Storie originali > Storico
Segui la storia  |       
Autore: Adeia Di Elferas    11/01/2019    1 recensioni
Caterina Sforza, nota come la Leonessa di Romagna, venne alla luce a Milano, nel 1463. Si distinse fin da bambina per la sua propensione al comando e alle armi, dando prova di grande prontezza di spirito e di indomito coraggio.
Bella, istruita, intelligente, abile politica e fiera guerriera, Caterina passò alla storia non solo come grande donna, ma anche come madre di Giovanni dalle Bande Nere.
La sua vita fu così mirabolante e piena di azione che ella stessa - a quanto pare - sul letto di morte confessò ad un frate: "Se io potessi scrivere tutto, farei stupire il mondo..."
[STORIA NON ANCORA REVISIONATA]
Genere: Drammatico, Generale, Guerra | Stato: in corso
Tipo di coppia: Nessuna
Note: nessuna | Avvertimenti: Contenuti forti, Tematiche delicate, Violenza | Contesto: Rinascimento
Capitoli:
 <<    >>
Per recensire esegui il login o registrati.
Dimensione del testo A A A
 

Davanti alla chiesa di San Girolamo era stato eretto un palco eccezionalmente ricco. C'erano decine di torce, scudi, trofei e pompe di ogni genere. I forlivesi che avevano deciso di accorrere in massa al funerale, erano rimasti spiazzati da una simile manifestazione di ricchezza e potenza.

Così come vennero sorpresi dal corteo che partì dalla rocca di Ravaldino per accompagnare la salma.

In una città immobile, con tutte le botteghe chiuse e le strade gremite di gente, il Vescovo Monsignor Dall'Aste aprì il corteo, seguito dal Capitolo al completo. Davano, con il loro passo cadenzato e con i loro canti, il ritmo a tutta la processione.

Subito alle loro spalle seguiva il Magistrato, assieme a Ottaviano Riario, vestito in modo elegantissimo, in raso e seta neri, affiancato da Simone Ridolfi, che aveva prediletto un abbigliamento meno appariscente, ma altrettanto consono alla situazione. Dietro di loro seguivano Tommaso Feo, che per l'occasione si era risistemato a dovere, tornando ad assomigliare all'uomo fiero e sicuro di sé che era stato da giovane, e Carlo Manfredi, cugino del defunto.

Dopo di loro, poi, c'era la bara, trasportata in spalla dai Battuti Neri e circondata da quattro accompagnatori d'eccellenza.

Era stata la Contessa a sceglierli. Ufficialmente, aveva detto, perché uomini d'armi di grande valore, e quindi adatti a seguire un feretro di tal importanza, ma in realtà la scelta era ricaduta su di loro per un motivo molto meno coreografico.

La donna non aveva mai capito fino a che punto Forlì avesse conosciuto Manfredi e temeva che potesse esserci qualche disordine. Secondo l'Oliva, c'erano malumori per quella sepoltura in città, soprattutto perché tanti temevano che quel gesto avrebbe portato gli stessi assassini del faentino a una reazione violenta.

Era ancora troppo fresco il ricordo della paura seguita alla morte del Conte Riario e, ancora di più, della confusione e della mezza guerra civile che aveva fatto da coda alla dipartita del Barone Feo.

Così Caterina aveva voluto quattro condottieri di rango, come fossero guardie del corpo, che tenessero a bada, in caso di bisogno, il popolo, evitando a chiunque di avvicinarsi alla bara, sia che fosse per atti di vandalismo, sia che fosse per qualche attentato più serio.

E così, armati di tutto punto, con armature scintillanti – ma solide e non da parata – ai lati dei Battuti Neri stavano sfilando Achille Tiberti, Dionigi Naldi, Pretone da Modigliana e Giorgio Attendolo da Cotignola.

