Storie originali > Storico
Segui la storia  |       
Autore: Adeia Di Elferas    27/01/2019    1 recensioni
Caterina Sforza, nota come la Leonessa di Romagna, venne alla luce a Milano, nel 1463. Si distinse fin da bambina per la sua propensione al comando e alle armi, dando prova di grande prontezza di spirito e di indomito coraggio.
Bella, istruita, intelligente, abile politica e fiera guerriera, Caterina passò alla storia non solo come grande donna, ma anche come madre di Giovanni dalle Bande Nere.
La sua vita fu così mirabolante e piena di azione che ella stessa - a quanto pare - sul letto di morte confessò ad un frate: "Se io potessi scrivere tutto, farei stupire il mondo..."
[STORIA NON ANCORA REVISIONATA]
Genere: Drammatico, Generale, Guerra | Stato: in corso
Tipo di coppia: Nessuna
Note: nessuna | Avvertimenti: Contenuti forti, Tematiche delicate, Violenza | Contesto: Rinascimento
Capitoli:
 <<    >>
Per recensire esegui il login o registrati.
Dimensione del testo A A A
 

Quella fine di aprile, ormai quasi già un principio di maggio, aveva portato su Roma un cielo terso e un sole ancora pallido, ma già caldo.

Achille continuava ad asciugarsi la fronte, mentre attendeva il suo turno per essere ricevuto dal papa. Era stato contento, quando Alessandro VI gli aveva fatto sapere che si sarebbero visti in modo informale.

Non voleva fare troppo rumore ed era certo che a Forlì sapessero già della sua partenza e, di certo, anche quale fosse la sua meta. Se conosceva bene l'Oliva, poi, e gli altri uomini della Tigre, era probabile che avessero anche già un'idea precisa di cosa fosse andato a fare, in Vaticano.

Quindi, già scocciato di aver dovuto aspettare più del previsto, prima di essere ricevuto, aveva cercato di apprezzare se non altro la privatezza che il Santo Padre gli voleva riservare.

Non avrebbe mai voluto arrivare a tanto, ma non vedeva altra via di salvezza, per se stesso. Era stato, per come era riuscito, fedele alla Sforza, finché era stato possibile, ma sapeva che l'era della Tigre di Forlì stava per finire e lui non era il tipo di uomo che resta su una barca che affonda nella speranza di ottenere la gloria eterna.

Era un armigero, ma teneva alla pelle. Preferiva restare vivo ancora qualche anno e passare dalla parte forte dello schieramento, piuttosto che consacrarsi a una donna che, per altro, non l'aveva nemmeno mai guardato in modo diverso da come si guarda uno strumento di lavoro.

Quando finalmente lo chiamarono per presentarsi al cospetto del papa, Achille raddrizzò un po' le spalle e cercò di imprimersi in viso un sorriso sicuro. Non voleva dare l'impressione di essere alla ricerca di una scialuppa, ma, tutt'altro, di essere disposto a dare la sua spada per una causa che riteneva giusta.

Nella saletta a parte Rodrigo, c'era solo uno scrivano e un paio di guardie. Tiberti, colpito dallo sguardo rapace del Borja, si inginocchiò subito e poi gli baciò l'anello piscatorio.

Il pontefice lo prese per le spalle, inducendolo a rialzarsi. Fece quel gesto più per saggiare la sua robustezza, che non come segno di benevolenza.

Lo trovò ben saldo, dignitosamente muscoloso e, per quanto orribile di viso, dal fisico ancora pronto e scattante, benché non fosse più un ragazzo.

Vederlo ancora così in forma lo rincuorò. Alla Chiesa sarebbero servite braccia forti e gambe agili, ma quell'uomo portava con sé anche una dote in più, che pochi altri potevano vantare e che, soprattutto, quasi nessun altro avrebbe messo in vendita: la sua conoscenza della Tigre, delle sue città e del suo modo di ragionare in guerra e non solo.

“Dilettissimo figliolo – disse con voce tonante il Santo Padre – siamo così felici che infine abbiate accettato la nostra proposta.”

Achille chinò di nuovo il capo, messo in soggezione dagli occhi penetranti del papa, e assicurò, con voce un po' meno ferma di quella del suo interlocutore: “Tutto quello che volete da me, Santità, io ve lo darò. Sono un servo vostro.”

“Della cristianità, nostro dilettissimo Achille, non mio: della cristianità.” sorrise Rodrigo, il grande naso che vibrava, ricordando a Tiberti quello di un lupo che abbia appena annusato il sentore di una preda che attendeva da lungo tempo.

