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Autore: Adeia Di Elferas    07/01/2019    1 recensioni
Caterina Sforza, nota come la Leonessa di Romagna, venne alla luce a Milano, nel 1463. Si distinse fin da bambina per la sua propensione al comando e alle armi, dando prova di grande prontezza di spirito e di indomito coraggio.
Bella, istruita, intelligente, abile politica e fiera guerriera, Caterina passò alla storia non solo come grande donna, ma anche come madre di Giovanni dalle Bande Nere.
La sua vita fu così mirabolante e piena di azione che ella stessa - a quanto pare - sul letto di morte confessò ad un frate: "Se io potessi scrivere tutto, farei stupire il mondo..."
[STORIA NON ANCORA REVISIONATA]
Genere: Drammatico, Generale, Guerra | Stato: in corso
Tipo di coppia: Nessuna
Note: nessuna | Avvertimenti: Contenuti forti, Tematiche delicate, Violenza | Contesto: Rinascimento
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“Ma certo che abbiamo fatto bene a ratificare l'accordo di pace – stava dicendo Lorenzo il Popolano, chiuso nello studiolo assieme ad alcuni dei suoi sostenitori alla Signoria – cosa avremmo dovuto fare? Le bizze come i veneziani, che tanto hanno accettato pure loro? O rischiare la fine di Pisa, che si vedrà arrivare domattina il commissario veneziano... Sicuro si finirà a farci scappare il morto, ve lo dico io.”

“Certo che è stata una fortuna che Vitelli abbia vinto quella scaramuccia contro l'Alviano a Bibbiena proprio appena prima che arrivasse l'ordine di posare le armi...” aveva considerato uno dei sostenitori del Popolano.

“Sì, ma di Vitelli non ci dobbiamo fidare comunque – mise in chiaro il Medici – adesso dicono che stia andando a Città di Castello e pare che voglia spalleggiare i fuoriusciti senesi. Adesso che la guerra sta finendo e che si ritiene in rotta con Firenze per quella questione dello stipendio...”

Semiramide ascoltava da dietro la porta, trattenendo il fiato, man mano che il discorso si faceva più acceso. Suo marito, ormai da tempo, non la coinvolgeva più nelle questioni di politica, ma lei aveva continuato a documentarsi e seguire quel che le capitava attorno.

La fine della guerra contro Venezia capitava al momento giusto, si diceva, appena prima della primavera, evitando, così, che l'estate portasse a un inasprimento del conflitto e a tanti nuovi morti.

Tuttavia quella pace per lei aveva un sapore amaro. Aveva capito benissimo che Lorenzo aveva premuto per quella soluzione per un unico motivo: lasciare campo facile ai francesi.

Le era ancora oscuro il come e il quando, ma credeva di non sbagliare nel credere che il figlio del papa, Cesare, fosse in Francia al solo scopo di farsi affidare un esercito con cui conquistare gran parte della penisola, in particolare la Romagna.

La solerzia del Medici nel voler favorire quella discesa, togliendo di mezzo un conflitto collaterale che avrebbe impedito a Firenze – e anche a Venezia – di aiutare concretamente Luigi XII, per l'Appiani si poteva spiegare solo con il suo inveterato desiderio di spazzare via la loro cognata, Caterina Sforza.

Quando sentì dei movimenti nel salone, capendo che gli uomini stavano per andarsene, la donna si mise in un punto riparato del corridoio buio e attese. Era molto tardi, ma Lorenzo stava dormendo pochissimo in quei giorni e, infatti, anche quella notte i suoi impegni parevano non terminare mai.

Dopo una manciata di minuti da quando i suoi compari di politica si erano dileguati, era arrivato uno dei suoi legali, assieme a uno dei contabili.

Il Popolano li aveva fatti accomodare e così Semiramide si era rimessa a origliare, convinta che, quella volta, il discorso sarebbe stato molto più interessante, per lei.

I tre iniziarono il discorso in media res, quasi avessero ripreso un dibattito iniziato chissà quando e interrotto bruscamente chissà per che motivo.

“Non si può fare subito – stava spiegando il legale – adesso che Fortunati ha prodotto quei documenti, ci conviene prima leggerli e poi decidere.”