Quest'ultimo era stato una sorpresa, per la Contessa. Giorgio si era presentato alla rocca il giorno prima, professandosi amico di prima gioventù di Ottaviano Manfredi. Il suo cognome, poi, aveva fatto da garanzia per lui e la Sforza aveva deciso di accordargli la sua fiducia. L'Attendolo, poi, si era offerto subito per entrare a suo servizio, ma almeno su quel punto la Tigre aveva preferito rimandare il discorso a dopo il funerale.

In coda, dietro al feretro, c'erano poi la Tigre con i figli – eccezion fatta per Giovannino, che era stato lasciato alla rocca, sotto la custodia del castellano – in qualità di famiglia del defunto.

Bernardi, che era tra la folla che accolse il corteo davanti alla chiesa di San Girolamo, si fece largo tra quelli che gli stavano vicino per poter guardare meglio.

Ciò che gli premeva soprattutto era vedere in che stato fosse la Contessa. Dal suo atteggiamento, infatti, si illudeva di poter capire che cosa attendesse la città. Tuttavia rimase molto deluso, quando si accorse che la donna portava uno spesso velo nero sul viso, per celare la sua espressione e, probabilmente, le sue lacrime.

Quella che gli parve il desiderio di celare ai forlivesi il suo cordoglio, però, dai forlivesi stessi venne letto in tutt'altro modo.

Tutt'attorno a lui, infatti, la gente cominciava a commentare, confidando nei canti dei religiosi, che coprivano in parte le loro chiacchiere.

Vedendo la Leonessa con il viso coperto e vestita interamente di nero, e, accanto a lei, la figlia, parimenti a lutto, ma dal volto appena celato, tanto da poter vedere distintamente le sue copiose lacrime, molti dei presenti cominciarono a dire che la Sforza e la Riario sembravano entrambe le vedove del Manfredi, più che le di lui futura suocera e promessa sposa.

Il Novacula trovava quelle insinuazioni cattive e fuori luogo, in un giorno come quello, ma non ebbe il tempo di ascoltare altro, perché il corteo, assieme a parte degli astanti, cominciava ad accalcarsi in chiesa, e lui voleva assolutamente riuscire a entrare.

Caterina, assieme ai figli, andò a sistemarsi proprio davanti all'altare. Sull'altro lato, sempre in prima fila, restarono Tommaso Feo, Ottaviano, Simone Ridolfi e Carlo Manfredi.

Prima di cominciare il funerale, dopo gli ultimi canti, che risuonavano con tanta forza tra le navate, da rendere impossibile sentire altro, uno dei religiosi del convento andò sul pulpito e, ottenuta l'attenzione di tutti, si prodigò in una lunghissima e accorata orazione di lode nei confronti del povero Ottaviano Manfredi.

Le sue parole furono così profonde e sentite, che quando terminò il suo discorso, la chiesa si riempì di applausi.

La Tigre rimase stupita, da quel gesto da parte dei forlivesi e cercò di essere oggettiva e pensare che fosse frutto esclusivamente della capacità retorica di quel prete e non un sincero apprezzamento per il faentino.

Bianca, invece, si commosse profondamente, e cominciò a guardarsi alle spalle, quasi volesse ringraziare tutti i presenti per quella manifestazione di cordoglio.

La madre fu a un passo dal dirle di smetterla, ma sapeva che se avesse provato a parlare, probabilmente non avrebbe trattenuto nemmeno lei le lacrime. Aveva il velo nero sul volto, ma non voleva lasciar trapelare il suo dolore, tanto meno la sua rabbia. Temeva troppo una controreazione del popolo, nel caso si fossero accorti del suo stato d'animo.

Sapeva che stava giocando con il fuoco, e anche se aveva deciso di essere severa, ma non eccessiva, con i prigionieri, quando le fossero stati portati, si rendeva conto che nello scoprirla troppo furibonda o sconvolta per la morte del suo amante, i forlivesi avrebbero dubito pensato che si stesse avvicinando una repressione simile a quella del 1495.

