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Autore: Vago    03/01/2019    3 recensioni
Vorrei riassumere qui la trama, se solo ce ne fosse una sufficientemente corposa da poter essere riassunta.
Volevo descrivere qualcosa, volevo prendere una pausa dai lavori più impegnativi che mi hanno riempito gli ultimi mesi, se non anni, ed è nato questo.
Un racconto in prima persona presumibilmente in quattro atti, vedremo se come ognuno dei miei lavori si trasformerà in una storia dai cinquanta capitoli.
Che cosa vuole essere?
Un racconto immersivo, fatto perchè voi, leggendolo, possiate percepire ciò che descrivo. In quel caso potrò dire di aver raggiunto il mio scopo.
Genere: Generale, Introspettivo | Stato: completa
Tipo di coppia: Nessuna
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
Capitoli:
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Lentamente quel calore abbandona le mie viscere, che come tizzoni si lasciano spegnere dal freddo vento notturno.
Rimango immobile, al gelo e al buio.
Cosa mi sta succedendo?
Perché a me?
Ho ancora un corpo da muovere?
Cerco di allargare le braccia, o, per lo meno, quello è ciò che il mio cervello ha ordinato a queste.
Le mie mani si muovono nell’oscurità, per poi arrestarsi violentemente contro qualcosa, generando un tonfo sordo.
Sento dolore.
Ho ancora delle mani, ho ancora delle braccia, sono ancora vivo.
Cerco di allargare i gomiti, sentendoli quasi immediatamente adagiarsi su una superficie liscia e dura da ambo i fianchi.
Alzo allora, le mani, là dove ci sarebbe dovuto essere il cielo, avvertendo quella identica lastra frapporsi all’intento dei miei polpastrelli di alzarsi ancor più.
Un brivido mi percorre la schiena, appoggiata al suolo, generando alla base del collo per scendere lungo la spina dorsale per raggiungere il bacino e i gomiti.
Involontariamente cerco di piegare le gambe, facendo sbattere le ginocchia contro quello che è il soffitto della mia prigione e riempiendo questa di un tonfo sordo.
Altri piccoli brividi salgono e scendono lungo il mio torace, come scosse di assestamento di un terremoto che non paiono aver intenzione di scemare.
Ho bisogno di capire che cosa mi sta succedendo.
Inspiro a pieni polmoni l’aria stantia che mi circonda, riempiendo le mie narici di un denso odore di polvere e qualcosa di dolciastro che non riesco ad identificare. So però di averlo già sentito, da qualche parte.
Nell’oscurità sento chiaramente il mio cuore battere all’impazzata, rimbombandomi nelle orecchie assieme allo sciabordare del mio stesso sangue.
A fatica chiudo gli occhi, prendendo qualche boccata d’aria attraverso le labbra lievemente aperte, quel tanto che basta per far sibilare l’aria tra gli incisivi e ricoprire la lingua di quell’odore pesante.
Lentamente il mio cuore rallenta la sua corsa, facendo diminuire il pulsare di quella vena sulla tempia destra che avvertivo chiaramente premere contro la mia pelle dall’interno.
I miei piedi scivolano lungo la superficie su cui sono adagiato, tornando a far distendere le gambe.
Ho delle scarpe? E dei pantaloni?
No, non devo farmi queste domande.
Rigetto il desiderio di riaprire le palpebre, costringendo le mie labbra a serrarsi di nuovo e il naso a riempirsi dei profumi che mi circondano.
Polvere, l’inconfondibile odore della polvere. Quell’odore di grigio, lo stesso odore che ricopre quei libri più nascosti sulle mie mensole, lo stesso che sentii quella volta, entrando in quella stanza dopo tutto quel tempo…
C’è qualcos’altro ad accompagnarlo, però…
Credo che sia odore di legno. Ma non legno vivo, non di corteccia né albero. È lo stesso odore spento che hanno i tavoli e le sedie antichi, quelli composti da assi trattate sommariamente.
L’odore dolciastro, però, ancora non riesco ad indentificarlo.
Sia la polvere che il legno hanno un odore secco, questo, invece, lo definirei cremoso.
Sembra odore di erba, ma non l’erba che riempie i campi in primavera o in estate, con il suo aroma pungente, questo è diverso, più mieloso e liquido, potrebbe sembrare quello di foglie secche bagnate. E c’è odore di terra, lo stesso odore di quelle zolle dissodate di recente, che ancora trattengono tra i granuli marroni accesi l’umidità che si lì si era annidata in cerca di riparo dalla luce del sole.
