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Autore: Piperilla    24/01/2019    0 recensioni
Le storie sono belle, ma la vita vera è un'altra cosa: si nasconde agli angoli delle strade, negli appartamenti anonimi, nelle periferie, e quando va in pezzi, ti dilania come le schegge di una granata.
Questo Vera lo sa bene: piena di ferite e di demoni con cui convivere, ha smesso di illudersi. La vita è crudele, meschina, e senza giustizia.
Anche Vittorio lo sa, ma non se ne cura: dopo vent'anni passati seguendo passione e vocazione, tutto quello che ha realizzato gli si sta sgretolando tra le mani. La vita è dura, irriconoscente, e ha un pessimo senso dell'umorismo.
La vita spesso fa schifo: è questo che pensa Vera mentre si domanda se le cose andranno mai meglio.
La vita a volte è proprio una stronza: è questo che si dice Vittorio mentre si chiede se valga la pena di ricostruire quelle macerie.
La risposta che entrambi si danno è no: ormai pieni solo di rabbia e amarezza, l'unica cosa che riescono a fare è usarle come spinta per alzarsi al mattino. Se lo tengono stretto, tutto quel veleno che gli scorre nelle vene.
Almeno finché qualcuno non glielo tirerà fuori a forza e gli ricorderà che esiste anche altro oltre la rabbia.
Genere: Angst, Commedia, Introspettivo | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het
Note: nessuna | Avvertimenti: Tematiche delicate | Contesto: Contesto generale/vago
Capitoli:
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Milano era esattamente come Vittorio la ricordava: rumorosa e frenetica persino più di Roma, e afosa il doppio.
   Il carabiniere sbadigliò, massaggiandosi il collo, e si avviò a passi pesanti verso una delle uscite della Stazione Centrale: a quell'ora di mattina era piena di persone che andavano al lavoro e ben presto Vittorio si ritrovò trascinato all'esterno da una fiumana di gente.
   Il quarantenne conosceva bene quella zona: ci aveva prestato servizio così tante volte da perdere il conto, quindi si avviò con decisione verso un bar ben preciso, all'apparenza uguale agli innumerevoli altri che sorgevano nei dintorni.
   Lì, come previsto, trovò ad attenderlo l'avvocato che gli aveva raccomandato Luciano.
   «Buongiorno, Valenti». L'uomo gli lanciò una lunga occhiata. «Nottataccia?»
   «Buongiorno, avvocato» grugnì Vittorio in risposta. «Ho fatto uno dei viaggi peggiori della mia vita su un notturno interregionale che... lasciamo stare, è meglio». Richiamò l'attenzione del barista con una mano. «Ti prego, fammi un caffè. Doppio. E portami anche un paio di cornetti farciti».
   Giuliano Santini inarcò le sopracciglia. «Goditelo 'sto caffè, Valenti, perché stamattina abbiamo parecchio da fare. Tra un'ora vediamo tua moglie e il suo avvocato per firmare le carte per la separazione; sono state fatte le stime sui beni di valore che possedete insieme – all'infuori della casa, s'intende – ed è disposta a pagare per tenersi tutto, visto che hai detto che non vuoi niente di quello che avete comprato durante il matrimonio».
   «Meno male» brontolò Vittorio. «E la casa?»
   «Tua moglie ha rinunciato al diritto di prelazione, ma abbiamo trovato comunque un compratore per la tua metà e disposto ad accollarsi la tua parte di mutuo» rispose Santini. «Ho già parlato anche con la banca: abbiamo appuntamento alle undici e trenta per finalizzare le carte riguardanti il mutuo. Se tutto va bene, riusciamo a sistemare ogni cosa entro oggi». Gli fece l'occhiolino. «Dopo, l'unica cosa che ti resta da fare è pagarmi la parcella».
   Vittorio sbuffò. «Luciano non me l'aveva detto, che sei tanto simpatico».
   L'avvocato si sistemò la giacca. «Questo è un privilegio che riservo ai clienti paganti».
   «Molto spiritoso».
   «Valenti, pensa a fare colazione, che l'orologio corre!»
   Vittorio decise di seguire il suggerimento di Santini; dopo dieci minuti i due uomini erano fuori dal bar, e altri diciassette più tardi, facevano il loro ingresso nello studio dell'avvocato di Emanuela.
