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Autore: Izumi V    10/01/2019    5 recensioni
Storia scritta per l'evento "Merry Christmas!" del gruppo fb "Johnlock is the way... and Freebatch of course!"
Un altro possibile inizio, un altro possibile svolgimento... e il cupido Mike Stamford ci mette lo zampino senza vergogna!
*Estratto:
Aveva qualcosa di infantile, e allo stesso tempo estremamente serio: quell’aria che possono avere solo i bambini quando sono davvero concentrati su qualcosa che li affascina.
Un sorriso sincero e luminoso si dipinse sul volto di John. Non riusciva a smettere di guardarlo. Si avvicinò a lui di qualche passo.
“Sherlock?”
“È bellissima, vero?”
“Già,” rispose John. Ma non guardava la neve.
Genere: Introspettivo, Sentimentale | Stato: completa
Tipo di coppia: Slash | Personaggi: John Watson, Mike Stamford, Sherlock Holmes
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
Capitoli:
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Ben ritrovati con il secondo capitolo, spero vi piaccia. Un po' di transizione, ma necessario!
Un grande grazie a chi segue questa storia. Buona lettura



 
Forgiveness
Capitolo 2
 
 
 
15 Ottobre
Notte
 
Il bollitore diede segno di aver assolto al proprio compito. Sherlock sedeva al tavolo della cucina, osservandosi la mano destra con curiosità.
“Quanto ci metterà a guarire? Il filo di sutura deve rimuoverlo lei?”
L’altro esitò un attimo, prima di rispondere, come se stesse elaborando un’idea: “Conta circa due settimane… E ho usato un filo di Catgut.”*
Gli gettò un’occhiata per verificare la sua reazione. Sherlock, decisamente divertito, gli rispose prontamente: “Dunque no, non dovrà rimuoverlo lei.”
John ghignò. “Vedo che qui qualcuno è stato attento a lezione.”
“A me non serve essere attento a lezione,” sentenziò, senza specificare che quello non era nemmeno il proprio ambito di studi.
Lo sfidava. Lo sfidava senza ritegno.
Ed era tutto terribilmente divertente.
“Quindi non ci vai nemmeno, a lezione?”
“Dipende.”
“Da cosa?”
“Dallo stimolo che posso trarne.”
Un sorriso sghembo. John pose due tazze sul tavolo, insieme a latte e zucchero, e iniziò a versare il tè.
Sherlock seguiva i suoi movimenti come ipnotizzato, finché a un tratto proferì lentamente, a bassa voce: “Mi dispiace per sua moglie.”
La teiera, fino a un momento prima ben salda nelle mani del medico, slittò sul bordo della tazza, versando fuori parte del contenuto. Un muscolo guizzò veloce sul volto dell’uomo, che irrigidì la mandibola. Non alzò nemmeno lo sguardo, poggiò la teiera e disse solamente “Grazie” a un tono così flebile che fu a mala pena udibile.
Cercava di contenere la rabbia. Se Mike aveva osato raccontare…
“N-non è stato il Prof. Stamford, se è quello che sta pensando.”
John, che in quel momento si era voltato per prendere una spugna e riparare al mezzo disastro, raddrizzò la schiena.
“Ah no?”
“No. L’ho… intuito.”
Solo allora l’altro si voltò per incrociare il suo sguardo. Sherlock non era un esperto di emozioni, ma quegli occhi blu, grandi ed espressivi loro malgrado, li riuscì a leggere.
C’era dolore. C’era frustrazione. C’erano rabbia e paura.
Watson tirò su col naso, senza interrompere il contatto visivo. Il silenzio cominciava a diventare pesante.
Afferrò di nuovo la teiera e finì di versare il tè nelle tazze. Poi sospirò, e in quel gesto sembrò calmarsi. Il ragazzo non poté fare a meno di chiedersi quale treno di pensieri avesse attraversato la mente dell’altro, in quel minuto. Cosa lo aveva portato a seppellire di nuovo il nodo che aveva dentro? Cosa esattamente gli aveva fatto paura?
Ma Sherlock quelle situazioni non le sapeva gestire. Sherlock sapeva dedurre e sbattere in faccia agli altri le proprie deduzioni. Nient’altro.
“Come…?”
Senza dargli nemmeno il tempo di finire la domanda, il ragazzo attaccò col suo discorso, grato di poter riempire quel vuoto.
“L’altro giorno, quando è venuto in università, ho notato che portava una fede. Ma ora non ce l’ha. La tiene sul tavolino vicino alla porta perché la indossa solo fuori casa, come se avesse bisogno di scindere tra ciò che è dentro e ciò che è fuori dalle mura domestiche. Ergo, qualcosa di doloroso nella sua vita matrimoniale. Ha un garage doppio, ma un’auto sola – l’ho notato perché ha dimenticato una serranda alzata. Dunque ha una macchina ma non la usa volentieri, altrimenti l’erba davanti al box sarebbe più schiacciata; inoltre non ha voluto prenderla neanche per venire in università lunedì, eppure è abbastanza lontana. Usare i mezzi pubblici non è comodo, non quando ha dei pazienti che l’attendono a orari prefissati in uno studio privato. Preferisce la bicicletta – l’ho vista qui fuori – anche per le lunghe distanze, aiutato dall’abitudine all’attività fisica. Deduco che ha motivazioni ben precise per non mettersi alla guida. L’assenza di sua moglie non può essere dovuta a separazione o divorzio, perché altrimenti non avrebbe bisogno di indossare ancora la fede fuori di casa. Ho potuto notare un’unica fotografia nel salotto, sistemata però dove non le sia visibile stando seduto sul divano, quindi guardarla le causa dolore. Unito al fattore dell’auto menzionato in precedenza, ho tratto le mie conclusioni.”
Senza volerlo, John deglutì sonoramente.
“Già.”
“Mi dispiace.”
L’altro annuì. Il ragazzo seguitava a osservarlo con occhi penetranti. Il silenzio cadde nuovamente fra loro, finché non fu John a parlare: “Bevi il tuo tè, o diventerà freddo.”
Sherlock portò la tazza alle labbra e sorrise, con un sorriso piccolino e quasi timido: “Temo sia tardi.”
Fu allora che Watson ridacchiò piano, e il ragazzo capì che il peggio era passato.
“Colpa tua.”
 
