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Autore: wanderingheath    08/02/2019    0 recensioni
Norwall, Connecticut.
Melanie Prescott, nata e cresciuta tra le grandi vie di scorrimento in periferia, diventa l'obiettivo preferito di Cindy Butler e delle sue sottoposte. Abbandonata a se stessa nella scuola più prestigiosa della città, osserva con dolore legami ormai strappati e l'instabile equilibrio raggiunto dalla madre.
Dall'altro lato del vetro c'è Daphne Barnett, con gli storici amici Logan e James, che non riesce a trovare la propria voce e si aggrappa ad ideali di amori fittizi. E mentre lei si consuma per Ethan Sallinger, ragazzo travolto dalla corrente di eventi drammatici, Isaac Barnett finisce nella rete di criminali che opera nel "Black Market"; rete che coinvolge anche gli abitanti della società dabbene, baluardo di una finta integrità.
In questo labirinto sporco ed intricato si snodano le vite di comuni adolescenti, equilibristi in bilico tra prime esperienze amorose, relazioni interpersonali danneggiate, un passato ombroso e un futuro sbiadito. Soli in balìa di forze esterne, i ragazzi si ritroveranno annodati alle vicende di Norwall e alla migliore detective da poco tornata in città: Ellen Ward.
Otto drammi diversi ma non distanti, otto vite parallele che troveranno un punto di incontro per conoscersi e riconoscersi negli altri.
Genere: Angst, Introspettivo, Romantico | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het, Slash, FemSlash
Note: nessuna | Avvertimenti: Contenuti forti, Tematiche delicate
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Capitolo 6.

Sunday Afternoon






 
«Well, hold me against the floor
Find something to bind my hands
'cause I don't know where I have been

And I don't know what I have seen
But the puzzle is carved into me
And I know that I miss you
But I don't even know your name.»

