Anime & Manga > One Piece/All'arrembaggio!
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Autore: ___Page    09/01/2019    4 recensioni
«Allora, cosa mi raccontate?!» tiene un braccio sulle mie spalle mentre ci avviciniamo al tavolo. «Il lavoro? Il trasloco?».
«Abbiamo una piccola divergenza di opinioni sul citofono» racconta Ace con un sorrisone.
«Al lavoro tutto bene. Un po’ presi da un nuovo progetto. I Cloth Tattoo vanno alla grande».
«E al Castello?»
Law ghigna, come sempre orgoglioso del suo ospedale pediatrico.
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Ora al posto dello sterrato c’è una gittata di asfalto, per agevolare il transito di macchine e della linea di autobus che il comune di Raftel ha attivato apposta per collegare l’ospedale al centro città, ma, come quasi mai accade, non è una brutta visione. Questa strada è il preludio di qualcosa di così bello da rendere i miei ricordi su questa collina ancora più preziosi.
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«Oh santo…»
«Non t’azzardare» lo ammonisce la voce da dentro la maschera. «Pesa quanto me e caccia un caldo allucinante»
«E dire che sembra così confortevole» commenta bastardo Law.
«Grazie al cielo il resto del costume non mi va. Ma non si poteva dire ai bambini che il Dugongo Kung Fu si è slogato una caviglia. No. Perché avrebbero perso fiducia nelle arti marziali. Capisci, Law?! S’è slogato il cervello, altro che la caviglia!»
Genere: Commedia, Introspettivo, Sentimentale | Stato: completa
Tipo di coppia: Het, Shonen-ai | Personaggi: Altro Personaggio, Izou, Koala, Sabo, Sanji | Coppie: Nami/Zoro
Note: AU, OOC | Avvertimenti: nessuno
Capitoli:
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Io non sono un misantropo.
So che posso sembrarlo, soprattutto a chi mi conosce poco, ma non lo sono.
Non sono intollerante verso chiunque, disprezzo solo chi lo merita e nonostante tutto riesco a trovare ancora, dentro di me, una pallida scintilla di fiducia verso il genere umano.    
Quindi no, non sono un misantropo. Non è la gente che odio.
Per esempio, l’ammasso protocellulare che sta mettendo radici sul nostro divano, con addosso ritagli di cotone e acetato, che un tempo sono stati vestiti con una forma, una taglia e, soprattutto, una dignità, e si nutre solo di fibre e un discutibile mix di carboidrati, grassi e ananas, per qualche incomprensibile motivo, lo amo più della mia stessa vita.
E non glielo dirò mai, perché sono un sociopatico anaffettivo ma anche e soprattutto perché, tra fratelli, certe cose non si dicono, si dimostrano.
Tollerare la sua visione in suddetto stato, permettergli di vivere in salotto, lasciargli monopolizzare la tivù mi sembrano tutti segnali molto espliciti che sottolineano il mio affetto per lui. Perché, appunto, non è la gente che odio.
Quello che odio è ciò che il genere umano, con tutti i magnifici strumenti naturali e non che ha a disposizione, si abbassa a creare per poi propinare tali creazioni a menti prive di colpe, che vorrebbero solo vivere ignorando cosa sia Grey’s Anatomy.
Come la mia, tanto per dirne una.
Già solo il gioco di parole del titolo mi provoca istinti sadici. I personaggi farebbero salire il nazismo pure a Ghandi. Quando si passa alla trama, la distruzione di massa dell’intero genere umano sembra essere la sola strada percorribile.
In due parole, sono le complessate storie di un gruppo di chirurghi di un ospedale che attira disgrazie come la merda le mosche. Per un qualche calcolo statistico assolutamente distorto, due casi su cinque che suddetti chirurghi devono smazzarsi hanno quel grado di rarità per cui, nella vita vera, un chirurgo normale se ne vede uno in tutta la carriera può considerarsi beatificato. E suddetti casi rari e ai confini della realtà vengono gestiti da suddetti chirurghi tra reiterati coiti e pene d’amore, che portano a cambi di coppie così frequenti che nemmeno le alleanze a Risiko.
In tutto questo, la protagonista è più depressa di me in piena adolescenza e quindi mi viene spontaneo domandarmi perché mai mio fratello, quello con cui ho un rapporto come se fossimo gemelli, il mio compagno di tante stronzate, l’avvocato che vuole diventare giudice e non si fa frenare da niente, il ragazzo intelligente con cui stavo su a parlare di qualsiasi cosa fino alle tre del mattino quando vivevamo ancora a Goa, abbia pensato che questo potesse essere un buon passatempo per tirarsi su.
E la risposta è una sola. Non vuole affatto tirarsi su e la sua è stata una oculata e masochista scelta per crogiolarsi meglio nella depressione e in un per niente commisurato senso di colpa. Conclusione rafforzata dalla presenza di un personaggio che, a suo dire, ricorda tanto Ishley. 
