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Autore: Ksyl    10/01/2019    5 recensioni
Seguito di Crossroads, qualche mese dopo
Genere: Romantico | Stato: completa
Tipo di coppia: Het | Personaggi: Kate Beckett, Richard Castle
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno | Contesto: Nel futuro
Capitoli:
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Dopo il piccolo contrattempo che aveva ridotto di parecchio il tempo da dedicare ad altre attività ricreative socialmente accettabili, che a quel punto avevano perso gran parte della loro attrattiva – se lei avesse mostrato il minimo accenno a far saltare il suo piano, lo avrebbe fatto seduta stante e senza voltarsi indietro – si era assunto onorevolmente la responsabilità di scovare un locale adatto alle loro esigenze, che aveva ormai ridotto all'essenziale.
Si sarebbe fatto bastare del cibo vagamente commestibile, servito in piatti di ceramica posizionati su una tovaglia che fosse almeno di cotone - non voleva ripetere l'esperienza del pranzo del giorno precedente, in cui aveva avuto la sensazione che venissero usati oggetti di fortuna, capitati in cucina per caso.
Tutto quello che gli importava era tornarsene in quello stesso chalet dal quale aveva desiderato solo qualche ora prima evadere, senza che ne rammentasse precisamente il motivo. Probabilmente aveva solo voluto dimostrare a se stesso che andava tutto bene e che era in grado di comportarsi in modo normale, come tutti gli altri. Adesso si rendeva conto che era un'idea completamente idiota.
O forse gli ultimi accadimenti avevano cambiato le sue priorità, visto che non riusciva a pensare ad altro che infilarsi di nuovo con lei in quella doccia, dove li avrebbero ritrovati con la pelle violacea e raggrinzita, trasformati in anfibi. Sì, si rendeva conto che non era possibile, ma c'era un certo fascino in quella fantasia, a pensarci bene. Lei sarebbe stata bellissima in qualsiasi forma, anche non umana. Sorrise tra sé, mentre l'aiutava a salire in macchina, decidendo giudiziosamente di non metterla al corrente delle sue ultime stranezze, perché era sicuro che esistesse un limite invalicabile anche nella nuova Beckett, molto più indulgente rispetto al solito.

.

Il ristorante, scelto a caso, andava più che bene, si rese conto guardandosi intorno soddisfatto. Erano stati fatti accomodare a un tavolo collocato in una posizione riservata, proprio come da sua richiesta, vicino al grande camino, sopra il quale troneggiavano precoci decorazioni natalizie. Molto precoci, pensò, ricordando la ghirlanda appesa alla porta dello chalet, che avevano trovato rientrando quel mattino. Forse faceva parte di qualche tradizione della zona, o forse gli abitanti del posto non avevano abbastanza hobby che li tenessero impegnati.
L'atmosfera tra loro si era mantenuta leggera, avevano chiacchierato lungo il tragitto, divertendosi a punzecchiarsi come ai vecchi tempi, ma quando Kate ebbe finito di studiare il suo menu, e lo chiuse con un gesto secco, fissandolo con la familiare espressione perentoria, fu immediatamente chiaro che si stavano avviando verso il secondo round dello spiacevole confronto pomeridiano.
Non aveva avuto dubbi che lei non avrebbe abbandonato l'argomento finché non fosse stato sviscerato del tutto, perché non era difficile comprendere che si trattava di qualcosa che le stava molto a cuore e non gliene faceva una colpa. Ora che si era ripreso, e soprattutto calmato, riusciva a immaginare quanto dovesse essere stata terrificante per lei l'esperienza appena trascorsa – svegliarsi di colpo e trovarlo agonizzante, per non parlare del soggiorno forzato in un ospedale sconosciuto – e indovinava che avesse bisogno di razionalizzare il caos, indagare le cause, trovare una soluzione, aggrapparsi a dei punti fermi che la convincessero che non sarebbe più accaduto. In sintesi, aveva bisogno di recuperare una comprensibile parvenza di controllo sulla realtà.
Era quello che si augurava anche lui, ma non credeva che discuterne fino allo sfinimento sarebbe servito, come dimostrava il fallimento del loro precedente confronto.

