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Autore: Adeia Di Elferas    27/01/2019    1 recensioni
Caterina Sforza, nota come la Leonessa di Romagna, venne alla luce a Milano, nel 1463. Si distinse fin da bambina per la sua propensione al comando e alle armi, dando prova di grande prontezza di spirito e di indomito coraggio.
Bella, istruita, intelligente, abile politica e fiera guerriera, Caterina passò alla storia non solo come grande donna, ma anche come madre di Giovanni dalle Bande Nere.
La sua vita fu così mirabolante e piena di azione che ella stessa - a quanto pare - sul letto di morte confessò ad un frate: "Se io potessi scrivere tutto, farei stupire il mondo..."
[STORIA NON ANCORA REVISIONATA]
Genere: Drammatico, Generale, Guerra | Stato: in corso
Tipo di coppia: Nessuna
Note: nessuna | Avvertimenti: Contenuti forti, Tematiche delicate, Violenza | Contesto: Rinascimento
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“Caterina.” la voce di Tommaso Feo, arrivato all'alcova, risuonò nel silenzio per qualche secondo.

Il modo in cui l'aveva chiamata, usando il suo nome, a voce abbastanza bassa, apparentemente con calma, la ridestò del tutto dai suoi pensieri.

“Avanti, sedetevi...” lo invitò, facendogli un po' di posto: “Volete del vino?”

Il Feo scosse il capo e la guardò con un velo di malinconia. La luce delle stelle e della luna entrava dalla finestra assieme al profumo fresco della notte e quello che pareva uno scenario idilliaco per l'uomo era solo l'ennesima beffa del fato.

Avrebbe voluto stringersi a lei, dichiararle di nuovo il suo amore, prometterle di starle accanto fino alla morte, baciarla, sentirla fremere di desiderio per lui e poi, finalmente, farla sua, dopo tanti anni d'attesa.

E invece tutto quello che riuscì a fare fu sistemarsi un po' sulla panchetta, avendo cura di non sfiorarla nemmeno e dire: “C'è stato un momento in cui ci davamo del tu.”

“Ma è stato un momento molto breve.” gli ricordò la donna, non volendo concedergli nemmeno uno spiraglio.

Con quella luce, forse complice l'ora tarda, Tommaso le pareva molto invecchiato. Scopriva nel suo volto rughe che non aveva mai visto e nei suoi occhi un modo tutto nuovo di indugiare su di lei. Era come un anziano che guardasse il suo passato sapendo di non poter più tornare indietro.

“Vi stavo cercando – riprese il Feo, evitando il tu per non irritare la Sforza – perché vi ho vista ispezionare i falconetti, dopo cena, e sapevo che non eravate ancora in camera e dovevo parlarvi.”

La Tigre sorseggiò un po' di vino e lo invitò a proseguire con un cenno della mano.

“Voglio andarmene, e questa volta per non tornare più. Starvi vicino mi fa solo male e non saprei nemmeno come aiutarvi, se scoppiasse una guerra. Non tocco una spada da anni e la mia salute non è più quella di un tempo.” disse d'un fiato l'uomo incrinando le labbra sul finale.

Caterina rimase in silenzio per qualche istante. Tommaso le sembrava prestante come sempre, malgrado l'avanzare degli anni ed era abbastanza convinta che la salute di cui parlava fosse quella dell'anima e non quella del corpo.

“Quindi tornerete al Bosco?” chiese la donna, appoggiando il calice di vino sul davanzale e guardando il Feo.

Egli annuì e precisò: “Curerò la tenuta finché ne sarò in grado, ma vi prego di considerare il Bosco eredità vostra. In fondo siete stata voi a concederla a mia moglie come dote, tanti anni fa...”

Il ricordo del matrimonio tra Bianca e Tommaso per un po' catapultò la Leonessa nel passato. Si ricordava molto bene di quanto fosse stata scettica, dinnanzi a una loro unione, soprattutto per i motivi che avevano spinto l'allora castellano di Ravaldino a chiedere la Landriani in moglie.

Ricacciando indietro un'ondata di nostalgia e tristezza, la Contessa dichiarò: “Assolutamente no, quella tenuta è vostra per diritto di matrimonio e vostra resta. La passerete ai vostri eredi, quando sarà il momento.”

“Ma io non ho eredi.” si oppose il Feo, mostrando i palmi delle mani, gli occhi scuri che si mettevano a indugiare sul viso duro e sempre bellissimo della donna che aveva amato per tutta una vita.

