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Autore: Adeia Di Elferas    12/01/2019    1 recensioni
Caterina Sforza, nota come la Leonessa di Romagna, venne alla luce a Milano, nel 1463. Si distinse fin da bambina per la sua propensione al comando e alle armi, dando prova di grande prontezza di spirito e di indomito coraggio.
Bella, istruita, intelligente, abile politica e fiera guerriera, Caterina passò alla storia non solo come grande donna, ma anche come madre di Giovanni dalle Bande Nere.
La sua vita fu così mirabolante e piena di azione che ella stessa - a quanto pare - sul letto di morte confessò ad un frate: "Se io potessi scrivere tutto, farei stupire il mondo..."
[STORIA NON ANCORA REVISIONATA]
Genere: Drammatico, Generale, Guerra | Stato: in corso
Tipo di coppia: Nessuna
Note: nessuna | Avvertimenti: Contenuti forti, Tematiche delicate, Violenza | Contesto: Rinascimento
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La discesa alle segrete fu tutt'altro che facile, per Caterina. Era da molto tempo, ormai, che non si addentrava nei sotterranei e man mano che si avvicinava alla sala degli interrogatori, sentiva l'ansia crescere.

Arrivata a destinazione, si massaggiò la fronte, prima di entrare. Chiese a una delle guardie che attendeva accanto alla porta di chiamare l'aguzzino e poi, finalmente, entrò.

Il primo dei prigionieri che aveva chiesto di sentire era in piedi in mezzo alla stanza. C'era un'illuminazione a giorno, esattamente come tanti anni prima e quel dettaglio, forse, atterriva ancor di più chi entrava in quell'angusta cella.

Un paio di soldati controllavano che il carcerato non cercasse di scappare, e la Tigre si accorse subito che a parte un laccio per le mani, quell'uomo non aveva altro impedimento alla fuga. Se non fosse stata così tesa, probabilmente avrebbe fatto la paternale a chi di dovere, per quella leggerezza.

Osservò con attenzione il prigioniero. Non era mal messo. Abbastanza giovane, ben piazzato, senza alcun segno di percosse, eccezion fatta per un piccolo taglio al labbro, di certo reliquato di un pugno.

“Sei Galeotto Bosi?” domandò la Sforza, restando a un metro abbondante da lui.

Era disarmata e non voleva lasciarsi cogliere impreparata, nel caso in cui il valdilamonese cercasse di attaccarla, nel disperato tentativo di scapparle.

L'altro fece un ghigno e poi, guardando prima un soldato, poi l'altro e solo alla fine la Contessa, scosse il capo: “I vostri uomini hanno creduto di prendere Galeotto, anche se io ho continuato a dir loro che si sbagliavano. Io sono suo fratello, Gabriele. Galeotto non lo prenderete mai.”

Quell'ultima frase in particolare, sputata con un'arroganza impareggiabile, fece capire alla donna che il prigioniero non stava mentendo.

“Prenderemo anche lui.” affermò, senza lasciarsi intimidire né scomporre: “Ma prima tocca a te.”

Bosi, all'improvviso, non sembrava più tanto sicuro di sé. Era stato certo, nel rivelare finalmente la sua identità anche alla Sforza, di destabilizzarla. E invece gli fu chiaro fin da subito che a lei interessava solo relativamente chi fosse.

“C'eri anche tu, a San Benedetto?” chiese, mentre dalla porta si profilava l'aguzzino, con i suoi ferri del mestiere.

L'uomo, distratto dall'arrivo del tirapiedi della Leonessa, non sentì nemmeno la domanda.

“Ti ho chiesto: c'eri anche tu, a San Benedetto?” ribadì la donna, cominciando a perdere la pazienza.

Siccome il carcerato ancora non rispondeva, Caterina diede ordine che venisse legato meglio e imbavagliato. Lo fece mettere in un angolo della cella, guardato a vista da uno dei soldati e poi ordinò che venisse portato il figlio di Corbizzi.

“Tu sei Pietro Francesco Corbizzi?” chiese, sperando che almeno lui rispondesse con un semplice sì.