"È di nuovo il momento di parlare, Beckett?", la precedette sorridendole, prendendosi un po' gioco di lei. Si sentiva allegro, spensierato. Al punto da riuscire a godersi sul serio la serata, tanto da aver quasi dimenticato la fatica, lo spavento e tutto il resto. Forse era stato soprattutto merito della doccia. Era miracoloso che fossero riusciti a uscirne, a un certo punto.
Invece di reagire al suo tentativo di fare dell'umorismo con il familiare sarcasmo, Beckett ammutolì, adombrandosi. Ci aveva visto giusto, si sentiva responsabile per come erano andate le cose allo chalet, quando si era sentito male per la seconda volta. Sospirò. Avevano solo bisogno di mettere una pietra sopra a quello che era successo, riderci su, raccontarlo come un aneddoto divertente, ma lei non era ancora pronta a farlo. E lui non gliene faceva una colpa. Voleva anzi andarle incontro, aiutarla, ma si rifiutava di dar troppa corda a quelle che, in tutta onestà, considerava delle fissazioni insane sulla sua salute di ferro.

"Non volevo turbarti. Sono stata troppo brusca, mi dispiace", ammise rammaricata, facendo una piccola smorfia con le labbra che trovò adorabile. Voleva prometterle che sarebbe andato tutto bene, ma non sarebbe servito, non si sarebbe convinta, ci aveva già provato. Prese del tempo che dedicò a imburrare un pezzo di pane, per impegnare le mani in qualcosa di concreto e intanto riflettere.
"E a me dispiace di averti spaventato e costretto a passare una notte in ospedale, il primo giorno della nostra vacanza".
Gli rivolse un sorriso incerto, disorientata dal cambio di direzione del discorso, che doveva aver progettato diversamente.
"Ora che ci siamo dispiaciuti entrambi...", proseguì lui, dopo che il cameriere che aveva silenziosamente portato loro le pietanze si fu eclissato con discrezione, senza disturbarli ulteriormente. Avrebbe lasciato un'ottima mancia, potevano starne certi.
"Posso sapere che cosa significa che siamo qui per me?". Era l'ultima cosa che gli aveva detto, prima che in lui tornasse a montare il malessere che aveva messo fine al discorso. Gli era rimasta la curiosità di saperlo e, se proprio dovevano discuterne, quella era una delle cose che a lui premeva di più chiarire. "Quando Allison mi ha chiamato per suggerire l'idea della vacanza mi ha fatto capire, anzi, l'ha proprio detto esplicitamente, che eri tu a non stare bene, cosa che in effetti non ero il solo ad aver notato, e che per questo avevi bisogno di cambiare aria. Ecco perché siamo qui".

Forse gli stava sfuggendo qualcosa, e non vedeva l'ora che lei illustrasse quel particolare punto, su cui non si era mai posto il problema dell'esistenza di opinioni contrastanti.
Sperò che si rendesse conto che era molto calmo, che non c'era il rischio che quello che si augurava fosse un pacato scambio di idee, degenerasse in un litigio o in nuovo episodio di ansia estrema. Aveva modulato il tono di voce perché non suonasse accusatorio e l'aveva guardata negli occhi con espressione franca – anche se tutto quello che aveva voglia di fare era baciarla, nonostante la notevole serietà che lei aveva messo in campo. Ma lei aveva altri piani, ed erano circondati dagli altri avventori, quindi aveva tenuto per sé i suoi istinti, pur sapendo che non erano la base ideale per una comunicazione efficace.

Prese tempo anche lei, distogliendo lo sguardo e giocherellando distrattamente con il bracciale che le aveva regalato milioni di anni prima e su cui anche lui concentrò la sua attenzione. Capiva che stava cercando un modo per esprimersi al meglio e rispondergli in modo adeguato, ma senza rischiare di far esplodere di nuovo i sintomi, possibilità che doveva ritenere non così remota. Quel continuo rimuginare a fin di bene, però, non era utile a nessuno. Forse avrebbe dovuto davvero baciarla davanti a tutti e farla finita, una buona volta.

"Hai ragione, avevamo entrambi bisogno di una pausa", ammise lei, con grande sfoggio di funambolismo discorsivo. "Ed è vero che sono un po' provata dagli ultimi mesi, ma...". Lo sapeva che quel maledetto ma sarebbe arrivato, a un certo punto, seguito da una fastidiosa pausa. "Ci siamo accorti...", non specificò chi fosse quel noi che aveva preso parte a un dibattito dal quale lui era stato evidentemente escluso. Si augurò che tagliasse corto con quelle infinite esitazioni, perché non le avrebbe sopportate a lungo. "Che eri molto, molto stanco anche tu. Stanco al punto da farci preoccupare seriamente, Castle", confessò a malincuore. "Far preoccupare me", si corresse, abbandonando quel plurale che aveva preso a dargli sui nervi.
La verità, che così tanto aveva desiderato sapere, si rivelò un'arma a doppio taglio che lo colpì nel profondo e gli fece male. Quel secondo round si stava rivelando più spiacevole del precedente.

