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Autore: Old Fashioned    24/01/2019    13 recensioni
Siamo a Herburg, la capitale dell'Impero di Kjarr. La tensione è alle stelle, perché stanno per cominciare i Giochi annuali, nei quali si affronteranno le migliori squadre delle Dodici Marche. Il comandante di una delle squadre in gara, Ehrenold, si troverà da una parte ad affrontare un avversario animato da vecchi rancori e disposto a tutto per riparare al torto che ritiene di aver subito, dall'altra verrà in contatto con un giovane soldato poco incline alla disciplina, un Cavallo Selvaggio nel gergo dell'esercito di Kjarr, e riconosciutene le potenzialità cercherà di avvicinarlo, con risultati non sempre positivi. Le due vicende si intrecceranno nella gara finale, quando tutte le squadre dovranno dare il massimo, ma solo una si aggiudicherà la vittoria.
Prima classificata allo "Sport Contest", indetto da Fiore di Girasole sul forum di EFP, a pari merito con "Ironia della sorte", di SSJD
Genere: Angst, Azione, Sportivo | Stato: completa
Tipo di coppia: Slash
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
Capitoli:
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- Questa storia fa parte della serie 'Kjarr'
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Gente,
ecco qui un altro capitolo del mappazzone. Grazie a tutti quelli che in qualche modo mi seguono, un grande grazie a chi mi ha lasciato anche un parere!^^




