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Autore: Adeia Di Elferas    08/01/2019    1 recensioni
Caterina Sforza, nota come la Leonessa di Romagna, venne alla luce a Milano, nel 1463. Si distinse fin da bambina per la sua propensione al comando e alle armi, dando prova di grande prontezza di spirito e di indomito coraggio.
Bella, istruita, intelligente, abile politica e fiera guerriera, Caterina passò alla storia non solo come grande donna, ma anche come madre di Giovanni dalle Bande Nere.
La sua vita fu così mirabolante e piena di azione che ella stessa - a quanto pare - sul letto di morte confessò ad un frate: "Se io potessi scrivere tutto, farei stupire il mondo..."
[STORIA NON ANCORA REVISIONATA]
Genere: Drammatico, Generale, Guerra | Stato: in corso
Tipo di coppia: Nessuna
Note: nessuna | Avvertimenti: Contenuti forti, Tematiche delicate, Violenza | Contesto: Rinascimento
Capitoli:
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La notte, per Caterina, era stato un tormento unico. Non era riuscita a prendere sonno, se non per una manciata di minuti, e non c'era stato nulla in grado di alleviare il suo senso di irrequietudine.

Aveva provato a leggere, si era fatta portare del vino, aveva tentato di attendere alla corrispondenza e poi si era anche messa a ragionare sulla guerra tra Firenze e Venezia che, pareva, fosse stata definitivamente portata a una conclusione dal lodo della pace siglato da Ercole Este.

Era stato tutto inutile, perché alla fin fine la sua mente la riportava sempre e solo a una cosa: voleva vederlo. Voleva vedere il cadavere di Manfredi. Quello era l'unico modo in cui avrebbe potuto accettare la sua morte.

Le sembrava ancora troppo astratto, come avvenimento, troppo irreale. Per quanto non fosse uno spettacolo piacevole, voleva vedere il suo corpo. In quel modo, si disse, avrebbe finalmente sbloccato la sua mente, anche a costo di vedersi trascinare via dalla rabbia o dal dolore.

Quel giorno l'avrebbero tumulato in San Girolamo e una messo nella sua tomba, non avrebbe mai più potuto vederlo. Aveva scelto quella chiesa perché lui stesso, tempo addietro, le aveva detto che la trovava molto pacifica e accogliente.

Lì c'era già il sepolcro di Barbara Manfredi, la zia di Ottaviano, e quindi sarebbe stato visto come accettabile anche dai faentini.

In più alla Tigre dava un senso di conforto, pensare che Manfredi avrebbe riposato per sempre assieme a Giacomo, sotto un unico tetto, cullato dai medesimi canti e dalle stesse orazioni.

Se Girolamo aveva preferito farlo seppellire a Imola, per non averlo vicino, Giacomo, al contrario, aveva voluto averlo vicino. Avrebbe preferito avere a Forlì anche Giovanni, ma suo cognato gliel'aveva impedito. Almeno di Manfredi, invece, avrebbe fatto quel che voleva.

Così, appena prima che sorgesse il sole, si vestì in fretta e andò a bussare alla porta della stanza da notte del castellano. Cesare Feo le aprì subito, in abiti da camera e con gli occhi assonnati.

“Voglio che portino il corpo di Manfredi qui, stamattina, prima di andare a San Girolamo per il funerale.” disse la Sforza, in un soffio: “Il corteo funebre poi partirà da qui.”

L'uomo si stropicciò la faccia un paio di volte e poi, annuendo, accettò con stoicismo il fatto che quella lunga giornata fosse già cominciata anche per lui, malgrado il sole dovesse ancora sorgere, e la rassicurò: “Farò partire subito l'ordine, mia signora.”

“E per quella questione delle Messe...” sussurrò poi la donna, passandosi la lingua sulle labbra, ancora un po' indecisa: “Ho deciso che vanno fatte, quindi datene ordine.”