“Aspettami pure in salotto, vado a prenderti qualcosa per la notte.”
Passando di fianco al divano, seguito da Sherlock, John si sporse appena per chiudere il pc che giaceva ancora aperto sul tavolino. “E non curiosare in giro, per favore.”
“Per chi mi ha preso?” si finse oltraggiato.
“Per un ficcanaso quale sei!” gli rispose salendo le scale.
Tornò poco dopo con una maglia e un paio di pantaloni di tessuto morbido. Glieli porse passandosi una mano sulla nuca, quasi a disagio.
“Ho scoperto che avevo ancora qualcosa per eventuali ospiti, visto che i miei vestiti non vanno alla maggior parte della gente che conosco. Un mio pigiama addosso a te sarebbe stato veramente troppo ridicolo.”
Sherlock si limitò a prendere il fagotto, mormorando un “grazie” imbarazzato.
“Ah! Scusami, ti mostro il bagno e la tua camera.”
Si lasciò poi cadere sul divano aspettando che l’altro fosse pronto, per dargli la buonanotte e dedicarsi finalmente alla scrittura – o per lo meno alla contemplazione dello schermo. Si era messo in testa che voleva scrivere. Il perché… difficile dirlo. Mary gli ripeteva spesso che era bravo a narrare, anche le cose più banali come una pausa caffè coi colleghi in ospedale. Secondo lei, avrebbe inventato delle storie bellissime per i loro figli.
Ma quel momento non era mai arrivato.
Forse era solo quello, dopo tutto. Un’opportunità, seppur minima, di redenzione. Se solo fosse riuscito a scrivere qualcosa – qualunque cosa – avrebbe realizzato un lato positivo di se stesso.
Tuttavia, almeno per quella sera, ogni suo piano fu mandato in fumo dal momento che Sherlock, uscendo dalla camera, si lanciò direttamente sulla poltrona vuota. La schiena appoggiata a un bracciolo, le gambe a penzoloni dall’altro. John lo guardò sconcertato.
“Non vuoi andare a dormire?”
“Mmh no. Non ho particolarmente sonno, e credo nemmeno lei.”
“Ah, lo hai deciso tu? No anzi, non rispondere!” e alzò le mani davanti a sé, come a schermarsi.
Parve riflettere qualche secondo su qualcosa, poi riprese parola: “Senti, Stamford prima ha detto che hai fermato un criminale per la polizia.”
“È così.”
“E com’è andata, esattamente?”
“Vuole davvero tutta la storia?” il ragazzo strabuzzò gli occhi, facendo seriamente fatica a crederci.
“Perché no?” rispose John, e sorrise. Trovava buffe le sue reazioni. Sembrava non aspettarsi mai nulla dagli altri.
“Se insiste.”
E Sherlock iniziò a raccontare.
 