“Sta venendo qui, no?” fece il Medici, con tono sbrigativo: “Appena arriverà a Firenze, lo incontrerò e vedrò io di scoprire se ha davvero in mano qualcosa, o se lo fa solo per tirare in lungo.”

“Io dico che fino a quest'estate non riusciremo a portare a un contenzioso la Sforza...” insistette il legale: “Potremmo, forse, ma saremmo impreparati.”

“E nel frattempo, siamo riusciti a salvare ancora qualcosa, in modo pulito, intendo?” chiese il Popolano e questa volta rispose il contabile.

“Poco, mio signore, e ci converrà fermarci perché Fortunati ha minacciato di prendere misure contro quel che stiamo facendo. Non vi conviene essere trascinato in uno scandalo per qualche fiorino...”

Seguì un lungo silenzio e poi Lorenzo parlò di nuovo: “Sì, sì, conviene aspettare. Anche se dovremo farlo prima che arrivino i francesi. Adesso che è morto quel faentino, la Sforza è vulnerabile. Dobbiamo sfruttare questo momento per attaccarla. Certo, prima dobbiamo vedere come reagirà, ma sarà abbastanza confusa da non riuscire a gestire in modo lucido una battaglia legale contro di noi. Quel bambino lo voglio io. Finché respira, sarà sempre un problema...”

L'ultimo inciso, buttato lì come fosse una scocciatura fine a se stessa, fece perdere un colpo al cuore di Semiramide. Come se si fosse scottata, si allontanò dalla porta a cui era appoggiata per origliare e, incredula e incapace di ascoltare oltre, se ne andò.

Arrivata nella sua camera, si mise all'inginocchiatoio, giunse le mani e, rivolgendosi al crocifisso, chiese perdono per quello che suo marito voleva fare e implorò Dio di darle la forza di opporsi, quando fosse giunto il momento.

 

“Avete scritto tutto a mio zio?” chiese Caterina, fermando l'Orfeo che stava lasciando lo studiolo del castellano.

“Tutto, mia signora.” confermò l'ambasciatore che, la sera stessa del giorno prima, una volta saputo il fattaccio, aveva inviato una missiva lunghissima al Duca, in cui raccontava per filo e per segno tutto quel che sapeva sulla morte di Ottaviano Manfredi.

“Bene... Bene...” sussurrò la Tigre, annuendo tra sé.

Non aveva ancora deciso se dare o meno risonanza a quella tragedia. Era ancora così scossa da non capire lei stessa quanto impatto avrebbe avuto su di lei e su chi la circondava. Quella notte, per dormire, aveva bevuto più vino del necessario, ma quella mattina non aveva né cerchi alla testa, né nausea. Era come se il suo corpo facesse a sé e la sua mente pure. Si sentiva divisa, immersa in una bolla di irrealtà che aveva provato solo sotto l'effetto dell'oppio.

“Mia signora...” il Capitano Mongardini la raggiunse di corsa, i piccoli denti bianchi, simili a una fila di perle, che rilucevano nel sole di mezzogiorno: “La nostra staffetta è tornata da San Benedetto e vuole parlarvi. Vi aspetta nel primo cortile.”

La Contessa lo ringraziò e corse alle scale, tanto in fretta che quasi inciampò su uno degli ultimi gradini. Quando arrivò al cortiletto, vide il messaggero che parlava fittamente con Galeazzo.

A quel punto rallentò un po' il passo, ma il figlio si tacitò appena si accorse di lei, lasciando che la staffetta ripetesse quel che aveva da dire: “Mia signora – iniziò l'uomo – l'Abate mi ha detto che nessuno ha reclamato ancora il corpo di messer Manfredi. Ha scritto personalmente a Faenza, ma il suo messo è stato rimandato indietro senza risposta. Dunque dice che se il corpo lo volete voi, egli non ha obiezioni, se non...”

“Se non..?” lo incoraggiò Caterina, non sopportando quella reticenza e non capendo che cosa potesse impedirle di prendersi i resti del suo amante e metterli al sicuro dove preferiva.

“Se non che non ha i mezzi e gli uomini per trasportarlo fino a qui.” concluse la staffetta.

