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Autore: Hebi_Grin    19/01/2019    0 recensioni
[TakaZura | Zura!PoV | Pre-serie | Post-Guerra | Temi delicati: PTSD | Implicito contesto sessuale | Completa]
***Aggiunto omake/finale alternativo***
Per quanto Katsura tenesse ai suoi vecchi compagni, non aveva fatto mai nulla per cercarli da quando si erano separati. Solo loro tre potevano comprendere la reciproca sofferenza, ma aveva pensato fosse passato troppo poco tempo da quando tutto era andato in pezzi attorno e dentro di loro, ed era stato troppo impegnato a rimetterli malamente assieme e costruire su di sé una gelida ma ancora sottile corazza cui sarebbe bastata qualche incrinatura per cedere. Eppure, non avrebbe rifiutato un contatto con loro se, come ora, cercato.
Genere: Angst, Commedia, Introspettivo | Stato: completa
Tipo di coppia: Yaoi | Personaggi: Kotaro Katsura, Takasugi Shinsuke
Note: Missing Moments | Avvertimenti: Tematiche delicate
Capitoli:
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- Questa storia fa parte della serie 'And a Golden Butterfly is Dancing Upon His Ebony Hair '
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Glossario:

Ochoko: tazzina per bere il saké. Non sono le classiche quasi “piatte”, ma cilindriche (quindi più capienti).

Tokkuri: la classica bottiglietta da saké

Tsuka: impugnatura della katana

Koiki: Tabacco giapponese particolarmente indicato per la Kiseru

Saya: fodero

Tasuki: i “lacci” che si usano per tenere le maniche del kimono raccolte.


 



 

Kotarou venne svegliato da una folata di vento gelido sulla schiena nuda solo parzialmente coperta dalle lenzuola e dai capelli ancora raccolti, ma in disordine e annodati.

Il suo corpo riverso prono sul materasso era pesante e stanco, la gola riarsa, la testa pulsava procurandogli un intenso fastidio e allungò il braccio destro, percependo lo spazio al suo fianco vuoto e freddo.

Strizzò gli occhi più volte e attese qualche secondo perché si abituassero all’oscurità della stanza, cercando nella vista ulteriore conferma di essere solo nel futon, la quale non tardò ad arrivare.

“Che abbia sognato?”.

Chiuse gli occhi per provare a ricordare e ripercorrere con la mente i ricordi della notte precedente: alcune scene si manifestavano intense e dettagliate – lui che si sporgeva verso Shinsuke e posava le labbra sulle sue; i loro abiti scivolare sul pavimento; mani che toccavano, esploravano, stringevano e graffiavano; bocche baciare, ansimare, mordere, assaggiare, mormorare e implorare.

Non voglio pensare, non farmi pensare, Shinsuke”.

Altre immagini apparivano invece vaghe e sbiadite, come quando si guarda attraverso un leggero velo di lacrime.


 

Provò a concentrarsi e riavvolgere il nastro, tornare indietro di qualche ora, per cercare di ricordare cosa fosse accaduto prima.  

Era stato con Shinsuke in un locale a Kotarou sconosciuto sebbene si trovasse in un luogo davanti al quale era passato numerose volte. Aveva fermato il proprio passo, stretto i pugni e contratto nervosamente la mascella quando entrando aveva notato che l’intero personale e buona parte dei clienti erano Amanto di tutte le specie – pesci, leopardi, maiali, leoni, orsi e ogni altro tipo di fauna possibile.

Uno sguardo eloquente e un cenno di Shinsuke lo avevano esortato a procedere e si erano seduti con tre tokkuri di costoso sakè per occasioni speciali in un angolo piuttosto appartato e buio del locale, che tuttavia permetteva loro la visuale sull’intera sala.

L’ambiente era uno strano mix – non una via di mezzo – tra il lussuoso e il rozzo tendente al volgare che aveva fatto pensare a Kotarou a una copertura per attività sottobanco.

«Mi hai portato a bere o fare una gita allo zoo?» aveva commentato Katsura stizzito, le braccia incrociate al petto e lo sguardo, contrariato e offeso, fisso su Shinsuke che stava versando a entrambi da bere.

