Storie originali > Generale
Segui la storia  |       
Autore: Vago    07/02/2019    2 recensioni
Vorrei riassumere qui la trama, se solo ce ne fosse una sufficientemente corposa da poter essere riassunta.
Volevo descrivere qualcosa, volevo prendere una pausa dai lavori più impegnativi che mi hanno riempito gli ultimi mesi, se non anni, ed è nato questo.
Un racconto in prima persona presumibilmente in quattro atti, vedremo se come ognuno dei miei lavori si trasformerà in una storia dai cinquanta capitoli.
Che cosa vuole essere?
Un racconto immersivo, fatto perchè voi, leggendolo, possiate percepire ciò che descrivo. In quel caso potrò dire di aver raggiunto il mio scopo.
Genere: Generale, Introspettivo | Stato: completa
Tipo di coppia: Nessuna
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
Capitoli:
 <<    >>
Per recensire esegui il login o registrati.
Dimensione del testo A A A
Non riesco ad aprire le palpebre, il terrore mi fa torcere le viscere. Sono bloccato e l’unica cosa che il mio corpo mi permette di fare è respirare affannosamente.
Una lacrima mi cola lungo la guancia, cadendo sul mento.
L’odore di bosco che mi avvolgeva è sparito senza lasciare traccia del suo passaggio, ora tutto quel che rimane nelle mie narici è un aroma neutro, un odore di aria privata di ogni contributo.
Tento di scostare le labbra, facendo fluire il flusso rotto del mio respiro attraverso di loro, facendo serpeggiare il fiato tra i denti socchiusi.
Il petto mi trema e con lui le spalle.
La testa mi si fa pensante, se solo non ci fosse stato il collo mi sarebbe caduta in grembo.
Qualcosa mi avvolge le spalle, mi corre lungo la schiena per accogliere il mio coccige e le gambe dopo di questo. Qualcosa di morbido, di accogliete, un tiepido abbraccio inanimato che non ha il coraggio di chiudersi.
Finalmente la goccia cristallina sgorgata dal mio occhio si decide ad abbandonare quell’ultimo lembo di pelle esausta che la tiene legata al mio volto, cadendo inesorabilmente verso un pavimento che non continua a cambiare la sua posizione nei miei confronti.
Un suono lontano, ovattato, timido si fa strada fino alle mie orecchie. Un rumore continuo ma mutevole che pare trovare il coraggio di mostrarsi per poi perderlo immediatamente e rifuggire al mio udito.
Cos’è?
Un tepore leggero comincia a scaldarmi la faccia, facendo inaridire il solco umido lasciato dalla lacrima ormai scomparsa.
Mi mordo il labbro superiore, ho bisogno di sentire qualcosa di certo a cui aggrapparmi per non precipitare nel vortice di follia che mi ha travolto.
Sento gli incisivi inferiori crearsi un solco nella morbida pelle senza tagliarla, stimolando i nervi che vi albergano sotto.
Una sensazione vera.
Deglutisco a forza, mentre il tepore diventa via via più reale davanti a me.
Costringo le mie palpebre ad aprirsi di scatto, con la consapevolezza che più avessi rimuginato sul compiere quest’azione, più mi sarebbe stata difficile da compiere.
Un caminetto mi si mostra davanti, con braci rosseggianti che riposano nel letto che le offre.
I ricordi del fuoco divampante mi attanagliano la testa, i muscoli reagiscono per istinto, spingendomi lontano da quella fonte di calore.
I piedi si puntano sul tappeto su cui poggiano, la schiena preme sul supporto morbido che la sorreggeva, due gambe della poltrona perdono il loro appoggio sul pavimento.
Cado all’indietro, senza poter far nulla per evitare la caduta attutita dal mobilio su cui mi ero ritrovato.
Un orribile lampadario da soffitto  che ricorda fin troppo gli anni sessanta mi guarda sarcastico dall’alto della sua posizione, con le lampadine alogene accese in uno sguardo divertito.
Credo.