 

“Ecco il documento giurato di Sassatelli.” disse con una note di soddisfazione l'Oliva, mettendo sulla scrivania di Cesare Feo – dietro la quale era seduta Caterina – ciò che era appena arrivato da Imola.

La donna prese in mano il foglio e lo lesse velocemente: “Ha fatto in fretta ad accettare...”

“Siete una donna che incute... Rispetto.” commentò Dionigi Naldi, che era nello studiolo per discutere dei suoi affari e si era visto interrompere dall'arrivo del notaio.

“Volevate dire paura, lo so.” fece la Contessa, sollevando un sopracciglio: “Ma meglio così, che non essere presa per i fondelli perfino dai piccoli nobili di Imola.”

L'Oliva fece un cenno con il capo, per darle ragione e poi chiese se avesse ancora bisogno di qualcosa. La Tigre fece segno di no e poi lo lasciò libero di andare.

“Torniamo a noi, Naldi...” soffiò, abbandonandosi contro lo schienale e giungendo le mani in grembo: “Cosa mi dite per l'offerta che vi ho fatto?”

L'armigero si grattò un istante la guancia coperta da barba ispida e tendente al grigio e poi chiese, per essere certo di aver capito bene: “Mi farete castellano della rocca di Imola se vi porto Galeotto Bosi, vivo o morto.”

“E, nel frattempo, resterete sempre al mio servizio.” precisò la Sforza: “Anche se vi mandassi a difendere Milano, o Firenze o chicchessia.”

Dionigi ci pensò ancora un istante e poi, schiarendosi la voce, provò a contrattare: “In cambio, mia signora, vorrei una vostra dichiarazione di benevolenza nei confronti di mio fratello Vincenzo.”

“Vostro fratello Vincenzo è al soldo di Venezia, e da quel che so si è anche distinto per l'ardore con cui ha combattuto contro i fiorentini.” ribatté secca Caterina, le dita che passavano nervosamente sul nodo nuziale, ricordandosi i trascorsi che aveva avuto con Vincenzo Naldi.

“Ma, in passato, mio fratello ha anche combattuto con messer Ottaviano Manfredi – tentò Dionigi, temendo di aver fatto un passo falso – e vorrebbe riavvicinarsi a voi anche in memoria del suo amico e compagno d'armi.”

La Leonessa strinse le labbra. Le sembrava una scusa molto stiracchiata. Avrebbe voluto chiedere dov'era, quel grande amico di Ottaviano Manfredi, quando il faentino cercava alleati per fargli quadrato attorno contro suo cugino e contro i Bentivoglio. Poi, però, lasciò perdere e fece del suo meglio per parlare in modo disteso.

“Dite a vostro fratello che non ho nulla contro di lui e che se vorrà passare al mio soldo, mi troverà pronta ad accoglierlo.”

“Grazie, mia signora.” fece Dionigi, inginocchiandosi in terra e chinando il capo.

“Alzatevi, non sopporto queste scene.” scattò la Contessa, irritata dalla teatralità di quel gesto: “E piuttosto ditemi se accettate la mia proposta.”

Naldi si rimise in piedi e annuì: “Accetto, mia signora. Metterò subito qualcuno sulle tracce di Bosi e ve lo porterò appena lo troverò.”

“Trovatelo e uccidetelo.” soggiunse Caterina, colta dall'improvvisa voglia di non macchiarsi ulteriormente le mani con quella storia: “Portatemi la sua testa e la sua mano destra, mi basterà.”

L'uomo sospirò e confermò: “Farò quello che dite, mia signora.”

La Tigre si disse soddisfatta di quell'accordo e si alzò, lasciando la scrivania per andare vicino alla finestra. Il condottiero ringraziò di nuovo e poi andò alla porta, ma, appena prima di uscire, si accigliò e pose una domanda che gli ronzava in mente da quando il loro colloquio era cominciato.

Dopo una brevissima esitazione, chiese: “Come mai volete sostituire messer Landriani a Imola? Pensavo fosse un uomo molto fidato...”

La Sforza si adombrò, pensando al fatto che forse avrebbe dovuto anticipare quella sua decisione a Gian Piero, prima di parlarne con Naldi. Nei suoi progetti, poi, c'era anche di andare da suo fratello Piero e discuterne anche con lui, ma l'insicurezza di quegli ultimi giorni le aveva messo una strana fretta. Voleva essere pronta a tutto e, per esserla, doveva innanzitutto assicurarsi di avere le persone giuste al posto giusto.