“Magari li avrete, siete ancora abbastanza giovane. Ci sono uomini che si sposano anche in età più avanzata della vostra, vedrete che...” cominciò a dire la Sforza, cercando di risollevare un po' il tono della discussione.

“No. Non avrò mai figli, non ne voglio e non ne cerco. Ormai la mia vita è questa. Mia moglie è morta e voi non mi avete mai voluto. Non voglio più niente.” scosse con vigore il capo lui, alzandosi dalla seduta di pietra.

“Non volevo irritarvi.” si scusò la Contessa, sentendo una stretta allo stomaco davanti all'ennesima inutile dichiarazione di Tommaso.

“Partirò domani all'alba. Preferisco salutarvi adesso.” sussurrò il Feo, passandosi una mano sulle labbra, come in imbarazzo.

Al che la Tigre si alzò e gli si parò davanti, alla luce soffusa di quella notte dal sapore primaverile.

La finestra socchiusa soffiava su di loro l'alito della natura che si stava risvegliando e per un breve istante entrambi si sentirono di nuovo giovani, poco più che ventenni, ancora pieni di vita e di voglia di farsi strada.

“Io ti amo ancora, Caterina.” provò in ultimo Tommaso, prendendole le mani nelle proprie e puntando lo sguardo nelle sue iridi verdi, imperscrutabili in quella penombra.

“Io amo ancora tuo fratello.” ribatté lei, sentendosi crudele, ma non potendo rispondere altrimenti.

Tante cose passarono per la mente dell'uomo, nell'udire quell'affermazione. Avrebbe voluto farle notare che quel fatto non le aveva impedito di risposarsi ancora, di fare un figlio con un altro e, poi, rimasta di nuovo sola, di cambiare continuamente amante.

Poi, però, tutto quello che riuscì a fare fu solo stringerla a sé in un abbraccio strettissimo, tanto da toglierle il fiato.

La dolcezza iniziale di quella stretta, senza che nessuno dei due se ne avvedesse, si trasformò in sensualità e la Leonessa risentì nella forza di quelle braccia, nella larghezza di quelle spalle e nel battito rapido di quel cuore, le stesse cose che aveva trovato in Giacomo.

Si trattava di un'illusione, tanto rapida e ingannevole da svanire non appena il Feo mollò un pochino la presa, ma alla donna bastò per sentirsi di nuovo vuota e disperata, come il giorno in cui aveva perso l'amore della sua vita.

Cingendola ancora, premendola contro di sé, Tommaso chinò un po' il capo verso di lei, le labbra che quasi sfioravano le sue.

Caterina era anche pronta a baciarlo. Che differenza avrebbe fatto, un bacio? Almeno avrebbero avuto qualcosa da ricordare.

Ma l'uomo, proprio appena prima di andare fino in fondo, si ritrasse, meccanico e improvviso, come se si fosse scottato.

La lasciò andare, si risistemò un po' il giubbone e poi, deglutendo, disse, a fatica: “Mi mancherai, ma è giusto che me ne vada. Non posso più andare avanti così.”

Nemmeno la Contessa si sentiva molto loquace. Aveva la gola riarsa e trovarsi a mani vuote, senza più il calore di quell'amico fedele, che tanto adesso le ricordava il suo secondo marito, le aveva messo addosso una voglia incredibile di sciogliersi in lacrime.

“Mi mancherai anche tu, Tommaso.” soffiò, appena udibile.

L'uomo sorrise, mesto, e concluse: “Ogni tanto pensami.” e, con un inchino dal gusto militare, che alla Tigre ricordò moltissimo i saluti che le aveva rivolto mille volte, quando si conoscevano da poco, girò sui tacchi e se ne andò.

A quel punto la Sforza si rimise seduta. Finì il vino che aveva portato con sé e poi, prendendo il libro e lasciando invece dov'erano caraffina e calice, andò verso la sua camera.

Si sentiva confusa e commossa allo stesso tempo, e non riusciva a smettere di pensare all'abbraccio di Tommaso, non sapendo nemmeno più come considerarlo. Era suo cognato, un suo amico, un amante respinto, un soldato fedele... Non lo so sapeva più. Forse era tutte quelle cose mescolate assieme.

