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Autore: ___Page    31/01/2019    3 recensioni
«Allora, cosa mi raccontate?!» tiene un braccio sulle mie spalle mentre ci avviciniamo al tavolo. «Il lavoro? Il trasloco?».
«Abbiamo una piccola divergenza di opinioni sul citofono» racconta Ace con un sorrisone.
«Al lavoro tutto bene. Un po’ presi da un nuovo progetto. I Cloth Tattoo vanno alla grande».
«E al Castello?»
Law ghigna, come sempre orgoglioso del suo ospedale pediatrico.
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Ora al posto dello sterrato c’è una gittata di asfalto, per agevolare il transito di macchine e della linea di autobus che il comune di Raftel ha attivato apposta per collegare l’ospedale al centro città, ma, come quasi mai accade, non è una brutta visione. Questa strada è il preludio di qualcosa di così bello da rendere i miei ricordi su questa collina ancora più preziosi.
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«Oh santo…»
«Non t’azzardare» lo ammonisce la voce da dentro la maschera. «Pesa quanto me e caccia un caldo allucinante»
«E dire che sembra così confortevole» commenta bastardo Law.
«Grazie al cielo il resto del costume non mi va. Ma non si poteva dire ai bambini che il Dugongo Kung Fu si è slogato una caviglia. No. Perché avrebbero perso fiducia nelle arti marziali. Capisci, Law?! S’è slogato il cervello, altro che la caviglia!»
Genere: Commedia, Introspettivo, Sentimentale | Stato: completa
Tipo di coppia: Het, Shonen-ai | Personaggi: Altro Personaggio, Izou, Koala, Sabo, Sanji | Coppie: Nami/Zoro
Note: AU, OOC | Avvertimenti: nessuno
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Alle volte, nel mio lavoro, quando turni lunghi ed emergenze si cumulano in una sadica giostra karmica, si può avere la netta impressione di vivere all’ospedale.
Operazioni che si protraggono più del previsto o impreviste nella loro totalità, ricoveri dell’ultimo minuto che necessitano di una diagnosi in fretta e subito, terapia da modificare, aggiustare, sostituire che non possono aspettare il giorno successivo né il medico che sta per entrare in servizio.
Ci vuole abnegazione, ci vuole vocazione, ci vuole adattamento.
E io, per fortuna, sono altamente adattabile ma, nella mia adattabilità scado a volte nell’abitudinario. Come, per esempio, volere sempre il letto di sopra nella stanza che usiamo per il riposo durante i turni notturni, prendere il caffè alla macchinetta dell’atrio perché secondo me è più buona e consumarlo poi nell’ambulatorio del primo piano, una paradisiaca fetta di calma e silenzio.
Non mi ero mai accorta di queste mie piccole fisse, o comunque non le avevo mai identificate come tali, prima degli ultimi tre giorni. Ultimi tre giorni in cui sono andata a cercarmi emergenze che non c’erano e interventi non poi così necessari, pur di prolungare all’infinito il mio turno fino a poter arrivare ad affermare che non è come se vivesse al Castello.
Ci vivo proprio.
E il letto di sopra nella stanza del riposo è diventato di mia proprietà, la macchinetta dell’atrio il mio angolo cottura, l’ambulatorio del primo piano il mio soggiorno.
Vivo qui da tre giorni, quattro ore e trentasette minuti e ho lavorato ogni minuto di veglia per tenere la testa impegnata. Quando mi sono svegliata, domenica mattina, all’idea di vedere solo un’altra puntata di The Guardian, mi è venuto da vomitare. Così sono venuta qui anche se non ero di turno e da tre giorni mi sto nascondendo da Law e Praline, al punto che non so nemmeno com’è andata la serata di beneficenza.
Ma non posso farmi vedere, noterebbero le occhiaie, comincerebbero a farmi il terzo grado per scoprire da quanti giorni sono qui, la metterebbero sul legale e conforme secondo la legge. E sentire parlare di legge mi fa piangere come una fontana, perché, d’altra parte, ho talmente poco sonno in corpo che la mia sensibilità emotiva ha raggiunto le altitudini del Giant Jack e crollo per un nonnulla. E più rischio di crollare, più lavoro per tenermi impegnata.
