The
Biggest Challenge
Perdono
parte
terza
Hinata
si sentiva strana, come sospesa in
una bolla, distante da tutto. Vedere Naruto davanti alla porta di casa
che le
sorrideva, chiedendole di parlare, era l’ultima cosa che si
sarebbe aspettata.
Parlare con lui era ciò che desiderava fare, ma non
immaginava che ciò
accadesse a mezzanotte passata nella loro cucina.
Invece
erano lì, seduti uno di fronte
all’altro, incapaci di guardarsi in faccia per
l’imbarazzo, il silenzio rotto
solo dal ronzio degli elettrodomestici.
“Scusa
per l’orario.” esordì il biondo,
alzando gli occhi per cercare quelli di lei. “Ma non volevo
che i bambini
fossero svegli. Sarebbe meglio evitare di…” usare
la parola ‘discutere’ non gli
sembrava una buona idea, quasi temesse di incanalare
quell’incontro sui binari
sbagliati, ma Hinata non sembrava ancora capace di spiccare parola,
intenta
com’era ad osservarsi le mani.
“Stanno
bene?” a parlare fu nuovamente
lui, spinto dal desiderio spasmodico di salire ad abbracciare i suoi
figli, la
cosa più preziosa che possedeva. “Boruto
e… Himawari?”
Udire
quel nome sembrò riscuotere la
kunoichi, la quale alzò di scatto lo sguardo, irrigidendo
l’espressione sul
proprio volto.
“Stanno
bene.” la voce di quest’ultima era
bassa, quasi un sussurro. “Boruto ha chiesto molto di te. Ho
dovuto dirgli che
eri occupato con il lavoro.”
L’Uzumaki
sentì una fitta allo stomaco al
pensiero del suo primogenito che chiedeva di lui, obbligando la madre a
mentirgli.
“Mi
dispiace.” osservò. “Non era mia
intenzione che questo acc…”
“Eppure
è accaduto.” non c’era alcun tono
accusatorio nella voce di Hinata, quanto più rassegnazione.
Cadde
nuovamente un silenzio teso tra i
due. Naruto non riusciva più a ricordarsi le parole che si
era ripetuto fino
alla nausea. Percepiva il proprio cervello come un lenzuolo bianco,
piatto,
incapace di ragionare, limitandosi a fissare Hinata con espressione
imbarazzata.
Che
figura di merda.
“E
tu… tu come stai?” domandò
d’impulso,
sentendo il bisogno di rompere il silenzio che si era venuto a creare.
Si pentì
un istante dopo di averlo fatto: era ovvio che Hinata non avesse
passato giorni
sereni.
“Vorrei
risponderti che sto bene, ma
sarebbe una bugia.” lo sguardo chiaro della donna si tinse di
tristezza,
rivelando al marito un’enorme stanchezza.
“Ultimamente ne ho dette troppe.”
“Hina-chan…
io…”
“Naruto.”
la kunoichi lo bloccò subito,
proseguendo a guardarlo dritto negli occhi. “Sono felice che
tu abbia deciso di
venire qui, dico davvero.” il suo sguardo tornò
duro, le labbra strette in una
linea inespressiva sottile. “Ma prima che tu parli, devo
dirti una cosa.”
Naruto
sentì le proprie budella liquefarsi
dal terrore. Nei secondi successivi, la sua mente fu bombardata dalle
ipotesi
peggiori: Hinata che lo lasciava, Hinata che era incinta di qualcun
altro,
Hinata che voleva sposarsi con Kurama. Era arrivato
all’orribile momento in cui
il demone gli chiedeva di fargli da testimone di nozze, quando la Hyuga
parlò
nuovamente, pronunciando una singola parola.
“Scusami.”
Naruto
fu sicuro di non aver sentito bene.
Si limitò a guardare con sguardo da pesce lesso la consorte,
gli occhi grandi
come piattini da tè, mentre il significato di quella singola
parola lo
frastornava come un cazzotto in faccia.
“C-come?”
Hinata
fece un profondo respiro. Anche per
lei non era facile affrontare quell’argomento. La sua mente
volò indietro nel
tempo, trasportata dall’amarezza e dal senso di colpa,
trascinandola a quel
giorno maledetto.
“Missione
zero uno otto cinque: Controllo dei movimenti e delle azioni del
Jinchuuriki
Uzumaki Naruto.”
Hinata
era certa di aver capito male. Rimase rigida, lo sguardo fisso sui
Consiglieri
che la fissavano con fare impassibile.
“Io…
io temo di non aver compreso.” mormorò, muovendo
appena le labbra. “Perché
dovrei spiare Naruto-kun?”
Koharu
le lanciò un’occhiata talmente fredda da causarle
un brivido incontrollato
lungo il filo della schiena.
“Si
tratta di una missione estremamente importante per la sicurezza del
Villaggio.”
esordì l’anziana kunoichi.
“Benché tutti noi riconosciamo i meriti del
Jinchuuriki
Uzumaki nella guerra appena conclusasi, non possiamo dimenticare
ciò che vive
dentro di lui.”
“Ma
il Kyuubi non è un nemico… non
più.” ribatté titubante la Hyuga.
“E poi…
Naruto-kun non ci farebbe mai del male.”
“Il
Kyuubi è una creatura violenta, mentalmente instabile e
piena di rancore contro
la Foglia.” replicò seccamente Koharu.
“Se venisse a sapere gli effetti che la
guerra ha avuto su tutti noi… la sua pazzia potrebbe
incanalarsi attraverso il
dolore del suo Jinchuuriki.” la consigliera si
sistemò gli occhiali, fissando
con fermezza la ragazza. “Non possiamo correre questo
rischio. Contro Pain
siamo stati fortunati, sarebbe da sciocchi pensare di esserlo una
seconda
volta.”
Hinata
volse lentamente lo sguardo, alla ricerca di un volto amico, di
qualcuno che
fosse d’accordo con lei sul fermare quella pazzia.
Saltò il volto di Homura, il
quale aveva fino a quel momento annuito alle parole della collega,
cercando
aiuto negli sguardi di Tsunade e Shikamaru. Il Quinto Hokage aveva
un’espressione corrucciata sul viso, ma non sembrava decisa a
dare battaglia su
quel punto, mentre il Nara teneva gli occhi chiusi, quasi fosse
addormentato.
Disperata,
la kunoichi indirizzò il proprio sguardo su quello del Sesto
Hokage, il quale
ricambiò con fare impassibile.
“Kakashi-Sensei…
lei non può… non può essere
d’accordo, vero?”
“Naruto
ha sofferto molto, e non solo da un punto di vista fisico negli ultimi
tempi.”
rispose Kakashi con voce calma e profonda. “Non si
è ancora ripreso del tutto,
e credo che sia meglio per lui rimanere fuori da ciò che
accadrà a Konoha nei
prossimi mesi. Non possiamo chiedere altro a Naruto.”