Non sapeva dire nemmeno lei perché non avesse mai dato una concreta possibilità a un uomo che tanto l'aveva amata e che era sempre stato leale nei suoi confronti. Si era schermita dicendosi che si era innamorata di Giacomo e che quindi, poi, non avrebbe mai potuto tradirne la memoria con il fratello, ma la realtà era che non l'aveva mai voluto nemmeno prima.

Arrivata nella sua camera, mise a posto il tomo che era stato di Giovanni e poi vagò per qualche istante, senza riuscire a trovare posa.

Sobbalzò quando sentì qualcuno bussare alla porta. Andò ad aprire senza farsi domande, quasi sperando che fosse il Feo che, per qualche motivo, avesse cambiato idea e fosse lì per provare a convincerla una volta in più ad accettarlo.

E invece, quando aprì, si trovò davanti Argentina. La serva si scusò per l'ora, dicendo che aveva aspettato di vederla rientrare, per non essere invadente.

“Che devi dirmi?” le chiese la Sforza, la confusione che stava lasciando il posto all'agitazione, man mano che si rendeva conto che l'addio di Tommaso era davvero qualcosa di definitivo.

“Ho deciso di accettare la vostra proposta. Se mi volete ancora come cameriera personale, io sono disponibile.” disse la domestica, con una riverenza.

La Tigre annuì e la ringraziò: “Accendi un po' di candele – ordinò subito, quasi volesse metterla alla prova all'istante – e poi va a preparare la mia stanza di là... Io... Non mi piace trovarla troppo fredda.”

Argentina si affrettò a fare un po' di luce e poi, chiedendo licenza, uscì per andare nella tana della sua padrona, ben capendo che doveva fare presto, perché era chiaro che la sua signora volesse portarvi un uomo e probabilmente lo voleva fare subito.

La Contessa non avrebbe voluto cedere ai suoi istinti, si era ripromessa di non farlo, ma poi era bastato l'abbraccio di Tommaso, sentire di nuovo quella fiamma nel petto, la stessa che Giacomo per primo aveva acceso e che poi niente e nessuno era mai riuscito a spegnere.

Per dare un po' di vantaggio ad Argentina, per non metterla subito in difficoltà, andò nei baraccamenti dei soldati e, prima di scegliersi qualcuno con cui passare la notte, giocò ai dadi con la truppa per almeno mezz'ora.

Trovato un giovane che sembrava fare al caso suo, senza fargli troppe domande, gli fece capire cosa cercava e lui, come accadeva sempre, non si fece pregare e la seguì al piano di sopra.

Con quel ragazzo – perché tale era con i suoi vent'anni stentati – che la baciava sul collo, sul seno e poi scendendo fino alle cosce, Caterina si chiese con un'angoscia del tutto nuova come potesse essere così debole quando si trattava di uomini.

 

“Ci sono stati disordini a Pisa?” chiese Lucrezia Medici al marito, non appena lo vide entrare in camera.

Jacopo era rimasto fuori tutto il giorno e anche in quel momento, per quanto fisicamente a casa, con la testa era altrove. Era così distratto che, anche se la moglie gli aveva parlato, non se n'era accorto.

“Ti ho chiesto se ci sono stati disordini a Pisa.” ribadì la donna, alzandosi dalla sua poltroncina e raggiungendolo.

Era abbastanza tardi e Lucrezia aveva già cenato. Avrebbe voluto attendere il Salviati, ma uno dei suoi servi le aveva detto che la Signoria era rimasta riunita tutto il giorno per discutere di quanto accaduto nel pisano e quindi la donna aveva compreso che anche il consorte non avrebbe lasciato il suo posto, se non a notte fatta.

“Come?” fece lui, slacciandosi la fibbia del mantello e lanciandolo sulla cassapanca.

“A Pisa. Cos'è successo?” chiese di nuovo Lucrezia, una mano che correva sul ventre, ormai bello gonfio, a non nascondere più, nemmeno sotto l'ampio abito da camera, la gravidanza ormai avanzata.

“Ci sono stati sedici morti...” spiegò finalmente l'uomo, andandosi a sedere sul letto per cavarsi le scarpe: “Ma non abbiamo ancora capito se i tumulti sono nati per colpa dei veneziani, o per qualche diatriba della città che non ha nulla a che fare con il lodo di pace siglato dall'Este...”

La Medici sospirò. Non credeva che sedici morti fossero una cifra catastrofica, men che meno in coda a una guerra, ma comprendeva l'agitazione di Jacopo.