L’altro ridacchiò – Kotarou si chiese se fosse davvero divertito, ed ebbe la sensazione non trattarsi di quel tipo di risata – e prese tra le mani la ochoko portandola vicino alle labbra.

«In un certo senso, entrambe le cose. Beviamo un po’ prima, poi ti dico».

Kotarou si mordicchiò il labbro inferiore, il piede destro tamburellava nervoso al pavimento, poi sospirò e bevettero, contemporaneamente.

Subito Shinsuke verso dell’altro alcool nelle ochoko, che vennero svuotate e di nuovo riempite, e così fino a svuotare la prima tokkuri senza che pronunciassero una sola parola.

Per tutta il tempo trascorso nel locale, le loro tazze non sarebbero rimaste vuote che per qualche secondo.

«Allora?».

«L’uomo vestito di blu seduto al tavolo vicino al banco – no, non guardarlo ora, Zura».

«Mi chiamo Katsura».

Shinsuke sogghignò e prese da una tasca dell’haori la kiseru, una scatola di fiammiferi e del koiki dalla confezione in lacca nera e dorata.

«Meglio se ti trattieni dal correggermi, qui. Dicevo,» smise di parlare per accendere la kiseru e fare un lungo tiro. «Si chiama Hayashi Daijirou. È un funzionario del Bakufu». Vuotò la tazzina e Katsura fece altrettanto, come se vigesse tra i due un silenzioso accordo di bere ogni volta che lo facesse l’altro.

«Non ha un rango alto nello Shogunato, è più uno che sfrutta la sua posizione per arricchirsi inosservato. Facilita in cambio di mazzette certi tipi di affari agli Amanto. Attività illegali, ovviamente, che il governo non può esplicitamente consentire ma da cui ottiene comunque dei vantaggi. E sai come ha avuto la sua posizione?».

Un altro tiro di fumo enfatizzò la pausa e Katsura scosse la testa, scrutandolo con attenzione in attesa, gli occhi su Takasugi e lui soltanto.

«È uno che prima, durante e dopo la guerra ha denunciato e venduto parecchie persone come ribelli, bambini compresi, abbastanza da comprarsi un posto. Un ottimo rappresentante del marcio dello Shogunato, non trovi?».

Bevettero ancora, e Katsura lanciò una fugace occhiata all’uomo vestito di blu stringendo la stoffa del kimono azzurro di stoffa grezza nella mano sinistra.

L’alcool stava scioglieva velocemente la sua corazza glaciale e le parole di Takasugi vi si insinuavano inesorabilmente, permettendo alla rabbia di cominciare a fluire goccia per goccia ed erodere più a fondo la barriera di fredda e dignitosa compostezza.

«L’uomo calvo con gli occhiali con cui parla è chiamato ‘Lo zoppo’» continuò Shinsuke. «Afferma essere una ferita di guerra, ma la verità è che è stato storpiato da bambino dalla poliomelite. È il contabile di questo posto, e ovviamente anche il tesoriere che si occupa del riciclaggio del denaro. L’unica cosa pulita che ci sia in questo posto è il sakè. Goditelo, Zura» concluse lui con un cenno del capo, sollevando la tazzina.

Kotarou soppesò per qualche attimo le parole appena sentite e mandò giù l’intero bicchiere.

Strizzò gli occhi quando il liquido scese per la gola ma cominciò a sentirlo salire alla testa.

Evidentemente, anche Takasugi stava facendo le sue ricerche e raccogliendo dati.

«Perché mi dai queste informazioni?» chiese dopo essersi schiarito la voce.

Shinsuke riempì le tazzine di entrambi – ormai alla terza tokkuri – e aspirò del fumo.

«Perché voglio vedere che ci farai».

«Mi stai mettendo alla prova?».

«Se vuoi chiamarlo così...».

«Sì o no, Shinsuke?».

«Qualcosa del genere» rispose Takasugi con leggero ritardo.

Stavolta fu Katsura a prendere per primo l’ochoko per bere, e l’altro fece lo stesso.