Con un sospiro, mi stacco dallo stipite e mi trascino verso il divano. Mi lascio cadere nel posto vicino al bracciolo di destra, anche perché gli altri due cuscini sono occupati da Sabo, mezzo sdraiato e con il gomito puntellato per tenere su il busto. Non mi guarda quando mi siedo, continua a fissare lo schermo e io mi prendo un momento per studiarlo, i capelli arruffati, il velo di barba, le occhiaie marcate.
Per il cielo, ci si può conciare così?! Per cosa poi?!   
Torno a guardare lo schermo, su cui figure si muovono senza un senso per me, che non ho nessuna intenzione di concentrarmi sullo svolgimento dell’episodio. Per questo sussulto appena quando Sabo si decide finalmente a parlare.
«Vedi? È proprio come lei» indica la tele con il braccio libero dal sostenersi. «Dolce, bellissima, divertente ma con un pessimo radar per gli uomini. Lo sanno tutti che Karev è uno stronzo ma lei ci casca lo stesso»
Ruoto gli occhi al soffitto.
Oh per l’amore di dio, dammi la forza! Ha veramente appena detto “Lo sanno tutti che Karev è uno stronzo”? Lo ha detto davvero?! E chi è Karev?!
«Sabo, stai esagerando» lo affronto di petto, senza tanti preamboli, come sono io. Per la prima volta da stamattina, quando mi ha lanciato una fugace e furtiva occhiata a colazione per chiedermi come fosse andata la serata di beneficenza, Sabo porta lo sguardo su di me. E mi fulmina.
«Non la pensavi così l’altro ieri» accusa senza pietà e questi sono i momenti in cui ricordo perché, se mai commettessi un omicidio, vorrei lui a difendermi.
«L’altro ieri non ero in me e comunque non ho mai voluto questo» indico lo schermo a braccio teso.
«Beh ma è quello che mi merito!»
A-ah! Allora anche lui pensa che questa roba sia una tortura! C’è ancora mio fratello da qualche parte, là sotto!
Celo la mia rara nonché momentanea esplosione emotiva, mantenendo lo sguardo impassibile e fisso su di lui. «Stai esagerando» ripeto.
«Papà ci ha insegnato a prenderci le nostre responsabilità» taglia corto e si rigira verso la tivù.
«Sì, le responsabilità, non colpe infondate. E ci ha anche insegnato ad agire»
Come ho fatto io. Ho agito, ho accusato Sabo di qualcosa che non aveva e non avrebbe mai fatto. Come sto facendo ora. Mi prendo la responsabilità delle mie azioni e cerco di aiutarlo dopo averlo mortificato.
Ormai il danno l’ho fatto, sentirsi in colpa per questo non è di aiuto a nessuno dei due.
«Ho provato a chiamarla» mormora dopo un paio di minuti, gli occhi ancora puntati sulle immagini ma non segue più il telefilm. Grazie al cielo.
«Non ha risposto neanche a me» annuisco piano. «Ma non esiste solo il telefono»
«È chiaro che non vuole parlarmi»
«È chiaro che anche lei ha esagerato. Non eri tenuto a dirglielo, non l’hai mica trad…»
«E invece sì!» si tira su a sedere con un ruggito. «Non avrò tradito lei ma ho tradito la sua fiducia! Le ho mentito, Law! È stata colpa mia e non infondata!» espira e china il capo, di nuovo abbacchiato dopo la breve esplosione. Si passa una mano tra i capelli e io lo guardo, in attesa. «Una sera, tre settimane fa, ci siamo raccontati tutto. Tutte le nostre storie passate, quelle rilevanti per lo meno. Ci siamo promessi di dirci tutto senza patemi. Le ho pure confessato che sono stato innamorato di Robin per quasi un anno» ride amaro mentre rialza il capo per guardarmi. Manda giù pesante, inala tremulo un po’ d’aria e ricomincia. «A un certo punto mi ha detto di questo tipo di Dressrosa, con cui ha avuto una storia di una notte e, a quanto pare, non si sono nemmeno presentati, quindi lei non sapeva il suo nome e io mi sono agitato, mi stavo anche arrabbiando perché credevo che non me lo volesse dire perché era in qualche modo importante, che lo era stato e che lo fosse ancora» si passa due dita sugli occhi. «E quando lei mi ha chiesto di Alabasta sai cosa le ho risposto? “Sì, ho avuto una relazione, niente di serio insomma è capitato. Alla fine mi sono trasferito per lavoro, una storia non era certo il mio primo pensiero”»
Sabo solleva appena il mento e ci guardiamo fissi per dieci interminabili secondi.
«Sei un coglione»
«Sì, lo so» soffia sofferente. «Riesci a immaginare come si sarà sentita? Io ho quasi sclerato per un tizio di cui lei davvero non sa neanche il nome e che ha visto una sola volta in vita sua, cos’avrà pensato quando ha capito che era Bibi?! Che provo ancora qualcosa per lei, che non l’ho dimenticata!»
