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Autore: Old Fashioned    31/01/2019    13 recensioni
Siamo a Herburg, la capitale dell'Impero di Kjarr. La tensione è alle stelle, perché stanno per cominciare i Giochi annuali, nei quali si affronteranno le migliori squadre delle Dodici Marche. Il comandante di una delle squadre in gara, Ehrenold, si troverà da una parte ad affrontare un avversario animato da vecchi rancori e disposto a tutto per riparare al torto che ritiene di aver subito, dall'altra verrà in contatto con un giovane soldato poco incline alla disciplina, un Cavallo Selvaggio nel gergo dell'esercito di Kjarr, e riconosciutene le potenzialità cercherà di avvicinarlo, con risultati non sempre positivi. Le due vicende si intrecceranno nella gara finale, quando tutte le squadre dovranno dare il massimo, ma solo una si aggiudicherà la vittoria.
Prima classificata allo "Sport Contest", indetto da Fiore di Girasole sul forum di EFP, a pari merito con "Ironia della sorte", di SSJD
Genere: Angst, Azione, Sportivo | Stato: completa
Tipo di coppia: Slash
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
Capitoli:
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- Questa storia fa parte della serie 'Kjarr'
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Gente, ecco un altro capitolo del mappazzone fantasy. Grazie a tutti coloro che mi stanno seguendo e un grande grazie a chi mi ha lasciato anche il suo parere^^






Capitolo 4

Ehrenold spronò il destriero, quindi si voltò verso la recluta che cavalcava al suo fianco e disse: “Più eretta la schiena.”
Siwald raddrizzò le spalle.
Il Luogotenente aggiunse: “Da cavallo si cade principalmente in avanti, quasi mai all’indietro.”
Il ragazzo rimase in silenzio.
Per un po’ procedettero senza parlare, poi Ehrenold, che aveva approfittato di quel breve tratto per osservare il suo allievo, disse: “Con un assetto del genere, saresti disarcionato alla prima battaglia, te ne rendi conto?”
In tono impersonale, il ragazzo rispose: “Sì, Luogotenente.”
Ehrenold lo osservò di nuovo: schiena e braccia troppo rigide, la classica espressione di chi era consapevole che alla prima richiesta più complessa dei normali esercizi di maneggio si sarebbe trovato in difficoltà. “Perché non sai stare in sella?” gli chiese. “Eppure alla tua età dovresti essere in grado di fare i volteggi su un cavallo al galoppo.”
A quel tono, che non era di rimprovero ma di sincero stupore, Siwald si girò a fissarlo.
“Ti ho fatto una domanda, recluta,” gli ricordò l’ufficiale.
Il ragazzo strinse i denti e come suo solito incupì lo sguardo. “Forse sono più stupido degli altri, Luogotenente.”
“O forse hai avuto meno occasione degli altri di esercitarti, con tutte le punizioni che hai scontato, dico bene?”
“Non mi interessa saper andare a cavallo, Luogotenente, tanto finirò alle cave.”
Ehrenold mise l’animale al trotto, quindi rispose: “È irrilevante che ti interessi o no, recluta. Tu imparerai, ti insegnerò a raccogliere un fazzoletto da terra con il cavallo al galoppo lanciato, a tirare frecce mentre stai in sella comandando il tuo animale solo con le ginocchia e ad affrontare qualsiasi ostacolo ti si possa parare davanti in combattimento.” Detto questo, si voltò a guardarlo: anche a quell’andatura aveva un assetto scolastico, formalmente corretto ma poco disinvolto, che ne avrebbe decretato l’ignominiosa caduta al primo e più semplice ostacolo del percorso approntato per i Giochi, una barriera che qualsiasi recluta sarebbe stata in grado di superare con facilità.
Spronò il cavallo, strinse le ginocchia e lo portò in direzione dell’ostacolo. Allentò le redini permettendogli di fare due tempi di galoppo e cedette in avanti per lasciargli allungare la testa durante il salto.
Fergund letteralmente volò sulla barriera, si ricevette corretto sugli anteriori e subito dopo quasi girò su se stesso facendo perno sui posteriori per invertire la direzione. Ehrenold strinse appena le dita sulle redini e l’animale si fermò sulle quattro zampe. “Ora fallo tu,” disse al ragazzo.
“Sissignore,” si limitò a rispondere Siwald, quindi portò il cavallo sul rettilineo dell’ostacolo e lo spinse al trotto.