Questi, più giovane del Bosi e decisamente più sicuro di sé, raddrizzò la schiena e la guardò, sputando in terra: “Sì, sono io, strega che non sei altro.”

La Contessa aveva ritirato il piede appena in tempo per non essere centrata dalla saliva del prigioniero e gli disse, indicando Bosi: “Conosci quell'uomo? Sai dirmi chi è?”

Corbizzi si voltò verso il valdilamonese. Sembrava che fino a quel momento non si fosse accorto di lui. Aggrottando la fronte annuì.

“Lui è Gabriele Bosi.” rispose, senza pensarci: “Perché me lo chiedi?”

“C'era anche lui a San Benedetto?” indagò la Sforza, facendosi intanto passare una spada dall'aguzzino.

“Certo che c'era anche lui!” esclamò Corbizzi, scatenando all'istante le rimostranze dell'altro, che, contorcendosi come poteva, cercava di negare, capendo, troppo tardi ormai, che da quella cella non sarebbe uscito vivo, a quel modo: “Ha fatto quel che si doveva! Uccideteci pure, non abbiamo paura! Abbiamo vendicato mio padre, abbiamo fatto quel che andava fatto per togliere di mezzo un traditore di Firenze!”

“Che hai detto?” soffiò la Leonessa, smettendo di avanzare verso Bosi e tornando a fissare il castrocarese.

Pietro Francesco, che aveva saputo fin dal momento in cui era stato catturato, di essere votato alla morte, gonfiò il petto e disse, articolando le parole al meglio che poteva: “Quell'animale di Ottaviano Manfredi ha ucciso mio padre e l'ha fatto perché mio padre parteggiava per Firenze, come me. Io sono un eroe. Un eroe per Firenze! Un eroe per Castrocaro! Un eroe per...”

Il colpo al viso gli arrivò tanto forte e repentino che non solo la voce gli morì in gola, ma l'uomo barcollò e per poco non cadde.

Intanto Bosi stava continuando il suo lamento, cercando di levarsi il bavaglio e dire la sua e così Caterina, un profondo cerchio alla testa che cominciava a infastidirla ordinò che gli venisse momentaneamente tolto.

“Io... Io no! Io no!” esclamò Gabriele, gli occhi folli di paura rivolti alla spada che la donna ancora teneva in mano: “Io non sono un uomo di Firenze! Ho partecipato solo perché Ottaviano Manfredi voleva uccidere suo cugino... Io... La mia famiglia deve molto ai Manfredi, Astorre Manfredi ci protegge, ci proteggerà... Se mi uccidete... Se mi uccidete...”

“Cosa? Se ti uccidiamo che capiterà? Sei convinto che Astorre Manfredi scatenerebbe una guerra per te?” lo sbeffeggiò la Leonessa, avanzando minacciosa verso di lui e poi ordinando a una delle guardie: “Portatelo via. Fatelo giustiziare in privato, subito, vi do al massimo mezz'ora per trovare un boia e giustiziarlo. Fatelo a pezzi ed esponete i suoi resti alla popolazione. Che si sappia che certi crimini non restano impuniti. Ha ammesso di aver fatto parte della squadra di uomini che ha ucciso Ottaviano Manfredi. Deve pagare.”

Mentre Gabriele Bosi veniva portato via tra urla e implorazioni, la Contessa si concentrò meglio su Corbizzi. Poteva scorgere un velo di inquietudine nei suoi occhi, ma, insieme, c'era una determinazione particolare, quella tipica di chi sa di non aver più nulla da perdere.

Le ricordò in modo impressionante l'aria di sfida che aveva acceso lo sguardo di Ludovico Marcobelli che, interrogato da lei, aveva continuato imperterrito a insultare Giacomo, fino a farla scoppiare e farsi uccidere.

Nella cella erano rimasti solo loro due, l'aguzzino e un soldato. La tentazione di chiedere agli ultimi due di uscire fu forte, ma alla fine la Sforza desistette. Corbizzi, a differenza di com'era stato Marcobelli, non era ferito, era perfettamente in forze e non poteva quindi escludere che le desse del filo da torcere.

