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Autore: Izumi V    16/01/2019    4 recensioni
Storia scritta per l'evento "Merry Christmas!" del gruppo fb "Johnlock is the way... and Freebatch of course!"
Un altro possibile inizio, un altro possibile svolgimento... e il cupido Mike Stamford ci mette lo zampino senza vergogna!
*Estratto:
Aveva qualcosa di infantile, e allo stesso tempo estremamente serio: quell’aria che possono avere solo i bambini quando sono davvero concentrati su qualcosa che li affascina.
Un sorriso sincero e luminoso si dipinse sul volto di John. Non riusciva a smettere di guardarlo. Si avvicinò a lui di qualche passo.
“Sherlock?”
“È bellissima, vero?”
“Già,” rispose John. Ma non guardava la neve.
Genere: Introspettivo, Sentimentale | Stato: completa
Tipo di coppia: Slash | Personaggi: John Watson, Mike Stamford, Sherlock Holmes
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
Capitoli:
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Ciao! Ben ritrovati :)
Grazie per essere ancora qui e seguire questa storia. Questo capitolo entra più nel cuore della vicenda… ma non parlerò oltre.
Vi lascio alla lettura!

 
 
Forgiveness
Capitolo 3
 
 
 
28 Ottobre
Sera tarda
 
John Watson entrò in casa dopo quella che era stata una lunga, lunghissima giornata.
Tolse subito scarpe e calze e andò diretto verso il frigorifero, beandosi del contatto con il marmo freddo del pavimento. Aveva corso più di un’ora tirando al massimo, e ora sentiva i polpacci tremare all’impazzata, togliendogli stabilità. Non gli capitava spesso di andare a correre di sera, ma quel giorno ne aveva decisamente bisogno.
Si appoggiò coi palmi sul tavolo della cucina, bevendo con calma e cercando di regolarizzare il respiro. Si spogliò prima ancora di arrivare in bagno, abbandonando maglietta e pantaloncini fradici in punti improbabili del salotto.
“I vantaggi del vivere da soli,” riconobbe, amaro.
Lasciò che l’acqua gli lavasse via il sudore e i pensieri che da qualche ora a quella parte sembravano non volerlo lasciare in pace.
“Respira, John. Respira.”
 
Di nuovo asciutto e profumato, si lasciò cadere sul divano in salotto, portandosi appresso una bottiglia di bourbon e il fedele bicchiere di vetro dal fondo spesso.
Guardò qualche secondo la bottiglia, come a decidere se aprirla davvero o meno. Propese per il sì. In fondo era un regalo e i regali non si possono non aprire.
Il bicchiere fu riempito quasi a metà, ma rimase saldamente attaccato al tavolino.
Watson si chinò in avanti, prendendosi la testa fra le mani. Lasciò che le dita si infiltrassero tra i capelli biondi e sottili, ancora umidi a tratti.
Sospirò, sfinito.
Che cazzo stai combinando, John?
Quello era stato il fatidico giorno della sua conferenza in università. Non si può negare che fu un successo: seppur non completamente piena, l’aula accolse moltissimi studenti e perfino qualche professore. Ma anche avesse avuto un pubblico più ristretto ne sarebbe stato soddisfatto, tanti furono l’attenzione e l’entusiasmo con cui venne accolta ogni sua parola.
Eppure, non fu quello a rimanergli maggiormente impresso.
John spostò una mano sugli occhi serrati, stringendo forte. Non riusciva a togliersi dalla mente quell’immagine.
 
Stava spiegando una delicata operazione chirurgica compiuta in un accampamento di fortuna, la testa sollevata in alto per confrontarsi man mano con le immagini proiettate sullo schermo alle sue spalle.
Si era voltato, e continuando a parlare aveva scandagliato la folla com’era abituato a fare. Per quanto non sentisse affine il lavoro di professore, non era mai spiacevole riconoscere l’interesse vivo sui volti degli studenti.
Poi, ad un tratto, lo vide.
I loro sguardi si incrociarono e incatenarono all’istante.
Sherlock era lì a seguire la sua lezione, la schiena dritta contro lo schienale della sedia, le lunghe dita sottili intente a giocare con la penna che per il momento aveva smesso di prendere appunti.
Aveva alzato gli occhi nel preciso momento in cui quelli di John erano atterrati su di lui.
Quest’ultimo udì la propria voce continuare l’esposizione, all’apparenza imperturbabile. Ma la percepiva come qualcosa di non suo, di estraneo. Il suo corpo faceva quello che doveva fare, ma la mente era da tutt’altra parte.
Era su Sherlock.
Aveva fatto una fatica immensa a tornare a terra. Era stato come cercare di tirare in basso un palloncino pieno di elio: la sua mente si rifiutava di focalizzarsi ancora sulla lezione. Ma aveva ricordato a se stesso il proprio dovere e, seppur con difficoltà, aveva spezzato il contatto visivo ed era andato avanti.
 