Capitolo 3

Ehrenold si voltò verso Rowden e vide che l’amico aveva lo sguardo fisso verso il portale che dai sotterranei dell’Arena conduceva al campo di gara. “Che c’è, sei nervoso?” gli chiese.
Al di là si udivano squilli di tromba e acclamazioni. Da bianchi che erano, i gradini erano diventati tutti neri, perché coperti di soldati. Solo in fondo si vedeva la macchia chiara formata dalle compagnie di ragazzi che non avevano ancora raggiunto lo status di reclute e portavano l’uniforme kaki.
“Un po’,” rispose Rowden. Poi, dopo una pausa: “Tu no?”
Ehrenold rimase in silenzio. Aveva visto i Giochi un paio di volte quando era ragazzo e un’altra volta con l’uniforme nera, in compagnia del suo mentore, poi era stato mandato in varie guarnigioni e non aveva più avuto occasione di assistervi. Ricordava abbastanza bene la cerimonia di apertura, ma un conto era vederla seduto sulle gradinate, un conto era prendervi parte.
Seguì con lo sguardo la squadra di Essl che prendeva posizione davanti all’uscita. Uno dei cavalli raspò a terra con l’anteriore, il suo cavaliere gli diede un paio di pacche sul collo per calmarlo, ma l’animale arretrò e l’uomo fu costretto a fargli fare qualche passo in circolo prima di riportarlo in formazione. La bandiera della Marca, fronde di quercia argento in campo nero, ebbe un’oscillazione, tanto che il comandante richiamò l’uomo che la reggeva.
Un altro cavallo tentò di scartare col posteriore, ma venne subito richiamato all’ordine dal suo cavaliere.
“Pronti,” disse l’inserviente che stava accanto alla porta.
Da fuori provenivano lunghi squilli di tromba, il brusio della folla si era fatto carico di aspettativa.
“Salute e vittoria,” augurò loro Ehrenold alzando la destra.
Il comandante della squadra, un capitano di nome Shorn, si girò sulla sella e gli rivolse un sorriso tirato. “Salute e vittoria anche a voi,” rispose. Forse avrebbe voluto aggiungere altro, ma l’inserviente disse: “Squadra di Essl: fuori.”
Shorn si girò in avanti e diede l’ordine di avanzare, la squadra si mosse compatta verso il riquadro luminoso.
L’Arena la accolse con un’ovazione. Gli uomini della Marca di Essl che si trovavano fra il pubblico sventolarono bandiere e si sgolarono in acclamazioni così forti che per un attimo sembrarono coprire gli squilli delle trombe di guerra.
Ehrenold fece avanzare i suoi: i prossimi a uscire sarebbero stati loro. Alle sue spalle, Rowden disse: “Certo che è strano, vero? Avremo visto chissà quante battaglie, eppure siamo qui che ce la facciamo sotto al pensiero di fare una passeggiatina in formazione davanti a un po’ di pubblico.” Fece una breve risata, alla quale gli uomini risposero ridacchiando a loro volta.
“Salute e vittoria anche per noi,” si limitò a rispondere il Luogotenente. Era nervoso forse più di tutti gli altri messi insieme – in fin dei conti era principalmente su di lui che sarebbe ricaduto l’eventuale biasimo se la squadra non avesse dato buona prova di sé – ma era ben consapevole che tra i suoi doveri c’era anche quello di dare l’esempio, esattamente come gli era richiesto di fare sul campo di battaglia.
“Voglio una formazione di parata perfetta,” disse in tono tranquillo. Stava per aggiungere altro, ma risuonò la voce dell’inserviente: “Pronti.”
La squadra si approssimò all’uscita.
“È vero che c’è anche l’Imperatore?” chiese uno degli uomini con voce vagamente incerta.
Ostentando un tono tranquillo, Ehrenold rispose: “Certo che c’è, Arel. Per chi pensi che sfileremo, una volta arrivati là fuori?”
Il soldato assunse un’espressione preoccupata. “Io non ho mai visto l’Imperatore,” mormorò.
Il Luogotenente si girò a fissarlo. In tono tranquillo gli disse: “Quando sei stato in battaglia contro i soldati di Mirith l’avevi per caso visto?”
“No, Luogotenente.”
“Non hai avuto meno coraggio, però.”
Il soldato annuì. “Ho fatto quello che dovevo, Luogotenente.”
“Qui non ti è richiesto niente di più, Arel. Testa alta e ginocchia strette. Saluta quando arrivi davanti a Lui e non preoccuparti di niente.”
Il soldato ebbe un pallido sorriso. “Sì, Luogotenente.” Poi, dopo una pausa: “Grazie.”
Intervenne l’inserviente: “Squadra di Heiswegen: fuori.”
“Formazione di parata,” ordinò Ehrenold, quindi mise il cavallo al passo.
Aveva già visto l’Arena e aveva già visto i Giochi, ma mai da quella posizione, e mai con gli occhi di chiunque puntati addosso. Mai con l’Imperatore che lo guardava.
“Salute e vittoria,” disse la voce di Rowden alle sue spalle. “Guidaci e noi ti seguiremo fino alle Dimore di Vopnir.”
Ehrenold alzò la testa con uno scatto e un attimo dopo era sulla pista, la bandiera di Heiswegen che schioccava nel vento teso. Le acclamazioni erano un unico boato ininterrotto, gli squilli di tromba erano così forti da rintronare. Davanti, staccata di un centinaio di passi, c’era la squadra di Essl, ancora più avanti quella di Arhusk. Gli parve quasi di essere uscito da sé, di guardarsi da fuori. Si vide procedere fino alla tribuna d’onore, dare l’alt, salutare. Tutto perfetto, tutto all’unisono. La squadra era come un’entità unica, come se i suoi uomini si fossero fusi in un solo essere, che poi era diventato anche parte di lui.
Alzò lo sguardo sul sovrano: da quella distanza gli appariva solo come un uomo imponente, dai capelli bianchi, con l’uniforme da Generale Supremo. Sapeva che era vecchio, perlomeno per i criteri di Kjarr, eppure sedeva eretto e fin da quella distanza si coglieva il suo sguardo acuto di rapace. Alla sua destra c’erano i più alti dignitari del regno e alla sua sinistra le più autorevoli fra le matrone.
Diede ordine di abbassare la bandiera in segno di onore al sovrano, che salutò militarmente la formazione.
Successivamente, Ehrenold si ritrovò di nuovo sulla pista, la squadra compatta alle sue spalle. “È andata,” gli disse Rowden, a voce talmente bassa che nel caos di acclamazioni fece quasi fatica a sentirla.