Hinata
si morse il labbro inferiore. Sentiva il bisogno spasmodico di parlare,
di
urlare che Naruto era forte, che non aveva bisogno di essere circondato
da un
mare di bugie, che tutto questo non avrebbe fatto altro che ferirlo,
causandogli nuovo dolore. Eppure la voce le rimase incastrata in gola,
bloccata
dai muscoli contratti del collo, soffocata dalla logica implacabile
dell’Hokage
e dei suoi consiglieri.
“Se
non lo farai tu, lo chiederemo a qualcun altro.”
osservò con voce inflessibile
Homura. “Ovviamente, dovrai giurare che non una parola di
ciò che abbiamo detto
uscirà da questa stanza.”
Era
pronta a mentire per Naruto? A dare via la propria integrità
morale per il
ragazzo che amava? La mente di Hinata fu colpita dal ricordo di Neji in
punto
di morte, capace di dare la vita per salvarla. Lei era forse da meno?
Avrebbe
continuato a vivere nell’ombra di suo cugino anche ora che
non c’era più?
Deglutì a vuoto, ripetendosi che tutto quello era solo per
il suo bene, per
proteggere il ragazzo che amava.
“Come
desiderate.”
Le
parole le uscirono in un roco sussurro, facendola sentire sporca,
meschina, una
persona indegna di poter rivolgere di nuovo la parola a Naruto, al
quale chiese
mentalmente perdono.
Non
sarebbe stata la prima volta.
Tenne
lo sguardo basso, mordendosi il
labbro inferiore. Anche a distanza di così tanto tempo, il
ricordo della sua
vergogna più grande bruciava come un tizzone dentro di lei.
L’aveva tenuta
nascosta per anni, tentando di rimuoverla dalla mente, ma in quei
giorni non
aveva potuto fare a meno di pensarci. Quando Naruto aveva scoperto che
era
stato ingannato per sei anni non l’aveva accusata di nulla,
non le aveva
rinfacciato le sue colpe. Lei invece l’aveva fatto. Poteva
davvero definirsi
una persona migliore di lui?
“Quando
io ti mentii… riguardo alla mia
missione di spiarti, tu non hai mai osato accusarmi di
ciò.” gli spiegò con
voce bassa. “Mi hai perdonato subito, senza mai farmelo
pesare.” strinse le
mani, decisa a liberarsi di quelle parole. “In fondo, io non
sono migliore di
te… e per questo voglio chiederti scusa.”
“Sono
cose completamente diverse! Come
puoi pensare che…”
“Sono
la stessa cosa invece!” lo bloccò la
Hyuga. “Tu avevi fiducia in me, proprio come io ne avevo in
te, ma la
differenza è che tu sei stato capace di perdonarmi senza
pensarci due volte.”
si morse il labbro inferiore, faticando da morire nel tenere lo sguardo
alto,
fisso su di lui. “Io no.”
“No!”
il monosillabo fu pronunciato con
forza dal Jinchuuriki. “Non accetto queste scuse! Tu
l’hai fatto per
proteggermi, è stato un gesto altruista. Io
invece… ho solo pensato a me, senza
chiedermi se fosse giusto o meno, decidendo addirittura il nome di
nostra
figlia senza interpellarti!”
“Ma
non capisci?! È proprio questo il
punto!” ribatté Hinata. “Non
è importante cosa
abbiamo compiuto ai danni dell’altro, e neanche le
motivazioni che vi
stavano dietro. Mi piacerebbe sapere il motivo per il quale hai baciato
questa
donna, ma cosa cambierebbe nella nostra relazione? Sarebbe davvero
così
fondamentale che tu mi informassi di ciò? Modificherebbe
forse il passato?”
“No,
ma penso che…”
“Il
punto è che abbiamo entrambi rotto il
patto di fiducia che ci eravamo fatti.” proseguì
la Hyuga, non permettendogli
di finire. “La vera differenza che conta non è
cosa ci ha portato a compiere
quei gesti, ma la nostra reazione nello scoprirli. Tu sei stato capace
di
accettare l’idea che io ti abbia spiato per sei anni, mentre
io ho trovato
intollerabile che tu abbia avuto un momento di debolezza, nonostante in
questi
anni ti sia dimostrato un padre eccezionale, mostrandomi con i fatti il
tuo
desiderio di costruirti una famiglia assieme a me.”
Naruto
fu costretto a richiamare tutto il
proprio autocontrollo per non spalancare la bocca come un idiota,
ancora una
volta incredulo di quanto Hinata fosse incredibile. Aveva sempre saputo
che era
una donna intelligente e determinata, ma fare sfoggia di un simile
ragionamento
era sinonimo di qualcosa molto più profondo: saggezza.
“Io…”
si passò la protesi tra i capelli,
nel tentativo di riordinare i pensieri, spiazzato dalla piega che la
conversazione aveva preso. “Posso capire quello che
intendi… ma davvero
possiamo liquidare così la mia colpa? Davvero non ti senti
ferita dal mio
comportamento? Ho infranto le nostre promesse di matrimonio, ho donato
un nome
a mia figlia che per te significa solo tradimento ed umiliazione. Come
puoi
passare sopra tutto questo, giustificandolo con ciò che hai
commesso anni fa?”
“Perché
le conseguenze del mio gesto
furono molto più tragiche.” rispose con
semplicità Hinata. “Hai forse
dimenticato che andai in coma per oltre un mese? Quando ero
già incinta di
Boruto? Ho rischiato di non far venire mai alla luce nessuno dei nostri
figli.
Davvero credi che la mia decisione di tenerti all’oscuro di
tutto ciò che
accadeva attorno a te sia migliore della tua? Tu stavi lottando per la
tua
famiglia, io ho rischiato che quest’ultima non venisse mai
creata.”
“Ma
quello sarebbe accaduto lo stesso!”
Hinata
sorrise, ma il suo fu un sorriso
nostalgico, dettato dai ricordi.
“Dubito
che mi avresti fatto partecipare a
missioni così pericolose se ne fossi stato informato.
Avresti fatto fuoco e
fiamme per proteggermi.”
Naruto
non osò ribattere, punto nel vivo.
Era vero, non avrebbe mai acconsentito che Hinata rischiasse la vita in
quel
modo.
“Io…”
per l’ennesima volta, l’Uzumaki non
fu capace di riordinare la propria mente, sconvolto
dall’atteggiamento della
moglie. Era quasi ridicolo che ora fosse lui ad accusarsi e lei a
scagionarlo,
ma aveva imparato da tempo ad aspettarsi di tutto da sua moglie, anche
che gli
perdonasse senza battere ciglio il suo inqualificabile comportamento.