La mano sinistra andò infine ad afferrare il bicchiere. Ne bevve un lungo sorso prima di poggiarlo nuovamente.
Non aveva mai provato nulla del genere, e questo lo sconvolgeva.
Non era la prima volta che lo rivedeva dalla sera del loro primo incontro: Sherlock era dovuto tornare da lui per fargli controllare i punti sulla mano. Tuttavia, incontrarlo in università fu diverso.
Erano lontani, eppure quello sguardo lo aveva attraversato da parte a parte come una freccia, aprendogli una ferita che ora non sapeva come richiudere.
Ironico, detto da un medico.
Non era solo il colore impossibile di quegli occhi, di un azzurro chiarissimo che portava le striature verdi dell’acqua del mare. Sicuramente al mondo esistevano colori simili, ma gli altri non avrebbero avuto lo stesso effetto. Era l’intensità di quello sguardo, che lo aveva trafitto.
Ed è quello che succede quando uno sguardo esiste solo per noi, apposta per noi.
Sherlock stava guardando lui, e in quello sguardo gli stava parlando in un linguaggio che nessun altro avrebbe potuto comprendere.
Succede rare volte – se non una sola – nella vita di sperimentare qualcosa di simile.
Il cuore semplicemente fa bang! E sei fregato.
Non c’era nulla di romantico o sentimentale, ma solo la consapevolezza di parlare la stessa lingua e di volerla continuare a parlare.
Due da soli contro il resto del mondo.
 
Da lì, naturalmente, il senso di colpa.
Watson vuotò il bicchiere in una seconda lunga sorsata. Riempì di nuovo.
Se davvero stava ammettendo con se stesso che non gli era mai capitato nulla del genere, non poteva non chiedersi, di conseguenza, che fine facesse in tutto ciò Mary.
La donna che lui aveva sposato, che aveva guardato negli occhi pronunciando “Lo voglio”, cui aveva stretto forte la mano mentre lei giaceva incosciente sul lettino dell’ospedale. Quella cui aveva accarezzato con dolcezza i capelli, sperando (invano) che si svegliasse.
Dov’era Mary, in tutto questo?
L’aveva amata? Perché non riusciva a ricordare un momento in cui avesse provato la stessa cosa con lei?
D’improvviso, il sapore amaro dell’alcol gli venne a nausea. Poggiò il bicchiere urtando con forza la superficie del tavolino. Come sempre, lì di fianco stava aperto il computer.
Era finalmente riuscito a scrivere qualcosa, qualche giorno prima. Lesse la pagina sempre aperta, ora non più completamente bianca. Ma quello che vide non fece che fargli crescere il groppo in gola.
Richiuse di scatto il pc.
Abbandonò la postazione in salotto, spense tutte le luci e si infilò sotto le coperte. Premette forte la testa sul cuscino, come se quel gesto potesse compattargli i pensieri fino a disintegrarli. Sforzo inutile. Si girò a pancia in su, osservando il soffitto a occhi sbarrati.
Si preparò all’ennesima notte in bianco.
 
***
 
In quello stesso momento, al 221 di Baker Street, Mrs. Hudson si rigirò per la centesima volta nel suo letto. Afferrò a tentoni la sveglia sul comodino, constatando l’ora improponibile alla quale era costretta.
Quel disgraziato di Sherlock Holmes! Non poteva trovare un altro momento per suonare il suo violino?
Sbuffò di stizza, tuttavia mitigata dall’affetto che provava per il ragazzo, e si decise ad alzarsi. Almeno avrebbe sfruttato quelle ore di veglia obbligata in un modo che fosse utile a entrambi: preparando un bel tè caldo.
Salì le scale lentamente, per non disturbare. Si appuntò mentalmente che avrebbe anche potuto evitare di badare alla cortesia in un momento come quello, in cui era lei la parte lesa. Ma, dopo tutto, non era nelle sue corde nemmeno agire diversamente.
“Uh-uh!” pigolò, bussando appena sulla porta dell’appartamento B.
Sherlock interruppe improvvisamente la melodia, voltandosi confuso verso la donna.
“Mrs. Hudson, ma che ci fa qui? Non è ora che vada a dormire?”
“Mio caro, ci ho provato. E ce l’avrei anche fatta se lei non me lo avesse impedito suonando a quest’ora così tarda.”
“Ma cosa dice, se sono appena le… oh.”
Con espressione colpevole guardava il quadrante dell’orologio appeso in cucina.
“Mi perdoni, non mi ero reso conto.”
“Speravo non l’avesse fatto di proposito, in effetti!”
“Non riuscivo a dormire.”
“E come mai?”
“Ah, non ne ho idea.”
“No? Sicuro?”
“Che intende, mi scusi?”
“Nulla, nulla. Sa, magari la giornata al lavoro oggi è stata particolarmente impegnativa…”
“Non c’è stato niente di impegnativo nella giornata di oggi, discorso chiuso.”
“Come vuole!” rispose allegramente lei, versando il tè.
 