“Racconta quello che è successo. Voglio sapere anche come avete fatto a trovarlo e a sorprenderlo, e chi vi mandava.” gli disse lei, la spada in pugno e il tanfo di quella stanza chiusa e polverosa che le riempiva le narici.

Più tempo passava lì sotto, più si sentiva tornare indietro negli anni. Cos'era cambiato, in fondo, dal 1495? La vita era forse stata più morbida, con lei? Non le sembrava. Aveva conosciuto di nuovo la felicità, con Giovanni, ma era durata per un soffio. Aveva creduto di poter trovare una sorta di consolazione in Manfredi, e le avevano tolto anche quello.

Corbizzi avrebbe voluto chiudersi in un sonoro silenzio, ma in fondo ci teneva a dimostrare quanto fosse stato bravo e intelligente e così ripercorse ciò che era accaduto, fin dall'inizio, come richiesto dalla sua carceriera.

“Uno degli uomini di Galeotto Bosi aveva sentito dire che Ottaviano Manfredi era passato per Castrocaro.” spiegò Pietro Francesco, le labbra che si sollevavano in una smorfia: “Io ero fuori città, ma appena sono tornato ne ho avuto conferma. Io e Bosi ci siamo messi d'accordo: aspettavamo un'occasione simile da molto tempo. Siamo partiti subito e abbiamo continuato a camminare anche di notte, per precederlo. Ci siamo nascosti tra le piante, al limitare del bosco e abbiamo aspettato. Io sono rimasto indietro, però, perché sapevo che quel bandito era sveglio. E ho fatto bene, perché se non fosse stato per me, che lo aspettavo a valle, sarebbe riuscito a scappare.”

Quel resoconto ripercorreva in modo abbastanza fedele quel che anche Fortunati aveva scritto sulla caduta di Manfredi.

“Allora sei stato tu a tirarlo giù dal cavallo...” fece Caterina, che ogni notte, da che aveva saputo della morte del suo amante, si era tormentata nell'immaginarsi quella scena.

Fatalmente continuava a mescolarla all'immagine netta e ancora chiarissima nella sua mente di Giacomo che veniva afferrato dalle mani dei suoi assassini e scaraventato a terra, strappato dalla sella. Anche se sapeva che Manfredi era stato disarcionato da un solo uomo, non poteva evitare di accomunare le due scene.

Corbizzi annuì: “Sì. L'ho arpionato con la mia roncola. È caduto in terra senza nemmeno riuscire a difendersi. Sinceramente, mi aspettavo di più, da lui.”

“Era disarmato.” fece notare la Contessa, la voce che tremava appena.

“Doveva armarsi. Non è colpa mia, se era uno sprovveduto.” ribatté il castrocarese, lasciandosi scappare una risata di scherno.

La Sforza capiva il suo gioco. Voleva aizzarla, voleva farsi uccidere in fretta. Sapeva di essere condannato. Voleva solo far leva sulla sua proverbiale instabilità e costringerla a risparmiargli la prigionia e l'attesa sul patibolo.

“Chi è il vostro mandante? Chi vi ha pagati per ucciderlo?” chiese la donna, evitando di guardarlo, per resistere alla tentazione di colpirlo.

Corbizzi si irrigidì: “Abbiamo agito in nome della giustizia. Lui aveva ucciso mio padre e...”

“Tuo padre non l'ha ucciso Manfredi.” lo zittì lei, lo sguardo che indugiava sul suo corpo ancora giovane e forte, un vero peccato, pensare che sarebbe morto.

“Sì, invece.” si incaponì lui.

“Quando tuo padre è stato ucciso, Manfredi era in questa rocca con me.” disse la Tigre.

Poco le importava se quella era solo una mezza verità. Era comunque convinta che non fosse stato il suo amante a uccidere Corbizzo. Non ne aveva il motivo e non ne avrebbe tratto giovamento. Non era stato un assassino spietato e senza un progetto: se uccideva, Ottaviano lo faceva perché doveva.

Era un soldato, non un pazzo. Era un uomo d'onore, non un assassino. Aveva ucciso, più di una volta, ma non l'aveva mai fatto per motivi futili.