“Cosa
ti aspetti da me, Hinata?” mormorò
infine. “Vuoi davvero chiudere questa faccenda
così? Tornare alla normalità
come se niente fosse accaduto?”
“Non
ho mai detto questo.” rispose la
Hyuga. “Sono ancora molto arrabbiata, e sicuramente non
sarà facile per me
accettare l’idea che mia figlia porti il nome della donna che
ti ha indotto ad
infrangere la nostra promessa di matrimonio.” Naruto
sembrò sul punto di
parlare, ma preferì rimanere in silenzio. “Quello
che intendo dire è che non
avrei mai dovuto cacciarti di casa in quel modo.”
“Quindi
cosa proponi?”
Hinata
chiuse per un istante gli occhi,
indecisa per la prima volta da quando aveva cominciato quella
discussione. Era
davvero convinta di quello che stava per proporre? Il suo matrimonio
con
Naruto-kun era così forte da superare anche quella prova?
Sì.
Aprì
di scatto gli occhi, decisa ad andare
fino in fondo. Ne sono convinta.
“Io
credo… che la soluzione migliore sia
che torni qui, con la tua famiglia.” le parole uscirono
pesanti come macigni
dentro la cucina, colpendo con la violenza di uno tsunami
l’Uzumaki. “Non sono
ancora sicura di volerti perdonare, ma credo che l’unico modo
per scoprirlo sia
tentare di ricostruire… la nostra
quotidianità.”
Naruto
non rispose. Ritornare a casa dalla
sua famiglia, con la possibilità di ripartire da zero era
magnifico, ciò che
neanche nei suoi sogni più intimi avrebbe sperato. Sarebbe
bastato dire di sì,
annuire, e tutto sarebbe tornato alla normalità. Hinata
avrebbe ricominciato ad
essere sua moglie, sarebbe tornato a passare le serate con Boruto e
Himawari e
la notte con la donna che amava. Gli ultimi cinque giorni sarebbero
svaniti
nell’oblio dei brutti ricordi, qualcosa che non sarebbe mai
più emerso.
Allora
perché non parlava? Perché non
riusciva a trovare la forza di pronunciare quel semplice monosillabo?
No.
inspirò
lentamente, accettando l’idea di non poter rispondere
affermativamente alla
moglie. Non potremo mai tornare alla
normalità in questo modo. Rimarrà sempre questo
ricordo a perseguitarci, ed
alla fine ci distruggerà.
Scosse
la testa, tenendo lo sguardo fisso
sulla compagna. Quest’ultima rimase stupita da quella
risposta, spalancando i
propri occhi.
“Non
posso accettare, Hinata.” mormorò.
“Non posso tornare qui senza aver fatto prima ammenda dei
miei errori.”
“Ti
ho già detto che non mi importa!”
“Importa
a me.” replicò con voce amara
l’Uzumaki. “So che stai mentendo. Potrai sforzarti
quanto vuoi, ma alla fine il
dubbio ti corroderà, fino a distruggere definitivamente la
nostra famiglia.”
sorrise, un sorriso freddo, privo di gioia. “E non
è quello che voglio.”
“Cosa
proponi, allora?”
Naruto
tacque, alla ricerca delle parole
giuste. Alla fine, era riuscito a portare la discussione dove voleva.
Doveva
solo tirare fuori il coraggio e chiudere quella faccenda
definitivamente.
“Voglio
raccontarti di Himawari.” dichiarò
con voce bassa ma convinta di ciò che diceva. “Ti
dirò ogni cosa, ogni
sensazione che ho vissuto, tutto quello che è accaduto. Non
ti nasconderò
nulla, te lo prometto.” non vide nessuna reazione nel volto
della moglie, e non
seppe se esserne preoccupato o felice. “Se alla fine del mio
racconto… mi
vorrai ancora nella tua vita, non muoverò più
alcuna obiezione.”
Cadde
il silenzio. Hinata teneva lo
sguardo fisso sul volto dello shinobi, quasi cercasse di capire se le
sue
parole fossero sincere. Quest’ultimo accettò quel
contatto quasi con gioia,
perdendosi nelle iridi pallide della moglie, desiderando ardentemente
rimanere
così per ore, a guardarla in faccia, lasciandosi alle spalle
tutte le
preoccupazioni che gli avvelenavano la mente.
“Ti
ascolto.” le parole uscirono flebili
dalle labbra della Hyuga, quasi un sospiro. Naruto comprese che era il
momento
di dire quella verità che aveva tenuto nascosto per tre anni.
Era
destino che finisse così.
Le
parlò di Himawari. Le raccontò dei suoi
ideali, del suo passato difficile, di come si fosse sentito compreso
dalle sue
parole, dal suo desiderio di aiutare coloro che avevano perso
così tanto a
causa della Grande Guerra. Non nascose nulla, elencandole i dubbi che
lo
avevano afferrato in quella lunga estate passata tra i ribelli, di come
sentisse il rispetto e l’affetto per loro crescere giorno
dopo giorno, fino a
spaccarlo in due, rendendolo incapace di prendere una decisione.
Quando
fu il momento di narrare del bacio,
Naruto non cercò scuse. Fu sincero, quasi brutale nel dire
come in quegli
istanti era stata una sua scelta quella di baciarla, così
come lo fu quella di
tradirli tutti, per il bene del Villaggio e della sua famiglia.
“Non
è stato bello.” concluse dopo aver
parlato di come Himawari fosse spirata tra le sue braccia.
“Non ne vado fiero e
non mi considero un eroe, o un uomo che ha fatto solo il suo
dovere.” contrasse
le labbra. Con l’avanzare della sua storia si era reso conto
che gli ci era
voluta molta più forza di quanto si era immaginato.
Desiderava solo qualcosa
che gli facesse passare la nausea ed un letto dove dimenticare i suoi
problemi
per qualche ora. “In questi anni, mi sono sempre ripetuto che
è stato per
Boruto che ho trovato la forza di fare quello che ho fatto. Con quale
coraggio
potevo dire di averlo fatto per te, dopo aver tradito in questo modo la
tua
fiducia? Sarebbe stato da ipocriti affermare una cosa simile.”
Hinata
non replicò. Da quando Naruto aveva
iniziato a parlare non aveva mosso un muscolo, osservando in silenzio
suo
marito confessarle il proprio tradimento. All’inizio lo
shinobi si era trovato
a disagio di fronte ad una simile assenza di emozioni, ma alla fine
aveva
deciso che non gliene importava nulla. Sarebbe arrivato alla fine,
liberandosi
di quel dannato macigno.
“Mi
piacerebbe dire che mi dispiace, che
tutto questo è stato un errore, che ti amo e non
succederà mai più.” ora la
voce del Jinchuuriki era talmente carica di amarezza da fare spavento.