Non ne verrò mai fuori.
Ne ho la conferma e riprova quando, attraversando l’atrio per raggiungere la mia macchinetta di fiducia, passo davanti al banco dell’accettazione.
«Ciao Praline» alzo la mano distrattamente e, quando la riabbasso, mi blocco a occhi sgranati. Che ho fatto?!
Avevo detto che dovevo evitarla, vero?!
Sì, sì l’ho detto.
L’ho evitata?!
No, non l’ho fatto.
Complimenti Ishley! Davvero complimenti vivissimi!
«Ehi, ehi, ehi! Piccolo fiore di loto!» mi richiama melliflua e io chiudo gli occhi rassegnata ed esito, valutando un istante se sia il caso di provare a darmela a gambe, se il gioco vale la candela.
Sono in privazione di sonno, il cuore spezzato, in astinenza da caffeina – motivo per cui mi sono recata qui –, in sovraccarico cognitivo e non esco dall’ospedale da tre giorni. A un’analisi superficiale, non sono nemmeno sicura che riuscirei a imbroccare l’uscita.
«Ehi!» mi giro, mettendo su il sorriso più entusiasta che mi riesce. «Non ci vediamo da un po’!»
Ah sì. Sì questo era decisamente il modo migliore per non addentrarsi nel territorio del “che hai fatto negli ultimi tre giorni”.
«Oh beh questo è sicuramente vero per te ma per quanto riguarda “me che non ti vedo da un po’”, le foto nel mio telefonino di te che dormi in posizione fetale dicono il contrario» sorride sadica e io sussulto e sbianco.
«Scusa?!» mi allarmo e poi indigno. «Mi hai fotografato mentre dormivo nella stanza del turno di notte?!» e non che Praline mi risponda ma basta guardare come allarga il sorriso e un tremito mi scuote. «Tu… Santo cielo, Praline! È inquietante e… e psicopatico! Sto pure nel letto rialzato!»
«È bastato chiedere in prestito la scala all’inserviente» minimizza con una stretta di spalle. «Volevo recuperare anche un faretto della lavagna radiografica per creare un effetto di luce angelica ma non c’è stato tempo. Oh non guardarmi così, dormi come un bebè, non ti saresti svegliata»
Ma, anche se non ho idea di come io la stia guardando “così”, non smetto affatto di guardarla “così”. Questa è la tua migliore amica, la donna a cui metteresti in mano la tua stessa vita.
Sei autodistruttiva, Ishley.
Ora capisco tante cose.
«E quindi, che hai fatto negli ultimi tre giorni?» mi sistema una ciocca di capelli dietro la spalla. «Come sta l’avvocato più sexy del mondo?»
«Ah io, io… io ho smesso di guardare The Guardian» scrollo le spalle e distolgo lo sguardo. «E non ho fatto nulla in part…»
«A-ehm»
Un’ombra compare ai margini del mio campo visivo. Un’ombra di bassa statura ma che riesce a essere pregnante nella sua ridotta e compatta imponenza. Capelli bianchi raccolti in uno chignon severo quanto la sua espressione, labbra strette e occhi limpidi e penetranti. È vestita impeccabilmente, bianco e beige, e stringe con entrambe le mani la testa a forma di gru del proprio bastone.
«Ma guardala, è tascabile» sorride Praline e la signora la fulmina.
«Praline» la ammonisco in un sibilo prima di rivolgermi alla nuova arrivata. «Possiamo esserle d’aiuto?»
