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Autore: Adeia Di Elferas    14/01/2019    1 recensioni
Caterina Sforza, nota come la Leonessa di Romagna, venne alla luce a Milano, nel 1463. Si distinse fin da bambina per la sua propensione al comando e alle armi, dando prova di grande prontezza di spirito e di indomito coraggio.
Bella, istruita, intelligente, abile politica e fiera guerriera, Caterina passò alla storia non solo come grande donna, ma anche come madre di Giovanni dalle Bande Nere.
La sua vita fu così mirabolante e piena di azione che ella stessa - a quanto pare - sul letto di morte confessò ad un frate: "Se io potessi scrivere tutto, farei stupire il mondo..."
[STORIA NON ANCORA REVISIONATA]
Genere: Drammatico, Generale, Guerra | Stato: in corso
Tipo di coppia: Nessuna
Note: nessuna | Avvertimenti: Contenuti forti, Tematiche delicate, Violenza | Contesto: Rinascimento
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“Aspettate. Aiutatemi, vi prego...” sussurrò Caterina, fermando la serva che l'aveva accompagnata in camera una volta pronta l'acqua per il bagno.

La tinozza era stata messa più o meno nel centro della stanza, davanti al letto. La Sforza avrebbe potuto benissimo cavarsela da sola, ma si sentiva debole e incerta, così preferì farsi dare una mano.

Mentre la domestica l'aiutava a sfilarsi l'abito, senza fare commenti in merito allo stato in cui si trovava, la Tigre sentì tutti i muscoli dolenti, le articolazioni provate e si sentì sporca.

Lo sforzo fisico compiuto l'aveva lasciata più stremata di quanto credesse e il sangue, ormai secco, sul viso, sulle mani, tra i capelli e perfino sul resto del corpo, laddove il vestito non era stato capace di proteggerla, le dava un fastidio profondissimo. Era come aver dipinta addosso la colpa.

Una volta nuda, si fece sorreggere dalla serva, nell'entrare nella tinozza. Le chiese di versarle addosso qualche brocchetta di acqua calda e si fece passare gli oli e il sapone. La mano della spada le doleva. Nel colpire Corbizzi, specialmente quando aveva impattato con qualche osso grande, si era fatta male, senza accorgersene. Così, dopo il grande sforzo di essersi tolta e rimessa il nodo nuziale per pulirlo dal sangue, chiese alla domestica di aiutarla anche a lavarsi i capelli.

Questa fece tutto quanto senza batter ciglio. Non era più giovanissima e la Leonessa ricordava solo vagamente di averla assunta, qualche anno prima. Se non si sbagliava, era una di quelle che aveva strappato a una delle bettole più malfamate della città. Forse era anche grazie al suo passato burrascoso, pensò, che non pareva troppo scandalizzata, nel vederla conciata in quel modo.

“Come vi chiamate?” le chiese, quando ci fu un momento di calma.

La donna era in piedi accanto alla tinozza, pronta a eseguire nuovi compiti, mentre Caterina era immersa fino al mento nell'acqua ancora tiepida, beandosi di quella effimera sensazione di pace.

Il calore e l'essenza degli oli profumati le avevano sciolto un po' i muscoli e la tranquillità con cui quella serva si stava prendendo cura di lei le aveva ricordato un po' la sua infanzia, quando le bambinaie del palazzo di Porta Giovia le facevano fare il bagno, trattandola con dolcezza e delicatezza, come fosse stata qualcosa di estremamente fragile e prezioso.

“Argentina, mia signora.” rispose la domestica, accennando a un sorriso e poi domandando se volesse stare in acqua ancora un po' o preferisse uscire dalla tinozza.

“Argentina...” ripeté la Sforza, uscendo, intanto e accettando il telo che le veniva offerto: “Sei molto gentile, con me.”

“Sono alle vostre dipendenze, mia signora.” fece notare lei, aiutandola a stringere a dovere il telo e porgendogliene subito un altro per i capelli.

“Lo so. Lo so...” fece l'altra, che aveva comunque sentito una certa vicinanza, con quella donna, qualcosa che andava oltre il servile ossequio a cui era abituata.

Lasciò che Argentina le sistemasse i capelli e poi che le prendesse un abito dalla cassapanca e l'aiutasse a vestirsi. Una volta si nuovo all'uso del mondo, però, la Contessa si sentì ancora spersa come la era stata un paio d'ore prima.