“Ma ti
mentirei. Non ho mai rinnegato ciò che
c’è stato tra me ed Himawari, non ho mai
smesso di rispettarla e non mi sono mai pentito di quel bacio. Potrai
chiamarmi
folle, idiota, imbecille che pensa solo con il suo pene; ma la cosa
più assurda
è che in tutti questi anni, io non ho mai smesso di amarti.
Ecco, ora sai chi è
veramente tuo marito: uno schifoso doppiogiochista, talmente ipocrita
da non
essere capace di capire ciò che gli passa per la testa,
così vigliacco che si è
ben guardato dal dirti tutto ciò tre anni fa, ingannandoti
come un vero stronzo.”
Di
nuovo silenzio. Naruto si chiese se sua
moglie non avesse per caso perso la voce. Si ripromise di portarsi un
tamburo
la prossima volta che avesse dovuto affrontare Hinata in una
discussione.
Trovava intollerabile che l’unico rumore nella stanza fosse
il ronzio degli
elettrodomestici, impegnato com’era a fare in modo che il suo
matrimonio non
finisse a rotoli.
“Era
bella?”
L’Uzumaki
ci mise qualche istante a capire
che era stata la kunoichi a parlare.
“Sì.”
non indorò la pillola. “Aveva i
capelli dorati, gli occhi azzurri ed un sorriso magnetico.”
L’aveva
sparata grossa, ne era consapevole.
Si aspettava che Hinata lo cacciasse di casa a calci, che gli urlasse
addosso
che non voleva più avere nulla a che fare con un porco come
lui, che poteva
scordarsi di rivedere i suoi figli. Lo trovava anche corretto. In
fondo, lui le
aveva appena detto che suo marito era una merda, perché mai
lei avrebbe dovuto
essere felice di aver sposato un simile individuo?
Tuttavia,
la Hyuga non fece nulla di tutto
ciò. Si limitò a sospirare, massaggiandosi le
tempie, un’espressione di
stanchezza a tracciarle i tratti del viso.
“Perché
deve essere tutto così difficile, Naruto?”
mormorò. “Per quale motivo hai dovuto complicare
le cose in questo modo?”
Non
rispose. Probabilmente, trovava quasi
normale che la sua vita fosse perennemente complicata da cose di questo
genere,
se considerava che nel suo primo giorno di vita gli avevano impiantato
un
demone assassino dentro di sé.
“Tu
capisci quello che hai appena fatto,
non è vero?” riprese a parlare la kunoichi, sul
viso un’espressione combattuta
tra rabbia e stanchezza. “Mi hai appena detto che ho sposato
un fallito.”
“Hinata,
se non mi vuoi più vedere lo
capisco. Anzi, posso già cominciare a prendere le mie cose
e…”
“No,
non stai capendo nulla, stupido!”
Naruto
richiuse la bocca, sconvolto. Era
la prima volta che sentiva parlare la moglie in quel modo.
“Perché
devi sempre giustificarti, per
quale motivo vuoi sempre apparire perfetto ai miei occhi?! Lo vuoi
capire che
non mi interessa che tu sia un eroe?! Quello che voglio al mio fianco
è un uomo
ed un padre, non un manichino da vetrina!” Hinata sembrava
aver perso il
controllo. Teneva gli occhi contratti per la rabbia, mentre le parole
fluivano
libere, come un torrente in piena. “Non mi importa nulla che
tu sia un
traditore, un assassino, oppure un porco. Io non sono da meno: sono la
vergogna
della mia famiglia, ho passato anni su anni a piangermi addosso, non
sono mai
stata capace di uscire dall’ombra di mio cugino e ho
rischiato di morire per
non aver avuto il coraggio di rivelarti che ti stavo spiando! Cosa vuoi
che me
ne faccia di un eroe?! Io voglio un uomo che mi ami e che ami i suoi
figli, che
si impegni sempre per migliorarsi ogni giorno. Il resto non mi
interessa!”
Smise
di colpo di parlare, facendo un
profondo respiro, come se cercasse di riprendere il proprio
autocontrollo.
Naruto rimase immobile, attonito. Aveva sempre pensato ad Hinata come
ad una
persona determinata, gentile e profondamente controllata, incapace di
lasciarsi
andare in quel modo. Ora aveva appena visto sua moglie vomitargli
addosso un
fiume di parole cariche di amarezza e sollievo, come se non avesse
desiderato
altro per anni.
E
lui cosa desiderava? Forse non lo sapeva
più. Sentiva il bisogno di dormire per giorni, di svegliarsi
finalmente senza
occhiaie e vedere la sua famiglia che lo accoglieva con gioia. Era
stanco di
litigi, di dubbi, di preoccupazioni; era stanco di una vita che lo
prosciugava
lentamente, lasciandolo arido e vuoto, come un guscio abbandonato sulla
battigia.
“Cosa
vuoi, Hinata?” mormorò, passandosi
la protesi tra i capelli. “Vuoi che torni a stare con te ed i
bambini?”
La
kunoichi annuì.
“Sì,
voglio questo.” gli afferrò la mano
sana, stringendola con forza. “Voglio riprovarci. Voglio
potermi alzare la
mattina e vedere che al mio fianco c’è un uomo,
qualcuno consapevole di dover
migliorare ogni giorno. E voglio che tu la smetta di farti del male con
certi
pensieri.”
C’erano
molte cose che Naruto avrebbe
voluto dire in quel preciso istante: che amava Hinata, che le sarebbe
stato
sempre grato per quell’amore incondizionato, che non si
sarebbe risparmiato per
migliorare ancora come compagno e come genitore. Tutto quello che
riuscì a fare
fu un sorriso, ricambiando la stretta. In quel preciso istante, dopo
più di
dieci anni, finalmente capì perché si era
innamorato di Hinata Hyuga. Non era
per la sua bellezza, e neanche per la bontà e la gentilezza
che la
caratterizzavano. L’amava perché era come lui:
tremendamente imperfetta, una
persona con alle spalle più errori di quanti volesse
ammettere, ma
costantemente decisa a migliorarsi per raggiungere finalmente un
equilibrio con
le persone che amava. Si chiese se sarebbe stato ancora a sognare di
diventare
Hokage senza di lei, comprendendo quale fosse la risposta con un guizzo
di
amara consapevolezza nelle iridi celesti.
“D’accordo.”
sospirò, grattandosi la nuca.
“Proviamoci.”
Forse
era quello sapere perdonare:
accettare di dover sacrificare qualcosa per l’altro. Hinata
aveva sacrificato
parte del proprio orgoglio di donna per lui, capendo di non essere
migliore.