«Mi spiace molto interrompere il vostro amichevole colloquio ma mi chiedevo se ci fosse un luogo qui dove sia possibile bere del vero tè e non quella brodaglia solubile della macchinetta»
«Oh» non trattengo una lieve sorpresa e scambio una rapida occhiata con Praline che inarca le sopracciglia. «Beh c’è la caffetteria» indico verso le porte a vetri interne che separano il bar dall’atrio. «Dovrebbero avere il tè in bustina e…»
«Non mi serve il tè, mi è sufficiente una tazza di acqua calda e ho ancora, incomprensibilmente, abbastanza fiducia nell’umanità da credere che in una caffetteria siano in grado di prepararmene una» mi interrompa e annuncia la vecchina, cominciando ad avviarsi mentre ancora parla. «Grazie mille per l’informazione»
La guardo allontanarsi con passo sicuro e per nulla claudicante, non il passo di qualcuno a cui diresti che serve un bastone, e mi verrebbe anche da ridere se non stessi inseguendo un pensiero che mi fa accigliare e parlare senza riflettere.
«Aspetti! È la nonna di Tama, vero?» avanzo di due passi, dietro di lei.
Non che l’abbia mai vista prima in visita, anche se è venuta a trovarla spesso, Tama me lo ha raccontato. E non è nemmeno qualche dettaglio nei racconti di Tama, come sarebbe potuto essere il bastone a forma di gru. È qualcosa, che nemmeno io riesco a identificare, nel suo sguardo, nella sua andatura, nel suo modo di parlare anche, così simile a sua nipote.
La signora si blocca e si volta, scrutandomi severa ma anche colpita. «Lei è…?»
«La dottoressa Habena. Mi occupo di Tama e…»
«Lo so» mi interrompe, continuando a squadrarmi. «È proprio vero che i pazienti non sono numeri ma persone in questo ospedale, mh? Mia figlia, a quanto pare, non esagerava». Non so cosa ribattere e rimango sempre più perplessa quando torna a voltarci le spalle e riprende a camminare. Ma, fatti due passi, parla ancora «Vieni con me, ragazza. Ti offro una tazza di tè»
Sgrano gli occhi, stupita e colta alla sprovvista, e mi giro verso Praline a… a fare cosa non so. Vorrei poter dire “a cercare consiglio” ma, per l’amor del cielo, si è fatta dare una scala dall’inserviente per potermi fotografare mentre dormivo con il sedere all’aria! Potrei cercare il suo consiglio se volessi commettere un omicidio e uscirne intonsa, quello sì.
Fortunatamente, non sembra esserci molto da porsi il problema di cosa fare e cosa non. È come se alla richiesta di questa donna non potessi resistere e corro leggera per raggiungerla, adattandomi poi al suo passo quando le sono a fianco.
«Io non bevo il tè» ci tengo a informarla, gli occhi fissi davanti a me ma lo sento, che si volta a guardarmi un istante.
«C’è sempre una prima volta»
 

 
§

 
Il tè è una bevanda che si ricava dall’infusione delle foglie fermentate della camelia sinensis.
Il tè può essere di cinque colori diversi, sulla base della fermentazione a cui le foglie sono state sottoposte, e il contenuto di trimetilxantina varia, a seconda della fermentazione, della temperatura e della durata dell’infusione.
Il tè è la bevanda più diffusa al mondo dopo l’acqua e ha una tradizione millenaria. Le modalità di preparazione e assunzione sono tante quante le culture che ne hanno fatto un rituale sacro e conviviale.
Il tè è qualcosa che non ho mai capito né apprezzato.
Il tè non mi piace.
O almeno, così credevo.
L’acqua sporca che ci propinavano al club del libro, preparato senza cura e di fretta, scadente e messo lì per una qualche non chiara convinzione di non so chi che facesse molto più intellettuale di un succo d’arancia o di una gassosa, quello non mi piaceva.
Ma ora, mentre osservo Tsuru dosare i germogli esiccati e trasferirli con sacra perizia negli infusori, che porta sempre con sé insieme a del tè in foglie, non vedo l’ora di assaggiarlo.
Non so nemmeno se per il tè in sé.