§

Vadian appoggiò il boccale sul lungo tavolo di legno della mensa e disse: “E finalmente, domani cominciano i Giochi!”
Gli altri capisquadra alzarono i boccali in un brindisi, dal fondo del tavolo qualcuno esclamò: “Salute e vittoria!”
“Salute e vittoria!” fecero eco gli altri, poi tutti bevvero un sorso.
Si fece udire la voce di Shorn: “Ragazzi, siete pronti per domani? I cavalli si riposano, eh, tocca a noi sgobbare!”
Hyvardus stirò le poderose membra e rispose: “Preparatevi, perché domani vedrete la squadra di Wors sparire all’orizzonte.”
“Ah, sì?” ghignò Vadian, “Dove hai intenzione di scappare?”
L’altro si finse piccato. “Davanti a voi, ovviamente. Vedrete solo i nostri sederi.”
“Allora potremmo anche farci un pensierino!” intervenne Hatril, comandante della squadra di Rhenigtas. “Vi teniamo dietro durante le prove di corsa e nuoto, e appena di fermate per tirare con l’arco...”
A quel punto intervenne Deler, della Marca di Oswand, che disse: “E mentre voi vi divertite, noi arriviamo all’Arena per primi e ci beviamo una birra mentre vi aspettiamo.”
Tutti risero.
Ehrenold si voltò verso Rowden, che nella generale allegria aveva abbandonato il tavolo della squadra di Heiwsegen e si era unito a quello dei capisquadra, e gli chiese: “Come stanno i ragazzi?”
L’altro sorrise. “Partirebbero stasera, se potessero.” Si guardò intorno alla ricerca di un boccale, Ehrenold spinse il proprio verso di lui. Il capitano sorbì un lungo sorso, quindi proseguì: “Arel è ancora emozionato per quello che gli hai detto.”
L’altro scosse la testa divertito. “Ma se non gli ho detto niente...”
“Scherzi? Hai parlato proprio a lui. È rimasto molto colpito.”
“Per così poco?”
Rowden si protese ad appoggiargli una mano sulla spalla, quindi rispose: “Sai perfettamente cosa possono significare anche poche parole da parte di un comandante.” Fece una pausa, poi precisò: “Un vero comandante, naturalmente, non un cialtrone con qualche grado in più sull’uniforme.”
“E io sarei un vero comandante?”
Rowden gli strinse appena la presa sulla spalla, quindi a bassa voce rispose: “Sai di esserlo.”
Uno scoppio di risa particolarmente violento fece voltare entrambi: a tavola continuavano a scambiarsi battute sulla gara dell’indomani.
Ehrenold si alzò e si affacciò a una porta che dava su un cortile lastricato e illuminato da fiaccole, con un pozzo e un lavatoio al centro.
Vi si diresse a passi lenti e si sedette sul bordo del bacile. Piegò la testa all’indietro ed emise un sospiro mentre contemplava il cielo notturno. Rowden lo raggiunse e si sedette accanto a lui. “Sei nervoso per domani?” gli chiese.
Ehrenold si voltò verso di lui, cercando di indovinare i suoi lineamenti nel bagliore vago delle fiaccole assicurate alle pareti. “Mi domandi sempre se sono nervoso. No, per domani non lo sono: i ragazzi sono tutti nuotatori esperti, ottimi corridori, ottimi arcieri. Non ti dico che sono sicuro di vincere, perché anche la squadra di Hyvardus e quella di Wardan sono forti, ma di certo non arriveremo tra gli ultimi.”
“Per cosa sei nervoso, allora?”
Ehrenold distolse lo guardo. “Non lo so,” si decise a dire dopo un lungo silenzio.
“Di nuovo la faccenda del mentore?” azzardò Rowden.
Il Luogotenente stava per rispondere quando sulla porta comparve la figura poderosa di Hyvardus. “Ehi, voi due!” disse con voce tonante, “Non lo sapete che durante i Giochi non si fanno le cose private?” Se ne andò con una gran risata.
A quel punto, Ehrenold si alzò in piedi e disse: “Sarà meglio andare a dormire, domani dobbiamo essere riposati.” Senza attendere risposta si incamminò verso le camerate.