Aveva accettato di avere un marito imperfetto, così come
aveva riconosciuto di
essere imperfetta come moglie. Naruto non sapeva se questo avrebbe
permesso
loro di andare avanti come coppia o se ciò invece avrebbe
causato la fine della
loro relazione. Aveva deciso di ingoiare il proprio onore di uomo, di
togliersi
quella maledetta maschera da eroe, stanco di giocare ad essere quello
capace di
salvare il mondo con uno schiocco di dita. Era molto più
simile a Sasuke ed
ormai l’aveva capito. Sapere che tutto ciò era
stato compreso anche da Hinata
era un sollievo, perché gli permetteva di essere di nuovo
umano. Potevano
riprovarci, tornare a sostenersi come due vecchie stampelle imperfette,
vedere
come sarebbe andata a finire questa loro imperfetta, sciocca, stupida
storia.
Proviamoci
ancora una volta.
Guardava
quegli occhi chiari, simili ai
suoi, chiedendosi cosa pensasse di lei, se avesse mai provato amore,
affetto,
odio, disprezzo, disgusto. Un sentimento che testimoniasse che per lei
era
stata qualcuno.
Ne
sfiorò l’immagine con l’indice destro,
desiderando potersi immergere dentro, lasciandosi ogni cosa alle
spalle. Aveva
tante domande da rivolgerle, oltre ad un vuoto che solo quella figura
era in
grado di riempire.
Mamma…
Si
era sempre chiesta che persona fosse.
Con suo padre il rapporto era ormai cessato da anni, ed anche Ichigo
con gli
anni si era allontanato, impegnato a prepararsi a ricevere la propria
eredità.
La disperata ricerca di un legame famigliare puro, incontaminato
dall’arroganza
della sua famiglia, l’aveva fatta cadere in una spirale di
nostalgia e
rimpianto, chiedendosi se le cose sarebbero potute andare diversamente
con la
genitrice viva al suo fianco.
Forse
la sto idealizzando. Fissava
il soffitto affrescato della sua stanza, indifferente
all’avanzare
dell’oscurità, le iridi color zaffiro perse nel
magma dei propri pensieri. Non riesco proprio
a vedere papà che sposa
una persona gentile. Forse era anche lei una nobile arrogante.
Stava
diventando pericolosamente facile
per lei cadere preda di quelle domande, di quei dubbi. Era a conoscenza
che
sapere che persona fosse sua madre non avrebbe significato nulla di
concreto,
ma l’assenza di un vero legame famigliare era così
forte da portarla ad
arrovellarsi in simili quesiti. Della genitrice sapeva solo che era
originaria
del Paese del Fulmine, dove aveva dei parenti ancora in vita, ma suo
padre non
menzionava mai la famiglia della defunta moglie e per lei quegli
individui
erano al pari di qualsiasi sconosciuto.
E
la domanda tornava, ciclica e maligna:
che persona era sua madre? Era una brava persona? Una buona madre?
Un’altezzosa
snob? Chi era veramente Koi Yogonuchi?
Avrebbe
dato qualsiasi cosa per saperlo.
Ricordava ancora quando da piccola tempestava di domande Ichigo, ma
quest’ultimo le aveva sempre risposto che non voleva parlare
della genitrice.
Forse
era una persona magnifica, e il ricordo gli costava troppo dolore. Smosse
con un
calcetto un cuscino, la stanza ormai preda della totale
oscurità. Oppure era un genitore
orribile, ed il
ricordo lo sconvolge ancora oggi.
Quel
dubbio la tormentava. Era a
conoscenza che non sarebbe mai riuscita a risolverlo, ma lei voleva
sapere. Voleva
sapere chi era sua madre perché l’idea di essere
figlia di due persone miserabili
l’annientava. Avrebbe significato che tutto quello che aveva
fatto in quegli
anni era stato solo uno spreco di tempo, una futile rincorsa vuota.
Sarebbe
stata la fine di ogni cosa, la prova che entrare in Accademia non era
servito a
niente.
Il
pensiero dell’Accademia le deturpò i
lineamenti del viso, facendo nascere un sorriso amaro. Ricordava
benissimo cosa
l’aveva spinta a quella scelta, andando contro il volere di
suo padre. Per
Katashi era umiliante che sua figlia si abbassasse a fare il ninja,
nient’altro
che carne da macello in mano ai Kage. Lei l’ha pensava
diversamente in merito.
Era giovane, ma sapeva che quello non era il suo mondo. Era stanca di
vivere in
mezzo a gente altezzosa ed arrogante, di dover vedere le persone
fissarla con
timore reverenziale. Non voleva essere una nobile, non voleva passare
la vita
in una gabbia dorata. Diventare un ninja era la chiave per aprirla.
E
il coraggio per fare quella scelta, per
andare contro il volere di suo padre, era nato solamente grazie al
ricordo
della madre che non aveva mai potuto incontrare. Pensare a lei che
scappava
dalla Terra dei Fulmini, per sposare il suo vero amore, le faceva
venire il
desiderio di emularla, indipendentemente che quella storia fosse vera o
solo
frutto della sua fantasia.
Ma
ora non era più sicura di poter aprire
quella gabbia. Nessuno della sua famiglia era mai stato un ninja, e la
mancanza
di secoli di conoscenza alle spalle la metteva in una condizione di
inferiorità. Aveva studiato febbrilmente ogni libro che le
era capitato tra le
mani, cercando in quella marea di carta la conoscenza necessaria a
colmare
quella distanza. Ma più passava il tempo, e più
si rendeva conto che non
sarebbe bastata l’intera conoscenza dell’universo a
farle raggiungere il
livello dei suoi compagni, gente nelle cui vene scorreva il sangue di
ninja
vissuti centinaia di anni prima. Come poteva lei competere con Mirai o
Shigeru?
Si
girò di scatto, affondando la faccia
dentro un cuscino. Non voleva pensare ai suoi compagni. Non si sentiva
pronta a
farlo, così come non riusciva a pensare alla proposta
ricevuta poche ore prima
da Hanabi-Sensei. Era semplicemente troppo pensare che potesse
diventare
allieva di una kunoichi del livello di Sakura Haruno. Aveva letto molto
di lei,
imparandosi praticamente a memoria tutte le sue imprese durante la
Grande
Guerra, e questo non faceva che crearle una stretta allo stomaco,
causandole
nausea ed una bruciante paura. Lei non possedeva alcuna
abilità particolare,
nessun talento ereditario. Cosa poteva mai trovarci in lei una
combattente
leggendaria? No, avrebbe rifiutato. Non desiderava ricoprirsi di
ridicolo, e
presentarsi davanti a Sakura Haruno, chiedendole di prenderla come
allieva, era
un buon metodo per farlo.
Chiuse
gli occhi, desiderando il sonno, di
immergersi nell’oblio e dimenticare tutto e tutti.