Tirando un sospiro di sollievo, la Tigre ribatté all'istante: “Non è un problema. Manderò i Battuti Neri. Quando ho avuto bisogno di loro, mi hanno sempre reso un ottimo servizio e lo faranno anche stavolta. Mando subito qualcuno a parlare con il capo della confraternita...”

“Posso andare io.” si offrì prontamente Galeazzo.

La donna fu tentata di lasciarlo andare. Si fidava di lui e le era chiaro, guardandolo, che morisse dalla voglia di avere qualche incarico. Voleva rendersi utile e non sopportava quel clima di attesa e tensione che si stava creando alla rocca.

“No. Manderò Mongardini.” tagliò corto la Contessa, dedicando comunque al figlio un mezzo sorriso e un: “Tu mi servirai per cose più importanti, al momento giusto.”

 

L'Abate aveva impartito l'ultima benedizione al corpo di Manfredi, quando l'aveva consegnato ai Battuti Neri che l'avrebbero portato a Forlì e poi si era raccomandato egli stesso a Dio, chiedendosi se avesse fatto la cosa giusta, ad affidare quelle spoglie mortali alla Tigre di Forlì.

Faenza, che pur era stata interpellata presto, non si era espressa. L'uomo non aveva capito se per paura, disinteresse o in una tacita ammissione di colpa. Sapeva solo che per lui quel silenzio era equivalso a un rifiuto.

I Battuti, a passo lento e cadenzato, recitando orazioni per quasi tutto il tempo, avevano trasportato con attenzione il corpo, in un feretro semplice, ma elegante, fino a Castrocaro, dove altri confratelli li attendevano per organizzare l'arrivo a Forlì. La Contessa era stata abbastanza chiara: non voleva qualcosa di eccessivo, ma voleva comunque che tutti sapessero che Manfredi l'aveva reclamato solo lei e che l'avrebbe seppellito a Forlì.

Il loro ingresso in città, quindi, doveva essere evidente, anche se non pacchiano, e dunque un buon numero di partecipanti al corteo era fondamentale.

A Castrocaro, però, malgrado fosse già sera, il feretro dovette fare una breve sosta. Giovanni da Casale, che aveva saputo della morte del faentino quasi per caso, aveva chiesto di poter pregare un momento in solitudine in sua presenza.

Così i Battuti avevano sistemato la cassa in una cappella secondaria, in modo da garantire al milanese la privatezza che cercava, e l'avevano lasciato solo.

Pirovano non aveva cercato di aprire il sarcofago per vedere cosa ne fosse stato di quello che riteneva in modo strano un amico e un nemico allo stesso tempo. Aveva saputo della sua tragica fine appena la sera prima. Era a cena in un'osteria e aveva sentito parlare di alcuni controlli che la Sforza stava facendo fare nelle campagne.

“Stanno cercando l'assassino di Ottaviano Manfredi.” aveva rivelato uno degli avventori, con il tono paternalistico di chi sa le cose prima e meglio degli altri: “Pensa che sia di Castrocaro, ma tutti sostengono che quella gente che l'ha fatto a pezzi sia di Val di Lamone.”

“Dovevi accettare la mia scorta...” sussurrò Giovanni da Casale, posando una mano sul legno un po' ruvido: “Sei stato orgoglioso e non era il caso di esserlo. Cosa credi, che adesso la nostra donna sarà contenta di vederti morto? Si sta esponendo, per te. Ti vuole seppellire a Forlì per averti vicino...”

Il comandante non sapeva dire perché stesse parlando a voce alta. Era come se Manfredi fosse ancora lì con lui, solo senza la sua lingua aguzza e la sua risposta pronta. Per la prima volta da che lo conosceva, aveva l'impressione di poter discutere con lui in modo disteso.

“Non volevo che finisse così.” sospirò alla fine Pirovano, facendosi il segno della croce e dando un colpetto alla bara: “Ci rivedremo, Manfredi.”

Richiamò i Battuti, dicendo loro che potevano ripartire. Vista l'ora tarda si sarebbero fermati in una chiesetta sulla via, per poi ripartire alle prime luci dell'alba. Non volevano arrivare in Forlì di notte.