"Temevi che fossi vicino a un crollo nervoso?" Era il colmo. "Sono stati mesi duri, sono d'accordo, ma non ho mai perso il lume della ragione, mi offendi se la pensi diversamente!"
Era piuttosto insultante che lo avessero creduto prossimo al tracollo. Lui era rimasto in piedi, dovevano riconoscerglielo, lei e chiunque altro fosse stato coinvolto in quelle macchinazioni segrete. Non aveva mai vacillato e le era sempre stato accanto, facendo tutto quello che era stato necessario per alleviare le difficoltà oggettive di una situazione ingarbugliata. E ora saltava fuori che il problema era lui, quando non aveva mai mostrato alcun segno di cedimento, proprio perché non ne aveva avuti? Non capiva se fossero impazziti tutti o se lui fosse finito in una realtà in cui le cose avevano preso a mutare impercettibilmente di senso, fino a confonderlo del tutto.

Kate gli accarezzò una mano, un tentativo di rabbonirlo forse, o magari di disinnescare una potenziale miccia. Alzò lo sguardo, un po' contrariato, ma ogni impulso belligerante si affievolì quando lesse nei suoi occhi sincera partecipazione e vicinanza, ma soprattutto immenso amore, che emanava da lei a ondate. Era lì per lui, sembrava suggerire ogni cellula del suo corpo proteso nella sua direzione, era dalla sua parte, non stavano combattendo una guerra in cui uno dei due avrebbe vinto, a discapito dell'altro.
Ciò nonostante, non sopportava che lei, tra tutti, lo avesse ritenuto un debole. Perché era proprio quella l'immagine che gli stava rimandando e lui scopriva che gli era intollerabile. Si era illuso che l'avesse fatta finita con l'assurda convinzione che quell'attacco di panico fosse la spia di un malessere ben più ampio che doveva essere investigato, e non un evento isolato, come invece lui era convinto che fosse. E siccome lui si conosceva meglio di chiunque altro, non intendeva avallare ulteriormente quella follia che stava prendendo contorni sempre più grotteschi.

"Castle, non sto insinuando che tu sia pazzo, e mi sorprende molto che tu sia giunto a una conclusione del genere", spiegò determinata a chiarire il suo punto di vista. "Stare male, aver combattuto a lungo e aver dato fondo a tutte le riserve di energia, ed essere perciò più vulnerabile del solito, non è qualcosa di cui vergognarsi". Le lanciò un'occhiata molto scettica, prima di riuscire a impedirselo. "Lo so, stai pensando che sono l'ultima persona autorizzata a farti la predica, ma sei stato tu a insegnarmi che essere forti non significa essere invincibili. Vale anche per te, non sei un super eroe. Hai subito un'esperienza drammatica, almeno questo devi riconoscerlo. Perché sei tanto ostile all'idea che quel trauma possa aver generato delle conseguenze?"
"Non sono affatto ostile, solo non capisco perché vi stiate concentrando su di me, come se fossi il solo a rischiare un tracollo. È la stessa esperienza che hai vissuto anche tu, e nel tuo caso per la seconda volta, perché per me dovrebbe essere diverso?".
Non si capacitava di come non riuscisse a farle comprendere quanto fossero illogiche le sue argomentazioni. E lei era altrettanto sconcertata dal fatto che lui si mostrasse tanto cocciuto, probabilmente.