Un
colpo secco ruppe il silenzio nella
stanza con la violenza di uno scoppio. Aimi si alzò di
scatto, le iridi chiare
che guizzavano da una parte all’altra della stanza, il cuore
che batteva
all’impazzata. Non sapeva neanche lei il perché di
quella reazione
spropositata. Poteva essere caduto un libro mal posto su una mensola,
oppure
una gruccia penzolante dentro l’armadio, ma la genin aveva
ben appreso i
martellanti insegnamenti di Hanabi sul non abbassare mai la guardia e
quel
rumore sospetto glieli aveva fatti ricordare.
Cosa…
non
fece in tempo a formulare il pensiero che udì il rumore di
prima provenire
dalla finestra. Si voltò di scatto, solo per ritrovarsi la
figura sorridente di
Mirai dietro il vetro.
“Mirai?!
Cosa diavolo…” La Sarutobi la
interruppe, facendole il cenno di aprire. Aimi obbedì
prontamente.
“Sei
impazzita?!” esclamò la Yogonuchi. “Cosa
ci fai qui?!”
“Ti
cercavo.” Mirai sorrise. “Perché non
mi hai mai detto che vivi in una reggia?”
“Che
cosa vuoi? Se gli addetti alla
sicurezza di mio padre ti beccassero finiresti in guai seri!”
“Ti
devo parlare.”
“E
vieni a farlo nel cuore della notte?!”
“Che
alternative avevo? Negli ultimi
giorni sei scomparsa.”
“Io…”
Aimi sospirò, indecisa se sentirsi
sollevata o arrabbiata nel vedere la compagna di Team.
“D’accordo, ma non qui.
Andiamo nel giardino.”
Poco
dopo, le due ragazze erano sedute su
una panchina adiacente ad un piccolo laghetto immoto, dove ninfee e
altre
piante acquatiche galleggiavano pigramente. Mirai sembrava incantata
dalla
visuale, ma Aimi la richiamò bruscamente.
“Che
cosa vuoi?”
la
Sarutobi sembrò per un attimo perdere
la sua baldanza, ma successivamente riprese a sorridere.
“Non
posso avere il desiderio di vedere
una compagna?”
“Non
girare intorno alle cose, Mirai.”
replicò la Yogonuchi. “Dimmi cosa vuoi dirmi e
sbrigati! Se ci beccano,
passeresti guai seri.”
“Non
importa.” la kunoichi bruna alzò lo
sguardo scarlatto al cielo, il sorriso di prima sempre impresso nei
lineamenti
del viso. “Sono venuta perché voglio che tu
ritorni ad allenarti come me e
Shigeru.”
“Non
vi servo. Potete cavarvela benissimo
anche senza di me.”
Mirai
abbassò le iridi, fissando in volto
Aimi.
“Non
posso raggiungere i miei obbiettivi
senza di te.” il sorriso divenne più accentuato.
“Siamo una squadra, ricordi?
Dobbiamo affrontare assieme le difficoltà della vita,
proprio come dice sempre
Hanabi-Sensei.”
Aimi
tacque. La menzione ad Hanabi-Sensei
le aveva fatto tornare in mente la proposta di quest’ultima.
Nel giro di poche
ore, due persone a cui era convinta non interessasse nulla di lei le
avevano
mostrato il contrario.
Forse…
mi sono sbagliata.
“Io…
ti ho sempre invidiato.” il sussurro
della Yogonuchi fu udibile solo grazie al silenzio che vigeva nel
parco. “
Quando eravamo all’Accademia… tu eri
sempre piena di vita, di gioia, pronta a giocare ed a scherzare su ogni
cosa. E
mi chiedevo… come fosse possibile. Quale fosse il tuo
segreto.”
Mirai
non parlò, lasciando alla compagna
il tempo di radunare il coraggio necessario a proseguire. Era sorpresa
che Aimi
avesse deciso di parlarle in questo modo. La vide turbata, come se ci
fosse
altro oltre alla sua visita improvvisa a preoccuparla.
“Sai,
anche io… sono cresciuta senza un
genitore.” le parole uscivano dalla sua bocca lente, una dopo
l’altra,
soppesate. “Ma ogni volta che ti guardavo… non
sembravi soffrire di questo.
Avevi un’energia che non avevo mai provato, qualcosa che mi
mancava.” sbuffò,
soffocando a stento una risata amara. “Forse è per
questo che ti ho preso in
antipatia. Non trovavo giusto che tu riuscissi a coesistere con questo
dolore
tanto facilmente. Ero invidiosa della tua voglia di vivere.”
“E’
per questo motivo che mi hai offeso e
denigrato per tutti questi anni?”
La
Yogonuchi scoppiò in una risata amara.
“Ho
sempre odiato essere una nobile.”
smise di ridere, le labbra incurvate in una smorfia carica di amarezza.
“Eppure… trovavo più insopportabile
vederti sempre così ottimista, piena di
vita e di gioia. Non sapevo se invidiarti od odiarti. Offenderti era
diventata
la mia arma contro di te, l’unico modo che avevo per evitare
di vedere quanto
miserabile ero.” abbassò lo sguardo, portandolo
sullo specchio d’acqua di
fronte. “Dopotutto… non sono tanto diversa da mio
padre. Troppo orgogliosa ed
arrogante per ammettere il mio essere una debole.”
Mirai
non rispose. Rimase in silenzio, a
riflettere su ciò che aveva appena sentito. Negli ultimi
mesi aveva imparato a
conoscere Aimi, passando dal detestarla ad un riluttante rispetto, per
infine
giungere all’amicizia che le univa. Ora, tuttavia, si rese
conto che lei, di
Aimi, sapeva ben poco e che quelle parole confessate a fatica le
conferivano
una persona diversa da quella che credeva, molto più
tormentata di ciò che si
fosse aspettato. La tragedia che le univa, l’assenza fin
dalla nascita di un
genitore, aveva preso due vie diverse con il passare degli anni; Mirai
aveva
avuto sua madre, Shikamaru, Temari, Kiba, Shino, Shikadai. Persone
capaci di
riempire quel vuoto dentro il suo cuore. Aimi non aveva avuto la stessa
fortuna,
eppure ora era quest’ultima a scusarsi, quasi fosse colpa sua
se non era stata
capace da sola di vincere quel vuoto dentro di sé.
“Io
non credo che tu sia debole.” la
Sarutobi mormorò quelle parole d’impulso, senza
pensarci. “Non importa cosa hai
detto, o pensato, fino ad ora. Siamo arrivate fin qui insieme,
no?” le sorrise,
un sorriso sincero, scevro da rancore o derisione. “Possiamo
andare avanti, e
diventare più forti! Come… amiche.”