   Quando la donna arrivò, posò lo sguardo su Vittorio per un brevissimo istante prima distoglierlo in tutta fretta, senza nient'altro che un cenno del capo a mo' di saluto.
   Il carabiniere strinse d'istinto gli occhi, reso guardingo dall'atteggiamento di sua moglie. O meglio, quasi ex moglie, si corresse tra sé mentre continuava a rimuginare sullo strano comportamento di Emanuela: che stesse pensando di rimangiarsi la parola? Magari di giocargli un brutto tiro? Vittorio non se la sentiva di escluderlo: Emanuela gli aveva portato rancore molto più a lungo e per motivi molto meno importanti, in passato, e non si era mai fatto scrupolo di manifestare il proprio malumore. Dunque lo rendeva inquieto, quel contegno così remissivo di Emanuela: in fondo, quella era la donna che era venuta fino a Roma e non s'era fatta scrupoli ad azzuffarsi con una sconosciuta in mezzo alla strada.
   Vittorio spinse quei pensieri in fondo alla mente quando la segretaria dell'avvocato milanese li fece accomodare nel suo studio. Da lì, le cose procedettero senza intoppi, al contrario di quanto s'era aspettato: ricontrollati i termini dell'accordo e del tutto soddisfatto, Vittorio firmò i documenti subito dopo sua moglie.
   Il quarantenne lanciò uno sguardo all'orologio e sorrise. Adesso la separazione era ufficiale, senza contare che il tutto si era svolto in poco più di un'ora e senza scambiare una sola parola con Emanuela, il che aveva del miracoloso: Vittorio si era aspettato ore di contrattazioni e urla furibonde da parte di entrambi, e non gli sembrava vero di essersela cavata così a buon mercato.
   «Sbrigati, Valenti: dobbiamo andare in banca» lo spronò Santini, quasi più giulivo del suo cliente.
   Vittorio lo seguì, non senza scoccargli uno sguardo sardonico. «Non dovrei essere io, quello così spudoratamente allegro?»
   «No» rispose all'istante l'avvocato. «Tu ti sei separato una volta sola; io faccio questo lavoro da anni, e se tutte le separazione fossero così semplici e veloci, la mia vita sarebbe perfetta». Sospirò con quella che pareva genuina felicità mentre uscivano dal palazzo che ospitava lo studio dell'altro avvocato e si avviavano lungo il marciapiede. «Non vi siete nemmeno urlati contro: e pensare che mi ero anche portato dietro i tappi per le orecchie».
   «I tappi per le orecchie?» gli fece eco il quarantenne.
   L'altro si voltò appena verso di lui e ammiccò. «Luciano mi ha avvertito: dice che quando ti arrabbi, tiri fuori due polmoni niente male!»
   Vittorio grugnì qualcosa tra sé ma scelse di non replicare. I due uomini continuarono in silenzio la loro lenta camminata verso la banca; quando arrivarono, vennero accolti quasi subito da un impiegato solerte, che li guidò in un cubicolo nascosto a occhi indiscreti dalle pareti di vetro sabbiato.
   Non appena entrò, il carabiniere si rese conto che l'acquirente era già arrivato; ma gli ci volle una seconda occhiata per riconoscere l'uomo dall'aria altera che gli stava di fronte, affiancato da un volto che Vittorio conosceva fin troppo bene e che aveva guardato per l'ultima volta solo mezz'ora prima.
   Incredulo, Vittorio fissò Emanuela e Carlo, il superiore della prima nonché suo amante, per alcuni lunghi istanti; poi un sorriso gli stirò la bocca quasi contro la sua volontà.
   Due secondi più tardi, il carabiniere esplose in una grassa risata sotto gli sguardi increduli dell'impiegato della banca e dell'avvocato Santini.
   «I-i-io... non ci posso... credere!» riuscì a rantolare Vittorio, tenendosi le costole. Indicò prima Carlo, che lo scrutava truce, poi Emanuela, sul cui viso campeggiava un'espressione per metà ostinata e per metà atterrita. «Proprio... non... posso!»
   «Hai finito?» chiese arcigno Carlo.