«E non è così?» domando piano, atono, impassibile. Lo provoco, di proposito e la sua reazione non mi delude.
«No! Assolutamente no!» ribatte in fretta e poi si morde la lingua, colpevole. Distoglie lo sguardo, esala dal naso. «Io voglio bene a Bibi, gliene vorrò sempre. È stata un pezzo importante della mia vita, ed è una persona a cui tengo tutt’ora. Ma se ti dicessi che quando è finita le ho augurato il meglio, ti direi una bugia. Ci ho messo due mesi a scendere a patti con la realtà che non era colpa di nessuno. E quando ci sono finalmente riuscito, ho ritrovato il coraggio per tornare a casa e lei era qui e non appena ha messo piede nella mia vita non avere più legami, non avere più Bibi, mi ha reso felice perché ero libero di avere lei, almeno provare, sperarci» china il capo sconfitto e lo scuote. «Non è mai stato per dimenticare Bibi. Mai. Qualunque dubbio avessi ancora di aver fatto la scelta sbagliata a tornare, qualunque dubbio che forse sarei dovuto rimanere e lottare ancora, anche contro l’evidenza, è svanito quando lei è arrivata con quella ridicola maschera da Dugongo a dirti che ti odiava. Quello è stato il momento in cui ho capito che io appartengo a questo posto e a questa famiglia» si asciuga gli occhi lucidi e io nego pure a me stesso, e lo negherò anche di fronte al creatore in persona se necessario, che anche i miei hanno iniziato a pizzicare. «Ma ho rovinato tutto come un coglione. L’ho persa ed è solo colpa mia»
 Manda giù pesante e la prima lacrima sfugge al suo controllo. China di nuovo il capo, preme forte agli angoli degli occhi, cerca di trattenersi ma Koala ha detto che è due giorni che si tiene dentro tutto e io lo conosco abbastanza bene da sapere che a lui, tenersi dentro le cose, non fa bene per niente.
Allungo il braccio, poso la mano sulla sua nuca e tiro. La sua fronte trova subito la mia spalla e i singhiozzi cominciano a uscire. Me ne sto zitto così, ad ascoltare mio fratello che piange e si sfoga, conscio che non posso fare niente se non stringerlo e mi odio per questo. Non so quanto è passato quando i singhiozzi diminuiscono. Premo una guancia contro la sua tempia, la mano sempre stretta sulla sua nuca.
«Tu appartieni a questa famiglia e a questo posto. Non hai rovinato tutto. Né con noi e…» prendo un profondo respiro perché se gli sto dando false speranze, non me lo perdonerò mai. Ma ho parlato tanto con Koala ieri e, tra l’idea che si è fatta lei e per come conosco io Ishley, la conclusione a cui siamo giunti è una soltanto. «…non hai rovinato le cose nemmeno con lei. Sabo» lo chiamo e mi scosto per guardarlo. Alza il viso verso di me, martoriato e sfinito e io serro la mascella. Non sopporto che stia così male. «Tu la ami»
Non è una domanda e solo un idiota potrebbe ancora dubitarne. Lui la ama.
La ama tanto.
«Da morire…» ammette e trema appena. L’altra mia mano sale al suo braccio, vittima di un’irrazionale paura che possa andare in pezzi qui davanti a me.
«Va a dirglielo» lo guardo serissimo. «Cosa stai aspettando? Non è da te questo! Mangiare solo schifezze, drogarti di telefilm, che, detto tra noi, ne potevi scegliere anche uno meno insulso» stringo di più il suo braccio. «Che fine ha fatto il ragazzo che è riuscito a far istituire a scuola il venerdì del taco, che ridicolizzava i professori alla radio dell’università, che ha preso il massimo a diritto internazionale, che mi faceva fare figure di merda per chiedere il numero a sconosciute perché una di loro poteva anche essere la donna della sua vita, che ha affrontato tutte quelle malelingue e un salto nel buio per stare con Bibi? Ti arrendi adesso che l’hai trovata davvero, Sabo? Va da lei, vai a prenderla»
Sabo mi fissa a occhi sgranati, il fiato grosso, soppesa le mie parole e la sua mano sale a stringere il mio braccio proteso verso di lui. Preme con i polpastrelli fino all’osso, cercando la forza che da due giorni gli manca per reagire.
«L’ho trovata» afferma piano, quasi che lo stesse realizzando ora. «È lei, Law» annuisco secco. «Vado… vado a prenderla» prende un bel respiro e si raddrizza con il busto. «Vado a prenderla» ripete più convinto.  
Si alza in piedi e afferra il bordo inferiore della maglietta a due mani, tirandolo con decisione, la schiena ben dritta. Fa per muovere un passo ma subito esita. «Forse prima dovrei darmi una rinfrescata» considera. «E rasarmi e… e cambiarmi. Vero?» cerca conferma alla sua riflessione e io alzo un sopracciglio.