La
Yogonuchi non disse nulla. Rimase
imbambolata a fissare la ragazza bruna, il cervello inceppato. Era la
prima
volta che qualcuno le parlava in maniera così spontanea,
priva di referenza per
il sangue che le scorreva nelle vene. Mirai era stata sincera, lo
percepiva, e
voleva essere amica di Aimi, ninja di Konoha, perché lo
desiderava e non per
reverenza verso il suo cognome.
Era
una sensazione magnifica.
Digrignò
i denti, sentendo le lacrime
premere per uscire. Improvvisamente, tutti i quesiti che si era posta
su sua
madre le sembrarono futili, nient’altro che una sciocchezza.
Che importanza
aveva se sua madre l’aveva amata o meno? Aveva
un’amica, una persona che voleva
che lei vivesse la sua vita libera, al suo fianco. Qualcuno desiderava
la sua
esistenza.
“Non
ti metterai mica a piangere, eh?” la
prese in giro Mirai, osservando la Yogonuchi voltarsi di scatto.
“Non
dire assurdità!” replicò
quest’ultima, tirando su pesantemente con il naso.
“Io non sto piangendo.”
“In
effetti… sarebbe strano piangere
quando uno ti definisce suo amico.” esordì una
voce bassa alle loro spalle.
“Shigeru!”
la Sarutobi sobbalzò,
strillando quando vide l’amico sbucare
all’improvviso dalle tenebre della
notte. “Volevi farmi morire di paura?!”
L’Aburame
scese da un albero vicino, le
lenti scure a coprire il volto nonostante fosse notte fonda ormai.
“Ti
ho vista muoverti di notte ed volevo
sincerarmi che non ti fossi cacciata nei guai.”
spiegò lo shinobi a Mirai.
“Oppure
eri preoccupato per Aimi ed anche
tu eri venuto per convincerla a tornare?” azzardò
quest’ultima, sorridendo nel
vedere il volto dell’amico tingersi di un bel rosso porpora.
“Ti
sbagli… io…”
“Eri
davvero preoccupato per me, Shigeru?”
la Yogonuchi sorrise dolcemente quando vide il compagno di squadra
balbettare
nel tentativo di giustificare la sua presenza.
“Ecco…
io, veramente…”
“Urra!”
Con uno scatto, Mirai mise le
braccia al collo dei compagni, strozzandoli in un abbraccio spaccaossa.
“Finalmente Aimi è tornata!”
“Non
urlare! Se vi scoprono, siete nei
guai!”
Ma
Mirai non ascoltò il consiglio dell’amica.
Cosa importava se venivano scoperti? Aveva trovato due amici, Aimi
avrebbe
nuovamente fatto parte della sua vita e stavolta nessuno gliela avrebbe
portata
via.
Rimarremo
insieme per sempre.
Nel
frattempo, nascosti nell’ombra della
notte, due figure osservavano dal muro di cinta quello strambo trio.
“Hai
visto? E’ solo andata a trovare
un’amica.” esordì la prima, in
equilibrio sulle proprie mani. “A volte sei
troppo apprensivo, Kakashi!”
Il
Sesto Hokage non spostò gli occhi dalla
figlia del suo defunto amico, ma le sue labbra si distesero in un
sorriso, ben
nascoste dalla maschera.
“Forse
hai ragione tu, Gai.” mormorò il
Copia Ninja. “Ma sai… ora che sono
l’Hokage, mi piace ancorarmi ai ricordi
quando mi concedo una pausa.” nell’aria si
udì il suono argentino della risata
di Mirai. “E lei ne riporta di dolci.”
Gai
non replicò, sentendosi in dovere di
rispettare quel silenzio, per non oltraggiare la memoria di Asuma.
“Ehi,
Kakashi!” la Bestia Verde di Konoha
si illuminò in viso, come colto da un’idea
geniale. “Visto che ci siamo… che ne
dici di una sfida? In ricordo dei vecchi tempi!”
Kakashi
non rispose subito, quasi non
avesse prestato ascolto all’amico, ma quest’ultimo
lo conosceva bene e sapeva
che stava solo riflettendo su quale risposta dare.
“Avanti!”
insistette il Jonin infermo.
“Siamo rivali, no?! Non crederai mica di essere avvantaggiato
per via della mia
gamba?!”
L’Hatake
proseguì nel suo silenzio, gli
occhi persi nel vuoto, immersi in un ricordo assai più amaro
di quelli
riguardanti l’amico Asuma. Era una memoria che sapeva di
polvere, di sangue, di
lacrime e di impotenza. E poi c’era lui, il suo sorriso, che
svettava sopra
tutto, anche quando scelse di morire per salvare tutti loro.
“Io
Madara, ti proclamo il più forte di tutti!”
Gai…
“Non
posso più essere il tuo rivale, Gai.”
mormorò il Copia Ninja. “Per poter ambire a quel
titolo, dovrei prima diventare
l’Hokage più grande della storia di Konoha, e non
lo sono.”
Gai
rimase sorpreso da quella frase. Con
un’abile spinta, si mise a sedere, tenendo la gamba inferma
rigida davanti a
sé, gli occhi piantati sul volto del suo rivale.
“Kakashi.”
il suo volto era stranamente
serio. “Non dirlo più, per favore.”
“Cosa?
Che sei più forte di me?”
“No.”
la Bestia Verde tornò a rivolgere lo
sguardo ai tre giovani sotto di loro, ignari di essere osservati.
“Non dire più
che non puoi essere il mio rivale.” sfoderò il suo
sorriso abbagliante. “Noi
siamo rivali, Kakashi! E questo non cambierà mai,
chiaro?!”
Il
Sesto si mise le mani in tasca, non
modificando minimamente la sua espressione facciale. Era abituato alle
esagerazioni melodrammatiche dell’amico, e gli andava bene
così, che gli
mostrasse apertamente quanto tenesse a lui. Era il suo ultimo amico,
l’unico
che era sopravvissuto a ben due Guerre Mondiali come lui. Gai gli stava
chiedendo di non lasciarlo solo con i ricordi, come se in due reggere
quel peso
fosse più semplice.
Sto
invecchiando. Non
c’era amarezza in quella constatazione, quanto più
rassegnazione. Aveva
trascorso gli ultimi dodici anni chiuso in un ufficio, a ricostruire un
continente raso al suolo, con Anko e Gai come ultimi, veri compagni.
Gli unici
che potevano comprendere come si sentisse. Eppure, solo dopo
più di dieci anni
di onorato servizio, cominciava a pensare a se stesso come un vecchio,
e capì
che presto avrebbe dovuto lasciare il testimone.
“D’accordo
Gai.” rispose, dando le spalle
alla nuova generazione, a coloro che erano cresciuti tra le macerie
dell’ultima
guerra. “Ma niente sfide.” le labbra gli si
distesero sotto la maschera. “Sto
diventando vecchio per queste cose.”