   «Per niente» ansimò l'altro, mentre si sforzava di tenere a bada quello scoppio di ilarità. «Scusa, ma la tua faccia era proprio l'ultima che mi sarei aspettato di vedere, qui e oggi». Gli lanciò uno sguardo divertito. «Non ti facevo così audace da ricomprare la mia metà di casa sotto il naso di tua moglie!»
   Carlo passò un braccio intorno alle spalle di Emanuela con aria arrogante.
   «Mi sono separato» annunciò, come se ne andasse particolarmente fiero. «Non appena avremo risolto questa situazione» sputò con disprezzo, lanciando uno sguardo eloquente a Vittorio, «andremo a convivere».
   Vittorio si asciugò gli occhi umidi col dorso della mano, il sorriso sempre stampato sulle labbra. «Se non avessi più fretta di te di chiudere questa storia, ti terrei sulla corda per il puro gusto di farlo». Per un attimo sembrò sul punto di aggiungere qualcos'altro, ma prima di poterci riuscire, eruppe in un nuovo torrente di risate, tanto violente da costringerlo di nuovo a premersi le mani sullo stomaco.
   Quando fu riuscito a prendere fiato un paio di volte, si raddrizzò e guardò Emanuela.
   «Se penso che sei venuta fino a Roma per supplicarmi di darti un'altra possibilità e che ti comportavi come se ti avessi spezzato il cuore... per fortuna non ci sono cascato!» commentò il carabiniere, ricominciando a sghignazzare senza ritegno. Spostò lo sguardo su Carlo. «Adesso è tutta tua. Tienitela stretta, se ci riesci; io, di sicuro, non la rimpiangerò». Allegro come non mai, si voltò verso l'impiegato che lo fissava impietrito. «Allora, dove devo firmare?»

******

Vera lanciò l'ennesimo sguardo al cellulare prima di tornare verso l'armadio.
   La notte precedente Vittorio era partito per Milano e, eccezion fatta per un messaggio con cui l'avvisava di essere arrivato, Vera non aveva avuto sue notizie; e sebbene sapesse che di sicuro Vittorio non si era fatto sentire soltanto perché troppo occupato, lei non poteva fare a meno di essere agitata. In fondo, pensava la ragazza, Vittorio era sposato con Emanuela da vent'anni: non era così improbabile che, dopo quell'ultima lite e quel distacco tanto netto, uno o entrambi avessero cambiato idea sulla separazione. Magari rivedendosi si erano resi conto che c'era ancora dell'amore tra loro, o che non erano pronti a lasciarsi, o che c'era ancora la voglia o la possibilità di salvare il loro matrimonio...
   Vera scosse con forza la testa e tornò a riempire la piccola sacca che aveva appoggiato sul letto. Il giorno prima, quando si erano salutati, Vittorio le aveva detto che, salvo imprevisti, sarebbe tornato in tempo per passarla a prendere intorno alle ventuno; e visto che non aveva avuto comunicazioni diverse – e che ormai il tempo stringeva, almeno stando all’orologio – alla fine si era decisa a preparare quello che le serviva.
   In quel momento Fabiola entrò nella sua stanza e guardò con attenzione sua figlia che riempiva la borsa.
   «Dormo fuori» annunciò Vera, anticipando la domanda di sua madre.
   Fabiola inarcò le sopracciglia. «Devo chiederti dove?»
   «Ti aspetti una risposta diversa dal solito?» ribatté ironica la venticinquenne.
   Sua madre le rivolse un lungo sguardo calcolatore: Vera era sicura che avesse visto il suo bluff, ma non aveva intenzione di darle nessun tipo di conferma.
   Dopo un minuto intero, Fabiola sedette sul bordo del materasso e sospirò.
   «Non capisco perché, all'improvviso, ci sono tutti questi segreti tra me e te» disse piano, lo sguardo fisso sulle proprie mani. «Pensi che avrei qualcosa da ridire? Per quel che ho visto finora, Vittorio mi sembra un brav'uomo».
   Vera deglutì. «Che c'entra Vitt...»
   Fabiola rialzò la testa. «Per favore, Vè, non trattarmi come se fossi stupida!» la interruppe sferzante. Prese un breve respiro. «Ultimamente state sempre appiccicati e si vede, che gli piaci, si vede da come ti guarda quando siete insieme». Le rivolse un'occhiata penetrante. «E se a te non piacesse lui, se ti fosse antipatico come quando l'hai incontrato per la prima volta, l'avresti già fatto scappare».