«Fai tu»
«Okay, sì» annuisce e prende un bel respiro. «Giusto» si avvia verso il bagno ma due passi e torna indietro. «Ma a te piaceva il venerdì taco?» mi domanda a sopracciglia aggrottate e io fisso il vuoto con occhi vitrei per poi girarmi lentamente verso di lui.
«Ti sembra rilevante in questo momento?»
«No! Macchè, rilevante? Pfff figurati, è solo che… che ecco, potrei essermi diciamo un po’… un po’ vantato, ecco…» si gratta la nuca. «…con Ish di questa cosa e ora temo che sia stata una cazzata, essermene vantato intendo non il venerdì taco!» mette in chiaro alzando le mani.
«Ora come ora entrambe le cose mi sembrano una cazzata» ribatto lapidario e Sabo si irrigidisce. Sposta gli occhi al pavimento, poi alla televisione, senza realmente vederla. Sospiro, rassegnato. Rassegnato a farmi sempre scombinare da questi fusi di testa che però, porca miseria, sono tanto importanti. «Però i taco sono buoni. E a Ishley piacciono un sacco» lo informo e sembra che gli abbia rivelato l’ubicazione dello One Piece da come si illumina.
«Oh! Oh o-okay… bene!»
Lo continuo a fissare, atono e in attesa, e mi schiarisco sonoramente la gola quando non si muove, facendolo sobbalzare. «Rinfrescata e vado! Giusto!» si mette quasi sull’attenti prima di decidersi, finalmente, a schizzare in bagno.
Mi lascio andare all’indietro contro il divano, appoggio la nuca alla testata e sprofondo di più nel cuscino. Mi drenano le energie. Io l’ho sempre sostenuto. Amare è faticoso.
Ma, devo essere onesto, è una fatica che faccio volentieri.
Con un ghigno di scherno per me stesso, mi rimetto dritto con il capo e lascio vagare gli occhi sullo schermo piatto a qualche metro di distanza, collegato al pc portatile di Koala. Gli insulsi dottori continuano a parlare insulsamente dei loro insulsi problemi, mentali e medici, personali e altrui e io cerco a tentoni il telecomando per spegnere almeno lo schermo.
Dovrei alzarmi per fermare tutto, direttamente dal computer, ma dopo stanotte e stamattina ho le gambe un po’ indolenzite. E non è come se fosse un problema comunque.
Afferro il telecomando e tendo il braccio, ma all’ultimo mi trattengo. Una delle “dottoresse” più giovani sta parlando a macchinetta e mi basta guardare come gesticola per capire che è lei la tipa che ricorda Ish a mio fratello. La studio attento, curioso di scoprire quanta somiglianza effettiva c’è, il braccio ancora teso, il dito fermo sul tasto di spegnimento/accensione.
In qualche misura la ricorda anche a me, non lo posso negare, ma non riesco ad afferrare completamente e mi impunto. La parlantina veloce, il gesticolare ampio, la conoscenza vasta…
Sono così assorto – perché odio non capire, non è  affatto perché mi manca – che neanche recepisco la porta che si apre e chiude, annunciando che Koala è rientrata dalla sua passeggiata con Robin. Non me ne accorgo, finché la sua voce non mi raggiunge nonostante la mia profonda concentrazione.
«Stai guardando Grey’s Anatomy?!»
«Assolutamente no!»
 

 
§

 
Mi sfugge un gemito quando, rientrati in casa, poso gli occhi sullo stato del salotto. Sembra che un esercito di unni, guidati da Rufy affamato e in cerca di cibo, sia passato per di qua, abbia conquistato quello che doveva conquistare e poi sia tornato a fare baldoria.
È un bordello e io mi odio, mi odio davvero per essermi illusa che fosse una buona idea sistemarlo dopo Dressrosa. Non che l’altro ieri quando siamo partiti ci sia stato tempo per riordinare. Ma non mi ero resa conto e nemmeno capisco. Voglio dire, abbiamo svuotato la casa portando via tutti i vestiti della collezione di Izou, da dove arriva tutto questo caos?!
Cellophane in giro, gomitoli srotolati in ogni dove, i manichini sparpagliati ovunque, il metro da sarta, metà del bagaglio di Izou, svuotato all’ultimo sul divano per fare spazio a scampoli di stoffa per i ritocchi dell’ultimo minuto perché “non si sa mai”.
Ora, c’è solo un piccolo dettaglio. Avevo deciso di sistemare poi perché non c’era tempo, perché non avevo voglia e perché, soprattutto, Izou avrebbe dovuto aiutarmi al rientro.
Perché sarebbe dovuto tornare qui con noi, al rientro.
Ma c’è, appunto, un piccolo dettaglio. Izou non è qui.
«Ti fa proprio schifo la nostra intimità eh» commenta con voce strascicata.