È la cura che mette in ogni passaggio, l’eleganza di ogni gesto che compie. Quello che per lei deve essere un’abitudine reiterata tre volte al giorno, se non di più, ai miei occhi appare come un sacro rituale, che questa sconosciuta sta regalando a me, Ishley Isabel Habena, per il solo merito di conoscere il nome e il volto di sua nipote, prima della malattia che la affligge.
«Mi sono rassegnata alla dilagante globalizzazione del tè in bustina. Un tempo ero più flessibile, ma gli anni passano anche per me e non ritengo di avere più così tanto tempo da poter rinunciare anche solo una volta a una tale prelibatezza» racconta mentre posa la pallina di maglia nella mia tazza e me l’allunga. «Un paio di minuti saranno sufficienti»
Me l’avvicino, afferrandola dal piattino, e lo faccio girare un paio di volte. Non ho mai bevuto qualcosa che avesse bisogno di attesa una volta giunto al tavolo.  
«Dunque signora Dai Sanbo…» comincio ma subito mi areno, a corto di argomenti di conversazione. Potrei aggiornarla sulle condizioni, per altro ottime, di Tama ma non è detto che voglia parlarne. I parenti di questi bambini vivono spesso con il costante pensiero dei loro pargoli chiusi qui dentro, e solo dopo una visita si concedono qualche minuto per svuotare la mente e pensare ad altro, o non pensare a nulla, magari davanti a una tazza di tè. «…ehm…» picchietto le unghie contro la ceramica variopinta.
«Tu chi sei? Qual è il tuo nome clown, intendo»
Per un attimo rimango a bocca schiusa, colta alla sprovvista, ma subito abbasso gli occhi e li rialzo dopo un istante con un sorriso. È normale che sappia queste cose e le ricordi. Gliele ha raccontate la sua nipotina. «Liquirizia» porto dietro l’orecchio una ciocca corvina scappata alla treccia e mi stringo appena nelle spalle. «Non è sicuramente il più originale dei nomi che si sentono qui ma…»
«Calza» mi frena Tsuru, con tono asciutto e un cenno solenne del capo. «E un nome più originale quale sarebbe?»
«Oh beh, per esempio…» Mago Mingherlino. «Forchetta!» esclamo con tono un filo troppo alto e subito mi schiarisco la gola. «È una delle migliori amiche del dottor Trafalgar, il mio…» migliore amico, fratello non di sangue, mentore. «…capo e ha scelto forchetta perché è una persona… beh, molto posata» la voce mi si spegne un po’ quando mi accorgo, ormai troppo tardi, che questa non sembra affatto una donna in grado di apprezzare una simile freddura.
E infatti quando azzardo una sbirciata, Tsuru mi sta osservando con l’espressione più piatta che abbia mai visto, fa un baffo persino a Law, e lo sguardo severo. «È pronto» si limita a ignorare ciò che ha appena sentito, indicandomi la tazza con la testa della gru, prima di posare nuovamente il bastone per dedicarsi al proprio tè.
Subito la imito, grata del diversivo, e alzo la tazza alle labbra, fermandomi un istante ad annusarlo. Il profumo è squisito e mi bagno appena la labbra, degustando attenta.
È amaro, ma non troppo, amaro il giusto e pieno, inonda le papille e riscalda il palato, la gola e il cuore, lasciando sulla lingua un pungente e rinfrescante retrogusto di mandarino.
Mi piace. Mi piace e, senza quasi accorgermene, sospiro e mi appoggio allo schienale della sedia, per un momento rilassata.
«Molte poche cose non si possono risolvere con una tazza di tè» riapro gli occhi e li punto in quelli di Tsuru che mi fissa da sopra il bordo della propria tazza. «Di queste poche cose, ce n’è una che una tazza di tè non può curare ma può indubbiamente aiutare a parlarne» riappoggia la tazza ma non toglie le mani e io mi acciglio.
«Cosa…»
«Lui chi è?»
La domanda è così diretta che non mi colpisce neanche al cuore. La tazza si agita appena nella mia mano e lo stomaco si rimescola per un attimo, insieme al tè.