   «Non sono così cattiva!» insorse Vera.
   «Quando ti ci metti sai essere peggio che cattiva, Vè: negare l'evidenza non cambia i fatti» sbuffò sua madre. «E non cambiare discorso».
   Vera mise le ultime cose nella sacca e la chiuse, poi andò a sedersi accanto a Fabiola.
   «Che vuoi che ti dica?» mormorò, ripiegando la gamba sana sotto quella artificiale. «Che mi piace? Che con lui sto bene? È così, non ho motivo di negarlo. E neanche di tenerlo nascosto. Solo che… volevo tenere la cosa per me, almeno per un po’».
   «Perché? Non sei felice?» indagò Fabiola.
   «Sì che sono felice». Vera si grattò il naso, pensosa. «Ed è proprio questo che mi preoccupa».
   L'altra donna la fissò per un istante, esterrefatta. «Ti rendi conto che essere preoccupati perché si è felici non è normale, vero?»
   Sua figlia si strinse nelle spalle. «L'ultima volta che sono stata felice, che mi sembrava di non poter avere di più, Noemi è morta e io ho perso una gamba oltre a passare un mese e mezzo in ospedale perché ero piena di fratture e lesioni interne. Quindi… non lo so, diciamo che sono scaramantica e ho paura che capiti qualche altra disgrazia».
   Fabiola le strofinò una mano sulla schiena e si sporse a darle un bacio sulla guancia prima di alzarsi.
   «A proposito... tuo padre si è autoconvinto che non ci sia nulla, tra te e Vittorio» commentò leggera mentre se ne andava. «Lasciamolo crogiolarsi nelle sue illusioni».
   Vera sghignazzò tra sé, prese borsa e sacca e seguì sua madre giù per le scale; quando entrò in cucina quasi si scontrò con Eugenio che ne usciva, un bicchiere di tè freddo in mano e il telecomando del televisore in tasca.
   Eugenio scorse la sacca che sua figlia portava in spalla, ma prima che potesse dire alcunché, il cellulare della ragazza trillò; Vera lesse il messaggio di Vittorio e sorrise tra sé.
   «Pà, io esco» annunciò mentre faceva dietrofront.
   «Lo vedo» replicò l'uomo, tallonandola verso la porta. «Ma con chi?»
   «Indovina».
   Eugenio assottigliò lo sguardo. «Sarà mica quel carabiniere...?»
   «Proprio lui». Vera aprì la porta, poi scoccò un'occhiata sardonica all'espressione aggrondata di suo padre. «Perché quella faccia? Mi era parso di capire che ti fosse simpatico, quando me lo hai appioppato per l'appuntamento che avevo con Fabio» disse soave.
   L'uomo mugugnò qualcosa di incomprensibile e Vera ne approfittò per varcare la soglia.
   «Digli che lo tengo d'occhio!» le urlò dietro Eugenio.
   L’ex ginnasta sventolò una mano con fare noncurante, sgattaiolò fuori dal cancello sotto lo sguardo sospettoso di Eugenio e s'infilò nella macchina di Vittorio il più rapidamente possibile.
   Il sorriso rilassato con cui il carabiniere la accolse la fecero sospirare di sollievo.
   «Parti, Valenti: mio padre è sul piede di guerra».
   Vittorio eseguì, non senza ridacchiare. «Che gli hai fatto?»
   «Esco con te» rispose lei in tono innocente.
   «E lui non approva» sbuffò il quarantenne.
   «Per ora, si sforza di credere che tra me e te non ci sia nulla» replicò Vera. «Mia madre, invece, ci ha dato la sua benedizione... più o meno».
   «Be', è rassicurante sapere che almeno uno dei tuoi genitori non proverà a uccidermi» disse giulivo Vittorio. «Vorrà dire che se mai chiederò la tua mano a Eugenio, mi presenterò con l'armatura. O pensi sia meglio che ingaggi una decina di guardie del corpo?»
   Vera lo misurò con lo sguardo. «Quanto siamo allegri, Valenti. Per caso hai avuto un colpo di fulmine per una donna con tutte e due le gambe?»