«Perché?» domandò biascicando appena mentre Shinsuke versava ancora da bere e Kotarou cominciava a faticare a vedere nitidamente. Cercò di concentrarsi sull’altro, assottigliando appena lo sguardo per vedere meglio: se stava anche lui risentendo dell’alcool, non lo dava a vedere, escludendo l’occhio appena arrossato, la pelle del viso e del collo imperlati di sudore e il fatto che si inumidisse spesso le labbra per la secchezza data dal saké.

«Diciamo che sono curioso di vedere come agisci ora» disse prima di mandare giù un altro bicchiere.

Stavolta Katsura rimase immobile e bevette con qualche secondo di ritardo. Posata la tazzina, portò la mano destra all’impugnatura della katana nascosta al suo fianco.

La pupilla dell’occhio di Takasugi si dilatò e un moto di divertimento uscì dalle sue labbra.

«Oh, è così che vuoi fare? Sembra più una cosa da me».

Katsura non rispose e rimase immobile con la mano stretta alla tsuka; Takasugi verso dell’altro saké dalla bottiglia, svuotandola.

«Questo è l’ultimo bicchiere, Zura. Dopo questo fai ciò che vuoi… Ti asseconderò».

Kotarou mandò giù il liquore con la mano sinistra; un’espressione che voleva essere concentrata, ma appariva assente sul suo volto.

Posò l’ochoko e lasciò la presa dell’impugnatura, portando lo sguardo sull’amico, poi frugò le tasche del kimono e poggiò sul tavolo un oggetto sferico che produsse un suono metallico.

«Interessante decisione...» fu il commento di Takasugi.

«Un minuto» disse Katsura cominciando a settare la bomba.

«Fai… Venti secondi» rispose Shinsuke.

«Sei impazzito?» biascicò Kotarou con gli occhi sgranati.

L'altro sogghignò e tirò una boccata di fumo.

«Venti secondi» ripeté Shinsuke.

Katsura chinò la schiena in avanti verso l’altro, gli avambracci poggiati sulla superficie del tavolo.

«Così rischiamo di venir coinvolti anche noi» sibilò.

«Ti preoccupa la cosa?» chiese inarcando un sopracciglio fingendo sorpresa.

"Ovvio che sia preoccupato, e lo sai benissimo, idiota".

Katsura rigirò la bomba tra le mani premendo i tasti.

«Trentacinque. Non uno di meno. Andiamo» ordinò alzandosi dalla sedia, e mosse un primo passo incerto.

Il contatore sullo schermo cominciò il countdown e Kotarou si voltò: Shinsuke era ancora seduto e lo guardava.

«Andiamo» ripeté Katsura con lo stesso tono risoluto che usava durante la guerra per dare ordini. La voce e i pugni stretti gridavano silenziosi tutta la sua irritazione e preoccupazione.

Gli si avvicinò, determinato ad afferrarlo per un polso e trascinarlo fuori di peso, se necessario, ma un attimo prima che ciò potesse avvenire lo schermo segnò venti secondi e Shinsuke si alzò di sua volontà.

«Ti avevo detto che ho il tempo che decido di avere io, Zura».

Katsura era troppo impegnato ad assicurarsi di uscirne vivi per pensare a rimproverarlo.

I due si diressero a lunghi passi fianco a fianco fuori dal locale, e una volta che furono in un vicolo sporco e buio dall’altro lato della strada sentirono la forte esplosione e un intenso spostamento d’aria; videro pezzi di legno e mattoni schiantarsi sulla strada e il marciapiede, e le fiamme divampare alte.

Katsura posò la schiena e la testa al muro dietro di lui e tirò un sospiro a metà tra sollievo e soddisfazione.

Shinsuke spostava lo sguardo tra lui e il locale in fiamme.

«È stato rischioso, Takasugi» disse Katsura ansimante per l'adrenalina e la corsa fatta appena messo piede fuori dal locale.

I battiti del suo cuore parevano impazziti e portò la mano destra su di esso per percepirlo meglio; le sue labbra erano incurvate in un sorriso e gli occhi chiusi.

«A me sembra che però tu ora sia davvero vivo per la prima volta da quando ti ho rivisto».

Katsura sollevò lo sguardo su di lui e lo osservò: forse aveva ragione, ma si rese tristemente conto di non poter dire altrettanto.