Pirovano fece il sostenuto, durante le fasi di partenza, ma poi, quando vide il feretro caricato di nuovo sul carretto sparire verso le porte della città, avvertì un profondo senso di malinconia e smarrimento. Ottaviano e lui non erano mai andati d'accordo, ma la sua morte improvvisa l'aveva turbato. Con la sua dipartita, sarebbe cambiato tutto, Giovanni se lo sentiva.

Tornatosene nel suo alloggio, lo stomaco sottosopra nel ripensare a quanto accaduto, l'uomo non riuscì a prendere sonno molto facilmente, quella sera. Si trovò a interrogarsi sul futuro. Avrebbe voluto, tanto per cominciare, correre subito da Caterina e consolarla. Sapeva che quello, per lei, sarebbe stato un duro colpo e avrebbe tanto voluto poter alleviare in qualche modo le sue sofferenze.

Tuttavia non voleva tradire il Moro. Si sentiva troppo riconoscente verso di lui e lasciarlo in favore della nipote gli pareva un colpo troppo basso.

Non riuscendo a capire quale fosse per lui la soluzione migliore – se seguire il proprio cuore o la propria testa – Pirovano tentò di accantonare quel tormento e pregare per l'anima di Ottaviano Manfredi. Non sapeva dire chi l'avesse ucciso, né perché l'avesse fatto, ma immaginava che presto i primi sospetti avrebbero investito chiunque, a meno che non fossero stati presi almeno gli esecutori materiali.

Sperando che la Tigre mai arrivasse a pensare a una colpevolezza sua o di Milano, o anche solo a una loro connivenza, Giovanni finì per addormentarsi ancora in poltrona, la mente spersa negli incubi che riflettevano la sua inquietudine.

 

Andrea Bernardi si fece il segno della croce, quando i Battuti Neri gli passarono davanti, in processione, scortando il feretro di Ottaviano Manfredi dentro alla chiesa dei Santi Giacomo e Filippo di Valverde.

Non aveva capito la decisione di metterlo lì, anche se solo in attesa del funerale. Non aveva nemmeno compreso come mai la Sforza non fosse presente e, come lei, nessun membro della sua famiglia.

Si era atteso di vedere lo schieramento della Tigre e dei suoi figli, e invece non c'era un'anima. Pure i forlivesi accorsi erano pochi. Complice l'ora da mattinieri o forse il vento freddo che quel giorno spirava da nord, molti sembravano aver preferito o seguire il corteo osservandolo dalle finestre di casa o sbirciare un istante dalla porta, per poi tornarsene al caldo.

Il Novacula sapeva che, tutto sommato, Manfredi era ormai abbastanza conosciuto in città, e anche abbastanza apprezzato, da chi ci aveva avuto a che fare. Malgrado ciò, non contò più di un paio di dozzine, tra donne e uomini, davanti alla chiesa.

“Si sa quando faranno il funerale?” chiese qualcuno, alle sue spalle.

“No...” rispose l'altro, che, Bernardi lo riconobbe dalla voce senza bisogno di voltarsi, era l'ambasciatore di Milano: “La Contessa non ha ancora fatto sapere nulla di certo, anche se mi pare di aver capito che potrebbe essere già domani.”

“E dove lo seppelliranno? Qui?” chiese l'altro, riferendosi alla chiesa dei Santi di Valverde.

“E chi lo sa... Sembra quasi che la Contessa abbia paura di dirlo...” borbottò Alessandro.

Anche Andrea fu tentato di fare qualche domanda, ma poi lasciò perdere. Indeciso se andare o meno a rendere omaggio al feretro, quando mosse un paio di passi in avanti, si rese conto che i Battuti avevano fatto chiudere il portone della chiesa e dunque, quale che fosse il motivo di un tal gesto, gli sarebbe stato più facile porgere l'estremo saluto al faentino il giorno dopo. Sempre che le esequie venissero celebrate pubblicamente.

La Sforza era una donna strana, Bernardi lo sapeva meglio di tanti altri, e non si sarebbe sorpreso di vederla preferire una cerimonia tra pochi intimi, piuttosto che qualcosa di magniloquente, com'era stato per il funerale del suo Giacomo.

Facendosi il segno della croce e stringendosi un po' nelle spalle, contro al vento, il barbiere girò i tacchi e se ne tornò alla barberia, convinto che quella novità gli avrebbe portato un bel po' di clienti, tutti curiosi di scoprire i dettagli dell'arrivo del feretro.