“Grazie, chiamate pure qualcuno per portare via la tinozza. Se avrò bisogno altro, vi farò chiamare.” disse alla serva e poi, accogliendo con piacere un ultimo sorriso di quest'ultima, si chiuse a chiave in camera e, preso un libro a caso, si stese a letto.

Le ore passarono e poco per volta scese la sera. Per tutto il tempo Caterina non aveva fatto altro che perdere il filo di quel che leggeva, intercalando una frase di Ovidio a un'immagine di quel che aveva fatto nelle segrete, un verso di Petrarca alle paure per il futuro.

Il tutto, poi, era appesantito anche da un altro fatto. La solitudine la stava smangiando, più in fretta di quanto avrebbe creduto. Anche quando le era morto Giovanni aveva resistito poco, da sola. Si era detta, come in effetti stava facendo anche quella sera, che non avrebbe avuto senso essere fedele a un morto.

Ottaviano Manfredi, poi, non era stato suo marito e con lui non aveva nemmeno avuto un rapporto esclusivo. Si piacevano, passavano spesso la notte assieme, ma entrambi erano stati liberi di avere altri amanti e nessuno dei due, quando ne aveva avuto la possibilità, si era tirato indietro.

Sentiva il bisogno della compagnia di un uomo, ma più per riprendere il controllo, che non per altro. Da quando suo marito Girolamo era morto, tutti, da Giacomo in poi, erano stati per lei un metodo per sentirsi di nuovo padrona di sé. Ogni uomo che portava in camera, ogni ragazzo che seduceva e tutti quelli che riusciva a piegare al suo volere anche solo per un'ora, le permettevano di sentirsi libera e potente, di scrollarsi per un po' di dosso il senso di inferiorità e costrizione che il suo primo marito le aveva addossato quando aveva appena nove anni.

Era sempre una liberazione momentanea, non duratura, ma era meglio di niente.

E quella sera, con le immagini ancora vivide del corpo di Corbizzi fatto a pezzi, con l'odore della morte ancora nelle narici e un'inquietudine profonda nel rendersi conto di quel che era capace, desiderava come non mai dimostrare a se stessa di avere ancora il controllo, non solo di sé, ma anche degli altri.

Poco dopo il tramonto, arrivò un servo – come lei stessa aveva chiesto, tramite Bianca – che le portò del vino e qualcosa da mangiare.

Mentre il giovane disponeva sulla scrivania, come ordinato, quel che aveva con sé, la Tigre lo osservò per un po'. Avrebbe anche potuto farselo andare bene, ma lo trovava troppo poco prestante e brutto di viso. E anche troppo giovane. Quella notte non voleva un ragazzino, ma un uomo. Con i ragazzini era anche troppo facile imporsi.

“Devi fare una cosa per me.” gli disse, prendendo il necessario per scrivere e vergando in fretta un biglietto.

Gli spiegò dove consegnarlo, si sorbì lo sguardo un po' perplesso del servo e poi, quando lo congedò, cercò di mangiare, in attesa che il messaggio arrivasse a destinazione e che il ragazzo del postribolo a cui, negli anni, si era rivolta sempre in quei momenti di crisi, arrivasse alla rocca.

Masticava con lentezza, trovando il cibo stopposo e insapore. Non guardava nemmeno cosa stesse mettendo sotto i denti, né cercava di apprezzare i gusti. L'unica cosa che la risollevò un po', fu il vino.

Era dell'ottimo rosso, e lo riconobbe come quello che arrivava da Fortunago. Si chiese distrattamente quanto ne avesse ancora in dispensa, e, soprattutto, se fosse stata sua figlia a sceglierlo per lei.

Negli ultimi mesi era diventato difficile far arrivare il vino dal nord e, Caterina se ne rendeva conto man mano sempre di più, era quasi impossibile tenere presente un posto lontano come Fortunago. Si poteva dire che di fatto quella terra fosse più dei suoi amministratori che sua e non si sarebbe sorpresa di vedersela strappare senza problemi da suo zio o da chiunque altro.

Quando, finalmente, sentì bussare con discrezione alla porta, la donna lasciò quel che restava della cena sulla scrivania, bevve l'ultimo sorso di vino rimasto e andò ad aprire.

Lasciò entrare in camera il ragazzo biondo che stava aspettando, richiuse la porta a chiave e poi gli si avventò contro, senza lasciargli nemmeno il tempo di dire una parola. Egli, avvezzo a essere trattato nei modi più disparati, non fece domande, non cercò di fermarla e non deluse le aspettative della sua cliente.