Il Luogotenente vide che stava cercando di mettere in pratica quello che evidentemente gli avevano insegnato, ma erano troppe nozioni tutte insieme, non correttamente assimilate, e tra ginocchia, redini e andatura del cavallo stava facendo solo una gran confusione.
L’animale allungò il galoppo, strappò le redini in avanti sbilanciandolo e atterrò scomposto dopo la barriera di barili. Siwald perse ovviamente l’equilibrio, scivolò in avanti, gli sfuggì una staffa, ma riuscì ad aggrapparsi alla criniera e a rimanere in sella. Dapprima ballonzolò come una specie di sacco, poi a forza di braccia si raddrizzò e tirando le redini riportò al passo l’animale. Si voltò verso il Luogotenente.
“Ripeti,” gli ordinò Ehrenold. “Più controllo sull’animale, non deve prenderti la mano in quel modo.”
Il ragazzo si limitò a riportare l’animale davanti all’ostacolo. Il Luogotenente si accorse subito che stava ripetendo esattamente gli stessi movimenti di prima, probabilmente perché non sapeva fare altro più che per gratuita provocazione.
Rimase a guardare in silenzio.
Il cavallo, probabilmente infastidito dalla scarsa abilità della recluta, diede due potenti sgroppate prima ancora di raggiungere l’ostacolo. Di nuovo Siwald tentò di afferrare la criniera, ma l’animale sgroppò di nuovo facendogli perdere la presa.
Finì a rotolare tra gli sterpi a bordo pista.
“Rimonta in sella,” si limitò a ordinare il Luogotenente.
Il ragazzo eseguì l’ordine.
“Ora ripeti.”
La recluta gli lanciò un’occhiata torva. Appena un lampo d’odio, che però Ehrenold colse perfettamente. “Pensi che guardarmi male ti doni l’abilità nel salto che non possiedi?” gli chiese.
Siwald, che aveva già rimesso il cavallo al passo, fermò l’animale e si girò di nuovo a guardarlo.
“Ti ho fatto una domanda, recluta.”
Il ragazzo strinse i denti e di nuovo incupì lo sguardo, quindi, con una brusca tirata di redini fece voltare l’animale, lo mise al galoppo con due colpi di tallone e si precipitò verso la barriera.
Fu disarcionato malamente, fracassò un barile nella caduta e il cavallo fuggì sgroppando nella boscaglia.
A quel punto, Ehrenold smontò di sella e tenendo il proprio destriero per le redini lo raggiunse. “In piedi,” gli ordinò, e quando il ragazzo fu di nuovo dritto sulle gambe gli disse: “Ti ripeto la domanda, recluta: pensi che guardarmi male ti doni l’abilità nel salto che non possiedi?”
Il ragazzo strinse le labbra, poi con voce tagliente replicò: “Pensi che chiedermi dieci volte la stessa cosa mi spinga a pronunciare la risposta che vorresti ricevere?” Rimase a fissarlo con fare provocatorio.
Ehrenold gli restituì uno sguardo neutro, quindi gli disse: “Va’ a riprendere il cavallo.”
Lo guardò mentre si allontanava a grandi passi verso la macchia. L’unico danno che sembrava aver riportato dall’ultima caduta era un po’ di fango sull’uniforme. Per il resto, non un lamento, non una smorfia di dolore, non un massaggiarsi parti lese. Si voltò verso ciò che restava del barile: per averlo fracassato in quel modo doveva esserci finito sopra di peso. Si avvicinò e spostò col piede una delle doghe: legno ancora solido, forse quercia.
Si voltò verso il cavallo, che subito girò le orecchie nella sua direzione, e gli passò una mano sul muso. Considerò che era giusto chiamare quel genere di ragazzi cavalli selvaggi: Fergund aveva potenza e velocità, ma stava a chi reggeva le redini far sì che quelle pur notevoli doti fossero incanalate nel modo giusto.
Un rumore di sterpi lo distolse dalle sue meditazioni: Siwald uscì dalla boscaglia tenendo il destriero per le redini.
“Monta in sella,” si limitò a ordinargli. “Facciamo un giro qui intorno, voglio vedere ancora come cavalchi.”
“O vuoi cavalcare me?”
Di nuovo, Ehrenold rimase impassibile. “Prego?” si limitò a chiedere.
“Era quello che volevano gli altri, quindi immagino che anche tu mi abbia preso come allievo per quello.”
“Adesso non ti montare la testa, ragazzino.”