«Fatti passare il mestruo, Roronoa!» abbaio, parcheggiando a viva forza il trolley. «Sono felice di riavere casa mia ma devo forse credere che mi aiuterai a sistemare quel macello di là?»
«Non ci penso nemmeno» risponde pacato. «Non l’ho causato io e sono due mesi e mezzo che aspetto di potermi fare una pennica come si deve, senza Izou che si mette a ululare le canzoni di Mika in giro per casa» mi informa, portando il borsone fino in camera. «La casa è rimasta così per due giorni e può aspettare ancora. Se sei in grado di rimandare a più tardi ti aiuto se no, buon lavoro» mi augura sparendo oltre la porta e io rimango qui a fissare il punto dove si trovava un attimo fa, fumante di rabbia e mani sui fianchi.
«Tu ti approfitti troppo del fatto che ti amo!» sbotto, pestando un piede a terra ma non ottengo nemmeno un grugnito in risposta.
Stronzo di un Roronoa.
Rassegnata, mi rimbocco le maniche e comincio almeno a raggruppare per categoria il ciarpame che dilaga ovunque, dove piazzarlo lo valuterò più tardi.
E comunque non è giusto! Izou mi doveva dare una mano! Nemmeno se lo ricorda, secondo me, oppure ha fatto apposta finta di niente quando ci ha avvisati che tornava a casa e che sarebbe passato a recuperare le sue cose nei prossimi giorni.
Bella mossa, lasciar da fare tutto a me, da sola, senza nemmeno due chiacchiere a tenermi compagnia, immersa nel silenzio totale.
Forse… Forse potrei mettere un po’ di musica. Magari qualcosa di Mika.
Mi strozzo con la mia stessa saliva quando mi rendo conto di cosa ho pensato. Ma che mi prende?!
Scuoto il capo e decido insindacabilmente che no, l’idea della musica non è comunque una soluzione. Mi distrarrebbe e non è come se mi mancasse chiacchierare con Izou o sentirlo cantare a squarciagola. Anzi, sono sicura che così, totalmente concentrata su quel che devo fare, ci metterò molto meno. Mi rimbocco le maniche e comincio a pulire e lancio orgogliosa un’occhiata all’orologio quando una parte del salotto comincia a tornare visibile. Sono certa di averci messo pochiss…
Venti minuti?! Sono passati venti minuti?! Ma ho messo a posto quattro cose! A un’occhiata superficiale il salotto è praticamente come quando ho iniziato! Non è possibile!
Con Izou in venti minuti ribaltavo la casa!
A guance gonfie e rinnovata determinazione, raccolgo tutto il cellophane in un unico mucchio che mi riempie le braccia, decisa a disfarmene in un’unica volta. Adesso ti faccio vedere io, orologio!
Il problema è che, per quanto non pesi nulla, si gonfia tra le mie braccia ad ogni passo, ostruendomi la visuale e io devo andare a memoria e tentoni per non uccidermi, camminando anche molto cauta nel mini-labirinto che è al momento il mio salotto. Giro intorno al divano, calcio via due gomitoli.
È il rocchetto di filo a fregarmi. Riesco a malapena a imprecare quando mi preme nella carne della pianta, che quello rotola e io scivolo all’indietro, le mani incartate nel cellophane e inutilizzabili per frenare la caduta.
Merda! Izou questa me la p…
Mi sorprendo quando qualcosa mi frena e mi avvolge. Qualcosa di caldo, forte e rassicurante. Qualcosa che il mio corpo identifica all’istante come le braccia di mio marito.
«Sei proprio una mocciosa» mormora al mio orecchio e so, anche senza vederlo, che sta ghignando. «Ti lascio da sola cinque secondi e quasi ti uccidi?»
«Mpf» mugugno, scrollando le spalle e slittando con i piedi per rimettermi dritta. Operazione complessa senza l’uso delle mani e con Zoro che non sembra propenso a lasciarmi andare. Non che io voglia stare qui, contro il suo caldo e muscoloso petto. Assolutamente no. Provo a girarmi e mi spalmo con la guancia contro il suo sterno, il battito del suo cuore mi scalda il viso e sarebbe molto poetico se io non avessi la faccia deformata e l’espressione truce.
«Ti spiace aiutarmi?» mugugno con solo mezza bocca e lo so, anche se da questa posizione non lo vedo, lo so che ghigna il bastardo.
«Così puoi tentare nuovamente il suicidio?»
«Magari sono più interessata a un omicidio» lo metto in guardia ma non riesco a non fremere quando sfrega i palmi sulle mie braccia prima di afferrarle per rimettermi in piedi.
Scrollo le spalle e, fintamente scocciata, riprendo la mia marcia verso il giardino, per andare a gettare il cellophane, ma mi fermo quando mi accorgo che Zoro si è appropriato del cestino di vimini e sta raccogliendo i gomitolo e i rocchetti sparsi in giro. «Non dovevi dormire?» domando, sinceramente stupita.
