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Autore: maybeitsadream    11/01/2019    0 recensioni
1944, Barcellona.
Ognuno ricorda, ognuno sa cos'ha sepolto sotto la cenere. Liam ha seppellito suo fratello, Zayn la sua personalità.
Importante: i familiari dei protagonisti, a eccezione della mamma di Liam, avranno nomi diversi da quelli reali.
Genere: Angst, Introspettivo, Malinconico | Stato: completa
Tipo di coppia: Slash | Personaggi: Liam Payne, Zayn Malik
Note: AU | Avvertimenti: nessuno
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C'era un incubo ricorrente che mi perseguitava dagli anni del conflitto. Un ricordo.

Percorrevo in fretta le gallerie del metrò, dando indicazioni alla popolazione civile affinché nessuno si facesse male. Poco dopo uscivo all'aria aperta, sotto il cielo coperto della notte più buia della mia vita; lì incontravo un ragazzino che cercava disperatamente sua madre: aveva il volto rigato di lacrime e urlava a squarciagola nella speranza di ricongiungersi alla sua famiglia. Mi avvicinavo piano, per non spaventarlo, con la certezza assoluta di non svegliarmi mai più. 

«Dov'è la mia mamma?», mi domandava singhiozzando.

Non facevo in tempo a rispondergli: la bomba veniva sganciata a una distanza troppo breve da lì, scagliata contro un palazzo che si disfaceva come cenere. Urlavo mentre venivo scaraventato a qualche metro di distanza. Quando riaprivo gli occhi, il ragazzino non era accanto a me.

Era la notte tra il 17 e il 18 Marzo del 1938.

Quel ragazzino morì per lo schianto: l'esplosione lo scaraventò contro la facciata di un palazzo vicino, un colpo troppo violento per pensare di sopravvivere. Ritrovai il suo cadavere non so quanto tempo dopo. L'impatto con l'asfalto della strada mi fece perdere i sensi; quando ripresi conoscenza, era ancora notte fonda e sanguinavo dalla coscia destra. Ma mi misi in piedi, perché avevo bisogno di ritrovare quel ragazzino.

Non dovetti cercare a lungo. Lo trovai a terra, in una pozza di sangue scuro che aveva smesso di espandersi. Il battito del cuore completamente assente. Gli accarezzai la testa ricoperta da morbidi capelli castani trattenendo le lacrime e gli abbassai definitivamente le palpebre, nascondendo per sempre al mondo l'innocenza dei suoi occhi. Erano marroni, dello stesso colore del cioccolato. 

Sognai quella scena anche quella notte, rincuorato solo parzialmente dalla consapevolezza che quel ricordo fosse rinchiuso nel passato. Ma non esiste passato per certe cose: l'atemporalità del tempo si dimostra in ricordi del genere, intrappolati fra le linee dell'esistenza e destinati a non svanire mai, a essere sempre porzione del presente, del continuo sentire la vita. 

Col passare degli anni ho imparato a conviverci. Col senso di colpa. Perché quello provai di fronte al cadavere. Se solo mi fossi avvicinato più velocemente e lo avessi trascinato con me giù per le scale, avrebbe avuto la possibilità di vivere la vita che gli spettava. Magari a morire sarei stato io, e non mi sarei opposto, colpevole di aver assistito a troppo orrore per meritare altri respiri. 

Non c'era giorno in cui non pensassi a lui, a quegli occhi marroni stracolmi di lacrime che si rincorrevano furiose sul terreno scarno delle sue guance. Non perché fu l'unico bambino che trovai morto - perché ce ne furono molti -, ma perché fu colpa mia. 

Ricordo per punizione. 
Ricordo tutto. Ricordo.

E piansi al mio risveglio, come accadeva sempre dopo quell'incubo. Don Federico mi sorprese in lacrime e, conoscendo la storia, mi abbracciò come fanno i padri. Non ci fu bisogno di parole, ma mi aggrappai al suo corpo possente con tutte le forze che mi restavano nelle braccia. 

Nessuno dovrebbe conoscere la distruzione, tantomeno i bambini.

Mi disse che non era colpa mia, che in guerra era accaduto di tutto e che nessuno avrebbe potuto evitarlo; mi tranquillizzò come suo solito e, dopo una buona mezz'ora, riuscì a calmarmi del tutto. 

«Preparati, oggi andiamo a Park Güell.»