Siwald rimase in un silenzio che aveva una vaga nota di costernazione. Ehrenold gli disse: “Sai bene che se un superiore vuole farlo è dovere del subalterno concedersi, così come è poi dovere del superiore non abusare di ciò che ha ottenuto, ma in questo momento per te ho altri progetti.”
“Comunque, io non voglio fare le cose private a comando.”
“Tu sei un soldato di Kjarr. La tua vita consiste nel fare cose a comando.”

§

Ehrenold chiuse gli occhi per un istante, cercando di concentrarsi solo sul tonfare regolare degli zoccoli di Fergund sul terreno. Si figurò in mente se stesso e la squadra che lo seguiva compatta.
Riaprì gli occhi: l’ostacolo, un tronco di traverso, sembrava facile, ma subito dopo c’era una discesa ripida, e poi uno stagno, che con quella temperatura doveva essere sicuramente coperto da uno strato di ghiaccio.
Si diede un’occhiata alle spalle: dietro i suoi ragazzi intravide un’altra squadra in avvicinamento. Spostò lo sguardo di nuovo sull’ostacolo e ve lo mantenne ostinatamente fisso, obbligandosi a distogliere la mente dagli avversari per concentrarsi sul percorso.
Percepì che il cavallo stava tentando di allungare il galoppo. Non glielo permise, strinse le ginocchia e raddrizzò le spalle per portarlo davanti alla barriera a un’andatura raccolta.
Fergund saltò, si ricevette correttamente e proseguì verso lo specchio d’acqua, la cui superficie ghiacciata si frantumò sotto i suoi zoccoli. Passò oltre.
Ehrenold si piegò per evitare un ramo basso, poi si girò di nuovo: la squadra avversaria aveva guadagnato terreno, il suo comandante stava spronando il cavallo. L'animale balzò in avanti, affrontò l'ostacolo a rotta di collo, si ricevette scoordinato, ma il suo cavaliere fu in grado di riprenderlo, poi spronò di nuovo per fargli allungare il galoppo, il cavallo entrò nello stagno spandendo intorno schizzi limacciosi e prese a divorare la pista con ampie falcate.
Il Luogotenente riconobbe a quel punto il cavaliere. “Wardan,” ringhiò a denti stretti.
L'altro balzò in avanti incurante del fondo ghiacciato e gli passò così vicino da sfiorarlo. Ehrenold percepì un sibilo e un colpo, poi il suo cavallo incurvò la schiena in una sgroppata e scrollò la testa. L'altro ne approfittò per oltrepassarlo.
Il primo strinse i denti: durante la sessione di allenamento si era lasciato superare per non rischiare di azzoppare il destriero, ma ora non poteva lasciarlo passare.
Spronò e si piegò sulla sella spingendo l'animale al galoppo lanciato, raggiunse la curva, la tagliò dall'interno, passando di nuovo davanti. Spronò ancora, in lontananza si profilò un ostacolo formato da due barriere successive al culmine di una salita. Obbligò il cavallo a riunire l'andatura, Wardan lo superò e schizzò verso l'ostacolo, ma il suo destriero scivolò sul ghiaccio e rifiutò il salto. Egli dovette aggrapparsi alla criniera per rimanere in sella durante la brusca scartata, Ehrenold lo superò, passò la doppia barriera, spronò. La pista ormai era solo un susseguirsi di macchie sfocate, gli unici rumori che percepiva erano il respiro pesante dell'animale e il tonfare degli zoccoli sul terreno indurito. Si voltò fugacemente e vide che Wardan lo inseguiva a distanza di poche lunghezze. Dietro di lui le loro due squadre, Heiswegen e Gunefort, galoppavano ormai a briglia sciolta per raggiungerli.
Superò due osservatori e raggiunse l'ultimo ostacolo, ovvero una discesa ripida, un tronco di traverso, una salita nella quale la pista faceva una curva ad angolo retto e una successiva barriera. Istintivamente strinse le ginocchia e raddrizzò la schiena. “Attento,” sussurrò al cavallo.
L'animale affrontò la discesa, saltò il tronco e si inerpicò con vigore su per la salita, raccogliendo le forze per l'ultimo salto. Atterrò scivolando su un tratto ghiacciato, sbandò per recuperare l'equilibrio e subito Wardan gli fu addosso, ma Ehrenold riuscì a sgusciare via mantenendo la prima posizione.
A quel punto uscì dal circuito di gara e si trovò davanti il rettilineo lastricato che portava all'Arena, niente più ostacoli in cui usare espedienti tecnici, curve di cui sfruttare il raggio: ora poteva solo correre con tutta la velocità che il cavallo riusciva ancora a dargli. Spronò e si piegò sulla sella, l'animale rispose mirabilmente, spingendosi in un galoppo lanciato.