Ciò che la Leonessa aveva detto, fece vacillare per un istante Corbizzi: “No, non è vero... Non era con voi...” sussurrò, quasi volesse convincere se stesso prima di tutto: “Lui ha ucciso mio padre e io ho ucciso lui... Adesso che mio padre ha avuto vendetta non...”

“Non l'ha ucciso Manfredi. Chi te l'ha fatto credere? Firenze? Faenza? Bologna?” provò a indovinare lei, facendosi appena più vicina.

Vedeva sul volto del suo prigioniero combattersi un'ardua guerra tra vari sentimenti contrastanti. Si capiva benissimo che non volesse crederle, tuttavia si intravedeva lo spiraglio del dubbio. La rabbia per un probabile errore, la delusione per sapersi condannato prima di poter davvero vendicare il padre, e la paura del giudizio divino, che sarebbe stato molto più severo in quel caso, si mescolavano, distorcendogli i lineamenti, facendo del suo viso una maschera.

“Sei stato tu a colpirlo all'inguine?” soggiunse Caterina, ricordandosi quel dettaglio.

Sia i Battuti, sia Fortunati nella sua lettera, le avevano riferito che una delle ferite più profonde era stata proprio quella. Oltre al dolore che doveva aver causato in Manfredi, e il dissanguamento che ne era seguito, la Sforza non riusciva a non vederci uno sfregio rivolto anche a lei stessa.

“Sì, l'ho colpito io all'inguine.” confessò Corbizzi, che, preso dai ragionamenti sul suo probabile errore, aveva perso ogni velleità.

“Perché?” fu la logica domanda che seguì.

L'uomo strinse le labbra, guardò altrove. Fu tentato di non dire più nulla. Voleva essere ucciso subito. Era stanco, non avrebbe sopportato oltre quell'interrogatorio. Anche se quella donna non aveva alzato nemmeno un dito su di lui, era stata capace di annientarlo con poche semplici parole.

Alla fine, però, pensò che prendersi quella piccola rivincita, forse, avrebbe reso gli ultimi attimi della sua vita un po' meno penosi: “Perché era proprio quella, la parte di lui che preferivi. O mi sbaglio, strega?” sogghignò, sollevando lo sguardo pesto verso di lei.

“Quindi l'avete ucciso anche per colpire me.” concluse Caterina, che, fondamentalmente, cercava quella conferma.

Pietro Francesco deglutì. Sentiva la bocca secca e la luce delle lanterne cominciava a fargli lacrimare gli occhi, per quanto era intensa.

“Avanti, donna, ammazzami.” le sibilò, mostrando simbolicamente la gola: “Ti ho detto quel che sapevo e tanto so che alla fine mi vorrai morto. Uccidimi adesso e non pensiamoci più.”

Il soldato e l'aguzzino, che seguivano il dialogo fin dall'inizio, trattennero il fiato. Si rendevano conto di essere un mero sfondo, per la Contessa e il prigioniero. Era come se non ci fossero.

La Leonessa stava quasi per cedere alla richiesta del condannato. Teneva la spada nella destra e, con la sua abilità, avrebbe potuto benissimo ucciderlo con un colpo netto, come voleva lui. Si sarebbe presa la soddisfazione di aver tolto la vita al massimo offensore di Manfredi, e se la sarebbe cavata senza macchiarsi troppo, né le mani, né l'anima.

Quando già stava caricando il colpo, però, Corbizzi, forse nell'intento di farla sbrigare, disse qualcosa che avrebbe fatto meglio a tacere: “Quel cane continuava a fare il tuo nome, mentre lo colpivamo... Ma ti rendi conto? Uno che vuole conquistare uno Stato e che dice di essere un grand'uomo, che chiama la sua amante come un bambino chiamerebbe la madre...”

“Slegatelo.” ordinò Caterina, richiamando all'ordine il soldato che osservava in silenzio: “E voi aiutatelo. Tenetegli fermo il braccio, disteso.”

Sorpreso e spaventato da quella repentina decisione, il prigioniero tentò di divincolarsi, mentre i due uomini facevano quanto aveva ordinato la Tigre.