   Vittorio accostò l'auto, slacciò la cintura di sicurezza e si sporse verso Vera fin quasi a salirle in braccio.
   «I miei gusti sono cambiati un po'» rispose, scoccandole uno sguardo ardente. Fece scivolare una mano sul ventre della ragazza mentre con l'altra le afferrava la nuca. «Adesso preferisco quelle con una gamba finta».
   Il carabiniere si avventò sulle labbra di Vera come se non la vedesse da un mese, invece che da sole ventiquattro ore. Vera rispose con entusiasmo: gli cinse il collo con le braccia e insinuò la lingua nella bocca di lui, strappandogli un gemito eccitato. Prima che gli animi potessero scaldarsi ancora di più, però, il cellulare di Vittorio prese a squillare con insistenza.
   L'uomo si staccò da Vera con un grugnito di disappunto e afferrò il cellulare; dopo aver gettato un rapido sguardo allo schermo, prese un respiro profondo e rispose sbuffando. «Mà? Che c’è?». Ascoltò in silenzio per mezzo minuto buono prima di schiaffarsi una mano sulla fronte in un gesto esasperato. «Sì, sì, vengo subito. T’ho detto che vengo!»
   E chiuse la chiamata.
   «Problemi?» chiese Vera. Lui prese a testate il poggiatesta, borbottando tra sé, e le sopracciglia della donna s’inarcarono. «Quello è troppo morbido: se vuoi ammazzarti, devi prendere a testate qualcosa di più duro. Tipo lo sportello di una cassaforte, considerato che è della tua testa che stiamo parlando».
   Vittorio la guardò storto e rimise in moto l’auto. «Devo andare da mia madre» bofonchiò contrariato. Il suo sguardo si accese. «Vieni con me!»
   «Ma che sei impazzito?» replicò Vera.
   «No, il livello di follia è sempre lo stesso» rispose lui, immettendosi nel traffico. «Dai, su, sono passato a prenderti solo dieci minuti fa: non mi va di riportarti a casa. Tuo padre potrebbe fucilarmi, per averti scomodata inutilmente!»
   «E io che pensavo me l’avessi chiesto perché ti fa piacere stare con me» ribatté lei, sardonica.
   «Anche» concesse Vittorio. «Dai, vedrai che ne varrà la pena: mia madre fa una crostata buona da impazzire».
   Vera quasi si mise a ridere nel sentire l’entusiasmo con cui il carabiniere aveva pronunciato le ultime parole. Per un attimo era sembrato un ragazzino, molto più giovane dei suoi quarant’anni e soprattutto molto meno amaro e cinico.
   «Visto che si parla di visite, questo sabato siamo invitati a cena da Giulia e Tiziano» annunciò mielata.
   «Basta che il tuo amico non provi a farmi diventare juventino» rispose pronto l'uomo.
   Il viaggio proseguì per un mezz'ora, durante cui Vittorio ne approfittò per raccontarle la propria giornata; Vera rise fino alle lacrime quando sentì della scena avvenuta in banca, e riuscì a ricomporsi giusto mentre Vittorio parcheggiava la macchina sotto casa di sua madre.
   I due entrarono nel palazzo e presero l'ascensore fino al quarto piano, dove Vittorio scoccò uno sguardo malandrino a Vera prima di incollare il dito al campanello della porta che avevano di fronte.
   Dei passi veloci risuonarono dietro la porta; il battente si aprì e Vera si trovò di fronte una signora di circa sessantacinque anni dall'aria energica.
   «Vittorio, smettila con quel campanello!» sbottò Agnese con aria furiosa. «E sbrigati a entrare: non so più che fare con quel lavandino!» proseguì, esasperata. Stava per aggiungere qualcos'altro quando finalmente scorse Vera, e si zittì.
   «Te lo dico io che devi fare: chiamare un idraulico e cambiarlo» borbottò Vittorio, entrando nell’appartamento e trascinando Vera con sé. «Mà, questa è Vera; Vera, questa è Agnese, mia madre».
   Imbarazzata, Vera strinse la mano dell’altra donna. «Salve, signora. Spero che non le dispiaccia se ci sono anch’io» mormorò.