I due terroristi avevano già voltato le spalle il vicolo quando cominciarono a sentirsi le sirene dei pompieri e della polizia.

 

*


 

Davvero uno strano sogno”.

Per qualche attimo, il dubbio lancinante persino più del mal di testa attanagliò Katsura, che si trovò a chiedersi persino se davvero avesse visto Shinsuke quel giorno.

Dalla fine della guerra gli era capitato varie volte di avere dei veri e propri stati allucinatori, non dei semplici sogni ad occhi aperti, che si sovrapponevano alla realtà; giorni in cui era stato assiduamente convinto di aver visto o fatto una certa cosa o parlato con una certa persona, per poi scoprire con sua enorme sorpresa che non era mai accaduto.


 

Un rumore lo fece improvvisamente riavere dal dormiveglia e dal flusso dei propri pensieri, e portò la mano destra istintivamente sotto il cuscino alla ricerca del wakizashi pronto a difendersi; la sinistra stava già tirando la saya e sfoderato i primi centimetri di lama.

Alzò la testa e si voltò, solo allora si accorse di un rivolo di saliva all'angolo della sua bocca perso durante il sonno.

Il suo sguardo incontrò la sagoma di un uomo seduto alla sua finestra e gli ci volle qualche secondo prima di realizzare chi fosse e che avesse Victoria posato sulle ginocchia.

«… Takasugi» disse dopo l'iniziale spaesamento, e velocemente richiuse il fodero della lama e si pulì l'angolo della bocca col dorso della mano.

L'altro voltò lo sguardo verso lui, prese una boccata di fumo ed espirò verso l'esterno.

«Già sveglio, Zura?».

«Katsura… Quanto ho dormito?».

«Tre ore, circa».

«E tu?».

«Trenta minuti, forse».

«Pensavo di averti sognato».

«Fai spesso quel tipo di sogni sulle persone che conosci?».

«S-Stai zitto! Certo che no!» balbettò Kotarou alzando la voce, e le sue guance si imporporirono. Una rinnovata fitta alla testa gli fece portare entrambe le mani alla testa e la massaggiò, passando le dita tra i capelli annodati.

«Bere dell’acqua attenuerebbe i postumi, Zura».

«Katsura. L’hai letto su qualche rivista? Un trafiletto a fianco di ‘Guida ai locali underground di Edo’?»

«Ma che stai dicendo? Non ho mai letto quella roba. Era una rivista scientifica».

«Se leggi riviste scientifiche, dovresti sapere anche che fumare non è un toccasana. Da quando lo fai?».

L’altro guardò all’esterno e rimase in silenzio.

«Takasugi?».

Kotarou lo chiamò, lo sguardo fisso su di lui e sporse il busto in avanti, in attesa.

«Shinsuke?».

«Da qualche mese» rispose senza voltarsi.

«Ti ucciderà».

«Lo farà abbastanza lentamente da non essere la causa della mia morte. Te l’ho detto, no? Avrò il tempo che deciderò io».

«Fumi, non dormi… Ti stai facendo del male».

«Non mi pare tu te la stia cavando molto meglio di me» stavolta i loro sguardi si incrociano per un attimo, finché Shinsuke non guardò fuori e Kotarou fissò una piega delle lenzuola.

«In che direzione stiamo andando, Shinsuke?» mormorò dopo qualche minuto di silenzio.

«Alla deriva. Verso una strada senza uscita, al buio di un'eterna notte. Col resto del mondo».

«Dopo la notte viene l'alba».

«Tu sogni con gli occhi aperti».

Kotarou sospirò e lasciò ricadere il corpo sdraiato sul futon, gli occhi fissi al soffitto e un impercettibile sorriso sulle labbra.

«Almeno quando posso decidere che sogni fare, preferisco ci sia il sole».

«Se questo ti soddisfa...»

«Non proprio, ma è qualcosa… Come lo è il fatto che oggi abbia fatto amicizia con una bestia».


 

*


 

Katsura posò sul tavolino due ciotole di riso – scondito – e due tazze di tè.