 
 
 
26 Novembre
Tardo pomeriggio
 
Trascorse un mese.
Tra Sherlock e John non venne più nominata quella lezione, per un timore – non esplicitato ma condiviso – di incappare in acque pericolose. Ma non per questo smisero di vedersi. Anzi, il mese di Novembre li vide consolidare maggiormente la propria amicizia, che assunse i tratti di un vero e proprio sodalizio professionale.
Sherlock prese l’abitudine a uscire prima dall’università e recarsi direttamente a casa del medico, che dal canto suo chiudeva lo studio a ore meno tarde che in passato, in modo da esserci per quando fosse arrivato il ragazzo. Quest’ultimo aveva cominciato a raccontargli della propria ricerca finalizzata alla stesura della tesi di dottorato, traguardo ormai prossimo, incalzato dalle domande di John che pareva provare un sincero interesse. Aveva anche saputo dargli qualche dritta degna di riguardo.
Tuttavia, la tesi divenne man mano una questione secondaria, dal momento che sempre più tempo veniva dedicato ai casi investigativi di Sherlock.
Era lì che John davvero si perdeva, ammirato. Si emozionava ai suoi racconti, voleva capire ogni singolo passaggio, ogni intuizione. Iniziò perfino a prendere appunti.
Fremeva dell’intimo desiderio di farne, un giorno, parte.
Il ragazzo, per contro, nascondeva il più possibile quanto gli facesse piacere tutto ciò. Tutte le volte che John lo fermava per chiedergli spiegazioni, lui ricordava quella mattina insieme fino a Baker Street, e ciò che il medico gli aveva detto. “Tienitelo stretto.”
Nessuno gli aveva mai parlato di “dono”, nessuno si era mai interessato a quello che invece era il suo vero sogno.
John Watson sì, e sembrava apprezzarlo proprio per quello.
 