Lentamente, strisciando sulla schiena, riporto i piedi al livello del terreno, alzandomi poi lentamente mentre cerco di capire do ve mi trovo.
La mano destra corre senza che me ne possa accorgere al collo, massaggiandone l’attaccatura con le spalle, indolenzita dal colpo appena preso.
È un appartamento piccolo sotto qualunque punto di vista lo si possa guardare. Quello dove mi trovo al momento è, presumibilmente, il salotto, una stanza pervasa dall’odore di polvere e cenere. Il tappeto su cui ora giace la poltrona dall’alto schienale imbottito coperto da un tessuto viola prugna ha perso gran parte dei suoi colori originali per colpa della poca cura riservatagli, divenendo così un ammasso di peluria grigiastra.
Il camino che tanto mi ha spaventato è piccolo, basso e incassato nel muro, un vetro annerito separa le mie membra dalla fiamma che, forse ore prima, aveva arso al suo interno.
Accanto a me un tavolino tondo in legno scuro, dalle gambe arcuate, rimane immobile a sostenere l’irrisorio peso di un centrino bianco probabilmente fatto a mano.
Le pareti sono nascoste alla vista da un’orribile carta da parati beige, su cui spiccano, con un motivo ripetuto fino alla nausea, centinaia di gigli violacei che cercano in vano di rendere meno triste la superficie su cui sono stati posti.
Una sola finestra, alta e stretta, si apre sulle pareti. Le ante della persiana sono chiuse, impedendomi di vedere il mondo esterno ma facendomi intuire, attraverso i suoi spasmi, la presenza del vento che la sferza.
Mi torno a mordere il labbro superiore, masticandolo con i gli incisivi posti sul lato opposto, tentando di attenuare le pessime sensazioni che mi pervadono il petto.
Devo trovare un modo per andarmene, prima che succeda di nuovo qualcosa.
Mi volto, là dove avevo intravisto con la coda dell’occhio lo stipite di una porta.
Eccola lì, un’uscita dall’incubo in cui mi sono trovato.
Un’uscita socchiusa.
Un’uscita socchiusa da dietro la quale mi guarda qualcuno di piccolo. O qualcosa.
Devo andarmene, nulla di quello che potrebbe aspettarmi dietro quell’antica tavola di legno potrà fermarmi.
Mi avvicino lentamente alla maniglia d’ottone gelida, stringendola lentamente tra le dita.
Prendo un’ultima boccata d’aria e tiro verso di me la porta, facendola ruotare sui cardini nascosti.
Un colpo di tosse mi travolge quando la figura nascosta nel buio corridoio successivo alla stanza riesco a riconoscere le forme di un bambino.
Dieci anni, non gli darei di più.
I capelli scuri sono corti, tagliati male. Il pigiama chiaro che indossa è troppo grande per lui, forse l’ha ricevuto da qualcuno cresciuto troppo per indossarlo.
Lui mi guarda con dei grandi occhi nocciola, forse troppo grandi per il suo viso allungato.
Poi mi prende la mano tra le sue dita piccole e mi tira a sé, verso il corridoio, spingendomi a seguirlo.
Perché non dovrei farlo?
È solo un bambino…
No!
Non devo. Devo trovare un modo di andarmene da qui.
Non devo farmi trascinare ancora più a fondo in tutto ciò.
Le mie gambe paiono non volersi fermare, come se tutto quello che potessero fare fosse il seguire la guida che mi tiene la mano.
Nell’oscurità riesco solo a riconoscere l’orribile carta da parati della stanza precedente che mi perseguita.
Poi una scala. Una scala in legno, prima coperta da un drappo violaceo, poi nuda, poi, ancora, non più di legno ma di acciaio, come una scala di servizio nascosta sotto un tetto.
Finalmente la mia piccola guida si ferma.
Siamo giunti a un piccolo pianerottolo senza nessuno scopo se non quello di permettere a chiunque fosse così sfortunato da trovarsi lì di accedere a una porta in acciaio dal maniglione antipanico rosso ben visibile sulla superficie asettica.