Zoro non rinuncia mai alla pennichella e ieri è stata una serata intensa. Intensa in tutti i sensi.
Si stringe nelle spalle, senza smettere di fare ordine. «Non riesco a prendere sonno»
«Come?». Si blocca e gira il capo a guardare me, che lo fisso di rimando a bocca aperta. «Roronoa Zoro che non riesce a prendere sonno?»
«Capita» prova a minimizzare, distogliendo di nuovo gli occhi.
«Sì, alle persone normali. Non a te»
«Capita anche a me se la mia mocciosa non è capace di mettere a posto senza fare casino»
«Ehi!» mi indigno, il fumo che quasi mi esce dalle orecchie. So che è una sua tipica provocazione ma il dubbio di averlo davvero disturbato mi assale, fastidioso. Sono stata attenta apposta! Ha guidato lui per lasciarmi dormire, stamattina. «Non ho fatto nessun casino. Anzi, non so da quanto non c’era tutto questo silenzio in ca…» mi blocco, colpita da un pensiero, ed emetto un lieve verso di sorpresa e improvvisa comprensione. «È questo» sorrido tronfia e avanzo verso di lui, tornando sui miei passi. «Non riesci a dormire perché c’è troppo silenzio». Zoro continua imperterrito la propria attività, senza alzare la testa. Purtroppo per lui, per quanto riesca a nascondere le emozioni che non vuole esternare, quando si imbarazza le orecchie gli diventano rosse. E quello non può controllarlo, che gli piaccia o no. «E quindi…» continuo ad avanzare e il sorriso diventa sornione. «…senza gli ululati canori miei e di Izou, come li chiamavi tu, non riesci a dormire eh?»
«Questione di riabituarmi» taglia corto ma borbotta. Strascica le parole, se le mangia quasi. Come quando deve dire qualcosa che in realtà lo fa stare male. O comunque non lo fa stare proprio benissimo.
Il sorriso si spegne all’istante, l’agitazione prende corpo dentro di me. Dopo lo sfogo emotivo di qualche giorno fa, dopo aver scoperto cosa si è tenuto dentro e per quanto, sono particolarmente protettiva e all’erta con lui. E qualsiasi cosa lo turbi, che siano sciocchezze o problemi seri, devo scoprirla, capire di cosa si tratta e fare quanto in mio potere per sistemarla.
«Zoro che cosa c’è?» mollo a terra il cellophane e cammino più rapida e decisa ma mi fermo quando si tira su, gli occhi puntati alla finestra, le mani in tasca.
«Non è nulla»
Mio dio, sembra Sanji quando è a disagio. Non l’ho mai visto così, ma che gli prende?!
«Te l’ho detto, mi riabituerò, dammi un paio di giorni»
Se fosse fisicamente possibile, la mandibola mi cadrebbe al suolo. Non è quello che penso vero? Insomma dai non può… Dovrebbe essere al settimo cielo, non ha senso, non per lui…
Ma mi basta un attimo di riflessione per accorgermi che la mia convinzione non ha fondamento. Perché no? Perché lui non dovrebbe sentire questo vuoto, questa sensazione di qualcosa fuori posto? Perché a lui no?
«Ti manca Izou…»
«Ma che dici, mocciosa» ribatte subito, scrollando le spalle. «Figurati se mi manca quella zecca! Solo perché fa dei pancake spaziali?» si passa una mano sulla nuca. «So farli da me i pancake. E a Tekken posso giocare contro il computer, non mi serve un avversario, soprattutto uno che commenta ogni mossa e da nomignoli idioti agli avversari» continua, le orecchie ormai viola, e io ricomincio ad avanzare. «E se voglio sentire ululare qualcuno dovrei avere in giro un fischietto da ultrasuoni per aizzare il cane del vicino»
«Giusto. E i selfie possiamo farceli anche senza di lui e possiamo lasciare il salotto in disordine apposta per dare alla casa un’aria vissuta anche quando siamo fuori tutto il giorno. Poi però pulisci tu» metto subito in chiaro, puntandogli contro l’indice.
Zoro si gira a guardarmi e sbuffa una risata lieve, concedendosi un ghigno. «Non avrebbe molto senso, mettere in disordine per poi riordinare»
«Lo so» mi stringo nelle spalle e incrocio le braccia sotto il seno. «Ma forse è questo. Dava un “non-senso” alle nostre vite» lo guardo di sottecchi.
È dura, per due orgogliosi come noi, ammettere che ci manca. È dura ammettere che era bello avere un tornado per casa.     
È dura confessare che non vogliamo rinunciare all’imprevedibilità che Izou ci dava.
Ma anche ammettendolo, che potremmo mai fare? Adottarlo?! Non è mica un…
Il pensiero arriva così, come un fulmine a ciel sereno, mi esplode nella testa e mozza il respiro.
«Zoro tu…»
Incenerisce i filtri cervello-bocca.
«…tu vorresti…»
«Mocciosa, facciamo un bambino»
«…fare un bambino?»