“Voglio proprio vedere come ti comporterai tu, quando capirai che stai per morire.” disse fredda lei, aspettando che i suoi riuscissero a tenerlo fermo con il braccio allungato.

“Vi prego... Vi prego...” balbettò Corbizzi: “Uccidetemi subito! Vi prego...”

“Ottaviano Manfredi si è accorto che stava morendo. Te ne accorgerai anche tu.” decretò la Contessa, alzando la spada.

Quando calò il colpo, tagliò con precisione poco sopra il polso del condannato, staccandogli la mano di netto.

Il grido di dolore che riempì la cella e le orecchie della Leonessa fu lacerante. Qualche zampillo di sangue schizzò il viso dell'aguzzino, che restò con la mano mozzata tra le dita.

“Mettetela in un cofanetto e speditela ad Astorre Manfredi – ordinò Caterina, indicandola – fategli sapere che quella è la mano che ha ucciso suo cugino. Non perdete tempo a dirgli di chi è, perché sono convinta che lo sappia già.”

L'aguzzino, che pure era avvezzo a ogni genere di bruttura, colse la palla al balzo per allontanarsi, lasciando la donna, il soldato e il prigioniero da soli.

Pietro Francesco si lamentava ancora, piangeva sommessamente e perdeva sangue dal polso mozzato, tuttavia era ancora più che vivo.

“Tamponategli la ferita.” la voce che uscì dalle labbra della donna era pungente e rigida, tanto che il soldato fece quel che era stato richiesto in modo totalmente meccanico, spaventato anche lui quasi fosse a sua volta un condannato.

Per bloccare il sanguinamento, il giovane prese uno degli stracci che coprivano l'armamentario dell'aguzzino. Era sporco e lacero, ma era meglio di niente.

Corbizzi era inoffensivo, in quel momento. Incredulo per aver appena perso la mano destra, così sconvolto da non sentire nemmeno il male.

“Vi prego...” soffiò di nuovo, mentre Caterina aspettava che il soldato finisse di medicare il carcerato: “Vi prego...”

“Uno che si crede un grand'uomo, come te, che pensa di poter portare la giustizia in questo mondo... Con che coraggio ti abbassi a pregarmi?” fece lei, rinfacciandogli, almeno in parte, le stesse critiche che lui aveva mosso al povero Manfredi.

L'uomo si lasciò cadere in ginocchio, con il soldato al suo fianco che non aveva più il cuore di tenerlo fermo, vedendolo già abbastanza prostrato per conto suo.

“Rimettilo in piedi.” ordinò la donna, che ormai sentiva di non poter e non voler più tornare indietro.

Non faceva altro che pensare al suo amante, a quanto dovesse aver sofferto, alla paura che di certo aveva avuto. Sapere, poi, che l'aveva chiamata, che aveva invocato il suo nome, era stata la goccia che aveva fatto traboccare il vaso.

Sotto lo sguardo terrorizzato del giovane soldato, che, suo malgrado, continuava a eseguire un ordine dopo l'altro, la Tigre cominciò a smembrare pezzo a pezzo il suo prigioniero, avendo cura che non perdesse conoscenza, che gli venissero tamponanti moncherini, in modo che sentisse e si accorgesse di tutto quanto.

Restava ormai il ricordo di un uomo, quando, finalmente, la Contessa decise di farla finita. Ciò che più la stava angosciando non erano tanto le urla – sempre più flebili – del condannato, né il volto stravolto del soldato che la stava aiutando. Era il fatto che lei, malgrado gli schizzi di sangue rovente che le imbrattavo la faccia, nonostante la sensazione estremamente reale della lama della sua spada che incontrava muscoli e ossa della sua vittima, lacerandoli e spezzandoli, non stesse provando nulla.

Era come una scatola vuota, un'ombra. Era lì, ma era come se non ci fosse. Era una sensazione ancora più strana di quella che le aveva dato l'oppio, anni prima. Era del tutto avulsa dalla realtà, come se le sue mani non fossero mosse da lei, la sua voce non scaturisse dalla sua gola e la sua condotta non fosse soggetta al suo volere.