«O lei. Sono una donna di larghe vedute per quanto non concerne il tè»
Boccheggio e mi guardo intorno, cercando una via di fuga che, di fatto, è ovunque e quindi mi chiedo perché sono ancora seduta qui. «Ahhh io… è… è… è un lui» confesso e prendo rapida un sorso di tè tanto per fare qualcosa. Scende caldo giù per la gola, ammorbidisce le corde vocali, calma lo stomaco, allarga un po’ il cuore. «Lavora qui come avvocato ma non è qui che l’ho conosciuto. Cioè sì, la primissima volta che l’ho visto sì, ma io avevo una maschera da dugongo e…»  mi blocco con le mani a mezz’aria, intente a gesticolare, quando noto l’occhiata di Tsuru. Rapida abbasso le braccia e mi aggrappo alla tazza. Troppe informazioni non richieste. «Si chiama Sabo» soffio il suo nome come un segreto. «E io ho rovinato tutto»
Prendo un respiro, un altro sorso di tè e, non so nemmeno io come, comincio a raccontare. Le parole escono una dietro l’altra, in una stringa continua, senza esitazione, precise, scendono nei dettagli, quelli essenziali, confessano tutto senza remore né inutili giustificazioni che mi racconto da giorni. Con lei non mi servono scuse. Con questa tazza di tè tra le mani, riesco a mettermi a nudo.
I minuti scorrono, insieme a qualche lacrima, e ordiniamo dell’altra acqua calda.
«Perciò…»si appresta a ricapitolare Tsuru mentre picchietta sul bordo della tazza il secondo infusore. «…lo hai lasciato perché ti ha mentito e non ti fidi più di lui?»
«No!» rispondo di getto e Tsuru si acciglia. «Sì, forse, non… non lo so…» esalo.
Mi passo una mano sul viso. Non mi riconosco, santo Roger.
«Ti fidi ancora di lui?» riprova Tsuru.
«Sì» rispondo di nuovo di getto ma stavolta non esito. «Sì, io mi fido di lui»
Mi fiderò sempre di lui.
«Perdonami, ragazza, ma, se ti fidi di lui nonostante la bugia che ti ha raccontato, se nemmeno questo ha minato la base del vostro rapporto, perché lo hai lasciato?»
La fisso a fiato sospeso e occhi sgranati.
Perché l’ho lasciato?
La verità è che da quattro giorni mi pongo questa domanda. Perché l’ho lasciato?
Non conosco la risposta o, meglio, sì, credo che sforzandomi appena sarebbe anche facile trovarla ma non voglio. Non voglio dirla ad alta voce, perché qualcosa mi dice che farebbe malissimo.
Eppure alla fine si riduce tutto a questo.
Perché l’ho lasciato?
Perché?
«Faccio un’ipotesi» mi avvisa Tsuru e non aspetta il mio consenso per continuare ma si concede comunque un momento per bere un sorso di tè. Avrei tempo di controbattere, volendo. Di chiederle di non immischiarsi, alzarmi e andare via. Potrei. Se davvero non voglio ascoltare, dovrei. Ma il punto è: davvero non voglio ascoltare? Perché allora i pochi istanti che le servono per posare la tazza mi sembrano durare un’eternità? Perché mi sento pendere dalle sue labbra? «La bugia in sé, non è un problema, me lo hai appena confermato. Non è averti mentito su una delle sue donne passate. È che ti ha mentito su questa donna in particolare, su Bibi» le unghie grattano contro la ceramica mentre ascolto attenta. Ascolto i miei pensieri prendere finalmente una forma, la verità che so da quattro giorni venire verbalizzata da una voce non mio. «Perché è dura reggere il confronto con una simile scelta, una simile storia. Quanto deve averla amata per rischiare il rapporto con suo fratello? Per mollare tutto e seguirla? Per infischiarsene delle malelingue?» distolgo gli occhi, che ora pizzicano e pungono e bruciano di lacrime mal represse. «E quanto deve amarla ancora, per decidere di nascondertela. Giusto?» Basta. Non voglio più stare a sentire. Non ha nessuna importanza, il motivo. È finita, ormai. «Ma quanto deve amare te, per venire meno al suo più grande principio, per paura di perderti?»