Quando arrivò il momento di seppellire Manfredi, su espressa richiesta di uno degli officianti, molti uscirono dalla chiesa, lasciando solo la Contessa, la sua famiglia e i suoi fedelissimi ad assistere alla tumulazione.

Caterina aveva scelto la tomba di Barbara Manfredi, nella cappella di San Bernardino. Si trattava della zia del faentino, moglie di Pino Ordelaffi. Era un modo come un altro per riportarlo simbolicamente a casa.

Si era accorta che Bernardino era sfuggito alla sua vista, ma quando l'aveva scorto correre verso la cappella dei Feo, l'aveva lasciato andare. Era nel suo diritto, pensava, stare sulla tomba del padre, se lo faceva stare meglio.

Mentre i manovali, accompagnati sempre dalle orazioni e dalle preghiere dei chierici, svolgevano il loro compito, l'Oliva si avvicinò con discrezione alla Sforza e le sussurrò: “Abbiamo novità da Firenze: loro pensano che i colpevoli siano dei valdilamonesi mossi da Faenza.”

“Ed è la stessa cosa che pensano le vostre spie?” domandò in un soffio la donna, senza voltarsi a guardarlo.

Sentiva addosso lo sguardo giudicante di Bianca, che, gli occhi arrossati per il pianto, la fissava incredula, come se non ritenesse possibile che anche quella volta sua madre pensasse agli affari di Stato e non al proprio dolore.

“Più o meno. Le persone sospettate sono le stesse, ma secondo i nostri uomini, i mandanti sarebbero di Bologna.” spiegò l'uomo, schiarendosi appena la voce, parlando un po' più forte, per contrastare i canti che si erano intensificati: “Mentre l'oratore di Bologna ha tenuto a dire che il suo signore è completamente estraneo e che piuttosto è Firenze da sospettarsi.”

La Contessa sospirò, guardando quasi distrattamente il feretro di Manfredi che spariva dietro la pietra, trovando finalmente la sua ultima dimora.

“Portatemi i due capi della congiura.” ribadì la Sforza: “Li interrogherò di persona.”

Quelle ultime parole non vennero sentite solo dall'Oliva – che annuì con serietà e poi si ritirò, lasciando la sua signora libera di tornare a pregare – ma anche da Bianca, che le stava alla sinistra e da Galeazzo, che le stava alla destra.

Se la ragazza, però, reagì tornando a guardare verso la tomba del faentino con una sorta di soddisfazione dipinta in volto, Galeazzo apparve più preoccupato, un po' spiazzato, quasi avesse improvvisamente paura della madre.

La donna colse entrambe le sfumature, ma non se ne curò. Tornò a concentrarsi sulle preghiere che stavano accompagnando la sepoltura e sperò con tutta se stessa di riuscire, almeno quella volta, a gestirsi.

 

“Certo che potete restare qualche giorno...” disse piano Caterina, senza sollevare lo sguardo su Tommaso, ma versandosi ancora un po' di passito.

Era ormai sera e quella giornata era stata infinita, per lei. Dopo il funerale, aveva fatto radunare il suo Consiglio ristretto, per discutere le novità. Avevano discusso della congiura ai danni di Manfredi, ma, soprattutto della ratificazione della pace tra Venezia e Firenze.

La Tigre ne era uscita distrutta, non tanto per la durata della riunione, che era andata ben oltre le sue attese, ma per il continuo parlare sia di Lorenzo il Popolano, sia di Ottaviano Manfredi.

Se nel primo caso il solo nome le metteva la nausea, nel secondo ogni volta in cui qualcuno faceva accenno al faentino, lei sentiva il bisogno di restare sola e piangere, ma doveva ricacciare indietro tutte quelle emozioni e costringersi a continuare per la sua strada, quasi come se il suo amante non fosse stato altro che un numero.