Lasciò cadere la spada con un tonfo. Il clangore le mise fretta. Si accorse in quel momento che Corbizzi era più morto che vivo. Il soldato lo sorreggeva, ma non toccava terra se non con quel che gli restava delle gambe. Non aveva più braccia per difendersi e il suo volto era un insieme scomposto e tumefatto di connotati pesti e insanguinati.

La Tigre prese il suo pugnale, da sotto le vesti, poi si chinò davanti al prigioniero e, colpendo con una violenza più sottile, rispetto a quella che aveva animato ogni suo gesto fino a quel momento, lo pugnalò all'inguine, affondando più che poteva, fino a sentire contro la punta della lama l'osso del bacino.

Colpito a quel modo, il moribondo si accasciò su di lei, con un gemito sordo, quasi posando la testa sulla sua spalla.

“Ci rivedremo all'inferno, perché è lì che stai per andare.” bisbigliò la donna, sperando che il castrocarese fosse ancora in grado di sentirla e di capirla.

Lo sentì morire, ancora addosso a lei, e lo scansò di lato. La carcassa impattò con il suolo con un suono ovattato. La Sforza ci mise qualche minuto, poi si rialzò, guardando il risultato del suo operato. C'erano pezzi del corpo di Corbizzi sparsi ovunque e poi c'era quel che restava del cadavere.

Fece un respiro profondo, l'odore del sangue e della morte che le riempivano le narici, la testa, l'anima.

A riscuoterla da quella dimensione parallela, fu il suono liquido e spiacevole del soldato che vomitava, poco lontano da lei. Aveva avuto l'accortezza di raggiungere un angolo della cella, ma in un ambiente tanto piccolo, il tanfo del suo rigurgito si sentiva distintamente comunque.

Quando il ragazzo riuscì a controllare i conati e rimettersi dritto, era pallido, sconvolto e malfermo sulle gambe.

Solo in quel momento Caterina si prese il disturbo di osservarlo meglio. Era giovane, troppo per uno spettacolo del genere. Non poteva avere più di diciotto anni. Era stato un errore farlo rimanere, sarebbe stato meglio qualcuno di corazzato, come Mongardini o anche Rossetti. Quel soldatucolo, invece, quasi per certo non aveva nemmeno mai visto una battaglia. Con che testa e con che stomaco, adesso, avrebbe potuto prendere parte a una guerra?

La donna gli si avvicinò, per dirgli qualcosa che lo rincuorasse, per spiegargli che era vero, lei aveva esagerato, ma che c'era di peggio, che in battaglia avrebbe visto e fatto di peggio, ma appena l'ebbe a pochi centimetri da lei, un dettaglio attrasse la sua attenzione.

La forma del naso, molto particolare, uno di quei tratti che non si dimenticano facilmente. Da lì si perse per un attimo nella curva delle sue labbra e poi nel profilo del suo mento. Nelle nebbie dei ricordi, quel viso ricomparve con precisione, anche se più baldanzoso e colorito.

“Una volta ti ho portato in camera mia, vero?” gli chiese, per essere sicura di quello che la memoria le stava suggerendo.

Il ragazzo fece segno di sì, gli occhi spersi che inseguivano quelli della Leonessa, domandandosi a cosa avrebbe portato quella risposta.

Lei abbassò lo sguardo, non volendo sostenere quello del giovane e poi, con un gesto che lo fece rabbrividire ancora di più, sollevò una mano coperta di sangue verso di lui e gli accarezzò lentamente la guancia, sporcandolo: “Ecco: adesso hai visto anche l'altra faccia della bestia.”

Lo lasciò lì, immobile e muto, e appena prima di uscire dalla cella gli disse: “Ti farò avere un permesso. Devi riprenderti, prima di ritornare al tuo posto. Non mi serve a nulla, un soldato spaventato.”

Fuori l'aspettavano un altro paio di guardie e così chiese loro di recuperare quel che restava di Pietro Francesco Corbizzi e di gettare i pezzi del suo corpo alla folla, così come aveva chiesto di fare per il Bosi.

“La testa, però, tenetela da parte. La farò sistemare sulla Torre del Popolo.” decretò alla fine, ripensandoci.