Nei week end, in cui Watson era più libero, si concedevano una passeggiata nel parco. Di solito sceglievano Hyde Park perché era a metà strada tra le rispettive abitazioni: quel giorno non aveva fatto eccezione.
Era una domenica particolarmente fredda. Gran parte della gente si era chiusa in casa, a trascorrere al caldo la propria giornata di riposo.
Sherlock e John la trovarono ideale per una camminata proprio per quel motivo.
Chiudendosi la porta di casa alle spalle, il medico osservò un poco preoccupato il cielo coperto da grossi nuvoloni bianchi. Strizzò gli occhi per la luce intensa che si rifletteva ovunque.
“Più che piovere, al massimo nevica,” mormorò Sherlock, alzando gli occhi.
John notò che, se possibile, parevano ancora più brillanti del solito. Evitò di fare commenti a riguardo, e virò su una presa in giro: “Sì, vabbeh, adesso nevica a Novembre.”
Il ragazzo lo fulminò: “Scommettiamo?”
“Una birra?”
“Non mi piace molto la birra.”
John rise. “Non puoi scommettere un tè!”
“Un tè andrà benissimo,” annuì lui convinto, cominciando a camminare in direzione del parco.
L’altro scosse la testa divertito, rincorrendolo per rimettersi al passo.
Passeggiarono per una buona mezz’ora senza scambiare parola alcuna, perfettamente a proprio agio l’uno con l’altro.
Il parco era immerso nel silenzio, di quel silenzio pieno che si può ascoltare solo sotto la neve.
Ad un tratto, fu John ad accorgersi che nevicava per davvero. Sentì un lieve solletico al naso, che arricciò con l’intento di scacciare il fastidio.
“Ma che…?” borbottò, passandosi una mano sulla fronte, dove sentì l’identico pizzicorino. Le dita erano umide. In quel preciso momento, un altro fiocco atterrò sul suo palmo aperto: lo guardò sciogliersi al contatto.
“Sherlock, nevica!” esclamò voltandosi verso l’amico.
Il ragazzo stava lì, a pochi passi da lui, immobile. Il viso sollevato in alto, le labbra socchiuse in contemplazione. Le mani, libere dai guanti, erano unite a coppa all’altezza del petto.
Aveva qualcosa di infantile, e allo stesso tempo estremamente serio: quell’aria che possono avere solo i bambini quando sono davvero concentrati su qualcosa che li affascina.
Un sorriso sincero e luminoso si dipinse sul volto di John. Non riusciva a smettere di guardarlo. Si avvicinò a lui di qualche passo.
“Sherlock?”
“È bellissima, vero?”
“Già,” rispose John. Ma non guardava la neve.
Un fiocco più grande degli altri finì sul suo viso di porcellana, si posò sullo zigomo per poi sciogliersi e scendere lentamente lungo la guancia. Pareva piangesse. John la vide e ne ebbe paura: per la prima volta sentì che avrebbe fatto di tutto pur di non vederlo piangere.
Non ci pensò due volte e sollevò un dito verso di lui, scacciando via quell’ombra di lacrima. Non si era accorto dello sguardo intenso dell’altro, che inconsapevolmente stava trattenendo il respiro. Il contatto non durò più di un secondo, eppure sentì la pelle scottare là dove Watson lo aveva sfiorato. Era la prima volta che lo toccava al di là della medicazione alla mano.
Gli sembrò che il dito tremasse leggermente, nell’atto di allontanarsi dal proprio viso. Fece per dire qualcosa, quando il momento venne spezzato dall’abbaiare di un cane seguito dalle urla di una ragazza che cercava di richiamarlo a sé.
Sussultarono entrambi, colti alla sprovvista. In lontananza scorsero un pastore tedesco venire al galoppo verso di loro.
“Aki! Aki fermati!”
Il cane non dava segni di rallentare, anzi. Abbaiò più forte. Sherlock indietreggiò appena, con malcelato timore. Non lo facevano impazzire gli animali aggressivi. John notò i suoi movimenti con la coda dell’occhio. Quando l’animale fu abbastanza vicino, con un braccio spinse da parte l’amico e si gettò sulla bestia, che afferrò all’altezza del collo gonfio di pelo. Rotolarono di lato un paio di metri.
“John!”
Ma la preoccupazione di Sherlock si dimostrò infondata, poiché poco dopo si udì il medico ridere come un bambino.
“E smettila dai!”
Ghignava, agitando la mano chiusa nelle fauci del pastore tedesco. Si era tirato a sedere, il cane disteso sulle sue gambe gli impediva di alzarsi e al contempo reclamava il proprio dominio.
Li raggiunse finalmente anche la padrona. Tenendosi le ginocchia e ansimando per lo sforzo, riuscì a pronunciare qualche frase di scusa.
“Perdonatemi, è giovane anche se non sembra, appena lo lascio libero causa disastri!”
“La soluzione sarebbe non lasciarlo libero,” sentenziò Sherlock.
“H-hai ragione, ma sai… adora correre. Meno male che il tuo amico ci sa fare.”
A quel punto John alzò il viso verso di loro senza smettere di sorridere, e Akela ne approfittò per lavargli la faccia.
“E piantala, ho detto!” ma rideva.
“Scusatemi ancora, togliamo il disturbo. Aki, qui!”
Fortunatamente questa volta il cane rispose al richiamo, saltò via da Watson e si affiancò alla padrona. Quest’ultima li superò ricominciando a correre, le due lunghe trecce scure che spuntavano dal berretto colorato danzavano con lei, le guance rosse accaldate davano risalto agli occhi nocciola.
In breve sparirono dalla loro vista, sebbene l’eco delle loro voci continuò a risuonare per un po’ intorno a loro.
Ripresero a camminare.
Dopo un poco, John udì fievole la voce di Sherlock mormorare un “Grazie.”
“Di nulla… ma per cosa?”
“Per prima. Hai fermato il cane.”
Il medico abbassò gli occhi, forse arrossì. Era stato istinto, nient’altro. Non c’era bisogno di ringraziare.
“Comunque è vero, ci sai fare con gli animali.”
John tacque, sembrò scegliere con cura le parole: “Sai, Mary aveva un cane quando l’ho conosciuta.”
Sherlock si voltò verso di lui, lo osservò bene. Cercò di intuirne lo stato d’animo.
Erano entrati in un territorio delicato.
“Lei… ti manca?”
“È complicato.” Una pausa. “Sì, mi manca… cioè, ci sono aspetti di lei che mi mancano, parlare con lei mi manca, averla vicina, ma…” Sospirò. “Senti, non sono bravissimo in queste cose. Ne parliamo un’altra volta, uh?”
Sherlock acconsentì. In realtà la sua risposta gliel’aveva data, eccome. Ma non se ne era nemmeno reso conto.
 