“Lo è, ma ormai è anziano e... E da quando sono morte mia madre e mia sorella soffre di solitudine. Credo sia tempo, per lui, di godersi il suo meritato riposo.” rispose, voltando le spalle a Dionigi: “Quindi vedete di sbrigarvi, a trovare Bosi, così potrete finalmente permettere al mio...”

La donna si bloccò, nell'accorgersi che stava per chiamare patrigno il marito di sua madre. Non l'aveva mai considerato tale, perché, di fatto, non aveva mai vissuto sotto lo stesso tetto con lui. Era il padre di sua sorella Bianca, però, e di suo fratello Piero.

Tutti i discorsi sulla famiglia fatti con sua figlia Bianca e suo figlio Galeazzo forse le avevano fatto rimettere in prospettiva anche quella situazione.

“Al vedovo di mia madre.” concluse, senza voltarsi.

Il condottiero aveva percepito un certo imbarazzo, nella sua signora, così, sperando di risultare sufficientemente discreto, come nulla fosse ringraziò di nuovo e la lasciò sola.

Caterina si premette una mano sugli occhi. Era stanca, quella notte non aveva quasi chiuso occhio, e si sentiva come intorpidita. Aveva bisogno di aria fresca.

Era pieno pomeriggio e nel giro di un paio d'ore o forse anche meno sarebbe scesa la sera, ma c'era ancora tempo per una cavalcata, se non per una battuta di caccia.

Da quando era morto Manfredi, per paura di altri attacchi, aveva cercato di non uscire spesso dalla rocca e, se l'aveva fatto, era rimasta comunque in città. Anche ai suoi figli non aveva permesso molta libertà, lasciandoli andar fuori solo un paio di volte in tutto e sempre accompagnati da qualche soldato. Forse, anche se non era ancora passato molto, era giunto il momento di allentare un po' le redini.

Lasciò lo studiolo quasi di corsa, decisa a prendere il suo stallone preferito e gettarsi a capofitto nei boschi, da sola, per pensare. Attraversò il cortile d'addestramento, dove alcuni soldati, tra cui Galeazzo, stavano facendo esercizi di lotta senz'armi. C'era anche Bernardino, in un angolo, intento a osservare silenziosamente il fratello, come cercando di carpirne la tecnica, ma Caterina non lo vide nemmeno.

Arrivò alla stalla, sempre più decisa a lasciarsi per un po' la confusione della rocca e della sua vita alle spalle. Si fece dare i finimenti e cercò il suo stallone. Poi, però, mentre già sellava il cavallo, ci ripensò e chiamò a sé uno degli stallieri.

“Esci un attimo in cortile – gli disse – e chiama mio figlio Galeazzo. Poi sella un cavallo anche per lui.”

Il giovane fece come gli era stato detto e tornò dopo cinque minuti con il Riario.

“Corri a prenderti un mantello – fece la donna, al figlio – usciamo per una cavalcata.”

Felice come non mai per quell'imprevisto, il ragazzino annuì e corse via, per prendere il mantello e infilare gli stivali.

La Tigre l'attese con pazienza e, quando tornò, gli fece trovare il cavallo già pronto: “Forza – lo incitò, mentre montava in sella – voglio vedere quanto sei bravo a starmi dietro in mezzo al bosco.”

Solo mentre lasciavano il cortile, in sella ai loro destrieri, la Contessa si accorse della presenza di Bernardino e del modo in cui li guardava. Era geloso, si vedeva benissimo, ma Caterina sapeva che se gli avesse chiesto di unirsi a loro, così, in seconda battuta, avrebbe rifiutato, così come aveva fatto molte volte Ottaviano più o meno alla sua età, benché per un tipo diverso di gelosia. La sua unica speranza era che, avendo padri diversi, Bernardino non mostrasse mai il lato ossessivo che aveva caratterizzato il fratellastro.

Quando, ormai lontana da lui, la donna si voltò un istante per guardarlo e sincerarsi che non si fosse adombrato troppo, si rese conto che il bambino le aveva già voltato le spalle e si stava già dedicando ad altro, come se non gliene importasse nulla, né di lei né della mancata convocazione.

La Tigre, allora, tornò a concentrarsi solo su Galeazzo, non trovando molto strano l'atteggiamento apparentemente distaccato di Bernardino. Quel figlio le somigliava troppo, in fondo, per fare altrimenti.

 

La giostra di San Giorgio stava vivendo i suoi ultimi momenti, ma il pubblico era ancora molto interessato ai campioni che si affrontavano davanti a loro.