***
 
Camminava lentamente lungo il viale alberato nel parco, in un incedere irregolare. Guardò a terra, la sua ombra si proiettava netta sulla pietra del sentiero: il sole stava calando, gettando una luce calda che si rifletteva sui colori intensi delle foglie autunnali. Il rosso, il marrone, l’arancione e il giallo si fondevano insieme in un manto all’apparenza uniforme. Solo in un secondo momento si accorse che la propria ombra non era sola; un’altra procedeva al suo fianco, allo stesso passo. Era un’ombra lunga, sottile e – senza sapere perché – estremamente confortante.
Non fece in tempo a voltarsi per vedere in faccia il proprietario: la sua mente divenne improvvisamente cosciente di trovarsi in un sogno. A volte gli capitava. Cercò di tenere insieme i pezzi, che tuttavia iniziarono a sfuggire al suo controllo. L’immagine davanti ai propri occhi si dissolveva senza che lui potesse fare nulla per evitarlo.
 
John Watson si svegliò senza aprire gli occhi. Ebbe la netta sensazione che fosse un bel sogno, eppure già gli sfuggivano i dettagli. Ormai era sveglio. Fece una smorfia contrariata, iniziando a prendere coscienza del proprio corpo. Era di nuovo tutto indolenzito, probabilmente si era addormentato un’altra volta tra i libri.
Ma il materasso era più duro sotto di sé. E il problema questa volta era il collo: la mano dietro la nuca aveva solo in parte mitigato la mancanza di un morbido cuscino.
“Ma che diamine…?”
Si tirò finalmente su a sedere, con un verso infastidito che parve un grugnito.
“Buongiorno John,” disse una voce calda e profonda.
Gesù!
“Uhm, non esattamente, ma grazie del complimento.”
“No no, non intendevo…” e sospirò, passandosi più volte la mano sul volto. Ci mise un attimo a rimettere insieme i frammenti di quella notte. Si doveva essere addormentato chiacchierando con il ragazzo.
“…Buongiorno Sherlock.”
Riuscì infine a dire. Il brillante dottorando si era evidentemente svegliato prima di lui, e per riempire il tempo si era messo a studiare spargendo carte su tutto il tavolo del salotto. John, dal canto suo, si rese conto di aver dormito per tutto quel tempo sul divano.
“Accidenti,” imprecò, alzandosi in piedi per fare un po’ di stretching. “Che ore sono?”
“Le sei e due minuti.”
Ok, era ancora abbastanza presto. In effetti, era molto presto.
“Ma a che ore ti sei svegliato?”
“Credo di aver dormito un paio d’ore… poi mi sono ricordato di una cosa che volevo assolutamente verificare riguardo alla mia ricerca.”
“Wow.”
Sherlock alzò lo sguardo dai suoi fogli. “Come, prego?”
“Beh, sei ammirevole.”
“No, non direi. Ma grazie lo stesso.”
John lo squadrò scettico per qualche secondo. Era davvero un personaggio strano, e allo stesso tempo incredibilmente affascinante. Non capiva nulla di lui, eppure tutto gli sembrava chiaro. Era chiaro che avesse una mente straordinaria, così come il fatto che gli mancasse qualche filtro nel comunicare i propri pensieri; ma era anche chiaro che ci fossero ancora troppe cose da scoprire di lui. Watson si chiese, in quel momento, se una sola vita sarebbe bastata per scoprirle tutte.
Si riscosse in tempo per evitare figuracce – già l’aveva sfiorata la sera precedente, nel momento di trovarselo sulla porta – e gli chiese, ostentando nonchalance: “Vorresti un caffé? Poi se vuoi ti posso accompagnare alla metro più vicina.”
“Volentieri per la compagnia. Riguardo al caffè, preferirei un tè, in realtà.”
“Anch’io, a dirla tutta. Tè per tutti, allora.”
Osservando le prime bolle formarsi nel bollitore, John rise tra sé e sé al pensiero che in fondo si sentiva un po’ allo stesso modo di quel vecchio elettrodomestico.
Ribolliva dentro. Lo percepiva chiaramente da quando si era svegliato quella mattina.
Era qualcosa di sotterraneo, ancora agli albori, ma c’era. Realizzò di non sentirsi così da tanto, troppo tempo. Lanciò un’occhiata a quello studente seduto nel suo salotto: già che avesse qualcuno seduto nel proprio salotto era incredibile. Si era completamente chiuso in se stesso, nell’ultimo periodo. Non voleva nessuno nella propria vita. Il che, detto da un medico, potrebbe apparire strano.
Tuttavia sì, aveva eretto attorno a sé una serie di barriere: non aveva intenzione di soffrire ulteriormente. Il senso di colpa e di impotenza, la paura di se stesso, di ciò che gli altri avrebbero pensato… nulla gli sembrava sicuro.
E adesso? Una notte in bianco passata ad ascoltare storie di casi risolti da un dottorando – brillante, probabilmente sociopatico, nonché pazzo – davanti a un tè. Bastava davvero così poco per ricominciare a vivere?
“Il tè è pronto! Vedi di non farlo freddare di nuovo.”
Sherlock saltò su come una molla, in contraddizione con lo sbuffo esagerato che abbandonò le sue labbra in protesta per l’interruzione del proprio lavoro.
Non lo ringraziò nemmeno. Afferrò la tazza e tornò alla sua postazione, questa volta sedendosi direttamente per terra e affondando il naso tra i fogli.
Watson sollevò un sopracciglio: “Prego, eh!” Per poi aggiungere: “Hai tempo fino a che non mi sono cambiato, poi devi metter via tutto che usciamo.”
Dal ragazzo solo un cenno. Poteva scommettere che non avesse sentito mezza parola.
 