Il castellano si schiarì la voce e, dopo averla scrutata un istante nella penombra, non ebbe il cuore di ricordarle, come avevano fatto la sera prima sia lui, sia Ridolfi, sia Numai, che una spesa del genere avrebbe inciso in modo negativo sul bilancio già precario dello Stato e che la popolazione avrebbe potuto vedere quella decisione come uno spreco di denaro pubblico. Cento Messe erano uno sproposito, specie per qualcuno che sulla carta non era nulla per la Contessa. Era il promesso sposo di Bianca, quello era vero, ma il loro matrimonio era vincolato alla morte di Astorre Manfredi, e Astorre Manfredi era ancora vivo e vegeto. Solo per Giacomo Feo la Tigre aveva speso così tanto, tra funerale e cerimonie collegate.

“I fondi – aggiunse la Tigre, intuendo i pensieri del Feo – li prenderete direttamente dall'appannaggio che va a mio figlio Ottaviano e chiederemo un contributo volontario ai maggiorenti dello Stato. Non toccate né i soldi per le truppe, né quelli per i poveri.”

“Come chiedete, mia signora.” chinò il capo Cesare: “Avete altro da comandare?”

La Leonessa ci pensò un istante e poi fece segno di no: “Per ora è tutto. Ah, quando arriverà il feretro, fate in modo che io non venga disturbata da nessuno.”

 

Ludovico si strinse nella vestaglia da notte, chiedendosi distrattamente come facesse a fare ancora così freddo, benché fosse già il 18 aprile. I suoi astrologi gli avevano giurato che quell'anno la primavera sarebbe arrivata presto e invece su Milano c'era ancora una fitta nebbia gelata che gli ricordava molto più un algido novembre che non la bella stagione.

“No, no, ma avete fatto bene...” disse, tacitando Calco, che stava ripetendo per l'ennesima volta di essere dispiaciuto di averlo disturbato a quell'ora.

“Mi sembrava una notizia che vi servisse subito.” fece il cancelliere, prima di tacitarsi.

Il Moro annuì in silenzio, rileggendo come l'Orfeo avesse già puntato il dito, nella sua missiva, su una serie troppo lunga di possibili colpevoli. Passava dal puntare il dito verso i Corbizzi, fino a toccare sponde più politiche citando i partigiani di Astorre di Faenza, arrivando anche a sospettare dei fiorentini.

“Chi l'ha fatto ammazzare? Se ne parla, in giro? Il messaggero sapeva qualcosa in più?” chiese il Duca, abbassando un po' la lettera e posando con pesantezza il braccio alla poltroncina.

“No, non sappiamo nulla di più...” ammise Calco: “Anche se Ermes, vostro nipote, quando ha letto, ha subito sospettato di Bologna.”

Ludovico sbuffò: “Bologna! Mio nipote fa troppi voli pindarici!”

Non aveva detto niente, sul fatto che sia il cancelliere, sia il nipote avessero letto la missiva dell'Orfeo prima di lui, perché lui stesso aveva chiesto di fare così e di vagliare per lui le notizie più importanti. L'ambasciatore, il più delle volte, si lasciava andare solo a sterili filippiche contro i figli più grandi di Caterina e lo Sforza non aveva proprio tempo per sentire le lamentele di un pettegolo.

“E mia nipote? Si sa come l'ha presa?” indagò il Moro, lasciando la sua poltroncina e avvicinandosi al camino, acceso da poco, ma già abbastanza caldo.

“Avete letto anche voi quel che scrive l'Orfeo.” commentò Calco, alzando appena le spalle.

Ludovico ricontrollò la missiva e rilesse: 'La Illustre Madona Contessa dimonstra grandissima displacentia de questo caso'.

“Ah!” esclamò, agitando la pagina davanti al naso del cancelliere: “Questa frase vuol dire tutto e niente! Io voglio sapere come l'ha presa davvero! Se ha pianto, se ha gridato, se ha già mandato ad arrestare i colpevoli..!”

“Temo che di questo non si sappia ancora nulla, mio signore...” dovette ammettere l'altro.