Tuttavia, mentre la Tigre lo faceva suo, il giovane, a tratti, quasi si spaventò, per i suoi gesti cruenti, per la violenza con cui a volte lo mordeva o lo graffiava. Non era mai stata così, con lui. Gli sembrò quasi che quella donna stesse riversando su di lui non solo la frustrazione di un giorno, ma di una vita intera.

Si era anche accorto del fatto che quella sera l'avesse accolto nella sua stanza, e non in quella che in molti chiamavano 'tana'. Era un ambiente più accogliente, ma la presenza di tanti effetti personali della Sforza e, soprattutto, di un uomo, che di certo era Giovanni Medici, mettevano un po' di ansia al ragazzo. Era come se l'ultimo marito della sua cliente fosse lì con loro, a guardare e giudicare.

Quando finalmente la Contessa lo lasciò in pace, il ragazzo si trovò del tutto distrutto, non solo fisicamente. Era stata una prova emotiva non poco, per lui. Anche se a volte aveva a che fare con clienti brutali e ripugnanti, non gli era mai capitato di sentirsi così seriamente in pericolo.

Si era convinto che si fosse solo suggestionato: andando alla rocca aveva visto quel che restava dei corpi di due prigionieri – si diceva in città che fossero gli assassini di Ottaviano Manfredi – e la nuova testa impalata sulla Torre del Popolo. Insomma, era probabile che avesse fatto un collegamento mentale tra quella mattanza e la donna che era accanto a lui in quel momento.

Quale che fosse il motivo, comunque, sentiva la voglia di lasciare quella stanza il prima possibile.

“Devo... Devo andarmene?” soffiò, quando la Leonessa gli voltò le spalle, avviluppandosi nelle coperte.

“Sì. Non voglio dormire con chi ha paura di me.” rispose la Sforza, appena udibile.

Il ragazzo deglutì. Quella belva selvatica aveva capito già tutto. Per quanto lui avesse cercato di nascondere il suo timore, evidentemente lei si era accorta di come, a tratti, lui avesse avuto la tentazione di sottrarlesi.

“No, non è per quello... Solo...” cominciò lui, mettendosi a sedere sul letto, una mano che indagava con discrezione il collo, su cui la Tigre aveva lasciato gran parte dei segni del suo passaggio.

Di certo, pensava lui, quando fosse tornato al lupanare, e la sua padrona l'avesse ispezionato come faceva sempre, la Contessa si sarebbe trovata a dover pagare più del solito. Lui veniva considerato una merce pregiata e chi lo danneggiava, anche se in modo superficiale, doveva pagarne lo scotto.

“Non voglio che mi menti. Almeno tu, vedi di essere sincero con me. Ti faccio paura.” insistette lei.

“Sì, mi fate paura.” confessò il giovane, non trovando motivo di mentire oltre.

“Non sei il primo uomo che me lo dice.” fece Caterina, ricordandosi come anche Giovanni, una volta, avesse ammesso di aver paura di lei.

Il ragazzo tacque, poi, accennando ad alzarsi dal letto, chiese di nuovo: “Devo andarmene?”

“Hai visto i corpi che ho fatto esporre alla folla, immagino...” continuò la Tigre, per conto suo.

Il silenzio dell'altro gliene diede conferma. Con un sospiro pesante, allora, la Contessa si voltò verso di lui, lasciando che le coperte le scivolassero via, scoprendola per metà. Vedeva come lui la guardava, con una scintilla che aveva acceso anche altri occhi. Aveva paura di lei, ma la desiderava.

“Non pensavi che fossi capace di tanto? Non avevi sentito di quello che avevo fatto alla morte del Barone Feo?” domandò lei, scrutando il volto del giovane, cercando di capire cosa gli passasse per la mente.

“Sì, ma... Quando è morto il Barone, voi eravate sconvolta. Mi ricordo, la prima volta che mi avete fatto chiamare, eravate...” cominciò a dire l'uomo, riportando alla mente il fare mesto e un po' spigoloso con cui lei l'aveva accolto, quel velo di imbarazzo e di vergogna, che si era sciolto solo quando lui era riuscito a farle capire che non c'era nulla di male, nel sollievo che stava cercando.

“Ho fatto a pezzi un uomo, oggi. Credi che non sia sconvolta come allora? Manfredi era il mio amante, e me l'hanno ucciso come Giacomo. In modo vile, in trenta contro un uomo solo, senza il minimo senso dell'onore.” spiegò la donna, sistemandosi con la schiena contro la testiera del letto e guardando verso la finestra.