Stava camminando sulle uova, in quel periodo, sempre intento ad anticipare mosse e contromosse di tutti, tentando di ritagliarsi un posto che gli confacesse all'interno dello Stato. Se solo il potere di Lorenzo il Popolano fosse stato ancor più incerto di quel che era, Lucrezia avrebbe potuto aiutare il suo uomo a dare la spallata finale ai cardini della Repubblica e far sì che potesse infine sedere sullo scranno di Gonfaloniere che tanto avrebbe voluto ottenere.

“Si parla d'altro, oltre che di Pisa? Che dicono della questione romagnola?” si informò la donna, aiutando il marito a togliersi il giubbone e poi a cavarsi la camicia.

Anche se non faceva caldo, il Salviati era sudato fradicio. Tutta quella tensione, la Medici ne era certa, gli faceva solo male. Se solo avesse potuto essere lei, in prima linea, era certa che avrebbero portato a casa più risultati e più in fretta, ma le convenzioni sociali le impedivano di andare oltre il suo ruolo di silenziosa suggeritrice. Aveva la testa più fina e i nervi più saldi del marito, ma a lei spettava la casa e a lui la piazza e nessuno poteva cambiare le cose, per lo meno, non abbastanza in fretta.

“La Romagna..!” sbuffò Jacopo, alzandosi di nuovo e mettendosi a vagare per la stanza con le mani dietro la schiena: “Se non fosse stato per tuo cugino Giovanni..! Se almeno non avesse legato a filo doppio Firenze alla Tigre di Forlì durante la guerra, adesso potremmo scaricarla e lasciare che il papa...”

“La Romagna ci serve, lo sai benissimo.” ribatté la moglie, frenando il marito, posandogli una mano sul petto: “E quella donna ha comunque partorito un Medici, se non te lo ricordi più. Che ci piaccia o meno, anche lei fa parte della famiglia.”

Sapendo di aver toccato un tasto dolente, il Salviati la guardò di sottecchi e poi, cauto, disse: “La tua famiglia, ultimamente, non mi pare molto in armonia. Vi esiliate a vicenda con una facilità impressionante...”

Non volendo litigare, Lucrezia prese una mano del marito e la posò sul proprio ventre, proprio mentre il piccolo che portava in pancia si esibiva in una giravolta: “Non arrabbiarti, Jacopo. Ti sente, se ti arrabbi, e non gli piace.”

“Ne parli sempre al maschile, ma per me questa è una femmina.” fece l'uomo, con un sorriso dolce che pareva aver già scacciato tutta la stanchezza di quella lunga giornata.

“Ti senti sempre un grande esperto...” ridacchiò lei di rimando, mentre il marito l'abbracciava, tenero e delicato e le dava un lungo bacio sul collo: “Ma sei più bravo a farli, i figli, che non a indovinare se siano maschi o femmine...”

“Parleremo ancora di politica domani...” bisbigliò lui, una mano che tornava alla pancia della moglie e un'altra che le accarezzava la schiena.

Lucrezia accolse il suo invito e lo seguì sotto le coperte. Avrebbe voluto fargli ancora qualche domanda e avere altre novità in merito allo scacchiere politico di Firenze, ma si rendeva conto che Jacopo era mentalmente sfinito. Poteva solo dargli il conforto del suo calore e permettergli di liberarsi, almeno per qualche ora, di un peso che forse non era mai stato del tutto calibrato per le sue spalle.

“Finché sarò con te – gli disse, quando ormai si stavano per addormentare, stretti l'uno all'altro, le mani aggrovigliate, come se non volessero che il contatto tra i loro corpi si facesse meno stretto di quanto non era stato fino a qualche minuto prima – avrai anche le mie spalle su cui contare.”

Il Salviati capì solo in parte quel rimando, che si collegava ai pensieri silenziosi della moglie, ma l'apprezzò comunque.

Sentendo la pelle liscia e calda di lei contro la sua, la strinse ancora un po' e corse di nuovo al pancione e la baciò, prima di addormentarsi, il viso che restava immerso nei suoi capelli e il respiro quieto di chi si sente al sicuro.

 

“Direi che la risposta del papa parla da sé.” fece a denti stretti Simone Ridolfi, sollevando le braccia, esasperato: “Secondo me Tiberti è a Roma da lui, a sussurrargli all'orecchio come fare a colpire! Fosse per me, lo richiamerei subito qui, pena la morte! E una volta qui, lo farei confessare e gli staccherei quella testa dal collo con un colpo di spada! Che se lo mangino i corvi, quel suo naso da avvoltoio!”