Il fiato sospeso, mi giro di scatto verso di lui, che mi osserva ghignando per dieci secondi buoni prima di renderci conto entrambi e scattare appena.
«Cioè io…»
«Non… non intendevo immediatamente» metto le mani avanti, in tutti i sensi. «Insomma prima c’è la tua operazione e la riabilitazione e…»
«Infatti. Cioè non è che sarei contrario a farne uno anche subito ma potrebbe non essere conciliabile e…»
«No ma infatti, appunto! Appunto! Una cosa per volta però ecco io…» mi acciglio appena e torno e poso le mani ancora alzate sul suo petto. «…non ci avevo mai pensato seriamente prima d’ora»
Non mi sono mai fermata a chiedermi se volevo dei figli. Che fosse con Zoro o con qualcun altro, intendo. Non mi ero mai posta il problema, perché io e Zoro per me siamo già famiglia. Ma è bello sapere che lo voglio. Che lo vogliamo entrambi.
È bello sapere che investiremo anche in questo, anche se non subito.
Zoro ghigna di nuovo e si piega su di me, le mani ai miei fianchi, il bacino premuto contro il mio. «Se ci stiamo pensando seriamente…» soffia lascivo sul mio collo e io rabbrividisco tra le sue mani. «…dobbiamo seriamente iniziare ad allenarci»
Sorrido con malizia contro la sua mandibola mentre le mani cominciano a vagare su e giù lungo i suoi muscolosi pettorali. «Allenarci?»
«Sì» conferma, sadico, marchiandomi il collo e io non trattengo un vergognoso gemito. «L’allenamento è la base di tutto, non lo sai»
Rido e mi aggrappo al suo collo.
«Sei fissato» lo accuso, la voce rauca da tanta è la voglia e il cuore che accelera quando mi stringe.
«Ti garantisco Nami…» gorgoglia con voce profonda mentre si affretta verso la nostra camera, scartando tra cellophane, manichini nudi e gomitoli. «…che dopo oggi diventerai fissata anche tu»     

 
§
 

Fisso immobile la porta, studiandone ogni venatura e graffio. Quella porta che non mi sono mia soffermato a guardare, troppo impaziente di varcarla, che fosse per andare da lei o arrivare prima e prepararle la cena.
La porta che chiude un appartamento che, senza nemmeno rendermene conto, definivo ormai casa mia.
Casa nostra.
La stessa porta che ora mi separa da lei. Dalla donna che amo. Da Ishley.
Fermo qui da dieci minuti buoni, ripenso senza sosta a quello che ci siamo detti con Law, e che è giunto il momento di metterci una pezza. C’è solo un problema. Non so se è possibile.
Law ha detto che non ho rovinato le cose con lei ma nella mia testa, tra le frasi incoraggianti e rassicuranti di mio fratello, continua a filtrare il ricordo della sua espressione quando ha scoperto la verità. Si fidava. Si fidava di me e delle mie parole, non ha messo in dubbio nulla di ciò che le ho raccontato e io me ne sono approfittato così.
Sono un cazzone.
Sono un cazzone che è venuto chiedere alla donna più meravigliosa che abbia mai conosciuto di perdonarmi, innamorarsi perdutamente di me e passare il resto dei suoi giorni con, appunto, un cazzone.
Però, non è egoismo. Non è come con Bibi, che non sapevo cosa stavo facendo, che ho assecondato un desiderio di pancia per poi crollare quando le cose non sono andate come auspicavo.
Stavolta è diverso.
So che posso rendere Ishley una donna felice, darle quello che merita. So come fare e sono pronto a tutto per farlo. Se non ne fossi più che certo, ora non sarei qui, ragion per cui, non ha senso tornare a casa senza averci nemmeno provato per paura che la risposta di Ish non sia quello che spero.
Non sarebbe da me, non sono il tipo che abbandona il campo senza combattere. E lei è davvero la cosa più preziosa per cui abbia mai lottato.     
Deve saperlo. Devo dirglielo, mi costasse lasciarci il cuore su questo zerbino.
Mi avvicino e, con un ultimo profondo respiro, chiudo gli occhi e suono il campanello. Conto i secondi ma niente sembra muoversi oltre la porta, all’inizio. Poi lo sento, il parquet scricchiolare e il cuore mi perde tre battiti.
Sta arrivando, sta arrivando!
Ma una volta all’ingresso i passi si bloccano e io attendo cinque secondi prima di farmi sentire.
«Ish?» busso piano. «Ish sono io»
Un tonfo di qualcosa che cade e poi di nuovo silenzio assoluto. Trattengo il fiato, concentrato per captare il suo respiro anche se so che il legno è troppo spesso per lasciarlo arrivare fino a me.
«Ishley, puoi aprirmi per favore?» la prego ma non risponde e nulla più si muove.