 

Caterina, poco dopo aver mandato i Battuti Neri a San Benedetto, aveva diramato una serie di lettera che da Ravaldino avevano raggiunto alcuni tra i suoi uomini di fiducia e tra i conoscenti di Ottaviano Manfredi. Aveva raccontato loro quanto era accaduto e aveva annunciato che probabilmente il funerale si sarebbe tenuto il 18 aprile e che dunque, chiunque volesse prendervi parte, poteva presentarsi in città per quella data.

“Siamo sicuri che il Vescovo Monsignor Tommaso Dall'Aste – stava dicendo la Sforza, Giovannino in braccio e Luffo Numai che l'ascoltava in religioso silenzio – sarà presente con tutto il Capitolo?”

“Sì, mia signora.” annuì il Consigliere: “Ha scritto poco fa per dire che arriverà in orario, domani.”

La donna sospirò. Il figlio che teneva in grembo la fissava imperscrutabile, gli occhi scuri che sembravano capaci di indagarla, malgrado avesse appena un anno.

Da quando le avevano detto che il corpo di Manfredi era arrivato in città, la Contessa si era chiusa nella stanza dei giochi assieme al suo ultimogenito e aveva ricevuto lì tutti quelli che chiedevano di lei.

Avrebbe voluto andare in chiesa e vedere con i suoi occhi, ma non se la sentiva. Finché non si fosse trovata davanti quel che restava del suo amante, poteva illudersi che non fosse successo nulla. Era un atteggiamento sciocco, se ne rendeva conto benissimo, ma finché poteva ritardare quel colpo, preferiva farlo.

“Ah, dimenticavo...” fece Luffo, accigliandosi un po' e guardandola di sguincio: “Carlo Manfredi ha scritto per sapere se gli è concesso prendere parte alle esequie del cugino.”

La donna ci ragionò qualche istante. Giovannino, silenzioso come sapeva essere solo in braccio a lei, allungò un po' una mano, sfiorandole la guancia. Le sue ditine tozze erano calde e soffici. Per un secondo la distrassero, ma poi la Contessa tornò concentrata sul presente.

“Ditegli che glielo permetto. Ma fatelo seguire, mi raccomando. Anche quando saremo in chiesa, domani. Non voglio che lo perdano di vista un solo istante.” decretò, le iridi verdi che passavano in rassegna il volto del bambino, quasi che Numai non fosse più lì con loro.

Chinando un po' il capo, l'uomo disse che avrebbe fatto così e andò verso la porta, giusto in tempo per incrociare il castellano, che, titubante, dalla soglia disse: “Mia signora... Mio nipote Tommaso è appena arrivato e vorrebbe vedervi.”

Schiudendo appena le labbra per la sorpresa, la Tigre aggrottò la fronte e ribatté: “Che ci fa qui?”

“Gli ho scritto di messer Manfredi – ammise il castellano, mentre Numai si allontanava per lasciarli soli – e adesso è qui. Non gli avevo detto che doveva venire, ma...”

“Ditegli...” iniziò la Sforza, lasciandosi poi andare a un sospiro e decidendo: “Fatelo aspettare nella sala delle letture. Sarò da lui tra poco.”

Il Feo ringraziò e se ne andò, evitando di aggiungere altro, prima che la sua signora cambiasse idea.

Caterina diede un bacio in fronte al figlio, che rispose con un sorriso. Quando faceva quell'espressione le ricordava in modo sorprendente Giovanni. Il piccolo non era sorridente, di indole, ma c'erano momenti – quasi esclusivamente quando erano soli o al massimo in presenza di Bianca – in cui si lasciava andare a quel genere di esternazioni.

Di tutti i figli che aveva partorito, quello per la Leonessa era di certo il più particolare. Le balie dicevano a volte di far fatica a capirlo, di trovare i suoi modi e le sue reazioni un po' anomale, rispetto alla stragrande maggioranza dei bambini, ma per la Contessa quel tratto un po' strano era invece una manna. Con quel figlio, per quanto fosse ancora molto piccolo, riusciva a capirsi in un tocco, in uno sguardo, quasi avessero già lo stesso identico modo di pensare.