   Agnese si riprese prontamente. «Macché!» disse decisa, chiudendo la porta. «Ti piacciono le crostate? Ne ho appena fatta una».
   «Guarda caso» commentò sarcastico Vittorio. Sua madre lo guardò male e Vera rischiò di scoppiare a ridere: era la stessa espressione che faceva Vittorio quando lei lo punzecchiava. Il carabiniere si rivolse a lei. «Ogni volta che mi chiama per sistemare questo maledetto lavandino, prepara una crostata per tenermi buono» spiegò.
   «Visto che funziona…» commentò candidamente Agnese. «Vieni, Vera. Vittorio, la cassetta degli attrezzi è al solito posto».
   Le due donne andarono in cucina, dove il televisore acceso faceva da sottofondo con il suo chiacchiericcio; la più giovane sedette con la schiena rivolta allo schermo mentre la padrona di casa le piazzava di fronte acqua, tè freddo e una crostata alla marmellata di ciliegie che sembrava uscita da una rivista di cucina.
   Vera annusò il dolce. «Ha un profumo divino» disse sincera.
   Agnese sorrise fiera e si accomodò; tagliò una bella fetta di crostata e la mise davanti alla ragazza, mentre Vittorio entrava nella stanza sbuffando e sferragliando.
   «Allora, Vera, dimmi: come mai conosci mio figlio?» chiese Agnese.
   Vera arrossì al ricordo. «Be’ io… io…»
   Il carabiniere aprì l’anta di legno che nascondeva il sifone, si sdraiò a terra e s’infilò per metà nel pensile. «Te lo dico io: l’ho fermata per un controllo mentre ero di pattuglia e mi ha insultato».
   La ragazza si nascose il volto tra le mani, mortificata.
   «Ma erano insulti meritatissimi» aggiunse Vittorio.
   Vera rialzò la testa di scatto e guardò le gambe che spuntavano dal mobiletto. «Non l’avevi mai detto prima!»
   «Perché sapevo che avrei firmato la mia condanna a morte» replicò la voce di lui. «Tanto so che mi pentirò presto di averlo ammesso».
   «Quando fai così, ti detesto» mugugnò Vera.
   «Tranquilla: io ti detesto sempre» replicò divertito Vittorio.
   Agnese, che aveva seguito quello scambio di battute in silenzio, tornò a rivolgersi alla sua ospite.
   «Sai che hai un’aria familiare?» disse pensosa, osservandola. «Ho l’impressione di averti già vista da qualche parte…». I suoi occhi furono calamitati dal televisore, dove le immagini di un servizio del telegiornale regionale scorrevano sullo schermo.
   «Prenderà il via tra pochi giorni il processo per il disastroso incidente d’auto avvenuto sulla Tiburtina nel maggio dello scorso anno» declamò fluido il giornalista. «Gianluca Moretti, unico imputato, dovrà rispondere di omicidio stradale e lesioni gravissime: nell’incidente, provocato mentre guidava sotto l’effetto di alcol e droga, perse la vita la ventiquattrenne Noemi Dei Giudici, mentre la sua coetanea, Vera Nicolini, subì l’amputazione di una gamba…»
   Vera divenne bianca come un lenzuolo. Senza battere ciglio, Agnese spense il televisore e riempì il bicchiere della ragazza, che sospirò silenziosamente di sollievo; Vittorio riemerse dal mobile e scoccò a sua madre uno sguardo grato.
   «Vittorio dice che vi siete conosciuti in modo un po’ turbolento, ma a me sembra che adesso andiate d’accordo» disse la signora, cambiando argomento.
   «Ci è voluto un bel po’» rispose Vera. «Abbiamo litigato parecchie volte prima di capire come prenderci».
   «Be’, non mi sorprende: mio figlio ha un caratteraccio impossibile» disse calma Agnese.    
   Il figlio in questione sbuffò contrariato. «Grazie, eh, mamma!»
   «Che c’è? Ho solo detto la verità» rispose impassibile la donna.
   «Confermo e sottoscrivo!» esclamò d’istinto Vera.
   Agnese sorrise. «Assaggia la crostata» la esortò. L’altra diede un morso alla fetta di dolce e sgranò gli occhi prima di socchiuderli con aria estatica. Mentre era intenta a masticare, la più anziana ripartì all’attacco. «Lo sai che mio figlio è sposato, vero?»