Si sorprese, e non poco, nel sentire il giovane riavvicinarsi a lei e abbracciarla. Era una stretta viziata dal timore, che lo rendeva più rigido e meno naturale, ma Caterina apprezzò comunque quel gesto.

“Adesso vattene, dico davvero.” lo allontanò, per quanto avrebbe preferito poterselo tenere vicino ancora un po', nell'illusione di avere in lui un appoggio: “E scusami per quei segni...” aggiunse, indicandogli il collo e la schiena.

“Pagate la mia padrona quanto vi chiederà, e nessuno avrà nulla da dire a riguardo.” ribatté lui, cercando di suonare leggero, mentre lasciava infine il letto e cominciava a rivestirsi.

“Non volevo farti del male.” insistette la donna, guardandolo mentre si infilava il camicione e poi il giustacuore, i capelli biondissimi, più corti dell'ultima volta, che restavano in piedi.

“Non importa.” scosse il capo lui, sistemandosi la chioma e poi chinandosi per infilare le scarpe di cuoio: “A volte mi hanno fatto di peggio.”

La Leonessa preferì non fare né domande né commenti e così restò in attesa, tornando a coprirsi, aspettando che il ragazzo fosse pronto per andarsene.

Quando fu vestito di tutto punto, il giovane schiuse le labbra e poi, guardandola quasi di traverso, soggiunse: “Se... Se avrete ancora bisogno di me, sapete dove cercarmi.”

“Solo se sei d'accordo anche tu. Non voglio più averti qui, se stare con me ti mette troppo a disagio.” mise in chiaro la Contessa.

“Malgrado tutto...” soppesò lui, non riuscendo a trattenere un sorriso: “Non vorrei che questo fosse l'ultima volta.”

“Allora può essere che ti mandi a chiamare di nuovo.” concesse lei e poi, indicandogli la porta in modo abbastanza evidente, concluse: “Adesso esci. Voglio stare da sola e dormire.”

 

Francesco ringraziò con un cenno del capo il servo che aveva portato da bere a lui e ad Annibale Bentivoglio.

Il giorno dopo, 23 aprile, sarebbe iniziato il torneo di San Giorgio, lì a Ferrara, ma il Gonzaga era interessato solo relativamente ai duelli e a tutto quello che concerneva quello sfoggio di potenza del suocero.

Aveva deciso di partecipare solo perché Isabella aveva deciso così e lui proprio non se la sentiva, in quel momento, di darle contro. Litigavano non appena si incrociavano e il senso di inadeguatezza che lei gli faceva provare lo stata via via stritolando. Ovunque si voltasse, sia che parlasse coi veneziani, sia con gli emissari del Moro, tutti gli facevano pressioni affinché desse un erede al Marchesato, rendendo il suo potere più stabile.

Ma che ci poteva fare, lui, se sua moglie non voleva nemmeno sfiorarlo, altro che fare un figlio insieme...

Anche quella mattina, con il bolognese, l'argomento era ricaduto su quel fatto. Il Marchese non avrebbe voluto parlarne, ma Annibale era lì anche in veste di portavoce di suo padre e pareva che anche Giovanni Bentivoglio attendesse con ansia notizie da Mantova. L'assenza di un erede maschio, metteva la carica di Francesco in relativo rischio e con quelle domandine studiate ad arte era come se anche il signore di Bologna volesse fargli capire che, in caso gli si fosse presentata l'occasione, pure lui avrebbe giocato le sue carte per ottenere il Marchesato.

In fondo il Gonzaga era mortale come tutti: bastava una caduta da cavallo, una ferita in battaglia, perfino un boccone andato di traverso a cena... E a quel punto, qualcuno avrebbe pur dovuto prendere il suo posto, con le buone o con le cattive.

“Non posso mica obbligarla!” esclamò il Marchese, versando un po' di vino anche all'altro: “Se non mi vuole, non mi vuole. Devo solo trovare il modo di farle capire che...”

“Potete obbligarla eccome!” lo contraddisse il bolognese, con una mezza risata: “Che diamine! Sì, vostra moglie non è esattamente un fuscello, ma non mi direte che un uomo come voi non riesce a sopraffarla!”

“Non dico che non riuscirei, ma che non voglio.” si impuntò Francesco, le orecchie che prendevano colore, oltraggiato da quella proposta.