«Perché?»

«Perché hai bisogno di aria fresca e quel parco è una meraviglia.»

Non trovai alcun motivo per ribattere e lo accontentai. Si preoccupava per me e, dopo il pessimo risveglio che avevo avuto, voleva farmi passare una bella giornata; era senza dubbio l'uomo migliore che conoscessi.

Proveniva da una ricca famiglia di imprenditori. Non avrebbe avuto bisogno di lavorare, perché aveva ereditato un'importante fortuna che gli avrebbe permesso di vivere da benestante fino alla morte, ma non gli piaceva starsene con le mani in mano. Aveva fondato la casa editrice perché amava leggere e lo entusiasmava l'idea di lanciare nuovi promettenti autori. 

Qualche mese prima aveva trovato delle idee che avevo appuntato su un taccuino in pelle che conservavo da quando vivevo per strada e mi aveva domandato per quale motivo non mi mettessi a scrivere per davvero; si era detto orgoglioso di avere l'opportunità di presentarmi al panorama letterario. Io avevo rifiutato, ancora troppo intimidito dalla grandezza di un mondo che mi affascinava ma che preferivo adorare da lontano. 

«Voglio che tu stia bene, Zayn», mi disse quando uscimmo dalla pensione.

*

Prima di dirigerci verso il parco, don Federico mi comunicò di dover fare tappa alla libreria del signor Martínez: dovevano parlare di un certo romanzo e io dovevo accompagnarlo. Non distava poi molto dalla pensione: a piedi ci avremmo impiegato forse una ventina di minuti. 

Non ci ero mai entrato, in genere aspettavo in macchina, ma quella mattina don Federico insistette e dovetti accompagnarlo all'interno. L'ambiente non era molto grande, talmente pieno di libri da dare l'impressione di essere sul punto di esplodere.

Ricordai l'incubo e, nonostante il dolce odore dei libri che impregnava le pareti, mi intristii. Rimasi trincerato dietro la mia aria assente mentre don Federico si avvicinava al bancone per discutere con il signor Martínez. Mi persi a fissare il vuoto e fui distratto solo da una voce, la stessa voce di qualche giorno prima, che augurava un allegro buongiorno.

Liam fece il suo ingresso dal retro, armato di un sorriso incoraggiante che mi permise di non pensare al mio passato. Rimasi sorpreso: non lo conoscevo affatto, eppure riusciva a farmi spegnere la mente. Forse era l'attrazione che provavo nei suoi confronti e che non avevo faticato ad accettare, oppure semplicemente la curiosità che suscitano le novità; qualsiasi cosa fosse, comunque, quel ragazzo era in grado di confondermi. 

Non riconobbi sul suo viso quell'espressione saccente che ricordavo e ne fui sollevato: preferivo evitare discussioni anche banali. 

Don Federico gli rivolse un sorriso cordiale e poi azzardò una proposta che mi vedeva coinvolto.

«Perché non aiuti Zayn a scegliere un libro?»

«Cosa?», chiesi non capendo il perché di quella richiesta.

«Scegli un libro, è un regalo che voglio farti.»

Senza darmi il tempo di replicare, si voltò nuovamente verso il signor Martínez, lasciandomi preda di due occhi tremendamente belli che mi guardavano attenti.

Dopo l'incontro sulla rambla, don Federico mi aveva posto delle domande per comprendere per quale motivo mi fossi incantato di fronte alla bancarella; non gli avevo fornito nessuna risposta, e lui aveva ridacchiato come soddisfatto. Probabilmente aveva capito tutto, perché mi conosceva bene e mi diceva sempre che non avevo segreti per lui, ma non mi interessava confidare a qualcuno i pensieri che mi avevano perseguitato per sei giorni e che mi avevano portato a immaginare oltre il consentito. Almeno non in quel momento. Volevo soltanto godermi quelle nuove sensazioni, e capirci qualcosa da solo, per fare le mie esperienze, per provare a riprendere in mano ogni aspetto della mia vita.

«Ha già qualcosa in mente?»

«No, io... non me lo aspettavo. Posso chiederle se possedete una copia di Notre-Dame de Paris di Hugo?»

«Certo, mi segua.»

Mi mossi veloce alle sue spalle, seguendolo fino a uno scaffale consunto che ospitava qualche decina di volumi. 