   Vera si strozzò. «Io… lui…» rantolò mentre si colpiva il petto con il pugno.
   «Te lo dico solo perché ho notato che non porta più la fede» aggiunse Agnese.
   Vittorio smanacciò alla cieca nella cassetta degli attrezzi. «Non la porto più perché io ed Emanuela siamo legalmente separati: ho firmato le carte giusto stamattina» informò sua madre, che si voltò repentinamente nella sua direzione.
   «Legalmente separati? E come mai?» chiese tagliente.
   «Perché quella stronza di mia moglie mi tradisce con il suo capo da più di due anni e io sono stanco di essere un cornuto» rispose brusco suo figlio. «È sufficiente?»
   «Te l’ho sempre detto, che non avresti dovuto sposarla» disse Agnese.
   «Oddio, non ricominciare!» sbottò Vittorio: colpì il sifone con una chiave inglese, creando un frastuono che fece storcere il naso a sua madre.
   La donna scosse la testa e si girò di nuovo verso Vera, che la scrutò allarmata.
   «Scusa, Vera, ma temevo che non te l’avesse detto» spiegò.
   Vittorio si mise a sedere di scatto e diede una testata al bordo del pensile. Imprecando a tutto spiano, si sporse in modo da poter guardare bene sua madre.
   «Ahò, ma da quand’è che mi consideri così infame?» chiese risentito.
   Agnese assunse un’aria molto severa. «Sei mio figlio, non potrei mai considerarti un infame!» replicò piccata. «Ma sapevo già da un pezzo che tra te ed Emanuela non andava bene, e credevo che ti fossi trovato un’amante. Che altro avrei dovuto pensare, vedendoti arrivare con una ragazza tanto più giovane di te?»
   Vera emise un verso strangolato, incerta se piangere di vergogna o scavare una buca nel pavimento e nascondercisi dentro.
   «Mà, puoi farla finita? Stai mettendo in imbarazzo la mia fidanzata» disse secco l’uomo, tornando a lavorare sullo scarico del lavandino.
   «Da quand’è che sarei la tua fidanzata?» farfugliò allibita Vera.
   «Oh, ma dai» brontolò Vittorio. «Ci vediamo tutti i giorni, andiamo a cena, al cinema, usciamo con i miei amici e con i tuoi… che credevi di essere?»
   «Fate sesso?» indagò Agnese.
   Vera divenne paonazza.
   «Mamma!» insorse Vittorio: anche se il suo volto era nascosto, dalla sua voce si intuiva come quella domanda avesse messo in imbarazzo anche lui. «Ma che domande fai?»
   «È una domanda normalissima» si difese sua madre.
   «Ho detto che è la mia fidanzata, no?» bofonchiò Vittorio. «Avrei detto che è un'amica, se non facessimo… be’, facciamo tutto quello che fanno le coppie» mugugnò. «Ti basta?»
   «Sì» concesse sua madre. «Posso sperare in dei nipotini, nel prossimo futuro?»
   «MAMMA!» tuonò di nuovo Vittorio. Vera preferì schiacciare la faccia sul ripiano del tavolo e coprirsi la testa con le mani.
   «Oddio, è un incubo. Questo è un incubo» piagnucolò disperata la ragazza.
   Agnese si accigliò. «Eh, via, mio figlio non è poi così male!»
   Vittorio sbuffò. «Guarda che parlava di te: l’hai terrorizzata».
   «Perché? Non vuole dei figli?» domandò Agnese, sinceramente perplessa.
   «Perché a malapena stiamo insieme!» sbottò l’uomo.
   «E allora?» chiese imperterrita la sessantacinquenne. «Mica vorrà aspettare vent'anni, per averne!». Si voltò verso Vera, che la fissò con palese terrore. «Quanti anni hai?»
   «Ven-venticinque» farfugliò la ragazza.
   «Ecco: l'età perfetta per iniziare avere dei figli» commentò Agnese, soddisfattissima. «Avevo la tua stessa età quando è nato Vittorio. Se vi sbrigate, potreste averne almeno un paio prima che tu compia trent'anni, con un po' di fortuna anche tre».