Infatti, John fu costretto a sollevarlo praticamente di peso per trascinarlo fuori di casa.
Solo dopo aver percorso qualche metro, Sherlock sembrò rendersi conto di cosa fosse successo negli ultimi dieci minuti e si fermò improvvisamente in mezzo alla strada.
“Ehi, tutto ok?”
“Dove stiamo andando?”
“Sei serio? A casa tua. O meglio, ti sto accompagnando al mezzo di trasporto più vicino.”
“Non ha di meglio da fare, che ne so, tipo lavorare?”
Watson si irritò. “Sai che ti dico, sì, forse avrò di meglio da fare! Ma tu occupavi il mio spazio vitale e io dovevo toglierti da lì.”
Holmes restituì lo sguardo, imperturbabile. Sbatté più volte le lunghe ciglia.
“Quindi deve lavorare?” insistette.
In quel momento gli sembrò tanto un bambino capriccioso.
“No, non devo lavorare. Il sabato ho la mattina libera,” sospirò John.
“Benissimo. Le va di accompagnarmi?”
“Fino a casa tua?”
“È quello che intendevo, sì.”
“Hai paura di perderti?” ghignò l’altro.
“No, è lei che sta cercando una nuova abitazione più piccola di quella che ha attualmente e si dà il caso che io sia in cerca di un coinquilino.”
Il medico rimase a bocca aperta, letteralmente. “Ma come diavolo…?”
Alla domanda lasciata in sospeso, Sherlock si limitò a inclinare appena la testa da un lato: “Oh andiamo, era palese.”
“Stop. Non voglio saperlo…” borbottò lui, ricominciando a camminare al fianco del ragazzo. “No, anzi, voglio saperlo. E anche l’indirizzo, se possibile, giusto per capire fin dove ti sto seguendo.”
Holmes sorrise sghembo, senza farsi notare.
“221B Baker Street.”
 
