia rimase di nuovo sole.

“Se lui e io non fossimo stati cosa?” chiese Caterina, avvicinandosi alla figlia, i passi che risuonavano nel corridoio come un tamburo che scandisse le azioni di un boia.

“Se lui e voi non foste stati amanti.” rispose la ragazza, le guance che si imporporavano con maggior decisione.

“Ecco, se non lo fossimo stati, che sarebbe cambiato, per te? L'avresti preso più volentieri come sposo, senza la mia ombra tra voi? L'avresti amato in modo più aperto, senza nasconderti per paura di quello che avrei potuto dire o fare io? L'avresti preso come amante tu stessa, ancor prima della morte di Astorre?” chiese la Tigre, ormai davanti a lei, lo sguardo pesto, provato, ma irrimediabilmente distante.

“Forse sì.” osò rispondere la Riario, provando a essere sincera con la madre.

Ci fu un rapido istante in cui la Leonessa e la figlia si scambiarono uno sguardo che si poteva definire d'intesa. Per quel soffio di tempo, si capirono, nel profondo.

Bianca avrebbe voluto abbracciarla e scambiare con lei quel calore e quel conforto che nessuno, nemmeno la sua amica, era stato in grado di darle fino a quel momento. Nessuno, a parte sua madre, aveva capito quanto Manfredi fosse importante per lei. E nessuno – forse – a parte la Riario sapeva quanto il faentino fosse importante per la Contessa.

“Lo vendicheremo.” promise Caterina, distogliendo lo sguardo da quello della figlia, ma arrivando a posarle una mano sul braccio.

Aggrappandosi alla mano della madre con la propria, la giovane annuì e poi sussurrò, di rimando, come a suggellare un patto: “Sì, madre, lo vendicheremo.”

“Ma non adesso...” riprese la donna, levando la mano dal braccio della figlia e facendo una piccola smorfia, che, non era difficile capirlo, le serviva per camuffare la voce rotta: “Adesso... Adesso ce lo piangiamo in pace, almeno finché non gli avremo fatto il funerale che merita. Adesso è il momento del cordoglio, e poi ci sarà quello della vendetta.”

“Adesso lo piangeremo, e domani lo vendicheremo.” convenne Bianca, sentendo le lacrime tornare a rigarle il volto.

In uno dei gesti più materni che la Riario ricordasse di aver mai ricevuto dalla Tigre, la donna le accarezzò la guancia, quasi ad asciugargliela.

Sembrava in procinto di dire ancora qualcosa, ma poi si fermò, stringendo le labbra e con un cenno del capo, salutò la figlia, oltrepassandola per andare nelle sue stanze.

 
 
   
 
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