Gaspare Sanseverino, invece, si stava annoiando. Era arrivato a Ferrara a torneo già cominciato e così non vi aveva preso parte attiva, e già quel dettaglio lo irritava. Se lo chiamavano Fracassa, un motivo c'era e starsene in panciolle a vedere gli altri menar le mani non era nella sua indole.

Per di più era di pessimo umore anche per quanto accaduto prima del suo arrivo in città. Aveva cercato di far pressioni sull'Imperatore affinché gli desse il feudo di Pordenone, ma tutto quello che aveva ottenuto erano state tante belle parole e un nulla di fatto.

Non aveva mai avuto aspirazioni particolari, in merito alla politica, ma aveva idee molto chiare su come volesse passare la sua vecchiaia. Era un uomo d'armi, e come tale voleva vivere, ma non era uno sciocco e sapeva benissimo che solo pochi eletti – com'era stato Virginio Orsini – potevano permettersi di guerreggiare fino in tarda età.

Così lui aveva deciso di tirar di spada finché il suo corpo gliel'avesse permesso, ma di infeudarsi e passare il resto dei suoi anni in pace non appena avesse capito di non essere più adatto alla vita di campo.

Per riuscirci, però, doveva procurarsi terre e soldi fintanto che ancora riusciva a tenere dritta la lancia e aveva sperato di poterlo fare tramite l'Imperatore. Il suo servizio presso gli Sforza, aveva creduto, poteva essere una carta vincente con Massimiliano, ma era ormai chiaro a tutti che da quando l'Asburgo era convolato a nozze con Bianca Maria Sforza, l'Impero aveva perso ogni interesse o quasi nell'aiutare e agevolare Milano e tutti i suoi alleati.

Era bastato un matrimonio infelice per incrinare un'intera rete di accordi e lealtà e Gaspare c'era finito nel mezzo senza poterci fare nulla.

“Ma è vero quel che dicono su Annibale Bentivoglio?” chiese, cercando di sfruttare quella giostra, almeno, per ottenere informazioni utili: “Davvero è stato licenziato da Venezia?”

Francesco Gonzaga, che non parlava molto volentieri di politica, men che meno mentre era intento a guardare due cavalieri che stavano per scendere in lizza, annuì secco e confermò: “Non appena Venezia ha ratificato la pace, sì.”

I due sfidanti stavano prendendo velocità e l'impatto andava avvicinandosi. Il pubblico rumoreggiava, e i due cavalieri abbassavano sempre di più le lance da torneo, pronti allo scontro.

Fracassa sollevò entrambe le sopracciglia e, occhieggiando proprio verso il Bentivoglio, che era seduto a qualche panca di distanza da loro, cominciò a dire: “Certo che con tutta la boria che si dava, non avrei mai creduto che...”

La voce gli morì in gola, trasformandosi subito dopo in un grido di dolore.

Il Marchese, non capendo cosa fosse successo, si rese solo conto del calore e dell'odore di qualche schizzo di sangue che gli era arrivato in faccia. Abbassò lo sguardo e vide il Sanseverino tenersi la coscia con entrambe le mani.

Una piccola folla, appena capito che fosse accaduto, si avvicinò e qualcuno cominciò a chiamare un cerusico. Dalla coscia sanguinante di Gaspare spuntava un pezzo di legno e solo dopo qualche minuto Gonzaga comprese la dinamica dei fatti.

L'impatto tra i due cavalieri era stato pesantissimo, tanto che tutti e due erano stati disarcionati e le lance, spezzandosi, erano finite in mille pezzi, uno dei quali, con violenza, era arrivato a Fracassa che, seduto in prima fila, si era visto coinvolgere nel peggiore dei modi.

“Portatelo a palazzo!” ordinò il Marchese, mentre Sanseverino veniva soccorso: “Presto! Che venga medicato e portato a palazzo!”

 

Caterina aveva lasciato la finestra aperta per poter sentire il profumo di quella notte di inizio maggio. Quell'aroma di primavera la riportava indietro di undici anni, ai primi tempi in cui, morto Girolamo, aveva scoperto cosa fosse l'attrazione per un uomo, l'amore e il desiderio. Prima di conoscere Giacomo, erano state tutte cose a lei estranee.

Quella notte, malgrado i tanti pensieri che la tormentavano, non riusciva proprio a non ripensare a quei giorni fatti di scoperte. Era stato come riuscire a vedere chiaramente dopo una vita passata con una benda sugli occhi.