Così, un po' a malincuore, andò a cercare Bianca, che stava aspettando fuori dalla stanza dei giochi da un bel po'. Non era stata lei a chiederglielo, ma la ragazza pareva non aver di meglio da fare, quel giorno, se non seguirla come un'ombra, anche se a distanza, un po' come se avesse paura di vederla cadere e doverla aiutare a rialzarsi.

Le affidò Giovannino e le spiegò che Tommaso l'aspettava nella sala delle letture: “Non so quanto ci metterò.”

“Ricordatevi che Tommaso ha sempre voluto bene a tutti noi.” sussurrò Bianca, prendendo il fratello in braccio e poi guardando altrove.

Caterina non commentò. Diede un buffetto al figlio e poi annuì in silenzio, andando verso la sala delle letture, chiedendosi cosa mai potesse volere di preciso sui cognato.

 

Tommaso attendeva seduto su una delle poltrone imbottite. Si passava nervosamente una mano sulla coscia e continuava a guardare verso la porta.

Suo zio Cesare gli aveva assicurato che la Contessa sarebbe arrivata in pochi minuti, ma a lui parevano ore. Era da molto tempo che non la vedeva e non sapeva che effetto gli avrebbe fatto.

Quando gli era arrivata la lettera di suo zio, all'inizio aveva pensato di scriverle un messaggio di condoglianze, ma poi aveva preferito andare di persona. Non aveva idea di quanto quel faentino contasse davvero per lei e nemmeno lo voleva sapere. Però si era detto che forse, in un momento di debolezza...

Si grattò il mento – rasato di fresco in occasione di quella visita – e poi si prese la testa tra le mani, dandosi dello stupido. Era quasi tentato di andarsene, prima che la Tigre lo vedesse, prima che avesse modo di vederlo ingrigito, incupito dal suo tono depresso e irrimediabilmente invecchiato.

Si disse che era stato un errore, presentarsi così all'improvviso e in un momento tanto concitato.

Però, appena si risolse a levare le tende, arrivò Caterina che, vedendolo con ancora la testa tra le mani, non seppe come salutarlo.

Tommaso sollevò lentamente lo sguardo, alzandosi dalla poltrona e mordendosi il labbro. Aveva ormai circa quarant'anni, ma alla Sforza pareva rimasto il bell'uomo che era sempre stato. Il suo volto era segnato dai dolori e dal tempo e i suoi capelli erano molto più grigi di quanto ricordasse, tanto da avere ogni tanto delle ciocche bianche.

“Come mai siete qui?” chiese la donna, restando dov'era, incapace di fare quel mezzo passo per avvicinarsi a lui e riempire il vuoto che negli anni avevano alimentato entrambi.

“Mi hanno detto di... Di messer Manfredi.” balbettò il Feo, abbassando gli occhi scuri e deglutendo rumorosamente.

Ora che se la trovava davanti dopo tanto tempo, Tommaso ebbe la conferma che ciò che per anni gli aveva rovinato la vita non era cambiato. Anche se adesso la Tigre era più vecchia, anche se i suoi capelli erano bianchi e il suo viso aveva perso la freschezza dei vent'anni, l'attrazione ingovernabile che provava per lei era immutata. Bastava un cenno del suo capo, un incrinarsi lieve delle sue labbra o un breve incontro con le sue iridi verdi per farlo tornare indietro di dieci anni.

“Non era vostro parente, né vostro amico. Non capisco perché mai...” iniziò a dire Caterina, già pensando che volerlo incontrare fosse stato un grosso errore.

“Per voi.” confessò l'uomo, con un sorriso un po' amaro: “Non so quanto quest'uomo fosse importante per voi, ma già il fatto che abbiate voluto il suo corpo per seppellirlo, me lo lascia intuire. Credevo avreste sentito il bisogno di avere vicino un amico.”

“Il funerale sarà domani, se vorrete restare per le esequie, mi farà piacere.” sussurrò lei, non riuscendo a dire altro.

Tommaso annuì, le mani strette l'una nell'altra. Avrebbe voluto stringerla a sé, farle domande sulla sua vita, chiederle come stesse davvero. Quello che la Contessa gli stava mostrando, a suo avviso, era solo un travestimento. Era troppo calma, troppo diafana per poter essere davvero lei.