§

L’alba era lattiginosa, umida. Il lago Inach, nel quale sarebbero state disputate le prove di nuoto, era una distesa cupa e increspata sotto un cielo color del piombo.
Ehrenold scese dal carro sul quale la sua squadra era stata trasportata, si liberò degli indumenti e li piegò in un fagotto che successivamente depose sul pianale. I suoi uomini lo imitarono e in breve furono tutti nudi, a parte un laccio di colore nero al collo, cosa che avrebbe permesso di riconoscere in ogni momento dei Giochi la squadra cui appartenevano.
Nell’aria fredda il fiato si condensava in nuvole bianche. Qualcuno si era avvicinato al lago e si stava spruzzando acqua addosso per abituarsi alla temperatura, altri passeggiavano su e giù cercando di mantenere calda la muscolatura.
Ehrenold si guardò intorno: accanto alla sua c’erano la squadra verde – Wors – e azzurra – Briel – che stavano a loro volta sistemando i vestiti sui rispettivi carri. Più oltre c’era la squadra rossa – Gunefort – che stava già entrando in acqua. A Ehrenold parve di cogliere un’occhiata torva da parte di Wardan, ma quando volle accertarsene il capitano gli stava dando le spalle.
La voce allegra di Arel lo distrasse: “Scommetto che facciamo prima noi ad attraversare che i carri a fare il giro.”
Un altro membro della squadra, Herli, lo rimbeccò: “Prega Hengrist che non sia così, altrimenti ci tocca di rimanere là nudi e tremanti finché non arrivano a portarci i vestiti!”
“Vorresti che arrivassimo dopo per avere i vestiti caldi? Cosa sei, un mezzo soldato di Karaali?”
“Ma senti questo! Tu intanto vedi di starmi dietro, se ci riesci.”
Tutti entrarono con i piedi in acqua. La sponda del lago era stata divisa in settori, ognuno contrassegnato da un colore diverso, e dall’altra parte dello specchio d’acqua c’erano analoghe zone colorate, verso le quali ogni squadra si sarebbe dovuta dirigere. Per controllare il corretto svolgimento della gara, gli osservatori si erano posizionati alla partenza e all’arrivo. Un paio di essi si trovavano su una piccola barca che stava prendendo il largo e si preparavano a sorvegliare gli atleti anche durante la gara.
“Quanto tempo abbiamo di là per infilarci i vestiti?” chiese Herli, fissando con le sopracciglia aggrottate la superficie bigia dell’acqua.
“Abbiamo che se non ti sbrighi ti facciamo correre nudo!” esclamò un altro soldato, dandogli uno schiaffo su una natica. Lo schiocco risuonò nell’aria.
“Ehi!” protestò il primo, massaggiandosi la parte offesa.
“Così ti scaldi, no?”
Herli brontolò un’imprecazione.
Ehrenold, già in acqua fino alle cosce, si limitò a chiamare a sé gli uomini e a dire: “L’abbiamo già fatto molte volte alla guarnigione. Abbiamo nuotato in acque più fredde e anche per tratti più lunghi di questo. Rispettate il regolamento e ricordatevi che siete una squadra, non atleti che gareggiano per conto loro. È la squadra che vince.”
Notò che si stava approssimando un suonatore di tromba, che avrebbe dato di lì a poco il segnale della partenza.
“Pronti!” esclamò il più anziano degli osservatori.
Tutte le squadre entrarono in acqua e si posizionarono nella maniera regolamentare. Ehrenold fece in tempo a scambiare un’ultima rapida occhiata con Rowden, poi giunse il potente squillo dello strumento.
Un attimo dopo, stava fendendo lo spazio ad ampie bracciate. Aveva passato giorni a figurarsi come sarebbe stato partecipare ai Giochi, se ci sarebbe riuscito, se l’emozione l’avrebbe infine sopraffatto, ma ora che finalmente tutto era cominciato, si sentiva perfettamente calmo e lucido, come gli accadeva durante le battaglie. I movimenti del nuoto si susseguivano regolari, i suoi e quelli dei suoi uomini. Anche con l’immagine fugace di dorsi lucidi che emergevano e si immergevano un attimo dopo, riusciva a riconoscerli: la nuotata nervosa di Herli e quella lenta e potente di Rowden, il dorso tatuato di Arel e quello di Lylan, percorso da una lunga cicatrice.