Le mani prudono e il petto mi sta andando a fuoco. Non ce la faccio. Dio, non ce la faccio! È qui, a cinque passi da me, così vicina da poterla afferrare eppure così lontana, arroccata dietro questa porta e una barriera invisibile che se esiste, tra noi, è solo colpa mia. Così lontana che basterebbe un soffio di vento a portarmela via e io non posso lasciare che accada.
Frenetico e determinato, mi guardo attorno. Ma del vaso dove nasconde la chiave di riserva, quella che ho sempre usato io per entrare, non c’è traccia. Né di quello né di altri ninnoli che potrebbero fungere da nascondiglio.
Con lo stomaco accartocciato, mi accosto di nuovo alla porta. «Ish…» chiamo, il corpo scosso dall’agitazione. «Ti prego, mi servono solo un paio di minuti» busso di nuovo. «Ish!»
Ancora niente e io serro le palpebre disperato, mi stacco violento dalla porta, mi passo le mani sul volto e tra i capelli.
No. Non così. Non finirà così. Con lei no.
«Va bene, okay» torno verso la porta e mi ci spalmo praticamente sopra. «Non è necessario che tu mi apra o mi veda, basta che… che mi ascolti» ti prego, amore mio, ti prego. Ascoltami. Credici. «Sono stato un coglione, Ish, non ho scuse, non… non dovevo mentirti. Mi fa male anche solo a dirlo e tu potresti dirmi che però quando ti ho raccontato quella palla non mi sono fatto tanti problemi e avresti ragione!» alzo le mani in segno di resa. «Non ho giustificazioni ma parlare di Bibi… è dura per me. È dura ricordare quello che è successo, quello che ho fatto. Non lo rinnego e non voglio fare il martire. So che lei e Law non si sarebbero sposati in ogni caso ma è dura lo stesso. È mio fratello, era la sua donna, mi sono innamorato di lei che stavano ancora insieme!» chino il capo e appoggio la fronte al legno. «So che non vuoi sentire questo. Pensi che non te lo abbia detto perché lei è ancora importante e non posso negare che lo sia. È importante, lo è stata. Ma non è speciale, non lo è più, non come lo sei tu» esalo. «Tu sei importante e speciale. Tu e lei… Tu…» sei il mio “ogni cosa”, Ish. Alzo le mani tremanti e le poso ai lati del viso. «Non posso fare un confronto tra di voi, non posso! Non sarebbe giusto, siete due persone diverse, che ho vissuto in due momenti così diversi della mia vita, non posso mettervi su una bilancia e basta. Ma per te farei qualsiasi cosa e non è una cosa che dico è una cosa che sento, la sento qui nel petto perché tu, rispetto a lei… No» scuoto il capo con decisione. «Non è rispetto a lei. Bibi era il mio passato. Tu sei il mio presente e sì anche  lei allora è stata il mio presente però è diverso perché anche se lei era importante e speciale e ho attraversato mezzo continente per stare con lei con te è diverso! Con Bibi non ho mai avuto, mai, nemmeno una volta, la chiara sensazione di avere tra le braccia il resto della mia vita!»      
Mi addosso alla porta, sfinito. Ti prego, ti prego, ti prego. Non ce la faccio senza di te, non so che direzione devo prendere, dove andare.
Non riesco a vivere, senza di te.
«Ish» provo un’ultima disperata volta, allontano la mano per colpire la porta ma all’ultimo mi fermo e appoggio solo il palmo in un gesto rassegnato. «Ish…»
Chiudo gli occhi rassegnato. Non c’è davvero niente che posso fare? E li riapro subito, realizzando che una cosa c’è. L’unica che posso fare, in effetti.
«Io capisco che tutto questo è inaspettato» rialzo la voce, ricomincio a parlare. So che è lì e mi sente. «E non pretendo una risposta adesso né che mi perdoni, non senza farmela penare. Hai ragione e sono pronto a tutto per dimostrarti che non erano solo parole. Quindi tu…» faccio un profondo respiro. «…tu prenditi il tuo tempo. Io ti aspetterò Ish. Aspetterò, mi hai sentito?»
Ovviamente non mi risponde né mi da segni ma va bene così, lo accetto. Accetto il suo silenzio, anche se non è da lei. Accetto di aspettare. Per le cose davvero importanti si aspetta.
Il corpo che pesa una tonnellata, mi stacco dall’uscio e mi allontano con passi strascicati. Ne faccio tre prima di fermarmi e voltarmi di nuovo verso la porta. Forse dovrei salutare, augurarle la buona notte. Forse…. Forse dovrei tornare indietro, riprovare, chiederle di nuovo di…
No.
No, devo lasciarle tempo e spazio. Devo essere paziente. Quasi rido, mentre riprendo a camminare, al pensiero di quello che commenterebbe Ace se gli dicessi che ho deciso di essere “paziente”. Avrebbe ragione, non sono mai stato bravo ad esserlo. 
Ma per lei, per lei ne vale la pena.  
  
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