Uscirono dalla metro di Baker Street, ritrovandosi improvvisamente in mezzo a una fiumana di gente.
“Ma è sempre così, qui?”
“Si abitui, questa è la città!” rispose allegramente il ragazzo, avvezzo ai ritmi del centro. Superarono una corrente che filava in senso opposto al loro e riuscirono finalmente a infilarsi nella via giusta, in quel momento relativamente tranquilla.
Quando furono certi di poter respirare, Sherlock riprese a parlare. Guardava in alto, verso il cielo, ma con la mente da tutt’altra parte. Ricordava i propri vissuti, le prime esperienze come investigatore: lo avevano già condotto in diversi angoli della città.
“La veda come un’opportunità, John. Pensi a cosa può mettere in moto un via vai del genere. Questa città è come un cuore pulsante, ogni sua venatura freme di vita pronta a esplodere. Dobbiamo solo avere pazienza e attendere che questo accada.”
Tacque, riabbassando lo sguardo. Si voltò verso di lui. Le sue iridi di ghiaccio, già luminose di natura, parevano attraversate da scintille: quella stessa vitalità che lui bramava con tanta forza, cercandola disperatamente intorno a sé.
John ebbe la netta sensazione, in quel momento, che quegli occhi avessero visto cose che la gente comune nemmeno si immagina. E provò qualcosa di tanto simile all’invidia, tinto da un sentimento molto più piacevole: il desiderio di seguirlo ovunque egli avesse voluto condurlo.
Dovette rallentare il passo, tutto ciò lo scombussolava. Andiamo, lo conosceva appena. Eppure...
“John?”
“A-arrivo.”
Un sorrisetto divertito spuntò sulle belle labbra del ragazzo, che iniziava ad avere un quadro della persona che aveva di fronte. Volle spingersi ancora più lontano. Stava osando, ne era consapevole: non aveva idea di come avrebbe reagito, un’altra persona al suo posto avrebbe dato di matto in poco tempo. Ma quel medico… lui aveva qualcosa di diverso.
Attese che l’uomo lo raggiungesse, prima di ricominciare a camminare. Esordì con nonchalance: “In fondo, non dev’essere troppo divertente la vita di periferia, per un ex militare come lei.” E si preparò a godersi la reazione, che giunse prontamente con uno sbotto da parte dell’altro.
“Accidenti, ma non è possibile! E questo da dove lo hai tirato fuori?!”
“Tutto di lei me lo dice.”
“Ah sì, buon per te,” mormorò lui, mento in alto e atteggiamento fiero. Combatteva l’istinto a tirargli un pugno, in realtà.
Il più giovane ricambiò lo sguardo senza lasciarsi intimorire. Il tono di Watson era quello di una persona irritata, eppure il blu intenso delle sue iridi non era incupito dalla rabbia. Assomigliava piuttosto a quello di un mare in tempesta.
Sherlock capì allora che John – anche e soprattutto senza volerlo – parlava molto di più con gli occhi che con le parole, e quello che gli stava comunicando in quel momento… gli piaceva.
 
Giunsero infine davanti alla porta del 221B.
Sherlock fece per entrare senza esitazione; aveva già una mano sulla porta quando disse “Vedrà, le piacerà… e poi la padrona di casa è proprio una brava persona.”
Prima però che gli fosse possibile proseguire, John lo bloccò afferrandolo per un braccio.
“A-aspetta.”
“Mmh?”
Con tutto se stesso, avrebbe voluto seguirlo. Watson già sapeva che l’appartamento gli sarebbe piaciuto, che la padrona di casa sarebbe stata perfetta, che tutto sarebbe andato bene.
Non era ben sicuro da dove questa certezza gli venisse, ma ce l’aveva. E forse, in tutto questo, la sicurezza stessa di Sherlock un poco centrava.
Se lui era convinto che avrebbe potuto andar bene per loro, ciò significava che era effettivamente una cosa buona. John non riusciva a evitare di pensarlo.
Eppure no, non poteva andare oltre. Non era nelle sue possibilità, non in quel momento.
Avrebbe rovinato tutto, in un modo o nell’altro.
“Sherlock, non posso salire.”
“Fino a poco fa non sembrava di questo avviso.”
“Hai ragione, non lo ero. Ma ora sì. Devo… devo andare. Sai, il lavoro…” mormorò il medico, lasciando scivolare la frase nel nulla. Lo fece senza guardarlo in faccia.
“Va bene.”
“Un’altra volta, ok?”
“Ok,” rispose il ragazzo, atono.
Sherlock intuiva cosa stesse succedendo nella testa dell’altro, e comprendeva almeno in parte il motivo, ma in fondo non poteva impedirsi di arrabbiarsi. Avrebbe voluto vederlo lottare e… vincere. Non soccombere alle proprie prigioni.
Lo osservò tentennare per qualche secondo sul marciapiede. Voleva aggiungere qualcosa, annaspava per trovare le parole giuste. Si mordeva l’interno della guancia guardandosi intorno senza vedere nulla per davvero.
“Senti Sherlock…”
“Mi dica.”
“Ecco, giusto a proposito di questo… non c’è bisogno di essere così formali, uh? Non darmi del ‘lei’, diamoci del ‘tu’. È più semplice. Non mi trovo a mio agio con le formalità.”
“D-d’accordo, John.”
“Ah, un’altra cosa,” borbottò, schiarendosi la gola, “…devi tenertelo stretto.”
“Come, prego?”
“Il tuo dono, Sherlock. Tienitelo stretto, abbine cura. Quello che sai fare, quello che la tua mente può fare… è qualcosa di incredibile. È straordinario nel vero senso del termine. Hai qualcosa che gli altri non hanno – non permettere a nessuno di farti sentire in colpa per questo.”
Era tremendamente serio.
Sherlock se ne accorse e provò un improvviso dolore al centro del petto, là dove un nodo prima troppo stretto cominciava a sciogliersi piano piano.
In una delle rare volte nella sua vita, le parole vennero a mancargli. Si limitò ad annuire con la testa. Quasi non si accorse che l’altro gli stava tendendo una mano per stringerla.
“Ci vediamo presto. Fai il bravo, nel frattempo.”
“Io sono sempre bravo.”
“Lo so. Ciao, Sherlock.”
Lo guardò voltargli le spalle e andar via.
“Ciao, John.”
 
