Confidenze
Quando Jasmine vide Connor lavare i
piatti, quella sera, si bloccò di colpo.
Entrò in cucina e
chiese, vicino al
lavello: “Non è il turno di Lucy?”
Il ragazzo si voltò
verso di lei e rispose:
“Abbiamo fatto cambio. Lei lava il bagno al posto mio e io
lavo i piatti”.
Oh. Non aveva mai pensato che si
potesse fare. Guardò il ragazzo insaponare un piatto e
appoggiarlo di fianco.
Si avvicinò e prese uno strofinaccio. “Ti piace
lavare i piatti?” gli chiese.
Lui rise mentre iniziava a
sciacquarli
sotto l’acqua. “È l’ultimo
ricordo che ho di mia madre. Non mi dispiace…”
Appoggiò un piatto bagnato e Jasmine lo prese per
asciugarlo.
“È…
è molto che… sei…” Non
sapeva come
si chiedesse una cosa del genere con educazione. Come poteva chiedergli
la sua
storia?
“Che sono nel sistema?” Connor le venne
incontro. Jasmine annuì senza dire
niente. “Un po’. Molto più di te e Gabe,
di sicuro”.
La ragazza voltò il viso
di scatto
verso di lui. “Come fai a dirlo?” Connor
alzò le spalle.
“Sono andato in affido la
prima volta
a sette anni. Ho visto un po’ di cose.”
Oh. Il suo sguardo era serio.
“Non sai
niente di me” disse lei dopo un po’.
“No. Ma mi sono
sbagliato?” Lei scosse
la testa. “Posso indovinare?” Jasmine lo
guardò di sottecchi.
“Prova.”
Connor finì di
sciacquare tutti i
piatti e la osservò con uno sguardo strano.
“Eri benestante. Vivevi
bene. Studiavi.
Andavi bene a scuola. Forse eri anche popolare. Magari una cheerleader,
eh? Forse
avevi un ragazzo. Uno bravo. Uno sportivo. O uno popolare. Uno sportivo
popolare, forse? Poi è successo ciò che ti ha
fatto entrare nella grande
macchina burocratica dello Stato. Forse un anno fa. Non più
di due, comunque.
Hai perso tutto e hai perso tutti.”
Jasmine rimase colpita dalle sue
parole, anche se solo in parte giuste. “Perché
dici che ero popolare?” Lui
sorrise. Un dente sbeccato sul lato destro fece venire in mente a
Jasmine una
rissa.
“Mi davi
quest’idea. Ci ho preso?”
Dovette ricredersi. Connor sembrava
in
gamba. Jasmine
sospirò annuendo. “Mia
mamma è morta due anni fa…” Connor non
le disse niente. Non disse ‘mi
dispiace’ o ‘condoglianze’,
come facevano tutti. Lui annuì guardandola serio. Ma
il suo sguardo le sembrò molto più sincero di
tutte le parole che aveva sentito
in quei due anni. “Poi sono andata a vivere da mio padre ma
non è stata una
bella storia. E ora sono qui”.
Connor non le chiese niente.
Jasmine
ne fu contenta perché era ancora difficile parlarne.
“Non ci crederai” iniziò
il ragazzo, ironico, “ma quando si tratta del sistema,
nessuna storia è bella”.
Divenne serio.
“Posso solo immaginare. E
Lucy e Gabe?
Sai anche la loro storia?” Lui si irrigidì.
“Dovrai chiedere a loro,
principessa”
“Giusto. Ma non avevamo
detto che non
mi avresti più chiamato principessa?”
Lui ridacchiò e
l’orecchino con la
croce dondolò mentre le sue spalle si scuotevano.
“Va bene. Ma solo
perché mi hai
aiutato a lavare i piatti.”
Jasmine sorrise. L’aveva
giudicato
male. Non era una brutta persona. Nonostante i tatuaggi e gli
orecchini. Chissà
cos’altro nascondeva.
***
Quella sera avevano mangiato la
pizza
e Jasmine si era svegliata di notte con una sete micidiale. Fuori
c’era un
temporale devastante. Tuoni e fulmini.
Il rumore di un tuono la
colpì e,
inconsciamente, iniziò a contare. Glielo aveva insegnato sua
madre: più era
alto il numero a cui arrivava più il temporale era lontano.
Il fulmine fece
tremare la casa appena arrivò a tre e lei si
trovò in corridoio, davanti alla
camera di Lucy. Si bloccò colpita dal frastuono e quando la
porta della stanza
si sganciò dalla maniglia, guardò dentro con
curiosità. A parte la volta che
l’aveva aiutata con il turno al Blue Market, non avevano
più parlato, lei e
Lucy. Effettivamente aveva parlato più con gli altri
ragazzi.