Aveva sempre rispettato sua moglie Isabella. Forse perché si conoscevano da anni, perché quando si frequentavano, prima di sposarsi, lei era appena una bambina e lui un ragazzetto. Forse perché Isabella era di un'intelligenza così fine, di una scaltrezza così sottile e di una profondità così spiccata che il Marchese sentiva di non poter nemmeno sognare di farle un torto di quel genere.

“Che diamine, Gonzaga...” sbuffò il Bentivoglio: “Sembra di sentir parlare mio fratello Alessandro... Da quello che so, è sposato da sette anni e sua moglie non l'ha ancora toccata nemmeno con un dito! Perché lei non vuole..! Se sono discorsi da fare, per uomini come noi...”

Il mantovano strinse un po' gli occhi. Aveva sentito dire che Alessandro Bentivoglio fosse stato restio, almeno all'inizio, a consumare le nozze con Ippolita Sforza, la signora di Casteggio, per via dell'età troppo tenera di lei. Adesso, però, se faceva due calcoli, si rendeva conto che lei aveva già diciotto anni...

“Piuttosto...” riprese Francesco, rendendosi conto che quella conversazione non gli avrebbe portato né consiglio né conforto: “Avete pensato a quel che vi ho detto ieri?”

Il bolognese sbuffò: “Passare al soldo di Milano? E perché dovrei? In fondo, ho chiesto a Venezia di alloggiare i miei soldati nelle loro terre e me l'hanno concesso come nulla. Mentre so che il Duca è molto più rigido coi suoi condottieri. Non vi doveva ancora dei soldi?”

Il Gonzaga si morse l'interno della guancia. Pochi giorni addietro Ludovico gli aveva fatto avere i quindicimila ducati arretrati del suo stipendio, tuttavia aveva saputo che il Moro era scontento di lui e che, addirittura, lo sospettava di essere un traditore.

“No, no... Milano ha saldato tutti i debiti che aveva con me.” fece il Marchese, sistemandosi sulla poltroncina: “Mi fiderei molto di più dello Sforza, vostro parente acquisito, che non di un Doge che potrebbe cambiare da un momento all'altro.”

“Come mai il Duca vi vuole sostituire con Galeazzo Sanseverino?” chiese allora Annibale, bevendo un sorso di vino.

Francesco si chiese come accidenti potesse il figlio di Giovanni Bentivoglio sapere quel dettaglio, ma si fece trovare pronto: “Sono stato io a chiederlo. Come vi ho già detto: ho bisogno di un erede e non voglio forzare mia moglie. Ho bisogno di tempo per ammorbidirla ed essere Capitano Generale delle truppe sforzesche mi lasciava troppa poca libertà.”

“Capisco.” disse il bolognese, fingendo di credergli: “Alla vostra, Marchese!” brindò, alzando il calice.

Francesco accettò il brindisi, sollevando a sua volta il bicchiere, tuttavia quel che Annibale soggiunse poco dopo, a mezza bocca, lo fece quasi strozzare con il vino.

“Fossi in voi mi impegnerei di più, con vostra moglie. Ieri sera a cena, mi pareva che si guardasse un po' troppo in giro.” fece il bolognese: “E sono certo che, in caso di dispute, suo fratello e suo padre starebbero dalla sua parte e non dalla vostra.”

 

“Vi aspetto nello studiolo del castellano. Non posso più aspettare, tanto ormai ho deciso.” così aveva detto la Tigre all'Oliva, quella mattina, quando l'aveva incrociato appena fuori dalla sua stanza: “Prima prepariamo quelle carte, prima mi sentirò tranquilla.”

La notte trascorsa con il ragazzo del lupanare e le poche e tribolate ore di sonno che erano seguite, avevano lasciato alla Sforza uno strano senso di precarietà. Improvvisamente, come se avesse quasi archiviato di colpo la morte di Ottaviano Manfredi e tutto ciò che le era connesso, si era rimessa a pensare alla bolla del papa e al suo significato più profondo.

Aveva capito quale fosse l'unica cosa da fare per mettere al sicuro i suoi figli. Se fino a poche settimane prima, però, avrebbe inserito nel progetto di fuga anche se stessa, ormai aveva deciso di restare fino alla fine, qualsiasi cosa capitasse, tentando il tutto e per tutto.

Si era convinta che, se anche lei avesse lasciato lo Stato, alla fine il papa avrebbe cercato comunque di annientare tanto lei quanto i suoi figli, non fidandosi di quel suo ritiro a vita privata.