***
 
Il giovane entrò nell’atrio chiudendosi la porta alle spalle. Non fece in tempo a compiere questo gesto, che dal nulla spuntò fuori la padrona di casa, nonché sua cara amica.
“Mrs. Hudson! Ma lei ha imparato ad attraversare i muri?”
“Imparerò anche quello prima o poi, ragazzo mio!” rispose allegramente la donna non più giovanissima. E continuò, sbirciando alle sue spalle: “E quel bel giovanotto se n’è andato?”
“A quanto pare.”
“Fa il timido, eh?”
Sherlock in tutta risposta blaterò qualcosa di incomprensibile, che tuttavia l’altra sembrò saper interpretare.
“Non preoccuparti. Tornerà.”
 
  
 
27 Ottobre
Pomeriggio
 
Imperial College, laboratorio di chimica.
Molly Hooper entrò nella piccola stanza, principalmente riempita da un unico grande tavolo colmo di strumentazione di vario genere, provette e becher, cartelle e fogli carichi di dati e grafici sparsi più o meno ovunque.
La giovane donna, anch’essa dottoranda in chimica, si guardò intorno desolata.
“Uomini…” mormorò con tono affranto, capendo che doveva arrendersi all’idea di trovare quella stanza in perenne disordine. Non le restava che mettersi il cuore in pace e accettare.
Lei stessa sapeva di non essere una particolare amante dell’ordine, tendeva a fare trecento cose insieme e non si preoccupava dei possibili danni, ma quel caos la debilitava mentalmente.
I suoi occhi si fissarono su un punto particolare del tavolo, precisamente all’angolo opposto rispetto alla porta. Lì dove di solito lavorava Sherlock.
Si avvicinò piano.
Era stata una sofferenza continua, con quel ragazzo. Fin dal primo momento si era resa conto che non le era affatto indifferente, ed ebbe un solo modo di spiegarsi il perché Holmes stesse antipatico a gran parte della gente, esclusa lei.
Sherlock le piaceva. Era così diverso dagli altri.
E davvero ci aveva provato a farsela passare, a ignorare la cosa, a guardare altri uomini, ma naturalmente non era servito a nulla. Anzi, aveva pure peggiorato le cose. Perché si era resa conto che anche negli altri uomini non faceva altro che cercare qualcosa che le ricordasse lui. Ma di Sherlock Holmes ce n’era uno solo al mondo, accidenti.
 