“Non ve l'avrei mai chiesto...” sussurrò Tommaso, guardando un po' stranito la camera della Contessa: “Ma non ho voglia di tornare a Imola da mia sorella, né di ripartire subito per il Bosco.”

“Vi ho detto che potete restare, non discutiamone più.” tagliò corto la Contessa, iniziando a bere, a piccoli sorsi.

Aveva deciso di incontrare il Feo proprio lì solo perché era stanca. Almeno, non appena l'avesse congedato, avrebbe potuto coricarsi e cercare di dormire.

Si era resa conto troppo tardi che quella non era stata una scelta oculata. Tommaso era ancora troppo interessato a lei, per prendere quell'invito per quello che era. I suoi occhi scuri stavano passando in rassegna ogni angolo della camera, posandosi sul letto, sulla scrivania sulla quale la donna aveva sistemato la brocchetta di passito, sui libri, sulla cassapanca, sugli oggetti che erano stati di Giovanni...

“Vi darò una sistemazione qui alla rocca – fece Caterina, nella speranza di indurlo ad andarsene più in fretta – se preferite.”

“No, no, non è necessario...” sollevò le mani Tommaso, capendo che con quel tono la Tigre volesse solo farlo uscire da lì il prima possibile: “Prenderò una camera in una locanda. Volevo solo sapere se ho il vostro permesso per restare in città.”

Vuotando il bicchierino che aveva tra le mani, la donna annuì di nuovo e poi, benché volesse davvero liquidarlo, gli chiese: “Siete stato tanto a Imola?”

“Qualche giorno...” rispose lui, vago.

“Avete avuto modo di vedere Gian Piero Landriani, il castellano?” domandò lei, che, in fondo, si fidava ancora ciecamente del giudizio di Tommaso.

“L'ho incontrato, sì. Mi ha chiesto lui di potermi incontrare. Voleva parlare di Bianca.” spiegò il Feo, abbassando lo sguardo nel fare il nome della defunta moglie.

Caterina, che pensava di rado alla sorella, così come alla madre, deglutì e poi continuò: “E come vi è parso?”

“Posso parlare in modo franco?” chiese l'uomo, giungendo la mani in grembo e tormentandosi il labbro coi denti.

“Come sempre, Tommaso. Quando mai ho preteso altro, da voi?” chiese, retorica, la donna.

“Fossi in voi, se è vero che vi aspettate una guerra – disse allora lui – lo sostituirei subito con qualcuno di più giovane, meno demotivato e più capace.”

Colpita dalla durezza del giudizio del Feo nei confronti del suocero, la Leonessa si versò di nuovo da bere e annuì senza commentare.

“Se questo è tutto...” soffiò lui e, congedato da un cenno della mano della sua signora, lasciò la stanza.

Rimasta sola, Caterina si mise a pensare alle parole del cognato. Aveva già preso in considerazione una volta, di sostituire Gian Piero. Fino a quel momento non aveva nessun nome papabile, ma adesso cominciava a credere che Dionigi Naldi potesse dimostrarsi un castellano di prim'ordine, in tempo di guerra.

Bevve ancora un po', abbastanza da rendersi così sonnolenta da non riuscire a pensare ad altro e si andò a coricare. Anche quella giornata infinita era giunta al termine. Ormai non le restava che aspettare l'arrivo dei due congiurati che l'Oliva aveva promesso di far catturare. Una volta sentite le loro ragioni, avrebbe tratto le sue conclusioni, e da lì avrebbe deciso che fare.

 

“Ah, e così l'ha fatto seppellire lei...” soppesò Alessandro VI, guardando Raffaele Sansoni Riario in tralice: “Una bella spesa davvero. Cento messe, avete detto?”