"È vero, per me si tratta della seconda esperienza ed è proprio per questo che so riconoscere gli effetti dello stress post traumatico, quando li vedo, perché li ho già dovuti gestire grazie all'aiuto di un professionista. Riesco a cogliere i campanelli d'allarme. E sono stata aiutata moltissimo anche in questa circostanza, da te soprattutto", gli sorrise, grata. "Tu no. Guardiamo le cose con onestà", riprese subito dopo, per non interrompere il flusso. "Quando mi sono svegliata in ospedale, non ero sola. Tu eri accanto a me, vivo. E c'era la bambina. Avevo intorno tutta la nostra famiglia, se vogliamo metterla così, per quanto possa essere stato sconcertante scoprire in quel modo di essere incinta. Per te è stato diverso, infinitamente più orribile. Eri convinto che fossi morta, e non c'era nessuno con te, perché io ero altrove, incosciente. Non ero lì, Castle, non come tu lo sei stato per me. Hai creduto ai tuoi incubi, hai creduto che fossero reali, che io fossi stata ammazzata sul pavimento del loft. Riesci a vedere la differenza? Per me è stato diverso, meno traumatico, anche se ovviamente mi è impossibile non farmi ossessionare dall'immagine di un'esistenza da trascorrere in solitudine, senza averti accanto, pur sforzandomi di non pensarci. E, anche in quel caso, avrei avuto nostra figlia con me. Tu non avresti avuto nessuno, se io fossi morta", concluse, con voce spezzata, come se non riuscisse più a sopportare il carico della sua sofferenza, lo stillicidio che avrebbe significato per lui perderla e che lui aveva serbato scrupolosamente in un posto inaccessibile del suo cuore, ma che lei era riuscita a raggiungere.

Era un discorso che andava a toccare alcune delle loro zone inconsce più oscure e temibili, e che per questo avrebbe meritato un contesto molto più appropriato. Uno in cui lui potesse prendersi cura delle sue ferite. Nel silenzio attonito che era seguito alla sua accorata confessione, si sentì investito dalla potenza di un grumo di emozioni primordiali non mediate, che mai lei aveva condiviso con tanta onestà. Mentre lui si preoccupava per i bisogni concreti più urgenti – farla arrivare alla fine della gravidanza-, lei, in segreto, aveva accumulato ansie e timori per la sua salute psicologica. L'aveva osservato, studiato, il tutto in silenzio e struggendosi per quel serbatoio di dolore che aveva intuito, nel quale si era immedesimata con grande pena, ma che lui aveva sempre soppresso. Adesso gli era chiaro. Aveva proiettato l'ombra del trauma irrisolto, che lei aveva saputo raccogliere, e tentato di curare, senza che lui le desse la possibilità di affrontarlo apertamente. Come invece stavano facendo ora. Del resto, aveva passato l'intera giornata a negare di avere qualche problema, e protestare contro ogni minimo avvicinamento all'argomento.

Capì tutte queste cose grazie all'improvvisa epifania generata dalle sue parole, e si sentì frustrato perché era impotente. Non poteva abbracciarla, non poteva salvarla, asciugare le lacrime che minacciavano di erompere e farla tornare luminosa e spensierata, come era quando avevano fatto il loro ingresso, poco prima. E al centro di quel dolore c'era lui. Capì quanto dovesse essere stata male e quanto lo amasse, per essere rimasta in disparte, aspettandosi il peggio, che era in effetti arrivato, convinta che quella tragedia inespressa l'avrebbe eroso dentro, fino a venire a galla nel peggiore dei modi.

"Non sapevo che ti tormentassi così. Non me ne hai mai parlato", osservò a bassa voce, cercando di controllare il tumulto, rischiando di mostrarsi troppo freddo. Lei si asciugò furtivamente gli occhi. "Vuoi che ce ne andiamo?", le propose, convinto che fosse la soluzione migliore, chiedendosi perché mai avesse avuto la brillante idea di starsene in un luogo pubblico, quando invece avevano bisogno di un posto sicuro dove tirar fuori, e sperabilmente rilasciare senza troppi danni, i loro traumi privati.
Lei scosse la testa. Aveva talmente insistito per uscire a cena, che forse temeva di rovinargli la bella serata, rifletté con amarezza.
"Castle, ti rendi conto che non sei mai al centro dei tuoi discorsi, non ti metti mai al primo posto? Ti preoccupi solo di come mi sento io, anche adesso. È normale che da qualche parte il tuo malessere si faccia vivo, comprimi tutte le emozioni fino a farle esplodere", continuò in tono più concitato, come se trovasse frustrante il fatto che lui non sembrasse capire.