Caterina lo zittì con uno sguardo. Non aveva né tempo né voglia di sentire un collerico fiorentino andare su tutte le furie e lanciare invettive contro qualcuno senza avere nemmeno la certezza che fosse colpevole.

“Quella del papa è una mossa che dovevamo aspettarci...” fece l'Oliva, molto meno battagliare del Governatore, ma altrettanto costernato: “Pensa che il documento che abbiamo redatto serva solo ad aggirare una formalità. Siamo stati travisati.”

“Ci sarà un modo per raddrizzare la questione, no?” provò a chiedere Luffo Numai, le braccia incrociate sul petto e gli occhi venati di rosso.

Come tutti gli altri presenti, era stato svegliato nel cuore della notte per discutere della nuova bolla che il papa aveva emesso senza preavviso. A Forlì non era ancora arrivata la copia ufficiale, ma le spie della Tigre erano riuscite a ottenerne una copia ufficiosa, del tutto conforme all'originale e tanto era bastato a gettare tutti in ansia.

“Certo che c'è – tagliò corto la Contessa – basta scrivere un nuovo atto in cui i miei figli rinunciano formalmente non più alla loro eredità, ma al vicariato.”

“Infatti – convenne l'Oliva, che era arrivato alla medesima conclusione – con la prima bolla, il papa dava la proprietà di queste terre a suo figlio, mentre con questa toglie il vicariato di Forlì alla nostra signora e ai suoi figli.”

“Sì, ho capito, è solo una formalità – di intromise Cesare Feo, appoggiato al muro, proprio sotto alla torcia – ma il fatto che l'abbia scritta significa che si sta preparando ad agire presto. Ha voluto liberarsi da ogni possibile inghippo legislativo al solo fine di aver la strada libera per attaccarci. Ci scommetto che è perché suo figlio sta finalmente per sposarsi, in Francia.”

“E di sicuro quella cornacchia di Tiberti gli ha...” cominciò a dire Ridolfi, ma la Sforza lo tacitò di nuovo.

“Non importa chi gli ha dato l'idea, quel che mi interessa adesso è mettere al sicuro i miei figli. E quindi – prese la parola la Tigre, rivolgendosi al suo notaio – voglio che stendiate un atto con cui i miei figli rinunciano al vicariato, ma stavolta deve essere un documento inattaccabile.”

L'Oliva fece un profondo inchino e assicurò che avrebbe fatto quanto in suo potere per non dare più al papa motivo di dubitare della buona fede dell'atto in questione.

I Consiglieri più stretti della Contessa avevano capito benissimo che quello era solo un trattamento palliativo, che non avrebbe portato a nulla di concreto, se non, forse, a salvare la vita dei suoi primi quattro figli maschi. La donna voleva escluderli formalmente dallo Stato al solo fine di renderne inutile la morte. A quale nemico sarebbe interessato ucciderli, se non erano eredi e vicari di nulla?

Se non fossero più stati un ostacolo alla presa dello Stato, sarebbero stati al sicuro.

Così si decise che l'Oliva avrebbe specificato, nel suo atto, che nessuno dei possibili eredi al vicariato voleva di fatto entrare in linea successoria, essendo ciascuno dei figli della Sforza già votato o alla vita ecclesiastica, come Cesare, o a quella militare, come gli altri.

“Avete più pensato alla proposta di vostro zio?” chiese Luffo Numai, quando ormai la piccola riunione andava sciogliendosi.

“Del fatto che vuole trovargli una moglie?” domandò di rimando lei.

L'uomo annuì e Caterina, in tutta risposta sbuffò. Giusto il giorno prima, da Milano, era arrivata una lettera – non passata tramite Orfeo, stranamente – con cui suo zio si offriva in modo molto generoso di trovare una sposa per Galeazzo. Era chiaramente un modo per assoggettarla ancor di più alla sua influenza, rendendola debitrice nei suo iconfronti.

“Gli ho già risposto.” spiegò la Leonessa: “Gli ho fatto sapere che mio figlio è ancora troppo giovane e che per il momento non intendo farlo sposare.”

Il Consigliere parve soddisfatto di quella decisione e così, quando anche gli altri cominciarono a lasciare la Sala della Guerra dichiarò: “Siete sempre una donna molto astuta.”