“Mia cugina ha deciso di sobbarcarsi le spese in riguardo al lignaggio di messer Manfredi e in memoria dell'amicizia che lo legava a suo figlio, Ottaviano, vostro figlioccio.” precisò il Cardinale, chinando un po' il capo, servile: “Ha organizzato una cerimonia che pare sia delle migliori, con molti uomini d'armi importanti per scortare il feretro e tanti personaggi vicini a lei e al povero messer Manfredi. Questo è un genere di spese che mia cugina fa molto volentieri, essendo una donna profondamente giusta e...”

“Sì, sì, ho capito, ho capito...” lo zittì il Santo Padre, che quel giorno non riusciva che a pensare a sua figlia, il cui ventre – secondo lui, benché fosse quasi impossibile, visto il poco tempo trascorso dal concepimento – cominciava già a vedersi troppo: “Quindi l'ha fatto seppellire a Forlì.” ripeté, distratto.

“Sì, Vostra Santità...” annuì il Cardinale: “Ecco perché mio cugino, Cesare Riario, ancora non è partito per Roma. Prima voleva restare accanto alla madre, per consolarla...”

“Comprensibile.” commentò freddo il papa, ben immaginandosi, visto quel che si diceva su Cesare Riario, che tipo di conforto potesse dare un simile pretucolo a una donna come la Sforza.

“Volevo solo informarvi di questo.” concluse Raffaele, inchinandosi e stringendo poi nel pugno il crocifisso che portava al petto.

“Bene, allora potete andare.” fece il Borja, indicandogli la porta con un cenno del capo: “Ho altro da fare, al momento.”

Appena il Cardinale se ne fu andato, Rodrigo si grattò il grande naso e poi, la mente che ribolliva di idee e congetture, si ritrovò ad accantonare per qualche minuto la gelosia che provava per sua figlia e concentrarsi su quanto gli era stato riferito.

Si rese conto di aver sottovalutato parecchio la vicinanza di Ottaviano Manfredi alla Tigre di Forlì.

All'improvviso si trovò a pensare alle conseguenze della morte improvvisa del giovane faentino, ma non quanto in merito all'eventuale vendetta della donna, o risvolti politici tra lei e Firenze o Faenza. Quello che l'aveva colpito era stato il sentire Raffaele accennare alla presenza di molti importanti uomini d'armi alla corte della Leonessa.

Una cosa aveva capito di lei fin dal primo momento, ovvero che non era una sprovveduta. Di certo, tra tutti i signori di Romagna, lei era tra le poche, se non l'unica, ad aver subodorato le sue intenzioni. Quel circondarsi di condottieri non poteva che voler dire una cosa: in lutto o meno per il suo ennesimo amante scannato in una congiura, quella donna si stava preparando alla guerra.

Così, sperando tra sé che dalla Francia giungesse finalmente la liberatoria notizia del matrimonio di suo figlio Cesare con quella maledetta Charlotte d'Albret mandò a chiamare uno dei suoi scrivani più fidati e, non appena questi fu pronto, il papa dettò: “Al nostro carissimo messer Achille Tiberti...”

 

Caterina faceva finta di leggere il libro che teneva tra le mani, ma di fatto stava ragionando senza sosta sulla sua condizione.

La morte di Ottaviano Manfredi aveva scatenato in lei una reazione ben più profonda di quanto non lasciasse trasparire. Quell'omicidio, così brutale, a sentire i testimoni, le era parso un affronto personale, un attacco diretto. Di fatto, il faentino non era nessuno: non aveva un esercito, non aveva soldi e si poteva quasi dire che non avesse nemmeno un nome, dato che suo padre aveva lasciato il governo con infamia, permettendo a Galeotto di prendere il suo posto senza troppa fatica.

L'unico motivo che potesse spingere qualcuno ad architettare una simile congiura, secondo la Sforza, poteva essere indebolire lei.

Era di dominio pubblico, ormai, il fatto che fossero amanti, e anche che gli avesse promessa in sposa Bianca, nel caso in cui avesse ucciso Astorre.