La sponda opposta arrivò quasi all’improvviso: un attimo prima era nell’acqua alta, un attimo dopo i piedi stavano toccando le alghe del fondo. Herli era già uscito dal lago e stava correndo verso il carro.
Ehrenold lo raggiunse a sua volta, controllando nel frattempo che anche gli altri stessero arrivando, si infilò i vestiti sul corpo ancora bagnato e raccolse la custodia dell’arco. “La cotta di maglia!” rammentò a tutti, “Ricordate che chi arriva al traguardo senza cotta, elmo e spada è squalificato!”
La squadra imboccò la pista per prima. Il percorso era pesante per le recenti piogge, irregolare e si snodava in salita fra alberi enormi, le cui radici spesso sporgevano in archi nodosi dal terreno.
Lylan inciampò e cadde con un grugnito soffocato, Ehrenold lo afferrò per lo scollo della cotta di maglia e senza fermarsi lo tirò in piedi, Rowden era incalzato da vicino dal primo della squadra blu.
Di tanto in tanto si vedevano, ieratici ai margini della vegetazione, gli osservatori, che muti e immobili seguivano lo svolgersi della gara.
Cominciò a piovere, grosse gocce gelide, e scivolare lungo la salita divenne la norma. Le uniformi e le cotte di maglia erano completamente coperte di fango e anche dei lacci che ognuno portava al collo non si capiva più il colore.
“Ci dovranno tirare un secchio d’acqua per capire di che squadra siamo,” ansò Arel, aiutandosi anche con le mani per tenersi in equilibrio su quello che la pioggia aveva trasformato in un torrente fangoso.
“Meno chiacchiere e corri,” replicò Ehrenold.
Arrivarono alle postazioni di tiro, la squadra di Gunefort si era già attestata e gli uomini stavano togliendo gli archi dalle custodie impermeabili e stavano mettendo le corde. Gli osservatori erano impegnati a controllare le squadre in avvicinamento.
Il Luogotenente sentì un sibilo e solo l’istinto lo spinse a buttarsi a terra. Alzò lo sguardo e vide Wardan con l’arco imbracciato. Il capitano non stava guardando lui e anzi aveva tutta l’aria di star controllando se l’arma fosse o meno in perfetta efficienza, tuttavia il fischio degli impennaggi era stato inconfondibile.
Di nuovo Ehrenold fissò Wardan e questa volta per un istante incontrò il suo sguardo. Ragionò fra sé e sé: di certo si era trattato di un avvertimento, senza alcuna intenzione di provocargli ferite. Se infatti l’avesse colpito, anche se nessuno avesse visto che era stato lui, i Giochi sarebbero stati sospesi e ci sarebbe stata un’indagine.
Così, invece, l’attacco non poteva avere conseguenze: con quella luce cupa, in mezzo a una macchia regolarmente usata per le esercitazioni di tiro, non avrebbe avuto senso andare a cercare una freccia in più o in meno, perché di certo Wardan non aveva usato una di quelle con gli impennaggi rossi della squadra, ma una che probabilmente aveva raccolto proprio in quella zona giorni prima. Di nuovo, se avesse provato a denunciare il fatto, sarebbe stata la sua parola contro quella del capitano e nessuno sarebbe riuscito a dimostrare niente.
Tolse l’arco dalla custodia e lo armò cercando di fare il vuoto nella mente e di concentrarsi solo sul bersaglio.

§

Rientrarono all’imbrunire, fradici e coperti di fango, tra lazzi e cori. Qualche soldato dormiva rannicchiato sul pianale, ma i più erano perfettamente svegli e molto eccitati per la conclusione della prima giornata di gare. Si sprecavano gli aneddoti e le battute.
Non si sapeva ancora quale fosse stata la squadra vincitrice, gli osservatori dovevano calcolare i punteggi, ma quella di Heiswegen e quella di Gunefort erano le favorite.
Ehrenold si appoggiò alla sponda del carro con la schiena. Nel movimento, la coperta che aveva sulle spalle scivolò giù e Rowden si protese per raccoglierla. “Sei stanco?” gli chiese poi.
“Non più del solito,” rispose Ehrenold, “avrei solo voglia di un bagno caldo.” Fece una pausa, poi disse: “Come a Tysach, ti ricordi?”
“Quello è stato un bell’avamposto,” rispose Rowden.
“Già, il Luogotenente Ralkr era uno che sapeva il fatto suo.”
“Chissà dove sarà adesso?”
Ehrenold stava per rispondere quando uno dei soldati gli si avvicinò porgendogli un otre di vino. “Bevi, Luogotenente,” gli raccomandò.
L’ufficiale abbassò gli occhi sul grosso contenitore, ormai parzialmente floscio, di pelle rossiccia e ornato di nappe chiare. “E questo da dove salta fuori?” chiese.
“È del capitano Hyvardus, Luogotenente. Ha detto di farlo girare.”
Ehrenold si voltò verso il carro della squadra verde e il colosso lo salutò con un ampio cenno del braccio. “Bevi, bevi che ti scaldi!” gli raccomandò. Poi con una risata soggiunse: “Come alla battaglia di Torves-Kin, ti ricordi?”
Rowden lo fissò perplesso. “Eravate insieme a Torves?”
Il Luogotenente annuì. “È stato quando fui ferito al petto. Mi ha portato in spalla per due o tre miglia, credo, e ogni tanto si fermava e mi dava un sorso di vino. Per evitare che mi congelassi, diceva.”
“Era così freddo?”
“Non mi ricordo. So solo che sono arrivato al posto di medicazione completamente ubriaco e non ho fatto nessuna fatica a non lamentarmi mentre mi cucivano, perché non sentivo nemmeno più il dolore.”