Cominciò a farsi molto buio.
La neve caduta nel pomeriggio aveva ricoperto ogni cosa con un sottile strato bianco, che ora brillava alla luce della luna.
Concordarono che fosse meglio rientrare.
“Dai andiamo, ti riaccompagno a casa.”
“John, non ce n’è bisogno.”
“Insisto. È buio e sei da solo, non mi piace.”
“Ma per chi mi ha preso, per un poppante?”
Watson alzò un sopracciglio, guardandolo in faccia.
In tutta risposta, Holmes spalancò la bocca con aria oltraggiata.
“Questa me la lego al dito.”
“Lega, lega pure,” ridacchiò l’altro. “In ogni caso, da qui siamo comunque molto più vicini a casa tua che a casa mia.”
Lungo la strada si trovarono inondati dalla luce dei primi addobbi natalizi, che già iniziavano a decorare le vie e gli ingressi di ogni negozio.
Entrambi si trovarono costernati nel constatare che il Natale fosse ormai vicino.
“Non mi piace il Natale.”
“E come mai questo non mi stupisce?”
“Sul serio, John. Cosa c’è di bello nel Natale?”
“Mah, non saprei. Il clima di festa, la famiglia riunita, i regali… non ti dicono nulla?”
Ma Sherlock era predisposto all’attacco. “Perché, a te dicono qualcosa?” borbottò, per poi pentirsi un attimo dopo. “Scusami.”
“No tranquillo. Dopo tutto, è vero.”
“Allora lo capisci anche tu, no? A Natale chi è solo si sente ancora più solo.”
John lo guardò con espressione indecifrabile. “Ma tu non sei solo, Sherlock. Hai tuo fratello, i tuoi genitori. Mi hai detto tu che hanno insistito fino alla morte perché tu andassi da loro a Natale.”
“Questo non mi impedisce di sentirmi solo lo stesso… certe volte.”
E gli restituì uno sguardo altrettanto incomprensibile, se non per una richiesta silenziosa che Watson vi seppe leggere: Mi capisci, vero?
“Sì, capisco.”
Inconsapevolmente, si avvicinarono l’uno all’altro. I gomiti si sfiorarono più volte.
“Eccoci,” annunciò ad un tratto John, riconoscendo il portone.
“Vuoi salire?” chiese Sherlock a bruciapelo. Non che non avesse programmato di farlo, ma in quel momento gli sembrò la cosa giusta da fare.
L’altro tentennò. Non aveva ancora mai messo piede in quell’appartamento.
“Avanti, John. Mangi qualcosa e te ne vai, è pure ora di cena!”
“Disse quello che non mangiava mai,” rimarcò sarcastico.
“Per te farò uno sforzo. Va bene così?”
Il biondo lo squadrò scettico. Nella sua mente, ripercorse in fretta i fatti del pomeriggio. Un brivido lo attraversò.
“D’accordo,” sospirò.
Non notò il lampo che brillò negli occhi dell’altro, che si voltò prontamente ed entrò in casa.
In un secondo si materializzò davanti a loro Mrs. Hudson. “Ah, eccola finalmente!” esclamò allegra, senza troppe cerimonie. “Ho sentito tanto parlare di lei.”
Sherlock alzò gli occhi al cielo, cercando di sminuire l’entusiasmo della signora.
“Non badarci, John. Adora l’esagerazione.”
“Non credo proprio,” lo rimbeccò lei. “Forza, salite a scaldarvi. Ho acceso da poco il camino.”
Watson, che in tutto questo non aveva proferito parola, si limitò a seguire l’amico su per le scale.
Era parecchio curioso, in realtà, di conoscere il luogo in cui Sherlock viveva.
E l’appartamento andò ben oltre le proprie aspettative.
“Ti piace?”
“Molto, molto carino,” mormorò, guardandosi intorno. “Certo che sei proprio disordinato, però!”
Sherlock fece l’offeso. “È il tuo concetto di ordine, che è sbagliato.”
Lasciò poi che girasse un po’ per la casa, in esplorazione. Era certo dell’effetto che avrebbe avuto su di lui. Notò il suo sguardo soffermarsi sul coltello piantato sulla mensola sopra il camino, nonché sul teschio poco distante, e infine sulla poltrona a sinistra del camino.
Watson sfoderò un sorrisetto compiaciuto. Sembrava molto comoda.
 