Il signor Martínez aveva ereditato la libreria da suo padre, che l'aveva aperta insieme a sua moglie molto tempo prima. Era il primo di quattro figli, l'unico a essere sopravvissuto alla guerra civile. È incredibile come intere famiglie siano state cancellate dal ricordo della terra madre.

Non aveva avuto figli né si era mai sposato. Amava i libri che vendeva, e temeva che, alla sua morte, il suo piccolo tesoro si sarebbe perso per sempre; così aveva scelto come suo aiutante Liam, sul cui conto don Federico non mi aveva raccontato nulla, e gli aveva fatto promettere che non avrebbe mai abbandonato quei pochi metri quadrati di Paradiso.

«Cercava un'edizione particolare?»

«No, va bene quella che ha preso», gli feci sapere riferendomi alla copia che teneva fra le mani. «Grazie.»

Si avvicinò al suo capo e comunicò il prezzo direttamente a don Federico, che pagò immediatamente la quantità di pesetas richiesta e domandò se fosse possibile confezionarlo come un regalo. Avrei voluto dirgli che non era necessario, ma non aprii bocca. Dopotutto andava bene così.

«Grazie», gli dissi quando fummo usciti dalla libreria, pronti a osservare l'intera città dall'alto.

«Non doveva.»

«Ma volevo. Bella scelta, comunque. Immagino comincerai a leggerlo stasera stesso.»

«Vorrei. Sempre che non le serva che la porti da qualche parte.»

«Oggi non sei in servizio, Zayn.»

«Ma sto guidando la sua automobile e-»

«Esatto: stai guidando la mia automobile. E stiamo andando a Park Güell, perciò smettila di parlare e pensa solo alla strada e a un posto in cui mangiare per pranzo. Devi fare soltanto questo, d'accordo?»

«D'accordo.»

*

Fu bello trascorrere ore intere all'aria aperta, ad ammirare Barcellona dal punto più alto del parco e a lasciarsi accarezzare dal vento leggero che agitava piano le foglie degli alberi. Don Federico non mi fece strane domande, non mi chiese intime confidenze, e gliene fui veramente molto grato. Mi lasciò ai miei ricordi, mentre fumava il suo sigaro e contemplava il silenzio.

Pensai a mia madre, mi domandai come stesse, se sentisse la mia mancanza ogni giorno o se le capitasse soltanto in occasioni particolari. Nelle sue lettere mi faceva sapere come procedeva la vita nella capitale inglese in tempo di guerra, mi raccontava che diversi soldati erano arrivati in Italia per liberarla dai nazifascisti, mi domandava se, dopo il conflitto, sarei tornato da lei. Io le rispondevo parlandole di don Federico, di quanto bene mi facesse la sua presenza, della consapevolezza che non fosse mio padre, perché mio padre era stato uno soltanto, morto in guerra ormai tanto tempo prima. Non avevo ricordi che potessero suggerirmi il tocco delle sue carezze né il suono della sua voce. Mia madre conservava una fotografia risalente al giorno del loro matrimonio, avvenuto nel 1916, che li ritraeva in espressioni un poco inquiete, come se sentissero il peso della guerra avvicinarsi alla loro nuova intimità; aveva tante altre fotografie dell'uomo che aveva amato, ma ai miei occhi risultava sempre un estraneo.

Mio padre era un bell'uomo. Provavo per lui un timoroso rispetto, ma nient'altro che mi legasse a lui come figlio. Non lo avevo conosciuto e non gliene facevo una colpa: a quel tempo tutti erano chiamati a combattere, e lui aveva solo obbedito. 

Mia madre mi diceva spesso che gli somigliavo molto, forse pensando che la constatazione avrebbe potuto suscitare in me un certo moto d'orgoglio; purtroppo per lei, incassavo la notizia con tranquillità, senza avere reazioni importanti da ricordare. Sapeva che tipo ero e, siccome mi amava dell'amore che era destinato anche a suo marito e a suo fratello, accettava ogni mio strano comportamento acconsentendo. Tutto tranne la mia avversione nei confronti del nazifascismo. Probabilmente tentava di tenermi buono su quel fronte perché aveva paura che le strappassero via anche me, l'unica persona che le era rimasta da amare, ma alla fine, di fronte a Guernica, non aveva potuto più nulla: il mio desiderio di far valere gli ideali della democrazia era venuto fuori troppo forte, impedendole anche solo di pensare di tenermi al suo fianco.