Le mani, strette al bordo del tavolo, e pronte a fare leva per spingere indietro la sedia e permettermi di alzarmi, allentano la presa. Torno a guardarla mentre lo stomaco si stringe, per la prima volta da giorni, in uno spasmo che di doloroso non ha nulla.
«Come?» esalo piano.
«Mi hai detto che è corretto alla nausea, che per lui la giustizia è fondamentale, che detesta le menzogne. Un cavaliere senza macchia, così lo hai definito. E per quanto, essendo umano, dei difetti li ha per forza anche lui e sono convinta che qualche bugia la racconta da sempre e sempre la racconterà, perché avrebbe dovuto mentirti su un dettaglio tanto importante e rilevante? Per tenere il piede in due scarpe? Ma a che scopo? Un ragazzo tanto bello, divertente e simpatico. Ha davvero bisogno di impegnarsi come ha fatto per tenersi una donna con cui fare sesso?»
Schiudo le labbra sotto shock. È come venire investita da un maelstrom, neanche Praline è così distruttiva.
«Perché non cercarla altrove? Anzi, perché non riprendere un aereo e tornare ad Alabasta, anziché portarti in giro per la città, ridipingerti casa, regalarti fiori e, in generale, fare quanto in suo potere per conquistarti? Lo aveva già fatto una volta»
«Io forse gli davo più sicurezza…» borbotto, ma non ci credo molto.
«Tu? La pupilla del fratello con la cui ex futura moglie ha avuto una relazione? Oh sì, hai ragione, le probabilità che tu non lo venissi a scoprire anche solo per sbaglio erano proprio a favore di Sabo. Ed eri senz’altro la scelta migliore per chiudere fuori quella storia per sempre ed eliminare qualsiasi anche remota possibilità che gli tornasse addosso come uno tsunami. Infatti è precisamente ciò che non è successo, giusto?» domanda retorica Tsuru.
Santo cielo.
Non mi sono mai sentita più stupida in vita mia.    
Ma non so se perché le parole di Tsuru suonano così logiche che non capisco perché non ci sono arrivata prima o se perché mi sto facendo convincere.
Ci voglio credere. Così disperatamente. Troppo per non domandarmi se la logica c’è davvero o voglio vederla io.
«Vorresti prendere il posto di Bibi?»
Sussulto appena al mio posto. Non so come faccio a capirlo, succede e basta. Non mi sta chiedendo semplicemente se voglio essere la donna di Sabo, questa domanda implica molto di più.
«No!» protesto «No, non potrei mai, Bibi… lei è stata troppo importante per lui, è parte di quello che è, della sua storia, io… i-io… se picchiasse la testa e la dimenticasse, sarei la prima a fare di tutto per fargliela ricordare!»
E non sono parole di circostanza. Perché io amo Sabo, sono sicura che lo avrei potuto amare anche prima di Bibi ma io mi sono innamorata dell’uomo che è ora, l’uomo dopo Bibi, e non cambierei una sola virgola di ciò che è, del suo presente o del suo passato.  
«Ebbene, ti fidi di lui, sei pronta ad accettarlo così e, anche se ti fa paura non essere per lui ciò che lui è per te, sei già scesa a patti in cuor tuo che non puoi essere il suo primo grande amore» sussulto appena e una lacrima mi graffia la guancia. Ma Tsuru sorride e si sporge verso di me. «Quindi, bambina, cosa ti impedisce di essere l’ultimo?»
Non ho mai compreso la frase idiomatica “avere le fette di salame sugli occhi”. Per quanto evocativa, mi sono sempre fermata a chiedermi perché proprio il salame. Non è qualcosa che metteresti sugli occhi. Delle fette di cetriolo avrebbero senso. O dei dischetti di cotone. Ma il salame sugli occhi, proprio no.