L'Arena lo accolse con un'ovazione. Ehrenold, cui la velocità ormai faceva lacrimare gli occhi, vide solo un semicerchio nero e brulicante e in fondo, proprio sotto la tribuna d'onore – una macchia bianca in tutto quel nero – il nastro rosso del traguardo. Spronò ancora, con il rombo degli zoccoli nelle orecchie e il respiro pesante per la fatica. Alle spalle percepiva un altro ansare, un altro frenetico tonfare di zoccoli. Non si girò: si limitò a spronare per l'ennesima volta l'ormai esausto animale e tagliò il traguardo. Il nastro strappato che gli scivolava su una coscia gli comunicò per un istante l'irrazionale timore di essere ferito.
Poi si trovò a galoppare lungo la pista ovale, dalle gradinate proveniva un boato ininterrotto, le trombe lo salutavano con lunghi squilli.
Un cavaliere gli si affiancò. Ancora sotto l'effetto dell'ultima folle corsa, Ehrenold si girò sulla difensiva, ma era Rowden, con un'espressione raggiante sul viso. “Ce l'abbiamo fatta!” esclamò. “Abbiamo vinto!”
“Vinto?” ripeté Ehrenold con voce roca.
“Va' davanti alla tribuna d'onore,” disse l'altro per tutta risposta.
Ancora frastornato, il Luogotenente fece rallentare l'animale. Si accorse di avere le mani e il viso graffiati e di avere l'uniforme strappata in più punti, ma la cosa non lo stupì: era solo alla fine delle battaglie, quando l'eccitazione dello scontro cominciava a venire meno, che ci si rendeva veramente conto di quante e quali ferite si erano ricevute. Una coscia stava cominciando a bruciargli sempre di più, probabilmente Wardan lo aveva colpito con una nerbata, ma lui non se n'era neanche accorto.
Si voltò a cercarlo con lo sguardo e notò che lo stava fissando torvo. Fece per muoversi nella sua direzione, ma l'entrata nell'Arena della terza squadra, seguita a poche lunghezze di distanza dalla quarta, suscitò una nuova bordata di acclamazioni. Qualcuno prese le redini del suo cavallo. “Vieni, Luogotenente,” disse una voce. Abbassò lo sguardo: un soldato lo stava conducendo verso la tribuna d'onore. Si raddrizzò sulla sella e si accorse che l'Imperatore si era addirittura alzato in piedi.
Lo salutò militarmente e il sovrano rispose al suo saluto. Le acclamazioni del pubblico ebbero un altro climax.
Poi si ritrovò al passo, diretto verso la postazione della sua squadra. Rowden era al suo fianco e stava dicendo qualcosa, ma nel frastuono generale non riusciva a seguirlo. “Dov'è il ragazzo?” chiese.
“Chi?” volle sapere il capitano.
“Siwald. Come mio allievo, può assistere alle gare assieme al resto della squadra.” Aggrottò le sopracciglia. “Perché non è qui?”
“Gli avevi dato ordine di aspettarti?”
Ehrenold scosse la testa. “No, non proprio un ordine esplicito. Supponevo che avrebbe apprezzato la possibilità di vedere le gare dal bordo campo.”
Rowden rimase in silenzio. Solo dopo un po' gli chiese: “Sei sicuro di riuscire a cavarne qualcosa?”
Ehrenold smontò da cavallo e affidò l'animale a un soldato, quindi rispose: “Ha delle potenzialità.”
L'altro smontò a sua volta, poi si voltò a fissarlo. “Quindi la risposta è no?”
Il Luogotenente si strinse nelle spalle e spiegò: “È come quei cavalli che hanno avuto un cavaliere con la mano troppo pesante e dopo non ne accettano più nessun'altra.”
“Per me è solo un viziato che crede di poter fare quello che vuole, e tu gli stai facendo credere che può permetterselo.”
Ehrenold aggrottò le sopracciglia. “Che intendi dire?”
“Ah, ti conosco: quando ti piace qualcuno smetti di ragionare. Cosa significa la proposta di assistere alle gare in qualità di allievo? O glielo ordini o non glielo ordini. A maggior ragione con uno così, convinto di poter dettare legge anche agli ufficiali.”
“Può migliorare,” fu la risposta.
Rowden si limitò ad alzare gli occhi al cielo.