Adesso, che di anni ne aveva trentasei, si sentiva cambiata, nel profondo, e non in meglio. A volte si chiedeva dove fosse finita la giovane donna che aveva affrontato con coraggio quel difficile passaggio da una vita di schiavitù alla libertà delle proprie azioni.

Trovarsi di punto in bianco nella condizione di decidere per sé, di prendersi dei rischi senza più poter dare la colpa di un fallimento al suo schiavista, era stata per lei una prova del fuoco che aveva cercato di superare nel migliore dei modi, per quanto fosse molto difficile non scottarsi.

La libertà, come tutte le altre cose che si possano desiderare, aveva il suo prezzo e, una volta ottenuta, poteva dimostrarsi una lama a doppio taglio. In ogni caso, però, era sempre meglio di dover sottostare a un uomo che, per di più, non stimava né apprezzava.

Non riuscendo a dormire, e volendo provare a restare da sola, la Sforza si era andata a sistemare in una delle alcove scavate nella pietra che affacciavano sul cortile.

Aveva portato con sé una caraffina di vino e un libro, ma di fatto aveva bevuto appena due dita e letto nemmeno mezza riga.

Sospirò, guardando fuori, verso il cielo che quella notte era stellato e limpidissimo. Quel giorno era riuscita a dare una condotta per lei molto vantaggiosa a Giorgio Attendolo da Cotignola, eppure non riusciva a gioirne più di tanto.

Quell'uomo, suo parente alla lunga, era rimasto a Forlì, dopo i funerali di Manfredi, e aveva avuto tempo e modo di guardare il Quartiere Militare e farsi un'idea di come la Contessa organizzasse lo Stato e l'esercito.

“Vorrei prestare servizio presso di voi – aveva ribadito, quella mattina, incrociandola sulla via mentre la donna andava a sbrigare le questue cittadine – e difendervi in questo momento drammatico.”

La Leonessa, allora, aveva fatto presente che lo stipendio sarebbe stato limitato e che probabilmente non si sarebbe trattato di una campagna vittoriosa, dato che, a parer suo, il papa le avrebbe scagliato contro l'inferno intero, se fosse riuscito a scendere a patti con Lucifero.

“Non voglio stipendi – aveva rifiutato Giorgio – ma servire il mio sangue. Mi basteranno vitto e alloggio.”

Sapendo bene quanto l'Attendolo fosse richiesto e prezzolato, la Sforza si era sentita stringere il cuore di riconoscenza e gli aveva detto: “Ebbene, allora prenderete servizio a partire da domani.”

“Facciamo già da oggi.” aveva ribattuto lui, con un sorriso e una stretta di mano.

Quell'abnegazione spiegata, alla fin fine, solo con la loro parentela, così come le dichiarazioni che spesso i suoi fedelissimi le rivolgevano, promettendole di starle accanto fino alla fine – qualunque esse fosse – le metteva addosso uno strano senso di tristezza.

Bevve un po' di vino, inspirando a fondo l'aria fresca e fragrante della notte e poi sbadigliò. Era stanca, stanchissima, più di quanto non le paresse, ma quando aveva provato ad andare in camera, la sua solita inquietudine l'aveva presa, impedendole il sonno.

Pensava, pensava e pensava ancora, fino a che i pensieri non la travolgevano, rendendole invitante l'idea di trovarsi un uomo per la notte con cui scordare per un po' ciò che le affollava la mente.

Ma quella volta non voleva risolvere così la sua insonnia. Non era ancora certa di essere incinta o meno e voleva esserne sicura, prima di ricaderci. Era una cosa sciocca, forse, ma quel giorno aveva preso quella decisione e voleva cercare di onorarla.

Quando, un paio di giorni addietro, era uscita a cavallo con suo figlio Galeazzo, lasciandosi alle spalle un Bernardino ribollente di gelosia, si era chiesta come potesse sperare di tenere quel precarissimo equilibrio che c'era tra i suoi figli, se ne fosse venuto al mondo un altro. Non trovando risposta, aveva ricacciato indietro la domanda, ma non era bastato a placare la sua inquietudine.

La gola riarsa dal vino, la Contessa appoggiò un momento la nuca alla parete, cercando di rilassarsi, ma tornò subito vigile, sentendo dei passi in corridoio.

 
 
   
 
Leggi le 1 recensioni
Segui la storia  |        |  Torna su
Cosa pensi della storia?
Per recensire esegui il login oppure registrati.
Capitoli:
 <<    >>
Torna indietro / Vai alla categoria: Storie originali > Storico / Vai alla pagina dell'autore: Adeia Di Elferas