Ricordava benissimo gli eccessi di rabbia che aveva avuto alla morte di Giacomo, sapeva quanto fosse stata disperata alla morte del Medici. Se davvero questo Manfredi contava qualcosa per lei, come faceva a mantenersi tanto tranquilla, con quel tono più adatto a una qualunque padrona di casa che incontra un vecchio conoscente, che non a una donna che ha appena perso l'ennesimo uomo importante della sua vita?

“Va bene, ci sarò.” promise Tommaso.

“Vi farò avere una stanza.” riprese la Leonessa, con il fare pratico a cui suo cognato era stato avvezzo, negli anni passati al suo servizio: “Potrete mangiare qui e...”

“No, non è il caso. Prenderò una stanza in paese.” rifiutò all'istante il Feo, pensando che restare sotto lo stesso tetto, anche se in stanze differenti, per lui sarebbe stata solo una sofferenza inutile.

“Come volete.” cedette la donna, non volendo sollevare questioni: “Ma prima di trovarvi un alloggio, vi prego... Passate un momento nella sala delle armi. Bernardino dovrebbe essere lì. Ho chiesto al maestro d'armi di tenerlo occupato, dato che non voglio che esca dalla rocca.”

“Io non so se...” provò Tommaso, titubante.

“Vi prego. Suo padre gli manca terribilmente.” sussurrò Caterina, riuscendo a stento a tradurre in parole ciò che le si agitava nell'anima: “Così come manca a me. Siete il fratello di Giacomo, in fondo. A Bernardino farà piacere, la vostra presenza. Vedervi non potrà che fargli bene.”

Il Feo, un po' rincuorato da quelle ultime parole, avanzò di mezzo metro e allungò un po' una mano verso la Leonessa, ma questa, ben prima che lui potesse avvedersene, si ritrasse in modo evidente e, con un sorriso mesto, lasciò la sala delle letture senza più dire nulla.

Con il cuore pesante e un senso di amaro in bocca, Tommaso decise di fare come gli era stato suggerito e, ripercorrendo un tragitto che un tempo gli era stato familiare, andò fino alla sala della armi.

Vide il bambino e lo trovò molto cresciuto. Fece due calcoli e si rese conto che era a pochi mesi dal compiere nove anni. In un battito di ciglia, sarebbe stato un ragazzino, un adolescente e poi un adulto.

Era bellissimo, più bello ancora di quanto fosse stato Giacomo alla sua età. Aveva un viso perfetto, e il suo fisico prometteva di fare di lui un uomo eccezionale. Nel vederlo, non si poteva che restarne rapiti.

Il maestro d'armi gli stava spiegando qualcosa, mostrandogli una balestra, e il piccolo ascoltava rapito, anche se, di quando in quando, si accigliava, come se facesse fatica a seguire il discorso.

Proprio mentre si faceva perplesso per qualcosa detta dal suo insegnante, Bernardino intravide lo zio, che se ne stava immobile sulla porta.

Lo riconobbe subito, malgrado fosse passato del tempo e Tommaso fosse cambiato non poco. Però, anche se il suo primo istinto era stato quello di corrergli incontro, qualcosa lo indusse a restare dov'era e riabbassare lo sguardo verso la balestra.

Il Feo ebbe la tentazione di dire qualcosa, magari di dichiarare la sua identità, nel caso in cui in realtà il nipote non l'avesse riconosciuto.

E invece, mentre faceva una domanda banale e probabilmente inutile al suo insegnante, il bambino lanciò un'altra occhiata allo zio. Era un tipo di sguardo che Tommaso conosceva alla perfezione. Era come guardare negli occhi Caterina. C'era la stessa identica distanza, la stessa diffidenza, quasi lo stesso immotivato rancore.

Passandosi una mano sulle labbra, il cuore che batteva rapido, l'uomo se ne andò all'istante, ripercorrendo quasi di corsa il porticato e da lì uscì dalla rocca e camminò veloce come il vento per le strade di Forlì.

'Sono già uguali' si disse, la gola secca e le gambe che non trovavano requie, portandolo a vagare senza metà tra vie che aveva quasi scordato: 'Sono già uguali'.

 
 
   
 
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