Ehrenold invece fece girare lo sguardo sul pubblico alla ricerca della Compagnia di Siwald. Non la identificò, ovviamente, sarebbe stato impossibile in quel mare di uniformi nere e teste bionde, ma qualcosa gli diceva che non fosse neppure all'Arena e fosse invece a correre su e giù per il Campo Dodici incalzato da Cinghiale.
Si chiese cosa non andasse in quel ragazzo, come bisognasse prenderlo per far emergere le sue indubbie qualità. Aveva coraggio, ma lo usava solo per provocare i superiori; aveva forza e resistenza, ma le sprecava sfacchinando su e giù per un percorso di guerra punitivo e intanto non imparava altro che i rudimenti di tutto quello che in qualità di soldato di Kjarr avrebbe dovuto conoscere perfettamente, la sua deprecabile prova in sella a un cavallo ne era un chiaro esempio.
Non gli aveva ancora dato una spada in mano, ma sospettava che anche con quella non avrebbe visto nulla di cui andare fiero.
Eppure, ne era certo: aveva le potenzialità per diventare un ottimo soldato, forse addirittura uno dei migliori, perché era tenace, coraggioso e forte. Coglieva le situazioni in un attimo, aveva l'istinto del combattente. Peccato che lo usasse per fare cose perlopiù stupide.

Come Ehrenold aveva previsto, il ragazzo stava percorrendo il Campo Dodici con uno zaino affardellato in spalla. Immobile, i pugni sui fianchi, Tenhar seguiva serio le sue evoluzioni, limitandosi a rampognarlo di tanto in tanto se riteneva che non fosse abbastanza veloce.
Il Luogotenente affiancò il maresciallo e per un po' rimase anche lui fissare il ragazzo, poi disse: “Non era all'Arena.”
“Certo che no,” rispose il sottufficiale senza voltarsi. “Equipaggiamento sporco, comportamento insolente con il suo caposquadra.”
L'altro si limitò ad annuire grave.
Sul campo, il ragazzo stava affrontando il Muro. Già non era da tutti superarlo in velocità con solo la cotta di maglia addosso, ma diventava decisamente difficile con lo zaino affardellato. “È forte,” constatò.
“È un torello.”
“E con la spada come se la cava?”
“Potrebbe migliorare se si impegnasse,” rispose laconico Tenhar.
“Chiamalo qui.”
Il maresciallo obbedì. Il ragazzo si rialzò fradicio da una pozza, quindi si voltò nella loro direzione. Ehrenold lo vide aggrottare le sopracciglia e raddrizzare la testa con fare sdegnoso. “Vieni qui,” gli ordinò.
“Sì, Luogotenente,” ringhiò cupo il ragazzo, quindi lo raggiunse e si mise sull'attenti. Era come al solito pallido di fatica, coperto di fango, ma manteneva inalterato l'atteggiamento di sfida.
“Oggi ti porterò a scegliere l'equipaggiamento personale che dovrai avere quando verrai con me alla guarnigione,” lo informò, “come è dovere di un mentore. Quando hai scontato la punizione, ti voglio al mio alloggio in uniforme ordinaria.”
“Sì, Luogotenente,” rispose in tono neutro il ragazzo, fissando un punto all'infinito dietro le sue spalle.
“Ora puoi andare.”
“Sì, Luogotenente.”
Il ragazzo tornò al campo di addestramento. Il maresciallo scosse la testa e disse: “Se mettesse nell'addestramento metà dell'impegno che mette nel farsi punire, sarebbe il soldato migliore di Kjarr.”
“Già,” rispose pensoso Ehrenold, seguendolo con lo sguardo mentre correva tenendosi in equilibrio su un tronco. Poi, distogliendo l'attenzione da lui: “Com'erano i suoi precedenti mentori?”
Tenhar scosse la testa con tutta la disapprovazione che un maresciallo poteva permettersi parlando di ufficiali con un altro ufficiale, quindi disse: “Che resti fra noi, Luogotenente, non hanno minimamente capito come prenderlo.” Lo indicò con un cenno della testa, quindi proseguì: “Vedi? Quello si fa ammazzare pur di non cedere, più lo prendi di petto, più ti sfida. Io posso anche farlo trottare su e giù fino a domattina, al massimo lo sfinisco, ma non lo spezzo di sicuro.”
“Sarebbe un ottimo soldato.”
“Il migliore, se trovasse il comandante giusto. ”
Siwald crollò a terra, si rialzò e si ripulì alla meglio il viso con la manica, poi riprese a correre.