Nel frattempo i carri avevano oltrepassato le tre cerchie esterne di mura e si stavano dirigendo verso la caserma riservata agli atleti dei Giochi. Fin da quella distanza si poteva ammirare uno spettacolo che scaldò il cuore a tutti, ovvero una densa colonna di fumo che si levava dalle cucine.
“Chissà cosa staranno preparando?” chiese qualcuno che nella luce ormai scarsa Ehrenold non riuscì a identificare.
I veicoli procedettero fino al cortile, nel quale aleggiava un invitante odore di carne arrostita, e lì si fermarono.
“A terra,” ordinò Ehrenold ai suoi, poi si rivolse a Rowden: “Prendi il comando finché non torno.”
A bassa voce, l’amico gli chiese: “Dove vai?”
“Mi tolgo di dosso il fango e vado alla caserma delle reclute vicino al Campo Dodici.”
“Cosa ci vai a fare?”
Il Luogotenente esitò.
“Vuoi rivedere la tua vecchia caserma?” azzardò Rowden.
Di nuovo Ehrenold rimase in silenzio per qualche istante, poi rispose: “Ricordi quando abbiamo parlato del ruolo di mentore?”
“Di nuovo con questa storia?” sbottò l’altro. “Ti avevo consigliato di lasciar perdere fino alla fine dei Giochi, mi pare.”
Il Luogotenente si voltò verso la squadra che stava entrando nell’edificio principale della caserma, si tolse un po’ di fango secco da una manica, si raddrizzò il cinturone e infine si decise a rispondere: “C’è un ragazzo che mi interessa.”
“Beh, fa’ sapere al suo comandante di Compagnia che lo vuoi come allievo, no? Poi, quando tutto è finito, lo vai a prendere e te lo porti alla guarnigione.”
“È un cavallo selvaggio. Se non lo prendo subito, rischia di farsi spedire alle cave.”
Rowden emise un sospiro di esasperazione. “E cosa te ne fai di un cavallo selvaggio? Quelli hanno la testa bacata, non saranno mai buoni soldati.” Fece una pausa, quindi in tono funesto aggiunse: “Ti darà solo delusioni.”
“Ha delle potenzialità.”
“Ha le potenzialità per farti impazzire, Ehrenold. Passerai il tempo a scusarti con chiunque per quello che combina e alla fine sarai tu stesso che rinuncerai ad addestrarlo.”
“Dovevi vederlo sul percorso di guerra: non ha paura di niente, non si arrende. Ne vorrei una Compagnia, di soldati così.”
L’altro alzò gli occhi al cielo. “Ragiona,” lo pregò. “Dammi retta, non hai mai fatto il mentore e vuoi prenderti un cavallo selvaggio? Rovinerai anche quel poco di buono che potrebbe avere.”
“O riuscirò a far emergere i suoi pregi,” tagliò corto Ehrenold, quindi concluse: “Vado a mettermi un’uniforme pulita. Starò via un’oretta.”