«Hai mai pensato di tenere i capelli sciolti?» domandò in tono casuale Takasugi dopo qualche boccone e osservato per alcuni attimi.

Kotarou inarcò un sopracciglio.

«Capelli sciolti…? Come ti è venuto in mente?».

«Ho pensato che li hai sempre portati legati. Ma forse sciolti si addirebbero meglio a te».

«Sciolti son scomodi, li ho troppo lunghi».

Sciolse il nastro che ormai raccoglieva solo gli ultimi centimetri delle punte dei capelli, ancora arruffati dalla notte precedente, e lo poggiò di fianco alla tazza.

«Così, dici?» chiese ravvivandoli con la mano, che si incastrò in un grosso groviglio a metà lunghezza.

Shinsuke sogghignò e inghiottì un boccone.

«Magari la prossima volta».

«Sì, la prossima volta...» ripeté distrattamente Kotarou e tornò a mangiare.


 

«Mi sei piaciuto ieri sera, Zura. Insomma, chi se lo sarebbe mai aspettato da un monaco» esordì Shinsuke dopo qualche minuto di silenzio.

Katsura sbattè sul tavolo la scodella di riso e le hashi.

«Ta-Takasugi! Non provare nemmeno a cominciare discorsi imbarazzanti come questo! E quello è un travestimento!» balbettò, e la voce si alzò di un’ottava; le guance assunsero una tonalità rossastra.

«… Parlavo del locale che hai fatto esplodere» rispose l’altro senza scomporsi alla sfuriata.

«Ah». Katsura volse lo sguardo di lato ancora più imbarazzato e il viso in fiamme; un chiodo piantato nel muro dal precedente proprietario era diventato improvvisamente interessante. «Io…».

«Avevi bisogno di non pensare» cominciò Shinsuke quando l'altro non continuò la frase. Lentamente Kotarou riportò lo sguardo verso il suo.

«Ricordarti di esistere ancora, ma facendo in modo tale da non provare sensi di colpa. Qualcuno che conoscesse bene il tuo corpo, le cicatrici visibili e invisibili, come funziona la tua mente abbastanza da capire tutto ciò senza fare domande, perché non l’avresti saputo mai dire».

Kotarou deglutì un boccone, stupito e affascinato che la capacità di Shinsuke di leggere e analizzare persone meglio di quanto loro stesse riuscissero e situazioni fosse persino migliorata.

«Stai ancora parlando del locale…?».

«Sto parlando di te».

«E di te che dici?».

«Alcune delle nostre esigenze sono opposte, ma compatibili. Altrimenti credi davvero ti avrei assecondato?».

Kotarou inghiottì l'ultimo morso con l'aiuto del tè.

Devo schiarirmi le idee”.

«Ho bisogno di darmi una sistemata».

«Mh» rispose Shinsuke di rimando a bocca chiusa, impegnato a masticare, mentre l’altro si stava già dirigendo al bagno.


 

Katsura chiuse la porta dietro di sé.

Il catino sotto il rubinetto gocciolante era pieno a metà e sospirò. Perdeva già da una settimana, e ancora non era riuscito a ripararlo.

Il proprio viso si rifletté al piccolo specchio appeso alla parete ed ebbe un sussulto, quasi spaventato, e lo fissò a lungo con gli occhi sgranati

Un disastro. Un completo, terribile disastro indegno di un samurai”.

Gli occhi erano ancora arrossati dalla sera prima; il viso emaciato e di un pallido tendente al grigio; le occhiaie nerastre sotto gli occhi gli ricordarono quando doveva usare il trucco per lavoro ma tornato a casa era troppo stanco per rimuoverlo – pur sapendo che se ne sarebbe pentito il giorno dopo –; le labbra erano secche come la pelle attorno e spaccate in quello che aveva tutta l'aria di essere un morso; una scia di ecchimosi da suzione ai lati del collo, di un viola intenso che avrebbe dovuto coprire con una sciarpa per giorni, e non aveva bisogno di controllare per sapere non essere le uniche.

Tirò su le maniche del kimono, per fissarle col tasuki e il suo sguardo ricadde sui morsi e i graffi tracciati sulla sua pelle delle braccia ora scoperta, che esaminò con attenzione.