Don Federico mi suggeriva di andare a farle visita, perché, secondo lui, era evidente che sentissi la sua mancanza; io gli rispondevo che tornare in Inghilterra era fuori discussione, che, almeno allora, non avrei più messo piede a Londra, che non volevo assistere a un'altra guerra. Lui allora taceva, rispettando le mie volontà e lasciandomi libero di scegliere ciò che secondo me era meglio per me.

Da lassù si vedeva il mare, quella immensa distesa che mi aveva raccolto sette anni prima.

«Posso farle una domanda, don Federico?», gli chiesi avvicinandomi a lui.

«Certo che puoi.»

«Non ha mai pensato di costruirsi una famiglia?»

«Mai. Non credo nell'istituzione del matrimonio e non era nei miei piani avere dei figli. Quando avevo la tua età, volevo soltanto divertirmi con i miei amici e leggere tutti i libri del mondo. I ragazzi che conoscevo, e che poi sono diventati uomini e mariti e padri, sono morti durante gli anni della guerra civile. Più volte mi sono domandato perché io fossi sopravvissuto e loro no. Non ho mai trovato la risposta, probabilmente perché non c'è. Probabilmente perché Dio non esiste, perché, se fosse esistito veramente, niente di quello che è accaduto sarebbe accaduto.»

Rimasi in silenzio. Conoscevo l'ateismo di don Federico e lo condividevo: in guerra vidi cose che nessuno meriterebbe di vedere.

«Perché questa domanda? Guarda che, se vuoi farti una famiglia, non ti serve la mia approvazione. Però per quelli come te è alquanto difficile.»

Avvampai e «No», risposi. «Non voglio farmi una famiglia, non adesso almeno. È solo che lei per me è come un padre e me lo sono sempre chiesto. Mi perdoni se sono stato indiscreto.»

Non mi rispose. Per qualche minuto nessuno parlò e ricominciai a pensare.

A mia madre. Alle nostre lettere. Alle fotografie di mio padre. Alla nostra presunta somiglianza. Alla mancanza che non sentivo di lui.

Poco dopo cominciammo la discesa e ci fermammo a pranzare in un locale poco pretenzioso: don Federico si era mostrato ampiamente disponibile con me, ma non avevo intenzione di fargli spendere troppi soldi. Non avevo molta fame, ma fui costretto a ordinare la specialità del giorno e a mangiarla tutta, altrimenti sarei tornato alla pensione a piedi.

Quando, poi, fummo entrambi sazi, andammo via.

*

I giorni successivi si susseguirono stancamente, quasi trascinandosi annoiati. Lavoravo, leggevo e appuntavo qualcosa sul mio taccuino, annotazioni di tipo storico perlopiù: avevo avuto l'ispirazione per scrivere una storia, ma volevo documentarmi per bene, per curare ogni dettaglio alla perfezione. Per questo motivo avevo bisogno di più libri, e per questo motivo tornai alla libreria del signor Martínez.

Trovai Liam al bancone, impegnato a leggere qualcosa su un enorme quaderno.

«Salve», mi annunciai.

Sollevò la testa e mi sorrise. «Buon pomeriggio», rispose. «Cerca qualcosa in particolare?»

«In realtà sì: avrei bisogno di qualche volume di storia. Basso Medioevo.»

«Mi lasci dare un'occhiata.»

Si allontanò per cercare i libri che gli avevo richiesto e in quel momento realizzai che neanche quel giorno aveva addosso un'aria saccente. Lo osservai con sguardo curioso: era concentrato in ciò che faceva e sembrava perfetto lì, in mezzo a migliaia di pagine che potevano vantarsi di essere state accarezzate dalle sue dita.

Desiderai essere una di loro.

Tornò poi da me e mi porse tre tomi. «Ho trovato questi. Più tardi chiederò al signor Martínez per procurargliene degli altri.»

«Grazie.»

Pagai e uscii. Quando ero già di nuovo all'aria aperta, mi sentii chiamare. Mi voltai: Liam era sull'uscio e mi guardava, come in attesa.

«Volevo scusarmi per essere stato scortese quando ci siamo visti per la prima volta. Le... sì, insomma, le rose può regalarle a chi vuole.» Ridacchiai. «Mi perdona?»

Sorrisi e ripresi a camminare.

Forse, in fondo, non ero mai stato arrabbiato con lui.

   
 
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