§

Gerd prese una tazza di vino speziato per sé, poi ne riempì un'altra, si avvicinò a Wardan e gliela porse. “Per te, capitano,” gli disse.
“Grazie,” grugnì torvo l'ufficiale.
“Continua a fare freddo, il terreno o è ghiacciato o è pieno di fango.” Il maresciallo si sedette accanto a lui al tavolo della mensa. Erano soli, per cui si permise di posargli una mano sulla spalla. Strinse leggermente le dita e a bassa voce gli chiese: “Stai meglio?”
“È sgusciato come un ratto,” ringhiò Wardan aggrottando le sopracciglia. “Mi è passato davanti all'ultimo momento e io non sono più riuscito a superarlo.”
“Lo so, ti ho visto.”
“Hai visto anche come mi si è buttato davanti?”
Gerd mantenne il silenzio. Per quanto avesse a cuore Wardan, non poteva in tutta onestà dargli ragione: il comandante della squadra di Heiswegen aveva approfittato del suo errore davanti all'ostacolo come avrebbe fatto qualsiasi altro contendente. Come avrebbe fatto Wardan stesso, se la situazione fosse stata rovesciata.
“Siamo a pari punti con loro,” gli comunicò, “tutto è ancora in mano a Hengrist.”
L'altro annuì. “La staffetta è l'ultima gara, chi la vince si porta a casa il titolo di campione.”
“Abbiamo ottime possibilità.”
“Ma le hanno anche loro e non voglio rischiare che lo sciacallo rubi di nuovo una vittoria che non gli appartiene.”
“Non si può dire che rubi qualcosa, se non farà niente di scorretto.”
“Questa volta non succederà,” soggiunse il capitano, ignorando l’osservazione.
Il sottufficiale aggrottò diffidente le sopracciglia. “Cos'hai in mente, Capitano?”
Wardan si voltò a incontrare il suo sguardo e fece un lieve sorriso. “Niente, non preoccuparti.” Bevve un sorso di vino.
Il sottufficiale non abbandonò la presa sulla sua spalla, ma anzi la strinse talmente forte che l'altro si girò a fissarlo con un grugnito di dolore e indispettito protestò: “Che fai?”
“Dimmi cos'hai in mente,” ripeté Gerd.
“Niente.” Il capitano distolse gli occhi. “Niente che ti riguardi.”
“Mi riguarda eccome, visto che ha a che fare con te.” Poi, al protrarsi del silenzio: “Wardan?”
Per tutta risposta, l'ufficiale si svincolò dalla presa con un gesto brusco, si alzò e si girò verso la finestra voltandogli la schiena.
Gerd rimase per un po' a fissare le sue spalle ampie e orgogliosamente dritte, quindi gli ricordò: “In battaglia è meglio morire con onore che vincere con disonore.”
“Una massima che allo sciacallo sfugge, evidentemente,” fu la replica, proferita senza mutare la posizione.
Il sottufficiale si alzò a sua volta e gli si pose al fianco. “Dimmi cos'hai in mente,” ripeté a bassa voce.
Il capitano si girò verso di lui e gli chiese: “Sei preoccupato per me?”
“Sai che lo sono. Non voglio che tu rischi il disonore.” Si sporse a toccare la sua spalla con la propria.
“Non preoccuparti, non rischierò proprio niente,” fu la risposta.

§

“Recluta Siwald a rapporto, Luogotenente,” annunciò il ragazzo mettendosi sull'attenti.
L’ufficiale gli rivolse un secco cenno del capo, quindi gli disse. “Riposo, recluta. Hai finito presto.”
Il più giovane strinse i denti: che cosa significava quell’osservazione? Stava forse insinuando che fosse sgattaiolato via prima che la punizione fosse finita, oppure era un suo modo di dire che il Cinghiale non l’aveva punito abbastanza duramente? “Sono venuto quando il maresciallo mi ha detto di venire, Luogotenente.”
“Andiamo,” disse l’altro per tutta risposta, quindi si incamminò verso i magazzini.
Siwald lo seguì in silenzio. Come aveva notato la prima volta che l’aveva visto, era molto alto. Aveva anche un fisico solido, temprato, che doveva essere stato forgiato più dalle battaglie che dalle esercitazioni, come testimoniava un tatuaggio di guerra nero che spuntava dallo scollo della casacca.