"Kate..." esordì con grande tenerezza dopo aver raccolto le idee, tenendole la mano e accarezzandole il polso. "Sei stata sottoposta a un intervento chirurgico difficile e complicato, dopo il quale hanno deciso di indurti un coma farmacologico, considerandolo l'opzione migliore tra tutte. Nel frattempo avevi perso un sacco di sangue ed eri a malapena viva, eri quasi spettrale in quel letto, credimi. In più eri incinta, e non lo sapeva nessuno, ed era un problema enorme, data la situazione. Come potevo non prendermi cura di te, stare al tuo capezzale, accertarmi che respirassi, che ti nutrissi adeguatamente, che i fantasmi non tornassero a ossessionarti, mentre venivi riempita di pillole per accelerare la ripresa fisica, dovendo condividere le tue risorse con un altro minuscolo essere umano? Come potevo occuparmi di altro, di me stesso magari, quando ti amo più di ogni altra cosa al mondo, al punto che se c'è stato un momento in cui ho seriamente rischiato di impazzire, è stato quando avevo le allucinazioni nelle quali scomparivi, rifiutandoti di portarmi via con te, nonostante ti implorassi di farlo? Come puoi chiedermelo? Non posso farlo, Kate. Non in questa circostanza, né mai. E se significa comprimermi fino al punto di esplodere, come hai detto tu, lo farò. Ma non aspettarti che mi comporti diversamente, non quando ti amo così tanto da star sveglio di notte per contare i tuoi respiri. Perché hai ragione, Kate, non posso vivere senza di te".
Non voleva apparirle melodrammatico, ma era esattamente così che la pensava. E non avrebbe cambiato idea, per nessun motivo, nemmeno su sua richiesta. Faceva parte della sua essenza più profonda. Lei ascoltò il lungo flusso ininterrotto delle sue parole con crescente smarrimento. Alla fine, dopo una lunga pausa, si prese la testa tra le mani, gemendo in modo impercettibile, chiudendosi in se stessa.

Non aveva idea di cosa fare, era prioritario che se ne andassero, ma lei aveva rifiutato la sua proposta e così erano inchiodati lì. Se ne stava immobile, facendo aumentare la sua apprensione. Perché non stava bene, era evidente.
"È tutta colpa mia", annunciò alla fine con voce a malapena udibile.
A dirla tutta iniziava a sentirsi un po' smarrito di fronte alla piega estremamente emotiva che aveva preso la giornata. Mesi a girarci intorno perché nessuno si agitasse generando catastrofiche conseguenze e poi di colpo i panieri si aprivano vomitando tutto il non detto che li aveva silenziosamente avvelenati.
Desiderò fortemente essere lontano da lì, ma non poteva costringerla. Mandò al diavolo la cena e la buona educazione, si alzò e prese posto accanto a lei, chinandosi per averla il più vicina possibile e toglierla da quell'incubo – il senso di colpa generalizzato - in cui aveva intuito andasse a infilarsi quando la vedeva assente.

"Non lo è, Kate. Non è colpa di nessuno". Scandì bene le parole, perché ne cogliesse il significato, nonostante lo stato d'animo alterato.
Gli rivolse uno sguardo di cupa disperazione. "Ti ho messo io in questa situazione. Ti ho perfino lasciato, per correr dietro a chissà cosa, nell'ansia di ottenere giustizia, come se fossi l'unica in grado di farlo. E ho messo in mezzo pure una bambina, tanto per chiudere il cerchio. Potevamo morire tutti, Castle. E sarei stata l'unica colpevole".
Sentirla parlare in quel modo lo gelò nel profondo, perché non si aspettava che si stesse ancora tormentando in quel modo per il passato. O meglio, l'aveva sospettato, ma aveva creduto che la lama che le scavava costantemente le carni non fosse stata tanto affilata. Perché non era giusto che lo fosse, e doveva farglielo capire, anche se dubitava che l'approccio più sensato – spiegarglielo razionalmente – fosse quello più efficace.

"Mi hai lasciato per proteggermi", ribatté serissimo, ripetendo le esatte parole con cui si era giustificata credendoci fino in fondo, e che in realtà non aveva trovato così illogiche, trattandosi di lei, e considerando la loro storia in generale. Lo aveva fatto anche lui, tanto tempo prima, aveva deciso per entrambi, pensando di agire per il meglio.
Lo guardò, prima convinta di aver sentito male, e poi incredula per la sua sfacciataggine. Alla fine le venne un po' da ridere, quando lui le fece l'occhiolino. Aveva ottenuto la reazione che sperava.
"È la cosa più stupida che abbia mai fatto. Non succederà più, Castle, te lo prometto. Non ti lascerò mai più, per nessun motivo", annunciò con fervore, probabilmente indotto dal fatto di essere ancora un po' scossa per tutte quelle emozioni soverchianti. E gli ormoni. Valutò se farla partecipe delle sue riflessioni, ma sarebbe equivalso a spingersi troppo oltre, quindi rimase zitto, prima di trovarsi con una fioriera in testa.
"È la seconda volta che me lo ripeti oggi, comincio a pensare che tu stia seriamente prendendo in considerazione il divorzio".
Lei sbuffò, sperò per l'assurdità dell'ipotesi e non perché frustrata dal doversi intrattenere con un interlocutore incapace come lui.