Il Duca fece tremolare il doppio mento, scuotendo il capo e poi decretò: “Stamattina incontrerò il suo Segretario, Baldraccani. Di già che me l'ha spedito qui, vedrò di farne uso. Gli spiegherò che Milano non c'entra assolutamente nulla con la morte di quel faentino, prima che quella pazza di mia nipote lo pensi... E gli metterò ben in chiaro che noi non abbiamo né gli uomini, né i soldi né il tempo per aiutarla, in caso volesse vendetta e si trovasse in ambasce, come le è successo alla morte del suo primo marito.”

Calco non ebbe nulla da ridire, in merito. Anche se avrebbe preferito che il suo signore imparasse a fare quadrato coi suoi parenti, ricordava benissimo anche lui come la Tigre di Forlì avesse accettato il loro aiuto, nel 1488, sfruttando il loro esercito e la loro protezione per poi non ripagare mai il suo debito.

“Dobbiamo tenere le distanze, ecco cosa dobbiamo fare...” borbottò Ludovico, le mani dalle dita grosse e tozze che si allungavano verso le fiamme, per scaldarle: “E scrivete subito anche a Giovanni da Casale. Che non gli venga in mente di correre da lei per consolarla. Se verrò a sapere che ha lasciato il suo posto, giuro sulla memoria di mia moglie che lo faccio sbranare dai cani!”

 

In un silenzio irreale, mentre il sole si affacciava timidamente all'orizzonte, i Battuti Neri avevano portato il feretro di Ottaviano Manfredi alla rocca.

Erano passati sotto alla statua del Barone Feo, e da lì sul ponte, nel primo cortile e da lì il castellano aveva fatto sistemare il corpo in uno dei baraccamenti dei soldati, debitamente svuotato, per permettere alla Contessa di stare tranquilla, come aveva chiesto.

Cesare Feo, una volta sistemato tutto, era andata a cercarla, trovandola, come immaginava, nella stanza del figlio più piccolo. Giovannino stava dormendo, e la Tigre lo osservava, in piedi, le braccia incrociate sul petto e un'espressione indecifrabile in volto.

Quando vide il castellano lo ringraziò con un cenno del capo, capendo che l'improvvisata camera ardente doveva essere pronta e gli sussurrò, appena prima di lasciare la camera: “Fate tornare qui una delle balie. Lui si spaventa troppo, se quando si sveglia non c'è nessuno...”

Con passo lento, la donna arrivò alle scale, le scese e poi si diresse verso la stanza dei baraccamenti in cui l'attendeva la bara. Capì subito quale degli alloggi fosse stato scelto, perché appena fuori dalla porta due Battuti Neri attendevano, le mani giunte e il capo coperto dal cappuccio.

“Ci sono dei vostri confratelli, dentro?” chiese la Leonessa, rivolgendosi a entrambi.

Quello più alto annuì: “Ma se preferite, vi lasceranno sola. Ho già spiegato la situazione.”

La Contessa riconobbe il Battuto come lo stesso che, molti anni prima, aveva accolto il corpo del suo primo marito e l'aveva accompagnata a vederlo. Le sembrava una strana ironia, da parte della sorte, ma da un lato era come vedere un volto familiare e ciò le diede un vago senso di calore.

“Voglio che lo scoperchiate.” sussurrò, parlando in modo automatico, ripetendo parole che aveva quasi imparato a memoria mentre li aspettava: “Devo vederlo.”

“Mia signora...” fece il Battuto Nero, che pure si era atteso qualcosa del genere, da lei: “Vi assicuro, è meglio di no... Sono passati cinque giorni e...”

“Credete che mi possa impressionare, davanti a un cadavere vecchio di cinque giorni?” domandò Caterina, senza rabbia, ma con decisione.

Il religioso sospirò e rispose: “No, mia signora, ma so che costui non è uno sconosciuto, per voi, e vi posso giurare che fareste meglio a ricordarvelo com'era.”

“Scoperchiatelo.” ribadì la Tigre e così al Battuto non restò che entrare per dare l'ordine e aiutare i confratelli.