Quale che sia però l‘opinabile scelta lessicale il concetto non mi è mai stato così cristallino. Per quanto avrei ben più di una rimostranza contro l’eventuale insinuazione di me che ne vado in giro con una fetta di salame su ciascun occhio, al momento riesco solo a pensare a quanto sono stata cieca.
Ha ragione Tsuru.
Non posso sapere con certezza se Sabo abbia mentito su Bibi perché mi ama ma con certezza posso affermare che non lo scoprirò mai se non glielo chiedo. E se anche non mi ama, per il momento, mi basta che non ami più lei. Se il suo cuore è libero, farò qualsiasi cosa perché diventi mio. Farò tutto quello che posso per essere il suo ultimo grande amore.
«Ragazza, ti ho fatto una domanda» mi fa sobbalzare con il suo tono tagliente Tsuru.
«Non era retorica?» mi acciglio ma le basta un’occhiata per ottenere ciò che vuole. «Io» ammetto, con un lieve spasmo allo stomaco. «Io me lo sto impedendo»
Tsuru mi osserva un istante e poi annuisce solenne. «Sei intelligente. Le persone intelligenti apprezzano il buon tè» dichiara proprio ne prendo un altro sorso. L’ultimo. Devo andare.
«Tsuru io… non so come ringraziarla per… per il tè e per i consigli, la chiacchierata e…» saltello quasi sulla sedia, tanta è l’impazienza di andare.
«Ragazza, mi obblighi a rivalutare la mia ultima deduzione? Credevo fossi intelligente ma allora dovrebbe esserti chiaro che sono io che ho voluto ringraziare te per tutto ciò che hai fatto e fai per Tama» mi interrompe e mi lascia interdetta, senza parole e, per un attimo, immobile. Solo un attimo però. «Vai!» picchia il bastone a terra e io sobbalzo. «Cosa aspetti, vai da lui, bambina» mi sorride. «La vita non è poi così breve ma per il tè e per l’amore a volte neanche l’eternità è abbastanza. Vai, su» ripete ed è l’ultima volta.
Sorrido a mia volta e, con rinnovate energie, annuisco, mi alzo in piedi e scatto di corsa verso la porta della caffetteria.
Devo recuperare le mie cose, trovarlo, parlargli, scusarmi. Soprattutto scusarmi. Tipo ora, subito, immediatamente. Okay, Ish, cerca di essere razionale. Diciamo… entro un’ora, ecco! Sì, un’ora mi sembra un tempo ragionevole.
«Ehi Ish!»  
«Non ora Praline!» la fermo, alzando una mano e poi mi giro verso il banco dell’accettazione senza fermarmi e con un sorriso da un orecchio all’altro. «Devo correre dall’avvocato più sexy del mondo!»
Praline sorride e scuote appena il capo. «Sei una sgualdrinella!» mi avvisa tornando a suddividere le cartelle secondo non so quale criterio e io fingo che non lo abbia appena detto ad alta voce nel bel mezzo dell’atrio.
Addio per sempre, mia amata reputazione!
«Permesso, permesso, permesso!» entro in scivolata nello spogliatoio, preannunciando il mio arrivo, non che ci sia nessuno che rischio di urtare. È vuoto, tranne che per una sola persona.
Per un momento, il sangue mi si gela nelle vene, per la precisione nel momento in cui, grazie al mio discreto ingresso, solleva il capo, il cellulare all’orecchio, l’altra mano in tasca, e punta i suoi occhi grigi su di me.
«Aspetta, è appena entrata, chiedo a lei» si avvicina a grandi passi e io lo osservo, pietrificata. «Ish, Sabo andava da qualche parte oggi, che tu sappia?»
Lo guardo basita. A parte che non dovrebbe nemmeno volermi rivolgere la parola dopo la mia piazzata ma è proprio la domanda che non ha senso, oltre al fatto che si comporta come se tra me e Sabo fosse tutto a posto.