Le prese entrambe le mani. "Ora devi ascoltarmi, Beckett, perché non lo dirò un'altra volta". Lo avrebbe fatto, invece, per tutto il tempo in cui sarebbe stato necessario, ma gli piaceva aumentare un po' il pathos. "Non è stata colpa tua, non hai premuto tu il grilletto contro di noi. E hai fatto quello che ritenevi giusto, quello che fai sempre, quello per cui sei così brava nel tuo lavoro. Volevi giustizia. Volevi scovare e arrestare il colpevole, anche se era pericoloso, perché tu non ti tiri mai indietro, non quando ci sono vittime da onorare. E non sapevi di essere incinta. Te ne devi convincere, una volta per tutte. Avrai commesso degli errori, come tutti, ma devi smettere di sentirti in colpa. O in debito con me, con la bambina, con l'universo e non so chi altri, forse il tuo futuro marito boscaiolo".
Non reagì alla battuta, segno che non era ancora pronta a lasciar andare del tutto la questione. O l'attaccamento doloroso ormai cronicizzato che la teneva legata a essa.

"Non pensi che sia stato sbagliato dare la caccia a LokSat?". Ecco il nocciolo della questione. Finalmente era saltato fuori.
"Era sbagliato come lo era riaprire il caso di tua madre, e altrettanto pericoloso, però lo abbiamo fatto lo stesso. Anzi, in quella circostanza sono stato io a insistere, peccando di leggerezza e forse mettendoti a rischio. Ma i veri colpevoli sono quelli che compiono azioni deprecabili, non chi dà loro la caccia per consegnarli alla giustizia. Potevamo morire tutti, è vero, ma siamo vivi. Non possiamo cambiare il passato, ma non possiamo nemmeno lasciare che rovini il presente, significherebbe sprecare la vita che ci è stata regalata", concluse, credendo fortemente in quello che aveva appena espresso.

Lo guardò a lungo in silenzio. "Pensi di raccogliere tutte queste tue frasi motivazionali in un libro?", sbottò alla fine, senza all'apparenza tradire alcuna malizia. Castle scoppiò a ridere di gusto. Era tornata la vecchia Beckett e lui non avrebbe avuto scampo. Non era mai stato più felice.
"Io ti parlo con il cuore umano e tu sai solo prenderti gioco di me", la rimproverò sorridendole. La bufera era passata. Lei era visibilmente più sollevata e anche lui si era tolto un macigno dal petto, qualcosa che non aveva saputo di trascinarsi dietro a fatica e che l'aveva esaurito, generando gli eventi degli ultimi tempi.

Era ancora un po' frastornato per tutte quelle verità improvvisamente rivelate, tanto che, una volta tornato al suo posto, abbandonò l'idea di terminare la cena, non se la sentiva più di mangiare. Era lieto che avessero parlato, si fossero chiariti. Lieto che quella sensazione strisciante che l'aveva convinto che si stessero allontanando si fosse rivelata infondata. Forse avrebbero dovuto farlo prima - aprirsi con sincerità- , ma non era stato possibile. Erano stati troppo presi a sopravvivere, a mettere bandierine sugli obbiettivi raggiunti, a dar forza, ciascuno a modo proprio, alla figlia che doveva nascere a qualsiasi costo, perché altrimenti quello che avevano vissuto e superato non avrebbe avuto senso.

L'aveva sempre amata tanto – lo sapevano tutti e lui si pregiava di essere diventato nel tempo una sorta di unità di misura imbattibile per quanto riguardava l'intensità del vero amore, nessuno poteva amare qualcuno più di quanto lui era arrivato ad amarla, era pronto a essere sfidato sull'argomento – ma in quel momento sentì che non ci sarebbe mai stata una fine, un limite al sentimento che provava e avrebbe provato in futuro. Forse questo l'avrebbe esposto ad altre sofferenze, come quelle che aveva già sperimentato, o altre più fantasiose, ma non gli importava. Tutto quello che voleva era lei, tenerle la mano, sorriderle, confortarla e prometterle che sarebbe andato tutto bene.

   
 
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