Mentre aspettava che l'ordine impartito venisse messo in atto, la Sforza si rivolse al religioso rimasto fuori con lei e gli chiese se sapesse dirle in modo più preciso che ferite avesse riportato Manfredi e, secondo loro, che avevano potuto ispezionare il corpo, come fosse morto.

“Ha una brutta ferita al capo – rispose quello, ripensando a ciò che aveva visto e avvertendo un vago senso di nausea – e tagli minori al collo e al viso. Molte ferite superficiali alle braccia, e altre decisamente più profonde alle gambe. E un colpo molto fondo anche all'inguine. Pensiamo che i colpi fatali siano almeno tredici, ma di fatto è morto dissanguato.”

La Leonessa annuì e lo ringraziò per la franchezza, mentre cercava di farsi un'immagine astratta di quanto appena sentito, ma riuscendoci solo in parte.

“Lasciatemi sola.” disse, quando le annunciarono che la bara era stata aperta: “E allontanatevi dalla porta. Non lasciate entrare nessuno.”

Finalmente sola, varcata la porta del baraccamento, la donna si sentì investita da un odore che aveva imparato a riconoscere bene in guerra e in tempo di epidemie. Era un tanfo dolciastro e pesante, ammorbidito solo in parte dall'odore pieno dei balsami che dovevano essere stati usati per ricomporre Manfredi.

C'erano un paio di grosse candele che, assieme alla lanterna a muro, illuminavano la stanza in modo non uniforme, creando ombre e guizzi di luce di ogni forma.

Il feretro era sistemato in mezzo alla sala, su un paio di piedistalli di legno. Già da lì Caterina intravedeva la sagoma del suo amante. Gli si avvicinò veloce, quasi volesse togliersi in fretta quell'impegno, come se non si rendesse conto di quello che stava per fare.

Arrivata proprio accanto alla bara, guardò dentro e per qualche minuto non riuscì a pensare a nulla.

Nella carne livida, nei segni della morte ritardati dagli unguenti e dalle erbe, nei vestiti, troppo grossi per lui, probabilmente prestati da qualcuno dei monaci che l'avevano accolto per primi, e in tutto il resto, la Contessa vedeva solo un cadavere senza vita.

Poi si sforzò di osservare meglio i lineamenti sfatti, irriconoscibili, le mani, coperte da un telo, probabilmente per nascondere qualche ferita, e il fisico per intero, ma anche in quel caso non riusciva a provare nulla per quei resti.

Poi, però, un dettaglio la fece crollare: i capelli biondi di Manfredi, chiazzati di sangue in più punti, benché fossero visibilmente stati lavati. Di tutta la sua figura, erano l'unica cosa che fosse realmente riconoscibile.

Le gambe le cedettero, improvvisamente tutto lo stordimento di quei giorni si era tramutato in consapevolezza. Non era più una notizia rimbalzata da un testimone all'altro, da una stafferra a un messaggero. Ottaviano Manfredi era lì, morto, davanti a lei, così vicino che, se avesse voluto, avrebbe potuto toccarlo.

Caduta in ginocchio, scoppiò a piangere tanto forte da sentire il petto dolere per lo squasso a cui lo stava sottoponendo. Batté un paio di volte il pugno in terra, senza sentire neppure il male causato dall'impatto con il pavimento. Si accasciò, prostrandosi tanto da sfiorare uno dei piedistalli di legno con la testa.

Si sentiva in pericolo, si sentiva sola e, soprattutto, si sentiva in colpa. Ormai dai suoi occhi non sgorgavano più lacrime, quasi avesse prosciugato la riserva a lei consentita, la gola le bruciava ogni volta che respirava e non c'era punto del suo corpo che non le facesse male.

Era come se il cordoglio che avrebbe dovuto suddividere nei giorni appena trascorsi, si stesse liberando in lei tutto insieme, arrivando quasi ad annientarla.

Restò sconvolta, quando sentì delle mani posarsi sulle sue spalle e qualcuno accucciarsi accanto a lei. Spalancò gli occhi, spaventata, e si rese conto con un secondo di scarto che quella che le si era messa affianco era sua figlia.