Il bimbo guida la mia mano fino al maniglione, per poi abbandonare quel contatto.
Cosa dovrei fare?
Il rumore che mi ha accompagnato dal mio risveglio sulla poltrona è più vicino, più possente, più battente. Mi circonda, rimbomba tra le pareti, rimbalzando tra soffitto e pavimento, facendomi tremare fin dentro le ossa, come una bestia che sferza le sbarre per potermi raggiungere.
Non dovrei uscire.
Non dovrei nemmeno aprire la gabbia che la trattiene.
Il mio braccio prosegue, spingendo il maniglione.
La serratura scatta all’improvviso, permettendo alla porta di aprirsi verso l’esterno.
Un vento pensante e pregno d’umidità mi investe la faccia e i vestiti, trasportando con sé le gocce di pioggia più intraprendenti.
All’esterno la tempesta infuria, il cielo è buio, non una stella riesce a filtrare nella coltre oscura.
Solo un bagliore che fluisce come un liquido dagli estremi  del tetto piatto che mi trovo di fronte ed è quello stesso bagliore che dona riflessi giallastri alle migliaia di gocce che cadono sul pano in cemento per unirsi alle pozzanghere che già hanno invaso il terreno.
Avverto la piccola mano della mia guida premere sulla mia schiena e spingermi verso quella bestia che sferza il cielo con quelle centinaia di schegge iridescenti.
Non riesco ad oppormi a quel consiglio, di nuovo le mia gambe si rifiutano di fare la cosa più sensata.
La tempesta mi avvolge, mi sferza, sento le gocce d’acqua battere sulla mia testa, sulle mie spalle, sul mio petto e le gambe.
Chiudo gli occhi.
Le gocce hanno oramai impregnato completamente i miei capelli, che si sono accucciati sulla cute e lì rimangono immobili. I primi rivoli cominciano a fluire lungo il collo, tracciando e percorrendo decine di sentieri per raggiungere la pelle ancora asciutta che si nasconde sotto i miei abiti.
I miei polmoni si svuotano.
I miei abiti si sono fatti pesanti, madidi di pioggia.
Non posso far altro che allargare le braccia e alzare il viso lucido verso il cielo.
Le gocce di pioggia rimbalzano sul mio viso, le sento tutte, potrei quasi contarle.
I rivoli hanno oramai raggiunto le caviglie, insinuandosi fin  dentro le scarpe che mi coprono i piedi.
Uno stretto sorriso mi si accenna sulle labbra.
La tensione, in un attimo, pare venir trascinata via dai flussi che mi scorrono sulla pelle.
Non so perché lo sto facendo.
Non so perché sono qui, su un tetto durante una tempesta, con le braccia larghe e il viso al cielo, senza neanche tentare di proteggere le mie membra già lerce d’acqua dalle gocce che continuano a sferzarmi.
Non so perché sto sorridendo.
Forse, dopo aver sentito il mio corpo bruciare e percepito i muscoli sciogliersi attorno alle ossa, forse, dopo aver dovuto assistere impotente all’opera di un mio carceriere mentre cercava di trasformarmi in cibo per gli alberi di un bosco e per la fauna che lo abitava, forse, questa è la cosa migliore che mi potesse succedere.
L’acqua mi scorre sul viso, percorrendone i tratti e pettinando i capelli in ciocche incollate secondo il volere del vento che la guida.
Il vento temporalesco mi danza intorno, mi corre addosso, investendomi, abbandonando sul mio corpo il suo carico bagnato.
I talloni mi si sollevano dal piano in cemento e dalla pozzanghera che mi si è creata sotto le suole e che, probabilmente, ora ospita la mia immagine riflessa rotta da decine di cerchi ondosi.
   
 
Leggi le 2 recensioni
Segui la storia  |        |  Torna su
Cosa pensi della storia?
Per recensire esegui il login oppure registrati.
Capitoli:
 <<    >>
Torna indietro / Vai alla categoria: Storie originali > Generale / Vai alla pagina dell'autore: Vago