«È in malattia» rispondo confusa. Lo è da lunedì, Cora se l’è accidentalmente lasciato sfuggire.  
Law solleva un sopracciglio. «Credevo fosse una specie di codice e che stesse lavorando da casa. Sai per recuperare, domenica era bello pesto quando è venuto da te»
Il cuore mi sprofonda nello stomaco. Da me? Domenica?
«Non ero neanche a casa, domenica» esalo piano, gli occhi persi nel vuoto.
«Che vuol dire che non eri a casa» si allarma Law, nel suo modo molto composto di allarmarsi, mentre io comincio a tastarmi ovunque alla ricerca del cellulare. Dov’è?! Dove?! Devo chiamarlo, ora! «Credevo fosse rimasto da te, sono tre giorni che non torna a casa» socchiude gli occhi, quasi che fosse colpa mia se Sabo non è dove lui credeva.
Il cuore mi perde tutta una serie di battiti mentre avvio la telefonata, senza neanche rispondere a Law. Cosa potrei dirgli, dopotutto? È davvero colpa mia.
Lo squillo cadenzato risuona lugubre nelle mie orecchie, risucchiandomi il respiro a ogni “tuut”. Dai rispondi. Rispondi, rispondi. Sabo, amore, ti prego rispon…
«Pronto?»
Mi irrigidisco e sgrano appena gli occhi. Che cavolo…
«Chi parla?»
«Potrei farti la stessa domanda, pesciolina» risponde una voce ansante e che da tutta l’aria di stare slinguazzando a risucchio mentre parla.
Chi diamine è ora questo?!
«Posso parlare con il proprietario del cellulare che ho chiamato, per favore?» comincio ad alterarmi.
«Oh ma lo stai facendo. Questo cellulare è mio. Sono Caribou»
E chi se ne frega!
«Lo hai rubato» mormoro cauta. Non è un’accusa ma nemmeno una domanda.
«Oh no! L’amico biondo me lo ha lasciato»
«L’amico biondo?» ripeto, lo stomaco mi fa una capriola.
«Sì. L’amico biondo e generoso. Gli ho chiesto il cellulare e mi ha dato il cellulare. Gli ho chiesto le scarpe e mi dato le sc…»
«Dove?» lo interrompo, determinata. «Caribou, dove?»
«In un parco. Non ricordo quale»
E grazie tante! Dire “un parco” a Raftel è come dire “un geyser” in Islanda!
«Era depresso, il mio amico biondo» continua a blaterare lo slinguazzone. «Depresso e triste. Gli ho detto che se voleva tirarsi su, potevo accompagnarlo in un posto o due dove divertirsi» ride ansando e io stringo il cellulare così forte che rischia di accartocciarsi nella mia mano.
«Divertirsi in che s…»
«Ma lui ha detto che non poteva, che sta aspettando»
«Come?» esalo senza fiato, scossa da uno strano presentimento.
«E io ho provato a dirgli che poteva aspettare anche altrove ma lui ha detto che no, che doveva restare sulla panchina e non poteva alz…»
Chiudo brusca la telefonata, gli occhi nel vuoto, il respiro grosso, il cuore che batte a mille. So dov’è. So in quale parco. So dove andare.
«Ish…» si avvicina Law ma lo ignoro, lo spingo quasi via per raggiungere il mio armadietto, liberarmi del camice e recuperare la mia borsa. «Ishley»
«Non ora, Law!» lo fermo sul nascere, schizzando più veloce che posso fuori dallo spogliatoio. «Devo andare! Io… ti scrivo più tardi, ti faccio sapere!» prometto, accelerando a ogni passo fino a mettermi a correre.
Corro, senza guardare in faccia nessuno. Corro veloce, attraverso l’atrio e fuori dal Castello, nel parcheggio, dritta dritta alla mia Megalo e giù, lanciata verso Raftel. Giù, lanciata verso Sabo, pronta a tutto, a qualsiasi cosa per riportarlo qui, insieme a me, sulla nostra collina.
  
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