§

Ehrenold raggiunse la caserma dove aveva prestato servizio come recluta. Il posto era come lo ricordava: un edificio severo, con il portone ornato da due statue che rappresentavano l’Onore e il Coraggio, ovvero le principali virtù di un soldato.
Cercò con lo sguardo la finestra della sua camerata, e una volta che gli parve di averla riconosciuta rimase qualche istante a calcolare quanti scaglioni di reclute dovevano essersi avvicendati tra quelle quattro mura da quando lui le aveva lasciate.
Ripensò anche a quando gli era stato assegnato un mentore. Una volta stabilito che aveva le potenzialità per diventare ufficiale, era stato scelto per lui un capitano di nome Hingar, che si era occupato della sua formazione finché non era caduto nella battaglia di Ves’it. Come da tradizione, era toccato a lui recuperare il corpo sul campo di battaglia e prepararlo per la cerimonia funebre.
Una voce lo fece quasi sussultare: “Luogotenente, tu qui?”
Ehrenold abbandonò bruscamente i ricordi e fissò lo sguardo sul maresciallo Tenhar. “Sono venuto per il ragazzo,” disse senza preamboli.
Il sottufficiale parve non capire. “Vuoi un ragazzo?”
L’altro fece un gesto di diniego. “Ricordi quando sono venuto al Campo Dodici?”
“Ah, certo.” Tenhar sollevò le sopracciglia. “Parli di Siwald. Ha combinato qualcosa?”
“Negativo. Voglio prenderlo come allievo.”
A quelle parole, l’altro rimase muto per diversi secondi. Infine replicò: “Con tutto il rispetto, Luogotenente, Siwald è un cavallo selvaggio, una testa dura. Ti darà solo delusioni.”
Ehrenold scosse la testa. “Io non credo.”
“C’è Rilech, se vuoi. È il primo della sua Compagnia. Oppure Iani o Nebert, sono ottimi elementi e non hanno ancora un mentore.”
“Chiama Siwald, maresciallo. Voglio parlargli.”

Il ragazzo arrivò poco dopo, in uniforme da fatica. Ehrenold notò che zoppicava leggermente e aveva qualche graffio sul viso e sulle mani. Gli occhi, di un grigio bluastro che ricordava l’acciaio temprato, lo fissavano torvi.
Si mise sull’attenti e salutò.
Ehrenold gli diede il riposo, quindi gli chiese: “Sai perché ti ho fatto chiamare, soldato?”
“Non sono un indovino,” fu la risposta del ragazzo.
Il Luogotenente sorrise appena e disse: “Pensi di cavartela così? Mi fai arrabbiare, io ti punisco, ti rimando alla tua Compagnia e fine della questione? Ai miei tempi la chiamavano la tattica della puzzola, perché disgustava chiunque.”
Siwald dapprima rimase impassibile, quindi restituì all’ufficiale lo stesso sorrisetto beffardo e replicò: “Pensi che questo bel discorso mi spinga a fare quello che vuoi?” Scosse appena la testa. “Non attacca, io non sono un mocciosetto con l’uniforme kaki, Luogotenente. Dovrai inventare qualcosa di meglio per convincermi a obbedirti, o dovrai obbligarmi.”
Toccò a Ehrenold scuotere la testa. “Non devo convincerti di nulla, Siwald, sai anche tu che mi basta darti un ordine. Cercavo solo di creare una buona atmosfera tra noi.”
Il ragazzo assunse un’espressione diffidente. “Perché?” chiese, aggrottando le sopracciglia.
“Ho intenzione di prenderti come allievo.”
Siwald rimase in silenzio, Ehrenold proseguì: “Domani stesso parlerò con il tuo comandante di Compagnia.”
“Ne ho già mandati via due, Luogotenente,” lo avvisò il ragazzo con un sorrisetto di superiorità.
“Lo so, infatti io sono la tua ultima possibilità. Se non va bene neanche con me, finirai a fare lavori di fatica per il resto della tua vita.”
“Cosa ti fa pensare che mi dispiaccia? Pensi che sul campo si fatichi meno?”
“Forse non meno, ma con più onore.”
“L’Onore è la statua contro cui piscio più spesso.”
Ehrenold annuì come se avesse appena udito esattamente ciò che si aspettava, quindi gli chiese: “Pensi che essere insolente ti frutti altro che una punizione?”
“E allora puniscimi, cosa aspetti? Il Campo Dodici si può percorrere anche di notte, io lo so bene. Vuoi farmelo fare tutto, da cima a fondo?”
L’altro annuì di nuovo, quindi si limitò a rispondere: “Va’ a dormire, non ha senso punire chi si fa un vanto di venire punito spesso. Tu diventerai un soldato, Siwald, il migliore che si sia mai visto, perché hai le potenzialità per farlo.”
Il ragazzo aprì la bocca per replicare, ma Ehrenold lo fermò con un gesto. “Non dire altro. Usa l’intelligenza che hai per capire che questa è la tua ultima occasione e devi coglierla.” Poi, in tono formale: “E ora, ritieniti congedato.”
Siwald salutò, fece dietro-front e si allontanò con passo marziale.
A quel punto intervenne il maresciallo: “Te l’avevo detto, Luogotenente.”
Ehrenold alzò le spalle con noncuranza, quindi replicò: “Hai mai combattuto contro gli Orchi Cinerei, Tenhar?”
“Molte volte, Luogotenente.”
“Preferiresti avere a che fare con loro o con questo ragazzetto?”
Il maresciallo annuì. “Capisco quello che vuoi dire, Luogotenente, e ti risponderò sullo stesso tono: I Cinerei almeno li puoi far secchi con un colpo di spada, questo qui te lo devi tenere vivo, sopportarlo e cercare di cavarne fuori qualcosa.”
“Ha del potenziale, l’hai visto anche tu.”
Tenhar si limitò a scuotere la testa. “Potenziale che si ostina a sprecare. Potrebbe essere il migliore della sua Compagnia, invece...” Non finì la frase.
“Farò di lui un soldato, maresciallo.”
“Beh, voglia Hengrist che tu sia la persona giusta per lui, Luogotenente, altrimenti finirà alla cava per il resto dei suoi giorni.”