Aveva dato ordine che nessuno la disturbasse, ma in quel momento non le importava. Si aggrappò a Bianca con tanta forza da rischiare perfino di farle del male. Anche la Riario piangeva, seppur più sommessamente.

“Io lo sapevo...” disse la Tigre, la voce spezzata, disarmonica: “Me lo sentivo..! Io non dovevo lasciarlo partire! Non dovevo! Lo sentivo, lo sentivo..!”

“Non è colpa vostra...” provò a placarla la figlia, il naso gonfio che dava alle sue parole un suono sordo: “Non dovete nemmeno pensarlo...”

“E invece è così...” si ostinò Caterina, restando stretta alla Riario, come se quell'abbraccio fosse l'unico appiglio che le impedisse di cadere in un dirupo di cui non si vedeva il fondo: “Anche lui è morto per colpa mia... Come il mio Giacomo...”

Nel sentir nominare il Feo, Bianca non osò più profferire parola, restando alla mercé delle braccia della madre, che la tenevano saldamente come mai avevano fatto da che era nata.

Piansero assieme, a lungo, per lo stesso uomo. Sotto molti punti di vista, per la Riario quello fu un momento di rara intensità e dai significati più disparati. Ognuna di loro, in modo diverso e con diritti diversi, aveva amato il giovane che giaceva sfatto al loro fianco. Entrambe avevano sperato di vederlo tornare presto, entrambe avevano sentito un vuoto nel petto, quando avevano saputo che era stato ucciso e ora, entrambe, unite come non mai, lo piangevano.

“Adesso vattene, ti prego...” sussurrò Caterina, la voce roca, quando ormai il pianto cominciava a placarsi e si rendeva conto che sia lei sia sia figlia si stavano disperando perché innamorate dello stesso uomo.

Bianca non fece storie, non pose domande e non provò a rimanere. Si sciolse dall'abbraccio ben prima che la Tigre allentasse la sua presa e, con un sospiro tremulo, si baciò la punta delle dita, per poi sfiorare con le stesse la fronte di Manfredi.

Il contatto con la pelle fredda e un po' gonfia la fece rabbrividire. E il brivido continuò a percorrerla mentre, uscendo, si rendeva conto che, eccezion fatta per la sera della festa di Pasqua, durante la quale avevano ballato assieme, quello era stato forse uno degli unici momenti in cui era riuscito a toccarlo.

La Contessa aveva seguito con lo sguardo i movimenti della figlia, ma non aveva la testa abbastanza libera da mettersi a pensare al loro significato. Le era bastato capire quanto anche Bianca fosse disperata, per sentirsi persa. Involontariamente, reclamando Manfredi per sé, l'aveva fatta soffrire. Se gliel'avesse data davvero in sposa...

Era inutile pensarci, ormai.

Rimettendosi in piedi a fatica, la donna cercò di sistemarsi un po' l'abito, si ravviò i capelli e si pulì il naso e il viso con la manica. Schiarendosi la voce, si rimise a guardare il corpo del suo amante, questa volta riuscendo a non cadere di nuovo in pezzi.

Lo osservò a lungo, nel tentativo di rimandare a memoria ogni dettaglio, come a suo tempo aveva fatto con Giacomo.

Le avevano raccontato che era stato trascinato giù dal suo cavallo. Come avevano fatto con Giacomo.

L'avevano colpito in gruppo, approfittando del fatto che fosse disarmato. Come avevano fatto con Giacomo.

E poi l'avevano lasciato in terra, immerso nel suo stesso sangue. Come avevano fatto con Giacomo.

“Perdonami – sussurrò, esattamente come aveva fatto davanti al corpo spezzato di Giacomo, quasi quattro anni addietro – io dovevo proteggerti, e non ci sono riuscita.”

Un po' come aveva fatto sua figlia poco prima, anche la Leonessa si baciò la punta delle dita e poi allungò la mano verso la fronte del faentino. Ma, a differenza di Bianca, non riuscì a toccarlo.