Holmes attese il momento in cui si sedettero al tavolo della cucina. Mentre cenavano, tirò nuovamente in ballo la questione della stanza libera.
“Sai che potresti trasferirti qui, se volessi.”
L’amico rimase sul vago. “Ci penserò, sì.”
Ma non aggiunse altro sull’argomento.
Finirono di cenare in fretta, John pareva in attesa di ripartire.
Gettò uno sguardo sulla strada, scostando appena una tenda.
“Come ti trovi in università?”
Sherlock rimase un attimo interdetto, senza capire da dove gli fosse saltata fuori quella domanda.
“Né bene né male. Ci vado perché devo andarci.”
“Non hai amici?”
“Direi nessuno in particolare. Sai, alla gente non sto particolarmente simpatico. Mi ritengono un po’ eccentrico, immagino.”
John annuì, sovrappensiero. Seguiva un proprio filo logico, che all’amico rimaneva oscuro.
“Le persone lo fanno in continuazione, no? Categorizzano, ingabbiano…”
“Ed è questo che temi, John? La gabbia?”
Lui si voltò allarmato. Gli occhi blu si oscurarono.
“Adesso devo proprio andare. Ci vediamo domani?”
“Certo,” annuì il moro, accompagnandolo alla porta. Guardandolo allontanarsi, si morse il labbro inferiore.
Un bel mistero, quel John Watson.
 
 

 
15 Dicembre
Pomeriggio
 
Quel giorno, Watson fu costretto ad allontanarsi dalla propria tranquilla zona periferica per visitare un paziente che aveva chiesto espressamente di lui. Era già stato nel quartiere di Marylebone, naturalmente, ma ogni volta rimaneva folgorato dal lusso sfoggiato dai grandi palazzi che punteggiavano la zona. Nel periodo di Natale, poi, l’effetto era perfino decuplicato.
Lasciò l’abitazione dell’uomo – un semplice di caso di gastrite cronica – che era ormai pomeriggio inoltrato. La voglia di tornare a casa era forte, ma fu presto imbrigliata quando si rese conto che non si trovava distante da Baker Street.
Il suo cuore ebbe un piccolo tuffo.
Poteva fare un salto a trovare un amico.
L’idea fece capolino nella sua testa quasi casualmente, ma appena ne ebbe coscienza assunse l’aspetto di una vera e propria necessità.
Se c’era una cosa che da un mese a quella parte voleva davvero fare, ogni giorno, era vedere Sherlock Holmes.
Non riusciva a spiegarsi l’intensità di quella sensazione, eppure non poteva toglierselo dalla testa; e il solo sapere che l’avrebbe rivisto presto ebbe sul medico un effetto calmante.
Camminando a passo svelto, in men che non si dica fu davanti alla porta del 221B. Bussò esitando appena.
Immediatamente apparve davanti a lui la figura di Mrs. Hudson, sempre piena di vitalità, che non gli diede nemmeno il tempo di salutare ma lo fece entrare sommergendolo di parole.
“Che bello vederla, John! Cosa ci fa qui? Salga pure! Le porto un tè!”
“N-non si disturbi, Mrs. Hudson, sono solo passato per un saluto a Sherlock.”
“Oh, ma nessun saluto dev’essere troppo breve. Sherlock è fuori ma dovrebbe rientrare a momenti, lei si accomodi. E non mi faccia ripetere!” lo ammonì con aria bonaria, agitando un dito contro di lui.
John ubbidì – anche perché agire diversamente sarebbe stato difficile – ed entrò nell’appartamento al piano di sopra.
Osservò con circospezione la poltrona che tanto lo aveva affascinato la prima volta che era stato lì: la guardò come a chiederle il permesso di sedersi. Concluse che l’ok era stato concesso.
“Silenzio assenso, no?”
Era comoda come si era immaginato.
Il fuoco era già acceso nel camino e gli scaldava piacevolmente piedi e mani.
Holmes fece più tardi di quanto non si pensasse, ma per fortuna la padrona di casa seppe rallegrare l’attesa con un buon tè e il suo continuo chiacchierare.
Si misero al tavolo della cucina, in realtà riempito a metà dello stesso materiale che Sherlock teneva nel laboratorio in università.
“Sono proprio felice di vederla qui, John. Lo sa?”
“Ah sì? E come mai?”
“Perché Sherlock è meno scorbutico quando c’è lei intorno. Lo vedo più contento, sereno. È piuttosto raro trovarlo in uno stato simile.”
“Non stento a crederlo,” rispose il medico, cercando di nascondere con una battuta sarcastica l’imbarazzo che gli era salito ad ascoltare la signora. Un imbarazzo comunque mitigato da una punta di orgoglio.
Mrs. Hudson osservò di sottecchi le espressioni che attraversarono involontariamente il volto dell’altro, e sorrise.
“Prenda un biscotto!” lo invitò, porgendogli un piatto pieno di paste dall’aria squisita. “Ma uno solo, che altrimenti Sherlock se ne accorge.”
“Hanno un’aria deliziosa. Sfido chiunque a non esserne geloso!”
“Lei è troppo gentile. Ma deve sapere che lui va matto per i biscotti allo zenzero. Ucciderebbe per quelli.”
John ridacchiò.
“No, sul serio,” insistette la donna, senza lasciargli intendere se stesse davvero scherzando o meno.
Watson propese per far finta di nulla e addentò il biscotto con gusto.
“Mi raccomando, John. Lo tratti bene.”
Avrebbe voluto farci un’altra battuta su, chiedendo se si riferisse a Sherlock o al biscotto. Ma lo sguardo caparbio della donna lo frenò. Deglutì, colto alla sprovvista.
Lei proseguì: “Sa bene anche lei che coloro che dall’esterno appaiono tanto forti spesso sono quelli che hanno più bisogno che qualcuno abbia cura di loro. Capisce cosa intendo, immagino.”
E gli fece un occhiolino. John si sentì avvampare fino alla punta delle orecchie.
 