Lasciata a sua volta la sala, anche la Sforza si ritirò per tornare a dormire, ma non si coricò. Era troppo tesa per riuscire a riposare, così prese il necessario per scrivere e si dedicò a una missiva che rimandava da troppi giorni.

Era indirizzata a Fortunati e nasceva da un messaggio di Albertino Boschetti, che si era lamentato con lei del pessimo trattamento che le loro truppe stavano subendo da parte di Firenze. Anche se la guerra era finita, il fronte non era ancora libero e la loro condotta era ancora in vita, eppure era toccato al forlivese trovare il denaro e l'alloggio per i suoi, mentre la Signoria si era ben guardata dal rispettare gli accordi presi.

'Me maraviglio – pungolò sul finale – eciam de voi in questo caso, et anco del Magn. Laurentio, che se dovea pure considerare ad che periculo se exponevano venendo como vengono; e, quanto scandalo ne succedesse, como facilmente poteria accadere, ce serria et danno et scorno; quale cosa io cerco fugire al più posso. Cognosco bene ce ha pocha advertentia et cura a tucte le cose nostre: non credo però d'alcuno canto meritarlo.'

Rilesse l'ultima riga e poi concluse con un gelido 'Valete', sperando che Francesco comprendesse quanto fosse in collera anche con lui, che quasi si vantava di poter influenzare ancora il giudizio di Lorenzo Medici, quando, invece, era chiaro che il Popolano non lo considerasse nemmeno alla stregua di un diplomatico vero e proprio.

Per quel poco che restava della notte, Caterina lesse, controllò altre lettere e infine si cambiò in vista della nuova giornata.

Scese di buon onore nella sala delle armi e cominciò a dedicarsi alla riparazione di una lancia. Il lavoro manuale, come sempre, la rinfrancava.

Quando cominciò a esserci un po' più di vita, nella rocca, il Capitano Mongardini l'andò a cercare, dicendole che un uomo l'attendeva al portone e che chiedeva di entrare.

“Non gliel'ho permesso, sapete... Ha accento straniero e non vorrei mai che...” fece l'armigero, sollevando un po' le spalle.

La Tigre lasciò da parte la lancia, lo ringraziò, dicendogli che aveva fatto benissimo a non lasciarlo passare e andò a vedere di chi si trattasse.

“Sono qui per raccogliere la risposta alla richiesta di madonna Chiara.” esordì il nuovo arrivato, con un accento che la Sforza riconobbe come ligure.

Aveva passato troppi anni a sentire le parole vuote di suo marito Girolamo per non riconoscere quella cadenza.

“Ditele di sì. Ho deciso di accettare.” fece lei, cercando di non ripensarci più, prima di trovarsi a cambiare di nuovo idea.

Il messaggero, vestito come un viandante, chinò il capo e concluse: “Allora vi fa sapere che arriverà di qui a una settimana, circa.”

“E io sarò qui ad accoglierla a braccia aperte.” assicurò la Sforza.

Attese qualche istante e quando fu sicura che il misterioso ambasciatore non avesse altro da aggiungere, prese un paio di monete dal tascone del suo abito da lavoro e, allungandogliele, lo esortò: “Ditele di stare attenta e datele queste, scommetto che i soldi sono tra le cose che più le servono, in questo momento.”

L'uomo ringraziò con un cenno del capo e se ne andò con passo deciso. La Contessa lo seguì con lo sguardo e vide che aveva un cavallo legato a uno dei paletti che stavano vicini alla statua di Giacomo.

A volte trovava strana quell'idea che aveva avuto qualche forlivese di mettere dei pali per cavalli in quel punto dello spiazzo antistante Ravaldino, ma a lei non dava fastidio. L'unica cosa che il suo secondo marito era stato in grado di fare, da vivo, oltre che amarla, era stato badare ai cavalli. C'era una sorta di ironia drammatica, nel vedere la sua statua usata come punto di riferimento per lasciare i destrieri, che faceva sorridere perfino lei.

'Almeno adesso – si era trovata a pensare il giorno in cui si era accorta di quella novità – servi a qualcosa anche alla città.'

Con gli occhi che indugiavano ancora sulla statua del suo grande amore, la Tigre seguì la partenza del messaggero e appena lo vide sparire, tornò sui suoi passi, desiderosa di tornare alla sua lancia da aggiustare.

 
 
   
 
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