Ritraendo la mano, si chiese quanti uomini che aveva amato avesse già perso, per quanti si fosse sentita così in colpa e senza che se ne avvedesse, come un fiume in piena, l'ira cominciò a prendere il posto del dolore.

Era una furia ordinata e lucida, dissimile dalla smania di vendetta e sangue che l'aveva travolta alla morte di Giacomo, ma non per questo meno distruttiva.

Lanciò un ultimo sguardo a Manfredi, dicendogli addio con un cenno del capo, e poi lasciò i baraccamenti, gli occhi di nuovo asciutti, le spalle dritte.

“Potete richiuderlo e quando sarete pronti, fatelo sapere al castellano, affinché prepari il corteo di accompagnamento.” disse, sbrigativa, a uno dei Battuti Neri che attendeva fuori.

Sapeva che Numai e l'Oliva a quell'ora dovevano già essere a Ravaldino. Li aveva pregati, il giorno prima, di presentarsi molto presto, perché voleva che aiutassero Cesare Feo a destreggiarsi con gli ospiti che sarebbero arrivati per presenziare alle esequie.

Fu fortunata, li trovò al primo piano, in corridoio, che discutevano tra loro, osservando degli incartamenti. Appena fu più vicina, capì dalle loro parole che si stavano confrontando circa la spesa necessaria per le cento Messe che aveva ordinato per il giorno seguente.

“Numai...” disse, additando il Consigliere, che si tacque all'istante, vedendola: “Voglio che facciate tornare Andrea Pazzi in città, devo ridiscutere la nostra posizione nei confronti di Firenze.”

L'uomo chinò il capo e non ebbe bisogno di chiedere se dovesse andare a scrivere la missiva all'istante o dopo il funerale: gli occhi della sua signora imponevano la massima celerità, malgrado la solennità di quel giorno.

“Oliva...” fece poi, rimasta sola con il notaio: “Le vostre spie hanno trovato i colpevoli?”

L'uomo si passò pensoso una mano sul ventre un po' tondeggiante, cercando di ricordare al meglio gli ultimi resoconti e riportò: “Circa la metà, mia signora. Abbiamo quindici nomi. Tra cui i due organizzatori, parrebbe.”

La donna deglutì un paio di volte. Avrebbe tanto voluto farseli consegnare tutti e quindici, ma poi preferì agire in modo ragionato.

“Fatene arrestare dodici da Firenze. In fin dei conti, Manfredi era al soldo loro, non potranno opporsi, a costo di farsi scoprire come traditori.” disse, parlando a voce bassa, ma avendo cura di farsi capire bene: “Fatene arrestare uno da Faenza. Voglio vedere anche la loro reazione.”

“E gli altri due?” chiese l'Oliva, facendo i conti.

“I due organizzatori di questa congiura li voglio io. Fatemeli portare qui.” rispose la Sforza, sentendo di nuovo gli occhi pizzicare, come se fosse sull'orlo di un nuovo accesso di pianto.

“Li avrete il prima possibile, mia signora.” assicurò il notaio, distogliendo lo sguardo, quasi volesse lasciarle il tempo di ricacciare indietro le lacrime.

“Ah, dopo... Dopo questa storia...” fece alla fine lei, appena prima di lasciarlo: “Avrò bisogno dei vostri servigi come notaio. Devo... Devo sistemare una faccenda importante riguardo me e i miei figli.”

“Per la bolla del papa..?” provò a mettere le mani avanti l'Oliva, tanto per avere una vaga idea del consulto legale che gli sarebbe stato chiesto.

“Sì.” confermò la donna: “Ma prima devo chiudere questa faccenda.”

L'uomo fece un breve inchino e poi la guardò mentre gli sfilava davanti, diretta alle sue stanze per cambiarsi d'abito in vista dell'imminente funerale.

 

“Quelle...” indicò Francesco Fortunati, indicando al mercante le mandorle fresche più belle tra quelle esposte: “Un paniere intero.”