In quel preciso momento, udirono la voce baritonale del dottorando farsi strada su per le scale.
“John?!” lo chiamava, avendo capito che si trovava lì.
A quest’ultimo scappò una risata. Gli pareva un bimbo che torna a casa e cerca la mamma.
“Eccolo qui!” esclamò allegra Mrs. Hudson, facendo finta di nulla. Come se la loro conversazione non fosse mai avvenuta.
Sherlock irruppe nel salotto come un tornado. “State mangiando dei biscotti?”
Li accusò, palesemente offeso dal non essere stato incluso nella merenda fuori programma.
“Assolutamente no,” rispose prontamente la padrona di casa, che aveva già provveduto a nascondere il piatto dalla sua vista.
L’altro le restituì uno sguardo scettico. Ma prima che la disputa potesse proseguire, Watson notò qualcosa che non gli piacque per nulla.
“Ma che hai fatto sulla faccia?”
E si alzò di scatto, andando verso l’amico.
“Nulla di che, mi è arrivato un pugno… forse due…”
“… o tre,” completò per lui John, lo sguardo che si era fatto grave.
Mrs. Hudson lanciò uno dei suoi gridolini fievoli, ma non disse nulla. Sparì prontamente al piano di sotto, salutandoli di fretta. Per quanto preoccupata per Sherlock, non voleva intromettersi tra loro due. Li lasciò a sbrigarsela da sé.
“Dai siediti, fammi dare un’occhiata.”
“Non ce n’è bisogno.”
“E io come tuo medico sostengo il contrario! Forza.” Gli ordinò, indicando una sedia vicina al tavolo della cucina.
Sherlock rimase basito dal suo cambio di atteggiamento repentino. Un attimo prima così premuroso, quello dopo già così perentorio. E nessuno dei due gli dispiaceva, anzi.
Ubbidì con una docilità che non passò inosservata nemmeno a Watson. Ma in quel momento era più concentrato sul problema concreto, non aveva tempo da perdere con altre questioni.
“Hai l’occorrente per un pronto soccorso, suppongo,” mormorò, mentre il ragazzo prendeva posto vicino a lui.
“In bagno, anta di destra.”
“Ottimo.”
In un minuto era andato e tornato con tutto il necessario. Si era completamente immerso nel proprio dovere, dimenticando chi avesse di fronte. I suoi occhi non si staccavano dai segni sul viso dell’altro, che riportava un vistoso graffio vicino alla tempia e un livido sullo zigomo che stava assumendo una tinta violacea.
Gli salì una rabbia che tenne a bada a fatica.
“Chi cazzo ti ha ridotto così? Cos’è successo?”
La sua voce, abbassata di un tono, provocò al moro un brivido lungo la schiena.
“C’era un rissa in corso, mi sono inserito per aiutare un ragazzo.”
John cominciò a trafficare con cotone e disinfettante. “Immagino non si stessero prendendo a cazzotti in mezzo alla piazza. Adesso facciamo una scommessa…”
“Spara.”
Senza rispondere, John gli pose una mano sul viso, tra collo e mandibola, per tenerlo fermo. D’istinto, Sherlock si irrigidì. Sentiva le sue dita sfiorargli la nuca, mentre il pollice poggiava sullo zigomo sano. La mano era calda, rassicurante e salda contro il proprio volto.
Tentò di comandare al cervello di non farlo arrossire.
Passando con delicatezza il cotone imbevuto sul taglio, John riprese a parlare. La voce era appena udibile. “Scommetto che hai dedotto, per qualche ragione, che il ragazzo era nei guai. Scommetto che lo hai seguito per un tratto di strada, convinto che stesse andando dritto dal suo problema. Scommetto che hai atteso che la tua ipotesi venisse confermata, prima di gettarti nella mischia inutilmente. Scommetto che ti sei preso qualche pugno anche per lui.”