“Che
discorsi sarebbero, Kakashi?! Noi
siamo nel pieno della nostra estate! Abbiamo ancora moltissime energie
da
spendere!”
“Chissà,
forse hai ragione.” lo shinobi
albino sospirò. “Ma personalmente, credo che
presto mi prenderò una vacanza.”
“Potremmo
farne una. Stavo giusto pensando
a qualcosa del genere!”
“Dubito
che mi riposerei molto se mi
accompagnassi.” replicò il Copia Ninja, scoppiando
in una delle sue rare
risate, subito seguito dall’amico.
Perché
in fondo, era quello che facevano
gli amici.
Si
perdonavano a vicenda le colpe del
passato.
Entrare
alla luce del giorno in casa sua
fu magnifico, una sensazione così abituale che rimase
sorpreso di scoprire
quanto gli fosse mancata.
“Papà!”
con un urlo, Boruto si lanciò
addosso al padre, aggrappandosi a lui con tutta la forza che aveva.
Intenerito,
Naruto fece per accarezzarlo, quando quest’ultimo gli
tirò una scarica di
pugni.
“Sei
stato via per cinque giorni!” lo
accusò il piccolo Uzumaki, le iridi cerulee ricolme di
rabbia e risentimento.
“Avevi promesso che giocavamo insieme!”
Lo
shinobi tacque, rendendosi pienamente
conto per la prima volta del dolore causato ai suoi figli. Si ripromise
di
migliorare in futuro, per loro e per Hinata.
Sono
la mia famiglia… non posso farli soffrire così.
“Hai
ragione.” mise a terra il figlio,
inginocchiandosi per poterlo guardare negli occhi. “E ti
prometto che mi farò
perdonare.”
Boruto
sembrò sul punto di scoppiare di
gioia. Il sorriso sul suo faccino paffuto fece per allargarsi, ma poi
si
trattenne, quasi non volesse mostrarsi troppo soddisfatto di quella
risposta.
“D’accordo…”
borbottò, cercando di darsi
un’aria di importanza.
Ridacchiando,
Naruto scompigliò i capelli
del primogenito, solo per accorgersi che, nel frattempo, Hinata era
giunta
nell’ingresso, con in braccio la piccola Himawari. Lo shinobi
si perse per
alcuni istanti negli occhi chiari della moglie. Ci lesse rabbia, ma
anche tanta
determinazione: la convinzione che avrebbero superato anche quella
sfida.
Hinata…
Non
fece nulla. Non la ringraziò, né fece
promesse che erano state già pronunciate. Si
limitò ad abbassare lo sguardo sul
volto paffuto di Himawari, la quale lo guardava con i suoi occhi
chiari,
limpidi come la superficie di un lago, facendolo commuovere. Rivedeva
Lei in
ogni gioco di luce, ma era un ricordo dolce, non più
ottenebrato dal dolore o
dal senso di colpa.
“Sono
tornato.”
Hinata
sorrise, ma il suo non fu un
sorriso gioioso, quanto più di fredda determinazione. Naruto
comprendeva come
si sentiva, perché anche lui provava le stesse emozioni.
Sapeva che quella
riunificazione non sarebbe stata semplice, ma aveva tutte le intenzioni
di
vincere anche questa volta. Per se stesso, e per i suoi figli.
“Visto
che sei tornato, puoi cominciare
con il pulire i piatti della colazione.”
Naruto
sospirò, tuttavia invece di
sentirsi triste percepì una sensazione diversa.
Era… felice. Felice di poter
lavare i piatti nella sua cucina, in mezzo alla sua famiglia. Felice di
poter
finalmente accettato i propri errori, di averli compresi e lasciati
alle
spalle.
Ma
soprattutto, era felice della donna che
aveva sposato.
La
migliore al mondo.
Non
era sicura di quello che stava per
fare, affatto. Eppure non si fermò. Proseguiva, muovendo un
piede davanti
all’altro, chiedendosi però se non fosse diventata
semplicemente pazza.
Eppure
il ricordo dell’altra sera era
ancora così vivido dentro di lei, così dolce.
Capace di cancellare ogni dubbio,
ogni titubanza. Era ebbra di incoscienza, e non era ancora sicura se
tutta
quella sicurezza la galvanizzasse oppure la terrorizzasse.
Se
avessi
un minimo di cervello, me ne tornerei a casa.
I
suoi passi non smisero di muoversi verso
la destinazione prefissata. Era stanca. Stanca di litigi, di domande a
cui non
poteva rispondere, di non piacersi. Voleva cambiare, voleva spiccare il
volo,
voleva potersi guardare in uno specchio e vedere ciò che
desiderava: Aimi
Yogonuchi, kunoichi di Konoha.
E
per farlo doveva andare avanti.
Vide
l’ospedale di Konoha stagliarsi
davanti a lei, imponente e immenso. La sua spavalderia ebbe un fremito,
bloccandola
di colpo. Si chiese se davvero avesse le capacità di
diventare allieva di uno dei
Ninja Leggendari, un ruolo per il quale moltissime persone avrebbero
dato
qualsiasi cosa. Cosa aveva lei di più di tutti gli altri?
Determinazione? Forse,
ma non era convinta che fosse sufficiente.
E
poi li vide.
Vide
Hanabi-Sensei aspettarla davanti all’ingresso,
il volto rilassato e l’espressione sicura. Era convinta che
la sua allieva
sarebbe giunta, aveva piena fiducia in lei.
Fiducia…
Non
riuscì a trattenere il sorriso che le
piegò le labbra quando vide al suo fianco Mirai e Shigeru,
anche loro convinti
che sarebbe venuta, che avrebbe afferrato il suo destino a piene mani
assieme a
loro.
Ora
sapeva cosa aveva più degli altri.
I
suoi piedi ripresero a muoversi, animati
da una nuova sensazione calda, che le riscaldava il petto come
l’abbraccio di
qualcuno giunto dopo tanto, troppo tempo.
Aimi
ne era sicura: fino a quando fosse
rimasta con la sua nuova famiglia, quel calore non sarebbe mai
scomparso.
Grazie.
Era
pronta a spiccare il volo.
Angolo
dell’Autore:
Ehm…
salve! Qualcuno si ricorda di me?
Nessuno? Proprio nessuno? Ah beh, pace xD Diciamo che è
comprensibile, dato che
sono sparito da questo sito per circa un anno, causato da lavoro,
studio e
crisi del foglio bianco. Tuttavia, negli ultimi 2 mesi sembrerebbe che
tale
crisi sia passata, e posso riprendere questa storia/raccolta (per chi
vuole ancora
leggerla xD).
Detto
questo, ringrazio in anticipo
chiunque mi darà una chance dopo questo lunghissimo lasso di
tempo, e chiunque
vorrà scrivere un parere, positivo o meno, sul capitolo.
Un
saluto!
Giambo