Negli ultimi tempi, però, andava meglio. Un giorno di poche settimane prima si era guardata allo specchio, gli occhi rossi e gonfi, la pelle chiara del viso magro striata di rosso per il troppo piangere: si era guardata e si era detta “Basta.”
Forse si era pure tirata uno schiaffo. Sarebbe stato molto da lei, doveva ammettere.
Quello stesso giorno aveva chiamato Sally Donovan, la sua unica amica in università, per un caffè e le aveva raccontato tutto. In realtà lei stessa sapeva bene di non essersi scelta l’interlocutore migliore, visto che Sally odiava a morte Sherlock – per un motivo, tra l’altro, che ancora non aveva compreso – ma almeno l’aveva aiutata. Aveva provato a mettere da parte il suo odio viscerale per cercare di darle qualche consiglio sincero.
“Molly, posso capire che tu abbia una cotta per lui,” aveva iniziato, per poi fermarsi a riflettere, “no, in realtà faccio fatica a capirlo… comunque… è tempo che ti lasci alle spalle tutto questo, o diventerai matta.”
Sally era più forte e indipendente di lei. Ed è per questo che a tanti non piaceva, soprattutto uomini – ma bisognava ammettere che l’antipatia era reciproca nella maggior parte dei casi.
“Sally, la fai facile tu. Non è uno schiocco di dita, decidi che te la fai passare e puff! succede…” aveva detto Molly, affondando il naso nel bicchierone di caffè. “Non funziona così.”
“Lo so, cara mia. Ma dimmi, cosa ci guadagni a trascinare avanti una cotta senza speranza?”
A quel punto l’altra aveva sollevato gli occhi verso di lei, spalancati e immensamente tristi.
“S-senza speranza?”
“Già.”
“E come fai a dirlo?”
“Come fai a non dirlo tu, piuttosto.” Aveva decretato la riccia, incrociando le braccia al petto.
“Non lo so,” aveva sospirato, “non sono esattamente un asso in questioni di cuore.”
“Nemmeno io, se per questo, frequento un ragazzo già impegnato che non riesce a decidersi tra me e la sua ragazza… cosa dovrei dire?”
E a quel punto Molly aveva riso, per la prima volta da giorni. “In effetti!”
“Ascolta, voglio solo farti capire questo. Sei una bella ragazza, Molly Hooper. Hai un sacco di opportunità che aspettano solo te. Non puoi perdere tempo in questo modo dietro a Holmes.”
“Ma tu lo dici solo perché ti sta sulle palle.”
La mora aveva sollevato gli occhi come a pensarci su: “Potrebbe essere un motivo, sì,” e aveva ghignato. “Ma no, non è solo per quello.”
“E allora cos’è?”
L’altra aveva sospirato. “Guarda, dopo questa sappi che mi devi almeno una birra, perché mi costa molta fatica.”
Molly l’aveva incitata a proseguire, promettendole non uno ma tre calici.
“Io vedo come ti guarda Sherlock e credo… che ti voglia bene. Ti tratta da stronzo come tratta chiunque ma con te… sicuramente ha dei riguardi. Il fatto è che è solo quello, nulla di più. Probabilmente ha anche capito cosa provi per lui ma è un dannato psicopatico e in queste cose non ci sa fare.”
“Non è uno psicopatico!”
Sally sollevò un sopracciglio, scettica. “Come vuoi. Ma in ogni caso, devi accettare il fatto che ciò che lui prova per te sia solo affetto. O almeno ciò di più simile all’affetto cui lui può arrivare.”
Molly la osservò per qualche secondo in silenzio, senza rispondere.
“Che c’è?!” scattò subito la riccia, sulla difensiva.
Molly ridacchiò: “Nulla, nulla. È solo che non pensavo lo osservassi tanto. Mi viene il dubbio che ti stia davvero così antipatico, sai?”
“Lui non mi sta antipatico, io non lo sopporto proprio.”
“Ma perché?”
Sally si era stretta nelle spalle. “Lasciamo perdere.”
 