“Ha bisogno di sentire di avere il controllo”.

Con la mano sinistra, raccolse mollemente sulla nuca i capelli aggrovigliati, mentre con l’altra gettava l’acqua su viso e collo. Era gelida, ma se pure avesse avuto voglia di scaldarla al fuoco – “Devo davvero procurarmi uno scaldabagno” –  non l’avrebbe fatto. Non avrebbe spazzato via quel poco di stanchezza perennemente leggibile sul suo volto che gli era concesso rimuovere, né lo avrebbe aiutato a ragionare meglio.

L'aroma di menta del dentifricio sostituì il sapore acido e stantio del sakè della notte precedente e del riso appena mangiato nella bocca, e gli parve di sentirsi un po’ meglio.

Con le punta dita dipanò con cura tutti i nodi che riuscì a trovare, lentamente e senza strappare, poi con attenzione cominciò a spazzolarli.

Dalle punte fino alle radici, le setole affondarono tra le ciocche, finché non incontrarono più alcun ostacolo né resistenza.

«Kotarou, cosa stai facendo…?» mormorò tra sé e sé con un fil di voce; le braccia tese al lavandino a reggere gran parte del proprio peso e gli occhi fissi sulla sua immagine riflessa, incerto su quale Katsura sarebbe stato quel giorno, e di quale conoscesse la risposta.

“Cosa stai facendo?”.

Le gocce d’acqua cadevano nel catino dal rubinetto chiuso, e le osservava infrangerne la superficie, disconnesso dalla realtà, fin quando sentì la porta dell’ingresso aprirsi e poi chiudersi subito scrollandolo dal torpore in cui era caduto.

“Cosa?”

Un istante dopo era fuori dal bagno.

Shinsuke era scivolato via come un’ombra e senza una parola, lasciando la tazza di tè e la ciotola di riso vuote, e Kotarou coi suoi dubbi.

Se fosse corso fuori, avrebbe certamente potuto raggiungerlo, ma decise di non farlo.

Capì di non doverlo fare.

Si sedette di nuovo, e notò che a fianco alla tazza non c’era più il proprio nastro per capelli.

«“La prossima volta”...» mormorò toccando le ciocche dei capelli che ricadevano sciolti sulle sue spalle.

Katsura aggrottò le sopracciglia, e le sue labbra lentamente si incrinarono in un sorriso, degenerando in una risata dapprima accennata, poi sempre più forte, folle, tanto violenta da smettere solo quando lo lasciò steso sul pavimento senza fiato divenuta oramai muta mentre le sue labbra continuavano a muoversi come in uno spasmo.

Victoria emise un miagolio stridulo e rizzò i peli.

Passarono svariati minuti prima che riprendesse fiato e si rimise seduto; la sua mente riuscì infine a formulare in modo logico un pensiero coerente.

Non sapeva quando sarebbe stata ‘la prossima volta’,  ma Shinsuke l’avrebbe trovato con un’altra maschera: quella che egli stesso aveva contribuito a creare prendendo il suo nastro.

C’era spazio per un Katsura Kotarou coi capelli sciolti, come li teneva lui, e che forse avrebbe saputo rispondere alle domande che si poneva.


*


Omake/Finale alternativo, se si desidera:

Era passato qualche giorno, e Katsura cominciava a pensare che forse i capelli sciolti, pur lunghi, non erano poi così scomodi in fondo.

Il problema maggiore, tuttavia, era che quelli caduti durante il giorno non rimanevano incastrati nel nastro, bensì erano liberi di cadere al suolo.

Doveva spazzare il pavimento molto più spesso.

«Victoria, spostati, per favore. Devo pulire lì. Con cosa stai giocando?».

Katsura tirò un lungo sospiro e si chinò per vedere meglio quando il gatto (Shinsuke aveva ragione, era davvero un maschio, ma non avrebbe mai ammesso il suo errore) lo ignorò.

Rabbrividì quando, tirando un lembo del gioco del gatto, capì di cosa si trattasse. Era il suo nastro per capelli, diventato ormai quasi irriconoscibile. Non era stato preso da Shinsuke, ma dal gatto per giocarci.
 

   
 
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