Siwald rientrò in camerata in preda alla rabbia. Un Luogotenente, nientemeno, che voleva divertirsi a domare il cavallo selvaggio. Si slacciò il cinturone con la spada e lo buttò con malagrazia, facendolo finire contro la parete. Successivamente si sedette sulla sua branda, puntò i gomiti sulle cosce e appoggiò il mento tra le mani.
Rievocò l’immagine dell’ufficiale: sembrava giovane per essere un Luogotenente, per il resto non gli pareva avesse nulla di diverso da ogni altro soldato di Kjarr: alto, muscoloso, capelli e occhi chiari. Forse era più alto della media, quella era l’unica cosa che gli era saltata all’occhio.
Si alzò e andò nella sala comune, dove gli altri ragazzi del suo Plotone si stavano svagando in attesa del Silenzio. Raggiunse Enes, che si stava crogiolando davanti al fuoco del camino, e si sedette accanto a lui. Questi si girò a guardarlo e subito disse: “Che faccia. È colpa del Cinghiale?”
Lo sguardo fisso sulle fiamme, Siwald si limitò a scuotere la testa.
“E allora?”
L’altro alzò le spalle. “Niente, il solito stronzo che ha la pretesa di fare il mentore.”
Enes si piegò per incontrare il suo sguardo, poi rispose: “Non vedo perché tu debba essere così scuro in volto, allora. Mi sembra una bellissima notizia.”
“Una notizia schifosa, vorrai dire. Un altro idiota che pensa di potermi comandare a bacchetta, o un altro che pensa di potermi usare come gli pare per fare le cose private.”
“Chi è?” gli chiese l’amico, ignorando quelle recriminazioni.
Siwald alzò di nuovo le spalle ostentando noncuranza. “Boh, uno dei Giochi, a quanto ho capito.”
A quelle parole, Enes lo prese per le spalle e lo costrinse a fissarlo in viso. “Uno dei Giochi?” ripeté. Poi, sempre più incredulo: “Un atleta dei Giochi ti vuole come allievo? Per la Sacra Spada! E tu non sai chi è?”
“Un Luogotenente.”
L’altro fece mente locale. “Non ce n’è tanti,” ragionò poi come parlando fra sé e sé. “Non sai qual è la sua Marca?”
“Non me ne frega niente di sapere da che Marca viene, so solo che è l’ennesimo imbecille che avrà la pretesa di portarmi a letto o di spezzarmi la schiena a forza di punizioni.”



   
 
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