Per avere tatuaggi di guerra in parti visibili a quell’età, rifletté il ragazzo, doveva essersi trovato in combattimento già moltissime volte. A quel pensiero ebbe quasi un vago senso di invidia, o forse di desiderio, per come quell’ufficiale doveva essere stimato da tutti, più che per il fatto che avesse combattuto molto.
Pensò a quanto doveva essere abile con le armi e per la prima volta in vita sua si trovò a rimpiangere di non esserlo a sua volta. “Avrò anche una spada?” si trovò a chiedere, sebbene l’altro non gli avesse rivolto la parola.
Il Luogotenente si fermò e si voltò a guardarlo, apparentemente incurante di quella violazione del regolamento. Annuì e in tono grave rispose: “Certo che l’avrai. Ovviamente non sarà una lama di Thrygg, ma in futuro ne avrai una, se imparerai a tirare di scherma come spero.”
Siwald si obbligò a non mutare espressione, ripetendosi ancora una volta che l’unico obiettivo di quell’uomo era fare di lui una specie di suo giocattolo o suo esperimento personale. Vuole solo vedere se riesce a farsi obbedire dal cavallo selvaggio che non dà retta a nessuno, si disse.
“Sì, Luogotenente,” si limitò a rispondere.
Ripresero a camminare. Siwald, di nuovo immerso nei suoi pensieri, quasi non si accorse che avevano raggiunto il magazzino principale.
“Eccoci qui.” La voce del Luogotenente lo richiamò alla realtà. “Ci eri mai venuto?”
Il ragazzo alzò lo sguardo sull’edificio: una costruzione a più piani, austera, di pietra grigia. I muri erano spessi più di un braccio e le finestre erano munite di sbarre, più per conferire al magazzino la capacità di trasformarsi in un eventuale fortilizio che per timore di furti. “No, Luogotenente,” rispose.
Non era del tutto vero, qualche volta ci era entrato assieme al resto della sua Compagnia, ma non gli andava che quell’ufficiale tentasse continuamente di comunicare con lui. Dapprima stabilì che non voleva cedere a quelle che paragonate al comportamento di Cinghiale gli apparivano come insopportabili blandizie, ma poi si chiese perché non farlo.
Forse accettando la guida di un mentore sarebbe venuto meno alla sua fama di cavallo selvaggio? Si sarebbe privato della caratteristica che lo rendeva in un certo senso, anche se in negativo, unico?
Di nuovo la voce dell’uomo lo distrasse: “Vieni, entriamo. Voglio controllare tutto quello che ti verrà assegnato e non ho molto tempo.”
Lo precedette lungo un corridoio, quindi entrò in una grande stanza in cui regnava odore di cuoio conciato e stoffa grezza. Il locale era tagliato a metà da un bancone che andava da una parete all’altra e dietro di esso erano allineati scaffali numerati alti fino al soffitto, carichi di roba.
Un uomo in uniforme, ormai non più dell’età per andare sul campo, sedeva a un’estremità del bancone e compilava un registro.
Quando entrarono, egli dapprima sollevò lo sguardo, poi riconobbe i gradi del Luogotenente e abbandonò ciò che stava facendo per scattare in piedi e salutare.
L’ufficiale rispose al saluto, quindi col tono di chi sapeva esattamente cosa chiedere ordinò: “Equipaggiamento base, uniformi estive e invernali, calzature e buffetteria.”
L’inserviente annuì. “Per il ragazzo, Luogotenente?”
“Sì, prendigli le misure e poi porta qui tutti i capi che gli verranno assegnati, voglio controllarli.”
“Sì, Luogotenente.”
Fu una faccenda lunga. Quando uscirono, Siwald con le braccia cariche di roba, era passata più di un’ora.
“Ora le armi e le protezioni,” disse semplicemente l’ufficiale.
Per quanto si fosse ripromesso di mantenere il silenzio, il ragazzo non poté fare a meno di dire: “Io ho già tutte queste cose, Luogotenente.”
“Certo che ce le hai,” fu la risposta. Sembrava che stesse ribadendo la cosa più ovvia del mondo. “Ma è facoltà del mentore far assegnare all’allievo l’equipaggiamento che ritiene più idoneo. Presto partiremo per la guarnigione e là non ci sono le possibilità di approvvigionamento della Capitale.”
Siwald non disse nulla, e il fatto che il regolamento proibisse di parlare a un superiore se non interrogati fu l’ultimo dei motivi che lo spinsero a tacere. Si sistemò meglio la roba sulle braccia e lanciò uno sguardo di sottecchi all’uomo, che lo precedeva lungo il corridoio. Lo immaginò in battaglia, si chiese se i suoi soldati fossero fieri di lui, se si vantassero di averlo come comandante.