Tutti, in Romagna e non solo, ricordavano la sua instabilità quando le era stato ucciso Giacomo, dunque non ci si poteva sorprendere se anche alla morte di Ottaviano fosse uscita di testa. In quel modo, sarebbe stata vulnerabile e quindi attaccabile.

Distrattamente, la donna allungò una mano verso il vassoietto su cui aveva fatto mettere un po' delle mandorle arrivate giusto quel giorno da Firenze. Masticò con calma, quasi senza sentirne il gusto. Fortunati era stato gentile, a spedirgliele, ma Caterina avrebbe di gran lunga preferito avere lui in carne e ossa, prodigo di spiegazioni e resoconti oggettivi di quanto fosse realmente accaduto a San Benedetto.

Giovannino giocava sul tappeto davanti a lei. Di quando in quando la guardava e poi tornava a concentrarsi sul suo cavaliere di legno. Era silenzioso, come se avesse paura di disturbarla, e, malgrado l'apparente disinteresse della madre nei suoi confronti, quel giorno proprio non voleva separarsene.

Tornando ad aprire il libro con un sospiro, la Contessa cominciò a elencare le persone che avrebbero potuto trarre giovamento da un suo improvviso calo di attenzione. E l'elenco era anche abbastanza lungo.

In primis pensò ai faentini, che sotto sotto non avevano mai rinunciato all'idea di prenderle le terre e che in più sapevano dell'aperta minaccia costituita da Ottaviano Manfredi. Poi pensò a Roma, con il papa che non aspettava altro che un suo passo falso per dare il via a una campagna militare volta a distruggerla. Poi pensò a Bologna, che ancora non aveva digerito le sue azioni di sabotaggio e che, per di più, vedeva un nipote di Giovanni Bentivoglio – Astorre – come possibile avamposto in Romagna. Pensò anche a Firenze, dove Lorenzo il Popolano lavorava di continuo per screditarla e convincere la Signoria a scaricarla una volta e per tutte. Arrivò anche a valutare le posizioni di Venezia e Napoli, rifiutandosi invece di coinvolgere Milano nelle sue elucubrazioni.

Con ciò, aveva richiamato da Milano Baldraccani. Non fidava a mandargli lettere e voleva parlargli di persona. Voleva capire in che stato vertesse realmente il Ducato e, soprattutto, suo zio Ludovico.

Aspettava anche l'arrivo di Andrea Pazzi, per discutere con lui la sua posizione nei confronti di Firenze, ma l'ambasciatore non aveva ancora dato segni di vita.

Quando la porta della sala delle letture si aprì con un breve cigolio, la donna chiuse di scatto il libro, voltandosi per vedere chi fosse entrato.

L'Oliva le aveva detto che, secondo lui, era questione di ore, prima che i congiurati venissero portati da lei in catene e così ogni volta che qualcuno si presentava a disturbarla, si illudeva che fosse il castellano per annunciare il loro arrivo.

E invece sulla soglia c'era suo figlio Cesare. Vestito come sempre da prete, la tonsura perfetta, le mani scheletriche giunte, sul petto, come preghiera, e il viso scarno pieno di ombre.

“Che vuoi?” chiese la Leonessa, riaprendo il libro, come per fargli capire che non aveva tempo da dedicargli.

Il ragazzo, dopo un'occhiataccia al fratello più piccolo, che al suo arrivo si era subito avvicinato alla Tigre, un po' come se ne cercasse la protezione, si schiarì la voce e disse: “Io oggi sarei dovuto partire per Roma...”

“Tu adesso non vai da nessuna parte.” ribatté Caterina, prendendo in braccio Giovannino, che le si era aggrappato alle gonne: “Scrivi pure a tuo cugino Raffaele che non è il momento per te di andare a Roma e che partirai appena lo deciderò io.”

“Ma, madre...” iniziò a dire il Riario, che anche quel giorno aveva ricevuto una missiva dal Cardinale, in cui gli domandava quando sarebbe partito per l'Urbe.