Il medico notò allora, guardandolo, che il ragazzo aveva chiuso gli occhi. “Allora, come sono andato?” lo incalzò.
Sherlock si riscosse. Per quanto l’argomento non lo entusiasmasse, la voce di John, unita alla sua mano sulla propria guancia, lo cullava piacevolmente.
“Massimi voti, caro il mio dottore. Ma il tuo racconto non rende giustizia.”
“Ah no?”
“No. Lo fai passare per un atto di generosità da parte mia.”
“E non lo è stato?”
“Per la seconda volta, no. Non sono un eroe, John. È solo che il mio cervello non può fare a meno di trarre delle logiche conclusioni da ciò che osservano gli occhi.”
“Nessuno ti costringeva a seguirlo.”
“Dovevo verificare di avere ragione.”
“Non ne avevi bisogno, già sapevi di aver ragione. Sai di aver ragione. Perché hai sempre ragione.”
Sherlock boccheggiò. “T-tu vuoi dipingermi a tutti i costi come una brava persona.”
“E tu vuoi passare a tutti i costi per una cattiva.”
Gli occhi chiari del ragazzo si sollevarono su quelli dell’altro. Un silenzio carico di tensione li avvolse come una bolla.
Watson gli era vicino, molto vicino. Aveva smesso di medicarlo, ma la mano sinistra era ben ancorata al suo volto. Sherlock la sentì tremare per una frazione di secondo, ma non interruppe il contatto visivo.
Il suo fu un movimento impercettibile, si sporse appena verso l’altro, che si chinò su di lui.
Si incontrarono a metà strada.
John catturò le sue labbra tra le proprie. Lo baciò piano, spostandosi davanti a lui, tra le sue gambe. La mano destra libera gli circondò il fianco sottile.
Sherlock lo attirò a sé, stordito da quel contatto ma desideroso di sentirlo ancora più vicino.
John gli morse appena il labbro superiore, bellissimo con la sua forma di cuore, e insinuò la lingua a cercare la gemella. La trovò, inesperta ma decisa.
Il bacio divenne presto profondo, intenso. Il respiro si fece pesante.
Sherlock percepì il corpo dell’altro premersi contro di lui, con le braccia magre gli circondò il torace.
Si udì un gemito.
Di chi, non avrebbero saputo dirlo.
Ma funzionò da campanello d’allarme per Watson, che si fermò all’istante, allontanandosi d’improvviso dal ragazzo.
Per un attimo non si sentirono che respiri insistenti riempire l’aria.
John lo guardò con occhi spaventati.
“P-perdonami, Sherlock. Non avrei dovuto.”
L’altro gli rispose a fatica. “Ma che stai dicendo?”
“Ho sbagliato. Io… non dovevo. Non posso coinvolgerti. È… sono un casino.”
Il moro si alzò in piedi, non capiva. Fece un passo verso di lui. “Ma mi hai visto, John? Non mi pare che tu abbia davanti una persona considerata normale.”
L’altro scosse la testa. “È diverso. Tu non sei anormale, sei speciale. Non puoi farti rovinare da uno come me. Accidenti.” Si infilò le mani tra i capelli. “Senti, io… devo andare. Perdonami, davvero.”
Sherlock non provò nemmeno a fermarlo. Troppi pensieri, troppe considerazioni gli vorticavano nella testa. Lo lasciò andare via, la mano serrata attorno alla maniglia della porta dell’appartamento.
Quando udì quella su strada chiudersi, si impedì di andare alla finestra. Si appoggiò con la schiena alla porta, facendosi scivolare a terra piano piano.
 
 

To be continued
  
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