Fino a quel momento aveva disprezzato chi dimostrava ammirazione per i propri superiori, ma ormai cominciava quasi a sembrargli plausibile che il fenomeno si verificasse.
“Qual è il tuo nome, Luogotenente?” chiese.
“Ehrenold.”

La camerata era rischiarata da un paio di lanterne appese alle travi del soffitto. Due ragazzi sedevano a un tavolino impegnati in una partita di dadi, un altro stava affilando la spada con la cote, alcuni sistemavano l’equipaggiamento, oppure leggevano o conversavano fra di loro a bassa voce.
Siwald entrò nella stanza reggendo a fatica tutto l’equipaggiamento che gli era stato consegnato – che includeva anche una sella e delle redini, un’arma in asta e uno scudo – e lo abbandonò sulla sua branda. L’elmo rotolò giù con un clangore cupo, subito dopo la spada si sfilò dal fodero e scivolò a sua volta sul pavimento.
Uno dei due che stavano giocando a dadi soffocò un’imprecazione, quindi gli rivolse uno sguardo iroso e disse: “Accidenti a te, specie di idiota! Mi hai fatto sbagliare il tiro.”
L’altro a sua volta lo apostrofò: “Potresti almeno evitare di fare tutto questo rumore.” Poi squadrò l’equipaggiamento ammucchiato sulla branda e chiese: “E questa roba da dove viene?”
“Me l’ha data il mio mentore.”
L’altro fece una risata. “Un mentore? E chi è che ti prenderebbe, a te?”
Uno dei ragazzi che stavano parlando fra loro abbandonò la conversazione, lo squadrò con degnazione e disse: “Secondo me ha trovato qualcuno nelle cucine o nelle stalle, non credo che i veri soldati lo vogliano.”
“Dai, dicci chi è che ti ha preso!” lo derise un altro.
Siwald strinse i denti e in tono tagliente replicò: “Che cosa ve ne importa di chi è? Io non vengo a occuparmi dei vostri mentori.”
Un altro ancora intervenne: “Non ce lo vuole dire perché si vergogna, sarà davvero uno delle cucine o delle stalle.”
“Beh, se non altro potrà sgraffignare da mangiare tutte le volte che vuole!”
Ci fu una risata generale.
Siwald arretrò verso la sua branda e vi si parò davanti come se qualcuno potesse portarsi via la sua roba. Normalmente non gli sarebbe interessato nulla di quei lazzi, avrebbe girato la schiena e si sarebbe messo a fare i fatti suoi come niente, ma in quel frangente era come se qualcosa lo facesse sentire in obbligo di intervenire. Quasi senza rendersi conto di quello che stava facendo, con voce dura disse: “Non è certo uno delle cucine. È un Luogotenente e comanda una squadra dei Giochi.”
La frase suscitò uno scoppio di risa.
Il ragazzo aggrottò le sopracciglia fissando ora l’uno ora l’altro, ma l’ilarità dei suoi compagni sembrava incontenibile e gli sghignazzi lo colpivano come altrettante sferzate. “È un Luogotenente!” ripeté.
Si fece avanti a quel punto Ithaul, un ragazzo noto per essere l’attaccabrighe del plotone. “Ha un nome, questo tuo Luogotenente?” volle sapere.
Siwald non era certo piccolo, ma per guardarlo in faccia dovette piegare la testa all’indietro. “Ehrenold.”
L’altro sollevò le sopracciglia stupito. “Ehrenold, hai detto?”
“Sì, e allora?” ringhiò Siwald, aspettandosi che l’altro lo conoscesse di fama per via dei Giochi.
“Ah, il codardo,” rispose invece Ithaul.
L’altro si sentì avvampare. “Il codardo? Ritira subito quello che hai detto!”
“Certo che è un codardo,” fu la risposta. “Lo sai cosa si dice di quel tuo Luogotenente? Che è stato a Yesgarion.”
“E quindi?” annaspò Siwald, con i muscoli tesi e il cuore che all’improvviso gli batteva all’impazzata.
“Lo sanno tutti che Yesgarion è un’assegnazione punitiva. Di sicuro ce l’hanno mandato perché è stato un codardo.”
“Ritira quello che hai detto!”
“Ma non ritiro proprio niente. Del resto, era chiaro che nessun Luogotenente degno di questo nome avrebbe potuto interessarsi a te, quindi...”
La frase fu troncata da un pugno.



   
 
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