“Ti ho detto che tu non vai da nessuna parte!” esplose la Sforza, liberando tutta d'un colpo la rabbia, che sobbolliva appena sotto la superficie: “Nessuno va da nessuna parte! Io non voglio avere un figlio sulla coscienza!”

Giovannino si era spaventato, per lo scatto della madre, ma, invece di piangere o scappare, le si era aggrappato con maggior forza.

Così quando la donna si alzò, il piccolo le restò incollato come una scimmia al ramo e la Leonessa poté solo sorreggerlo con il braccio, capendo che provare a lasciarlo giù sarebbe stato quasi impossibile: “Ho già perso Livio, non perderò un altro figlio!” continuò a inveire: “Possibile che né tu né quel codardo di tuo fratello Ottaviano abbiate capito che Manfredi l'hanno ucciso per colpire me?!”

Cesare aveva fatto un passo indietro, ma, come spesso accadeva con lui, invece di scappare o essere terrorizzato come avrebbe fatto il fratello maggiore, era rimasto saldo nella sua posizione, il mento alto e gli occhi fissi in quelli della madre: “Dio vi ha tolto Livio per punirvi dei vostri peccati. Manfredi è morto perché, per seguire voi, si è macchiato di colpe orrende. Se io andassi a Roma...”

“Ti giuro che se fosse per me – concluse la donna, risedendosi con un tonfo, il figlio più piccolo sempre al collo – ti lascerei partire anche subito, che ti ammazzino pure, non mi importerebbe.”

“E allora perché non mi lasciate andare?” chiese il Riario, che non riusciva nemmeno più a soffrire per le parole avvelenate della madre.

“Perché se riuscissero a uccidere uno dei miei figli, allora tutti saprebbero che non ho le spalle coperte da nessuno. Apparirei debole. E non voglio, per nessun motivo, mettere a rischio me stessa, il mio Stato e i tuoi fratelli solo perché tu devi andare dal papa a recitare qualche rosario.” spiegò Caterina: “Che poi, con quello che il papa vuole farci... Hai un bel coraggio, a voler correre da lui...”

Il giovane chinò il capo, il massetere che si contraeva di continuo, sotto alla pelle pallida e sottile.

“Adesso sparisci, per favore...” soffiò la Contessa, senza guardarlo: “Non ho voglia di parlarti.”

Cesare strinse le labbra sottili, incassando quella dichiarazione, così semplice e crudele da riaccendere in lui un barlume di dolore. Anche se negli anni aveva imparato a fare a meno dell'amore di sua madre, tanto da trincerarsi dietro una completa assenza di sentimenti nei confronti della Tigre, c'erano momenti, come quello, in cui l'ostilità che gli veniva rivolta era più ferale di una pugnalata.

Il Riario stava per andarsene, per esaudire il desiderio della donna che, l'aveva detto senza mezzi termini, non lo voleva nemmeno sentire, quando nella sala delle letture arrivò il castellano.

Nel vedere Cesare Feo, la Sforza sentì il cuore battere più veloce e il sangue scorrere impetuoso nelle vene: “Li avete trovati? Li avete presi?”

Il castellano annuì e, mentre la Tigre si staccava a viva forza da Giovannino, che si metteva a piangere disperato, spiegò: “Hanno consegnato dodici congiurati a Firenze. Erano quasi tutti di Val di Lamone. L'avamposto fiorentino li ha presi e ha detto che verranno tradotti in città, per il processo. Poi ne hanno consegnato uno a Faenza e...”

“Qui chi è arrivato?” chiese sbrigativa Caterina, interrompendo l'uomo e ignorando tanto lo sguardo penetrante del figlio Cesare, quanto i singhiozzi del più piccolo.

“Galeotto Bosi, di Val di Lamone, che ha reclutato quelli finiti a Firenze. E Pietro Francesco Corbizzi.” rispose il castellano, improvvisamente spaventato dagli occhi della sua signora, che si erano fatto scuri, come un mare di notte.