Non riconosco altri odori, oltre a questi.
Inspiro un’ultima volta.
Quello che mi circonda è un buon aroma, anche la nota di polvere che lo colora non è fastidioso.
Il mio cuore si è finalmente deciso a battere normalmente, permettendomi di deglutire il grumo di saliva che mi si era sedimentato in gola.
Permetto alle mie palpebre di scostarsi lentamente sul buio indistinto che mi circonda, piego poi leggermente il collo in avanti, finché la mia fronte non si appoggia al soffitto basso di quella cella.
Quanto sarò riuscito a sollevare il capo?
Poco meno di una decina di centimetri, credo. La mia cella, quindi, non sarà più alta di sessanta centimetri.
Sbatto un paio di volte gli occhi, cercando di far adattare le mie pupille al meglio a quell’ambiente.
Una piccola lama di luce fa sberluccicare la polvere che fluttua sopra di me, nascendo da un piccolo squarcio nel soffitto.
Lentamente, sforzando sugli avambracci e piegando il più possibile le gambe, mi trascino verso i miei piedi, almeno finché le mie suole o chi per loro si appoggiarono sul limite estremo di quel loculo.
Accosto con cautela l’occhio destro alla fenditura, cercando di carpire più informazioni possibili su ciò che mi circonda.
Due alte pareti di terra marrone acceso si ergono come mura ai miei fianchi, accompagnando il mio sguardo verso il cielo, celato da una volta di ossuti rami privi di foglie che a stento coprono le nuvole bianche che le sovrastano.
Un nuovo odore, o forse solo un aroma a cui prima non ero riuscito a dare un nome, mi tocca il naso.
Odore di umidità, lo stesso che precede l’arrivo della pioggia.
Una larga e rossa foglia secca compare sopra al mio campo visivo, trascinata lontano dal suo ramo da un vento che non riesco a percepire.
Piccole zollette di terra si disgregano attorno alla mia cella all’arrivo di un lieve vibrazione, seguita da una seconda e una terza, sempre più forti e vicine.
Un’alta figura si staglia sopra alla muraglia che mi circonda, resa indistinta dalla luce che le proviene da dietro.
Provo ad aprir bocca, a chiedere aiuto.
Le labbra si scostano, ma la lingua non sembra saper ancora fare il suo lavoro. Non un suono esce dalla mia bocca.
La sagoma nera alza un oggetto fine, reggendolo con entrambe le mani, poi una cascata di terra e sabbia investe il mio loculo, facendo tremare il soffitto al quale mi sono accostato.
Piccoli granelli mi cadono nell’occhio, costringendomi a scostare lo sguardo da quella finestra sul mondo circostante.
Un’altra vibrazione del coperchio e un’altra ancora.
Oramai nemmeno la flebile luce che penetrava da quella fenditura riesce a farsi strada fino a me.
Batto le mani e le ginocchia sul soffitto, ma non riesco a produrre nessun suono degno di attenzione.
DI nuovo il mio cuore si lascia avvolgere dal terrore, aumentando il ritmo dei suoi battiti fino a renderli colpi martellanti sulle mie tempie.
L’odore secco di polvere e legno e quello dolciastro del terriccio e delle foglie morte si sono fatti più pesanti, dandomi alla testa.
Il mondo attorno a me si fa astratto per i miei sensi utili, un caleidoscopio di sensazioni indistinte.e narici di un denso odore di polvere e qualcosa di dolciastro che non riesco ad identificare. So però di averlo già sentito, da qualche parte.
Nell’oscurità sento chiaramente il mio cuore battere all’impazzata, rimbombandomi nelle orecchie assieme allo sciabordare del mio stesso sangue.
A fatica chiudo gli occhi, prendendo qualche boccata d’aria attraverso le labbra lievemente aperte, quel tanto che basta per far sibilare l’aria tra gli incisivi e ricoprire la lingua di quell’odore pesante.
Lentamente il mio cuore rallenta la sua corsa, facendo diminuire il pulsare di quella vena sulla tempia destra che avvertivo chiaramente premere contro la mia pelle dall’interno.
I miei piedi scivolano lungo la superficie su cui sono adagiato, tornando a far distendere le gambe.
Ho delle scarpe? E dei pantaloni?
No, non devo farmi queste domande.
Rigetto il desiderio di riaprire le palpebre, costringendo le mie labbra a serrarsi di nuovo e il naso a riempirsi dei profumi che mi circondano.