   Vera strabuzzò gli occhi. «Mi sembra un discorso un po' prematuro» tentò con voce flebile.
   «Gamba Bionica, non farti scrupoli solo perché è mia madre: sentiti libera di mangiarla viva per essere una simile ficcanaso, se ti va» la esortò il carabiniere.
   «Meglio di no, Valenti, dammi retta» rispose convinta la ragazza. «Lo sai che è meglio se non vado a briglia sciolta».
   Agnese guardò dall'uno all'altra con aria risentita. «Comincio a capire come mai andate tanto d'accordo» disse, un po' altera. Il suo sguardo si fece comprensivo. «Ma io sto parlando nel vostro interesse: siete giovani, si vede che non sapete bene cosa volete e di cosa avete bisogno, quindi credo sia giusto guidarvi nella giusta direzione...»
   «Va bene, ora basta» esplose Vittorio. Si rialzò e chiuse il pensile con un gesto secco. «Mà, il lavandino è posto e noi ce ne andiamo».
   «Di già?» replicarono in coro Vera e Agnese: la prima in tono sollevato, la seconda genuinamente sorpresa.
   «Sì» rispose l'uomo. Prese la venticinquenne per mano e la costrinse ad alzarsi. «Vera, saluta mia madre, che se dipende da me, non la vedrai almeno per i prossimi quattro anni!»
   Agnese gli scoccò uno sguardo tagliente. «Smettila di fare il maleducato!»
   «Smettila di farci l'interrogatorio e la paternale» replicò pronto suo figlio. «Papà non l'avrebbe mai fatto, e se fosse qui ti avrebbe tappato la bocca già da un pezzo, lo sai bene!»
   La donna decise di cambiare tattica. «E dove andate?»
   Vittorio trascinò Vera fuori dalla cucina e verso la porta d'ingresso. «A fare quello che fanno le coppie quando sono da sole» annunciò, e sgattaiolò fuori dall'appartamento prima che Agnese potesse replicare.
   Vera lo seguì in ascensore, paonazza e con un'espressione esasperata sul volto.
   «Dovevi per forza dire a tua madre che stiamo andando a casa a fare sesso?» si lamentò.
   Vittorio la guardò con le sopracciglia inarcate. «A parte che è stata lei a chiederlo, Vè, mia madre non è mica stupida: di sicuro non pensa che passiamo il tempo a giocare a briscola...». Sogghignò. «Anche se qualcosa in comune le due cose ce l'hanno».
   «E sarebbe?» lo sfidò la ragazza, le braccia incrociate sul petto.
   Il ghigno di Vittorio si allargò. «L'asso di bastoni».
   Vera gemette e gettò indietro la testa per un momento, incredula; poi sferrò uno schiaffo sulla fronte di Vittorio.
   «Sei indecente!» ululò. «Ma ti senti, quando parli?»
   «Sai, tesoro, devi imparare a lasciarmi fare il cafone volgare in santa pace, almeno ogni tanto» replicò imperturbabile Vittorio. «E poi non fare la santarellina con me: scommetto che quando sei da sola con Giulia dici di peggio!»
   Sconfitta, Vera mugugnò irritata tra sé Vittorio ne approfittò per abbracciarla.
   «Dai, smettila di tenermi il muso» le sussurrò all'orecchio appena prima di baciarle il collo.    «Prometto che a casa mi faccio perdonare».
   La ragazza gli rivolse uno sguardo altero. «Dovrai impegnarti parecchio».
   «Ho tutta l'intenzione di farlo» rispose suadente Vittorio, premendo il proprio corpo contro quello di lei.
   Vera ridacchiò. Il carabiniere fece per baciarla, ma lei lo schivò e sgusciò fuori dall'ascensore appena prima che si richiudesse. Si avvicinò al portone del palazzo, camminando lentamente all'indietro.
   «Meglio sbrigarsi ad arrivare a casa tua, allora. Non credi?»
   Vittorio la raggiunse a grandi falcate, la prese in braccio e andò verso la macchina a passo di marcia, la risata di Vera che gli riempiva le orecchie e le sue dita che scavavano impietose nel suo petto.
   Sì, sbrigarsi ad andare a casa era davvero un'ottima idea.
   
 
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