“Il figlio di Corbizzi...” fece la Leonessa, attonita.

“Lui, mia signora.” confermò il Feo.

Sentendo quella rivelazione, la Contessa si passò una mano sulle labbra, iniziando a sudare freddo.

Cominciava a capire, forse, quel che era successo, ma non ne sarebbe stata certa finché non li avesse interrogati di persona.

“Fateli portare nella sala degli interrogatori. Prima Galeotto Bosi.” decise, valutando in un lampo da chi cominciare.

Il castellano annuì e uscì dalla sala delle letture. A quel punto Caterina guardò Giovannino, che ancora piangeva, anche se cominciava a calmarsi.

“Vai a cercare tua sorella. Che si occupi di lui, mentre io sono impegnata.” ordinò, rivolgendosi a Cesare.

Il ragazzo fece uno sbuffo e ribatté: “Impegnata ad ammazzare due uomini.”

“Ti avverto.” lo riprese la madre, afferrandolo repentinamente per la collottola: “Ancora una parola fuori posto e giuro che ti faccio sparire. Dirò che sei andato in ritiro spirituale su qualche monte o che ti sei dato all'eremitaggio, non mi interessa, una scusa la trovo!”

Il Riario deglutì e poi soffiò: “Vado a cercare Bianca.”

Mentre aspettava l'arrivo della figlia, la Tigre si chiese cosa avrebbe fatto. Non voleva trascendere, voleva spremere al meglio i prigionieri e capire il più possibile chi e cosa ci fosse dietro alla morte di Ottaviano Manfredi.

Si accorse che le mani le tremavano. Il cuore frullava nel petto come un uccello in catene. Le pulsavano le orecchie, sentiva la bocca secca e ogni minimo rumore la faceva scattare. Fu tentata di andare nella sua spelonca da strega e prendere un po' della sua pozione, per calmarsi.

Poi l'occhio le cadde su Giovannino. Non piangeva più, ma la fissava. Nei suoi occhi scuri e profondi, lesse una silenziosa richiesta. A quel punto non se la sentì più, di andare a drogarsi per affrontare i suoi doveri.

L'ultima volta, aveva rischiato di non uscirne più, e quindi non voleva ricaderci. L'oppio le avrebbe dato sollievo, all'inizio, ma avrebbe rischiato di nuovo di renderla schiava e lei aveva dei figli da proteggere, che le piacesse o meno, e quindi doveva essere lucida e presente a se stessa, per quanto possibile.

Quando Bianca arrivò, Giovannino le andò incontro e si fece prendere in braccio. Caterina lo guardò per un istante. A tratti la preoccupava, l'attaccamento che il suo ultimogenito mostrava nei confronti suoi e della sorella. Temeva il momento in cui avesse dovuto staccarsi da loro. Forse era un momento che non sarebbe mai arrivato, ma con tutte le minacce che alitavano su di loro, non poteva escluderlo.

“Avete bisogno di me?” chiese la ragazza, stringendo a sé il fratellino e dedicandogli un sorriso.

“Hanno portato a Forlì i due capi della congiura in cui è morto Manfredi – spiegò in fretta la donna, dando una carezza un po' tremula alla fronte del figlio – e adesso li porteranno qui alla rocca. Sto andando a interrogarli.”

La Riario trattenne il fiato e, allungando una mano verso la madre, le strinse il braccio e le sussurrò, con voce sicura, per quanto bassa: “Fate quel che si deve.”

La Contessa annuì e, scostandosi dalla presa della figlia, commentò: “Come sempre.”

 
 
   
 
Leggi le 1 recensioni
Segui la storia  |        |  Torna su
Cosa pensi della storia?
Per recensire esegui il login oppure registrati.
Capitoli:
 <<    >>
Torna indietro / Vai alla categoria: Storie originali > Storico / Vai alla pagina dell'autore: Adeia Di Elferas