Polvere, l’inconfondibile odore della polvere. Quell’odore di grigio, lo stesso odore che ricopre quei libri più nascosti sulle mie mensole, lo stesso che sentii quella volta, entrando in quella stanza dopo tutto quel tempo…
C’è qualcos’altro ad accompagnarlo, però…
Credo che sia odore di legno. Ma non legno vivo, non di corteccia né albero. È lo stesso odore spento che hanno i tavoli e le sedie antichi, quelli composti da assi trattate sommariamente.
L’odore dolciastro, però, ancora non riesco ad indentificarlo.
Sia la polvere che il legno hanno un odore secco, questo, invece, lo definirei cremoso.
Sembra odore di erba, ma non l’erba che riempie i campi in primavera o in estate, con il suo aroma pungente, questo è diverso, più mieloso e liquido, potrebbe sembrare quello di foglie secche bagnate. E c’è odore di terra, lo stesso odore di quelle zolle dissodate di recente, che ancora trattengono tra i granuli marroni accesi l’umidità che si lì si era annidata in cerca di riparo dalla luce del sole.
Non riconosco altri odori, oltre a questi.
Inspiro un’ultima volta.
Quello che mi circonda è un buon aroma, anche la nota di polvere che lo colora non è fastidioso.
Il mio cuore si è finalmente deciso a battere normalmente, permettendomi di deglutire il grumo di saliva che mi si era sedimentato in gola.
Permetto alle mie palpebre di scostarsi lentamente sul buio indistinto che mi circonda, piego poi leggermente il collo in avanti, finché la mia fronte non si appoggia al soffitto basso di quella cella.
Quanto sarò riuscito a sollevare il capo?
Poco meno di una decina di centimetri, credo. La mia cella, quindi, non sarà più alta di sessanta centimetri.
Sbatto un paio di volte gli occhi, cercando di far adattare le mie pupille al meglio a quell’ambiente.
Una piccola lama di luce fa sberluccicare la polvere che fluttua sopra di me, nascendo da un piccolo squarcio nel soffitto.
Lentamente, sforzando sugli avambracci e piegando il più possibile le gambe, mi trascino verso i miei piedi, almeno finché le mie suole o chi per loro si appoggiarono sul limite estremo di quel loculo.
Accosto con cautela l’occhio destro alla fenditura, cercando di carpire più informazioni possibili su ciò che mi circonda.
Due alte pareti di terra marrone acceso si ergono come mura ai miei fianchi, accompagnando il mio sguardo verso il cielo, celato da una volta di ossuti rami privi di foglie che a stento coprono le nuvole bianche che le sovrastano.
Un nuovo odore, o forse solo un aroma a cui prima non ero riuscito a dare un nome, mi tocca il naso.
Odore di umidità, lo stesso che precede l’arrivo della pioggia.
Una larga e rossa foglia secca compare sopra al mio campo visivo, trascinata lontano dal suo ramo da un vento che non riesco a percepire.
Piccole zollette di terra si disgregano attorno alla mia cella all’arrivo di un lieve vibrazione, seguita da una seconda e una terza, sempre più forti e vicine.
Un’alta figura si staglia sopra alla muraglia che mi circonda, resa indistinta dalla luce che le proviene da dietro.
Provo ad aprir bocca, a chiedere aiuto.
Le labbra si scostano, ma la lingua non sembra saper ancora fare il suo lavoro. Non un suono esce dalla mia bocca.
La sagoma nera alza un oggetto fine, reggendolo con entrambe le mani, poi una cascata di terra e sabbia investe il mio loculo, facendo tremare il soffitto al quale mi sono accostato.
Piccoli granelli mi cadono nell’occhio, costringendomi a scostare lo sguardo da quella finestra sul mondo circostante.
Un’altra vibrazione del coperchio e un’altra ancora.
Oramai nemmeno la flebile luce che penetrava da quella fenditura riesce a farsi strada fino a me.
Batto le mani e le ginocchia sul soffitto, ma non riesco a produrre nessun suono degno di attenzione.
DI nuovo il mio cuore si lascia avvolgere dal terrore, aumentando il ritmo dei suoi battiti fino a renderli colpi martellanti sulle mie tempie.
L’odore secco di polvere e legno e quello dolciastro del terriccio e delle foglie morte si sono fatti più pesanti, dandomi alla testa.
Il mondo attorno a me si fa astratto per i miei sensi utili, un caleidoscopio di sensazioni indistinte.
   
 
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