Tornare in superficie, lasciandosi alle spalle le segrete, per tanti motivi fu per la Sforza più penoso che non scendere nei sotterranei.

A ogni gradino, mentre la luce delle fiaccole a muro veniva rimpiazzata da quella più tersa del sole, era come se un tassello della sua anima si staccasse, rendendo il suo spirito più sottile. Non riusciva a capacitarsi di quanto aveva fatto. Si chiedeva, senza riuscire a darsi una risposta soddisfacente, quando e come fosse diventata un mostro capace di fare a pezzi un uomo senza provare assolutamente nulla.

Quella era stata decisamente peggio, rispetto alla furia cieca che aveva provato alla morte di Giacomo.

Avvertì una stretta allo stomaco e quasi fu contenta della nausea che la stava prendendo. Forse, si disse, la sua reazione alle proprie azioni stava arrivando, anche se in ritardo. Forse avrebbe vomitato come il ragazzo che aveva assistito alla sua carneficina poco prima.

“Mia signora...” la voce del castellano la sorprese così tanto da bloccare perfino il conato che la stava per scuotere: “State... State bene?”

Caterina sapeva di essere rossa di sangue e, probabilmente, di non avere un bell'aspetto: “Sto bene, non preoccupatevi per me. Andate a controllare che Bosi sia stato giustiziato e poi fate in modo che i miei ordini in merito vengano eseguiti.”

L'uomo avrebbe tanto voluto fare qualche domanda in più, ma le risposte che avrebbe potuto ottenere l'atterrivano, e così chinò il capo e andò verso le scale da cui era appena arrivata la donna.

Scansando gli sguardi incuriositi e preoccupati di alcuni soldati e servi che incrociò lungo la strada verso la sua camera, la Leonessa fermò appena prima della porta una delle domestiche: “Fatemi preparare un bagno caldo in camera mia.” ordinò e, nell'attesa, andò nella sua tana.

Quando sentì bussare, fu certa che si trattasse della serva che veniva ad annunciarle che il bagno era pronto. Le sembrava fosse passato troppo poco tempo, ma era ancora così provata e distratta da non potersi dire certa del proprio giudizio.

“Madre...” Bianca, che non era stata certa di trovarla lì, tirò un sospiro di sollievo, chiudendosi subito la porta alle spalle e avvicinandolesi.

La donna era seduta sul letto, le mani in grembo, l'espressione vuota. Quando la guardò, si accigliò, quasi non la riconoscesse, ma la Riario non si fece impensierire troppo. Aveva visto del movimento, vicino alle scale che portavano alle carceri e si era convinta, già prima di vedere la madre tutta imbrattata di sangue, che i due prigionieri avessero avuto quel che meritavano.

“Li avete uccisi?” chiese, trattenendo il fiato.

La Contessa puntò gli occhi contro le iridi blu scure della figlia e poi annuì, senza dire nulla.

“Avete fatto bene.” la rinfrancò la ragazza, prendendole le mani e stringendole nelle sue, come volesse dimostrare, nello sporcarsi anche lei, quanto condividesse quella decisione: “Non siete sola, madre. È come se ci fossi stata anche io, in quella cella, ad aiutarvi.”

La Leonessa la stava ancora fissando e, nel sentire la giovane dire quelle parole, pensò: 'No, non c'eri, non puoi sapere, non puoi capire.'

“Adesso va', Bianca...” disse invece, lasciandole credere di aver apprezzato il suo gesto di condivisione: “Sto aspettando che mi preparino un bagno e... Senti... Per oggi non ho voglia di vedere nessuno. Puoi dire a un servo di portarmi qualcosa da mangiare, dopo il tramonto?”

La Riario annuì e poi, dopo un breve slancio che la portò a stringere a sé la madre, si staccò da lei, andò alla porta e, incurante dei segni lasciati dall'abbraccio sul suo abito chiaro, ribadì: “L'avete vendicato. L'abbiamo vendicato. Io vi sono accanto, non siete sola.”

Non appena la ragazza ebbe lasciato la tana della Tigre, però, quest'ultima si sentì la persona più sola sulla faccia della Terra.

 
   
 
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