Dunque, tanto valeva restare al suo posto, resistere finché poteva, dando più tempo ai suoi figli per mettersi al riparo, e cercare di salvare il salvabile o morire nel tentativo.

Quando il notaio si presentò nello studiolo, trovò la Contessa seduta in poltrona. Gli indicò la scrivania, dicendogli che era tutta per lui, in modo che potesse già redigere il documento di cui lei aveva bisogno.

L'uomo ascoltò con attenzione ciò che la sua signora le disse, cercando di capire cosa volesse davvero. Ciò che la Leonessa aveva pensato, per mettere al sicuro i suoi figli, era interessante, una mossa politica e strategica molto fine, quasi più fine di quella usata dal papa.

“Solo i vostri primi quattro figli maschi?” chiese l'Oliva, dopo averle assicurato la validità di quell'idea e accingendosi a mettere nero su bianco l'atto.

“Sì. Sono loro quattro, in fondo, che Rodrigo Borja ha chiamato figli dell'iniquità. Per lui Bernardino e Giovanni non esistono nemmeno e non intendo fare in modo che se li ricordi.” annuì Caterina, sprofondando un po' di più nella poltrona che era stata del suo secondo marito: “Quindi solo loro quattro. Dovranno sottoscrivere anche loro questo atto, immagino.”

“Sì, dovranno farlo.” confermò il notaio, iniziando a scrivere.

A quel punto alla Tigre non restava che attendere. Osservava l'uomo che scriveva, poi guardava verso la finestra e poi giocherellava con il nodo nuziale. Cercava di restare concentrata sul presente, ma di fatto continuava a ripensare al giorno prima, a quella notte e poi, senza riuscire a evitarlo, anche al maledetto giorno in cui era stato assassinato Giacomo.

“Ecco fatto!” esclamò dopo un bel po' l'Oliva, ricontrollando di non aver tralasciato nulla: “Con questo atto, Ottaviano, Cesare, Galeazzo Maria e Francesco Sforza detto Sforzino, figli del fu Girolamo Riario, vi rendono formalmente le doti a voi, Caterina Sforza Visconti.”

“Avete proprio scritto così, il mio nome?” chiese la donna, puntellandosi un po' sul bordo della seduta, quasi cercando di occhieggiare verso il documento.

L'altro fece un cenno con il capo e spiegò: “Credo che se volete mostrarvi davvero forte, sia il caso di smetterla di usare il vostro nome da vedova e cominciare a ricordare a tutti chi era vostra nonna.”

La Contessa strinse le labbra e infine convenne: “Avete ragione. Ricordiamo a tutti che esiste ancora qualcuno con il sangue di Bianca Maria Visconti.”

“Non resta che convocare i vostri figli e...” cominciò a dire l'Oliva, soddisfatto dalla reazione conciliante della sua signora.

“No, non convochiamo nessuno. Andate voi da ciascuno di loro e spiegate a cosa serve questo documento. Se Ottaviano dovesse fare storie, mandatelo da me.” tagliò corto la Sforza, lasciando la poltrona e avvicinandosi alla scrivania: “Intanto, se serve, posso firmare io.”

Il notaio le indicò il punto in cui apporre il proprio nome, poco distante dalla data di quel giorno.

Caterina firmò e poi i suoi occhi verdi si fermarono proprio sulla data, trasecolando: “Ma oggi è già il ventidue?”

Aggrottando la fronte, l'uomo rispose: “Eh, sì, mia signora...”

Tornando alla poltrona, corrucciata, la donna cominciò a fare due conti. Il trambusto dei giorni che erano seguiti alla notizia della morte violenta di Manfredi, l'avevano distolta da quasi ogni altro pensiero, in particolare di tipo personale.

Solo in quel momento, però, si rendeva conto che il tempo aveva continuato a scorrere e che dall'assassinio del suo amante erano passati quasi dieci giorni.

Nel fare i suoi calcoli, cominciò a sudare freddo, chiedendosi come avesse fatto a non avere alcun dubbio fino a quel giorno. Era stata così presa da tutto quello che la circondava, da dimenticarsi di tutto il resto.

“Che diamine...” soffiò tra sé, alzandosi di colpo.

“Dove... Dove state andando? Vi serve aiuto? Posso fare qualcosa?” chiese il notaio, un po' preoccupato dall'estraniarsi della Contessa.

“Devo parlare un momento con il mio medico.” disse in fretta la Leonessa e uscì quasi di corsa dallo studiolo.

 

 
 
   
 
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