“Come volete, signore...” fece il commerciante, ben felice di fare una simile vendita già di primissima mattina.

Il piovano di Cascina si scaldò le mani sfregandosele l'una nell'altra. C'era il sole, quel giorno, ma in tutta Firenze c'era un freddo notevole. Dall'Arno sembrava quasi arrivare una sorta di foschia e gli pareva strano pensare che a breve sarebbe arrivata la primavera.

Non sapeva di preciso quando avrebbero fatto il funerale a Ottaviano Manfredi. Aveva sentito dire che quasi per certo l'avrebbero sepolto a Forlì e lui si era sentito subito mancare, nel pensare a cosa stesse attraversando la mente della Tigre, in quei giorni.

Si chiedeva se lo vedesse ormai come un traditore, se avesse letto il suo silenzio – dopo la lettera d'accompagnamento lasciata ai quattro che erano tornati da lei con la luttuosa notizia della morte di Manfredi – come un'ammissione di una qualche colpa o se, invece, presa com'era dal dolore, si fosse dimenticata di lui.

“Va bene così, grazie...” disse Fortunati, prendendo il paniere e pagando.

Andò a marce forzate verso l'alloggio che gli era stato trovato da Lorenzo il Popolano. Malgrado gli screzi in cui stavano incappando per via della Sforza, il Medici dimostrava ancora verso di lui una certa benevolenza.

Francesco impacchettò il paniere come meglio poté e scrisse un biglietto d'accompagnamento molto scarno, su cui, fondamentalmente, aveva lasciato solo la data di quel giorno e il suo nome.

Aveva poi cercato una staffetta veloce, che portasse il dono a Forlì, e il vero problema non era stato mercanteggiare sul prezzo o sulla rapidità della consegna, ma proprio sull'andare a Forlì dalla Contessa.

Aveva dovuto chiedere ad almeno quindici uomini, prima di trovarne uno che accettasse. A Firenze, si era reso conto in fretta, quasi più che in Romagna, citare Caterina era come citare il demonio.

Una volta trovato il corriere, nella speranza che si dimostrasse affidabile, il piovano si diresse verso San Lorenzo. Era atteso a Palazzo Medici solo nel pomeriggio, per sentire cosa avessero da dirgli i legali del Popolano, ma fino a quell'ora non aveva altri impegni.

Entrato in chiesa, si andò subito a inginocchiare davanti all'altare maggiore. Giunse la mani e cercò di pregare per l'anima di Ottaviano Manfredi. Ogni notte, dalla mattina in cui era stato ucciso, sognava il momento in cui l'aveva visto spirare e si risvegliava all'istante, madido di sudore e senza fiato.

Temeva che quell'incubo l'avrebbe perseguitato fino al suo ultimo respiro. Poteva solo affidarsi alla bontà del Signore, e sperare che l'anima inquieta del faentino trovasse pace e smettesse di tormentarlo nei sogni.

Dopo poco che era chino in preghiera, però, si rese conto di aver la mente piena di tutt'altro. Si vedeva davanti la Tigre, pensava al Popolano, ricordava il mezzo battibecco avuto il pomeriggio prima con un membro della Signoria, che l'aveva voluto vedere per discutere della morte di Manfredi.

Capendo che di quel passo non avrebbe potuto ripetere nemmeno un pater noster, Fortunati si fece il segno della croce e lasciò San Lorenzo quasi di corsa. Se voleva fare davvero qualcosa per la Contessa e per l'anima di Ottaviano, allora avrebbe fatto meglio a ristudiarsi le carte del contenzioso legale sull'eredità di Giovanni Medici e, parallelamente, cercare di carpire in giro notizie, per scoprire se e quanto Firenze potesse centrare con la congiura in cui era caduto vittima il faentino.

Se fosse riuscito a portare a termine almeno una delle due missioni, si disse, forse avrebbe riguadagnato il favore della Leonessa, e, per quanto non volesse crederci nemmeno lui, quella era l'unica cosa che ormai gli importasse.

 
 
   
 
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