Un altro lampo illuminò
la stanza,
probabilmente Lucy non aveva tirato giù la tapparella, prima
di andare a letto,
e Jasmine riuscì a vedere chiaramente il letto di Lucy. Solo
che non era sola.
Oddio, c’era Will? E quando era entrato? La sera prima non
c’era. Appoggiò la
mano alla porta e l’aprì un altro po’.
Non era Will il ragazzo nel letto di
Lucy: era Connor. Cavolo. E questa era una cosa buona o no?
Avrebbe… mandato
all’aria il progetto?
Vide Gabe uscire dalla sua stanza e
velocemente afferrò la maniglia e richiuse la porta. Forse
era il caso di
scambiare due chiacchiere con Lucy. Stavolta davvero. Insomma,
cos’era, un
bordello?
“Anche tu in
piedi?” chiese Gabe,
sorridendole e dirigendosi in cucina.
Jasmine
lo seguì. “Sì. Ho sete. E
tu?”
Gabe prese due bicchieri dalla
credenza e si girò sorridendo.
“Anch’io”. Riempì un bicchiere
e glielo porse,
poi se ne riempì uno per lui.
“Grazie”
sussurrò, sorpresa. Guardò il
ragazzo mentre beveva a piccoli sorsi. Aveva una maglietta e dei
pantaloncini,
probabilmente era il suo pigiama. Le spalle erano larghe e muscolose.
Sapeva
che era nella squadra di pallacanestro della scuola, perché
l’aveva visto due o
tre volte allenarsi con gli altri. Umm, effettivamente ultimamente, lo
aveva
guardato spesso, a scuola.
Gabe le sorrise e lei
sentì le guance
arrossarsi, così continuò a bere guardando verso
la finestra. Le gocce di
pioggia formavano righe artistiche lungo il vetro, era ipnotizzante.
Senza
rendersene conto disse: “Connor dice che io e te siamo nel
sistema da meno
tempo di loro”.
Si voltò lentamente
verso il ragazzo,
per vedere la sua reazione. “Connor è in gamba.
Vede tante cose”.
Jasmine sorrise, girandosi verso di
lui. “Già. Mi ha squadrato in un
secondo…”
Gabe fece una smorfia strana.
“Anche a
me”.
“Che ti è
successo?” chiese ancora
lei. Lui la guardò e per la prima volta non sorrise. I suoi
occhi erano seri. E
scuri, scurissimi. Dannazione, aveva osato troppo? “Scusa,
non sei obbligato
a…”
“Ho avuto un incidente in
macchina con
i miei. Sono sopravvissuto solo io.”
Oh. “E… non
avevi nessuno che…”
Lui scosse le spalle.
“Sono figlio di
figli unici. I miei nonni sono morti…” Che
sfortuna.
“E come hai perso
l’anno?” Jasmine non
riuscì a non domandarlo. Una delle poche cose che avevano in
comune loro
quattro era il fatto di aver perso l’ultimo anno di liceo.
“Sono stato in ospedale
per quattro
mesi. Non ho potuto fare gli esami” mormorò lui.
Già.
“Sì, anche a
me è successa una cosa
simile.”
Lui la guardò.
“Davvero?” Annuì.
Trascorsero il resto della notte
sul
divano, sotto una coperta di pile a parlare. Gabe le
raccontò della sua vita
prima dell’incidente. Un po’ ci aveva preso. Lui
era come lei e gli altri della
sua compagnia. Un ragazzo popolare. Uno sportivo. Per un attimo
pensò a Lenny,
il suo ex, ma poi capì che lui non avrebbe mai retto il
confronto con questo gentilissimo
moro sorridente.
Gabe le raccontò di come
si sentisse
spaesato quando si era ritrovato solo e come aveva cercato di
affrontare tutto,
l’incidente, l’ospedale e la scuola, pensando di
essere migliore di tutti, e si
era dovuto scontrare con la realtà. Sorrise mestamente
mentre lo diceva.
Jasmine sapeva quanto fosse difficile ammettere una cosa simile. E
rimanere da
soli, senza nessuno, era devastante e poteva essere micidiale.
Jasmine gli raccontò della sua vita prima della morte della madre, e poi di quello che aveva passato con il padre. Fino a quando suo padre aveva tentato di venderla al suo pusher in cambio di una dose. Faceva così male raccontarlo, ma la signora Phillips le aveva detto che se fosse riuscita ad aprirsi con qualcuno, un’amica o un amico, si sarebbe sentita meglio. Non ci aveva creduto prima, e invece, quando la mano di Gabe si posò delicatamente sulla sua, si ricredette.
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