Molly sorrise, scuotendo la testa divertita. Che tipa, Sally. Prima o poi avrebbe scoperto il motivo di tutto quell’astio…
“Cosa ti diverte tanto del laboratorio?”
La voce bassa e profonda che interruppe il filo dei suoi pensieri la fece sobbalzare sul posto. Emise un verso molto simile a uno squittio, lasciando cadere i fogli che aveva in mano. Chinandosi a raccoglierli, urtò col gomito un becker che rovinò a terra, col fragore tipico della plastica sulle mattonelle. Riemerse da quel marasma tutta scarmigliata: “C-ciao Sherlock.”
“Ciao,” rispose il ragazzo, guardingo. La osservò di sottecchi per un attimo: “Tutto ok?”
Molly sollevò gli occhi, stupita. Trovò a mala pena la voce per rispondere: “Sì, grazie. Tu?”
“Normale.” Rispose sbrigativo, guardandosi attorno in cerca di qualcosa.
Molly notò che i suoi modi erano bruschi, o almeno più bruschi del solito. Sollevava strumenti e boccette sempre più nervoso.
“Hai visto per caso…?” ma non finì nemmeno la frase.
Poi guardò dritto verso di lei. Gli occhi fissi su un punto all’altezza del suo viso. Allungò una mano avvicinandosi in fretta. Molly rimase inchiodata sul posto, dimenticandosi di respirare. La sua mano era sempre più vicina. Si attaccò al ripiano di marmo, le mani piccoline strette al bordo freddo.
Sherlock era davanti a lei. La mano all’altezza del suo volto.
“Permesso.” Mormorò, aprendo l’anta che si trovava esattamente dietro di lei.
Molly tirò un sospiro. Che sciocca. Ne aveva ancora di strada da fare, ma ce l’avrebbe fatta.
Magari un giorno lo schiaffo lo avrebbe tirato a lui, anziché a se stessa.
Si riscosse perché il ragazzo aveva rinchiuso l’anta con forza.
“Accidenti, ma possibile che qui non si trovi mai nulla?”
La ragazza intuì che forse non era il momento giusto per dirgli che la colpa per quel disordine era in gran parte sua.
Lo vide aggirarsi sempre più affaccendato nella piccola stanza, per poi esultare stringendo tra le dita sottili una provetta piena di un liquido verdastro. “Eccola finalmente! Stupida provetta.”
E in un nanosecondo si era già catapultato fuori dal laboratorio.
Molly si aggiustò la coda alta, facendosi forza per mettersi al lavoro: se possibile quel posto era ancora peggio di prima. Udì il fruscio di un foglio che finiva a terra; forse l’aveva perso Sherlock passando, forse era già lì ed era solo stato smosso dal suo agitarsi qua e là.
Lo tirò su guardando meglio: vi era riportato un calendario sbrigativo, fatto a mano, con le caselle di ottobre e novembre. Una serie di quadratini dal 12 ottobre in poi era crocettata in rosso fino al 27, data odierna. La casella seguente, quella del 28, era cerchiata plurime volte. Nessuna scritta, nessuna spiegazione.
La dottoranda vi si concentrò qualche minuto, cercando di capire a cosa potesse riferirsi quello strano countdown, ma non le sovvenne nulla. Forse un esperimento della sua ricerca di tesi.
Corrugò le sopracciglia confusa, per poi riappoggiare il foglio di fianco al microscopio di Sherlock.
“Chissà…”
 
***
 
Quello stesso giorno, verso sera, Arthur Pinner tornò a casa dopo una visita dal suo medico di fiducia.
“Tesoro, sono tornato!”
La moglie Agatha si affacciò dalla cucina, la testa tutta ricci cosparsa di farina. Si pulì in fretta le mani nel grembiulino arancione coi pizzetti che portava legato alla vita.
“E allora? Che ti ha detto?”
“Nulla di grave, a quanto pare! Mi ha prescritto un’ecografia all’addome, ma giusto come precauzione.”
“Oh, meno male, che sollievo. Ci hai messo tanto, però! Hai visto che ore sono?”
“Hai ragione, cara, ma non è colpa mia. Il dottore sembrava alquanto distratto oggi, ha messo due pazienti nello stesso orario e io ho lasciato la precedenza a una giovane signorina.”
“Ma… sul serio? Non è da lui. Il dottor Watson di solito è così scrupoloso…”
“Vero? Anche a me è sembrato molto strano. È stato anche un po’ scorbutico, devo ammettere.”
E a quel punto la donna rise di gusto.
“Vorrai dire più scorbutico del solito.”
Arthur fece un sorriso indulgente: “Non dire così, Agatha. È solo un uomo dai modi spicci.”
“Certo, come no. Guarda che vi vedo la mattina, sai? Tu sei sempre il primo a salutarlo quando va a correre, fosse per lui non direbbe ‘beh’! Quello è un asociale, te lo dico.”
E annuì da sola, come a convincersi maggiormente di aver ragione. In ogni caso suo marito non avrebbe potuto fare nulla per farle credere il contrario.
“Sarà, tesoro. Comunque è un ottimo medico.”
“Su questo non ci sono dubbi! Dai, vieni ad aiutarmi in cucina.”
 
 
To be continued
 
 
 
Note:
 
*Filo di Catgut. Per le suture chirurgiche possono essere utilizzati diversi tipi di filo, alcuni si assorbono naturalmente, altri vanno rimossi. Il filo di Catgut rientra nel primo tipo, con un tempo di riassorbimento di circa dieci giorni.
  
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