 
4:20 p.m. – Casa Woods
 




 «Cosa significa che anche tu lasci?»
James strabuzzò gli occhi dall’alto della pediera su cui si era appollaiato.
Non poteva credere che le disgrazie venissero tutte in un colpo solo.
«Non ho molta scelta», replicò Jason in uno sbuffo.
Sua madre era stata ben chiara al riguardo: niente band finché non miglioravano i voti. L’anno scorso aveva rischiato la bocciatura e, secondo lei, la colpa andava imputata all’infinità di tempo che buttava sui videogiochi e a strimpellare note insensate.
Logan lo osservava con aria grave: «Hai provato a farla ragionare?»
«Tutto inutile, amico.»
Travor, intento a giocherellare con un vecchio trenino elettrico, scuoteva appena la testa. «Non sei mai stato una cima a scuola, Jas. La band non c’entra nulla con questo.»
Si meritò un’occhiataccia dal diretto interessato. «Sempre di conforto, Travor.»
Mentre gli altri sembravano rassegnarsi alla notizia, James scattò in piedi e prese a gironzolare per la stanza.
No, non la riusciva proprio a mandare giù quella storia. Il terzo abbandono della stagione: prima Gale, poi Travor, adesso Jason.  I Wild Spirits of the Seventh Splendor si stavano lentamente disgregando. Forse, nemmeno così lentamente.
Si bloccò al centro della camera, con una piroetta si rivolse all’amico, puntandogli un dito contro.
«Tu non lasci», decretò. «Ci penso io a farle cambiare idea.»
«E come?»
Un’occhiata scivolò lungo le pareti tappezzate da fotografie fino alla poltrona su cui si era isolata Daphne.
«Daphne cara, tu sarai la nostra carta vincente.»
Tutti in attesa di una risposta, di qualunque cenno di assenso, pendevano dalle sue labbra.
La ragazza, però, non pareva affatto connessa. Sintonizzata su un’altra stazione, su di un canale tutto suo, Daphne si era persa in qualche antro del proprio cervello; la fronte schiacciata contro il vetro della finestra, fingeva da ore di osservare il paesaggio, tradita dalle iridi spente.
«Daphne? Daph?»
Logan le schioccò due dita davanti al viso, strappandole un sussulto.
«Sei tra noi?»
L’altra annuì, spaesata e frastornata, come chi riemerge da un tunnel infinito.
 «Sei sicura?»
Jason la scrutava con preoccupazione. «Ti sei… disconnessa da più di un’ora ormai.»
Sconnessa. Così si sentiva in quel momento. Distante anni luce da tutto ciò che avveniva attorno a lei, a pochi metri di distanza, nella camera di Logan che non visitava da secoli; una bussola priva di magneti.
Percepiva al piano di sotto qualcuno che parlava al telefono in modo concitato e altre voci che si accalcavano le une sulle altre, contorcendosi in discussioni di poco conto.  
Vetri.
Schegge sparse ovunque che le precipitavano intorno. Lei solo un uccellino in gabbia, sotto una campana di vetro che esplodeva davanti al suo sguardo perplesso.
Il cielo crollava sopra.
Ricordava che inizialmente non aveva avvertito nulla.
C’era il corpo di qualcuno premuto contro il suo, l’intenso odore di ibisco che si diffondeva dalla giacca. Non riusciva a concentrarsi su altro. Destabilizzata, aveva abbassato le palpebre, strizzando forte gli occhi, i pugni serrati e le urla lontane che si disperdevano fin nella hall.
Iniziava a farle male il collo, compressa per più di un’ora in quella posizione scomodissima. Le membra, ormai narcotizzate, non le restituivano stimoli di alcun tipo.
«Sì,» una schiarita di voce, «certo che ci sono. Cosa dicevate?»
«Piano emergenziale per la band», ricapitolò Logan. «James ha pensato a te come nostra salvezza… davvero, Jay?»
Il biondo annuì, compiaciuto. «Dobbiamo risollevare la media di Jason. Per la band, ovviamente.»
Daphne parve rifletterci su per qualche istante, prima di bocciare qualunque proposta: «Io opterei per delle audizioni».
«Cosa?!»
Logan scuoteva il capo con risentimento, mentre Jason – genuinamente ferito dal possibile rimpiazzo – la osservava sbigottito. Si lanciarono in una cascata di proteste, sostenendo che la band non poteva essere smembrata e che esisteva un codice d’onore; non avrebbero abbandonato il loro amico alla deriva.
«Non mi pare che per Gale vi siate fatti tanti scrupoli.»
«Quella era un’altra storia, Daphne», ribatté Logan punto nel vivo. «Gale si era praticamente volatilizzato. Lasciare il gruppo è stato l’ultimo dei problemi.»
Lei preferì non replicare, richiudendosi in un ovale di silenzio.
Fu James a intervenire con un’aria del tutto nuova ad animargli lo sguardo.
«Sapete che però non è una cattiva idea?»
Gli altri due lo fulminarono sul posto. Trovare dei sostituti per Travor e Jason rimaneva un’onta.
«No, ma… momentanei», proseguì il giovane, «fino a quando non avremo risolto l’altra questione.»
Un’immagine gli aveva attraversato la mente in un lampo, mentre Daphne avanzava la proposta. Si trattava più di un’idea bizzarra, irrealizzabile, che dall’estate continuava a percorrere i binari del suo cervello, finendo inevitabilmente ad un punto morto. Non la voleva archiviare, però. No, perché rappresentava la possibilità di trasformare un semplice progetto, nato per divertimento, in qualcosa di più grande e gli si stringevano cuore, esofago e arterie al pensiero di gettare la spugna senza neppure un tentativo.
«A scuola stanno reclutando musicisti per la festa di Halloween.»
«E questo cosa c’entra, Jay?»
James agguantò un vecchio bloc-notes dalla scrivania, sventolandolo davanti al proprietario.
«C’entra eccome, caro Logan. Potremmo candidarci, se solo avessimo una band.»
«Per suonare davanti all’intero istituto?»
Travor lo guardava come se avesse appena proposto di tuffarsi in un cratere ricolmo di magma incandescente. «Dai, amico, lo sai che facciamo pena.»
«Non è vero!», protestò l’altro. «Facciamo pena adesso, ma abbiamo un intero mese per esercitarci.»
Jason si alzò dal pavimento, ripulendosi i pantaloni della tuta. Adorava la domenica proprio perché era l’unico giorno della settimana in cui gli era concesso vestirsi liberamente, senza badare al look che i suoi coetanei dell’Arcadian sorvegliavano. «La trovo una cazzata, Jay.»
«Tanto tu stai mollando, no?»
Era stata Daphne ad intervenire, meno pacata e comprensiva del solito. Nelle iridi castane pareva obliata ogni forma di condiscendenza, sostituita da un sentimento più fosco.
«Che t’importa? Lascia che tentino. Si tratta di un paio di audizioni, nulla di più.»
«Avreste appena un mese per reclutare perfetti sconosciuti, creare armonia e preparare dei pezzi soddisfacenti», osservò Travor con scetticismo. «Non siamo riusciti a farlo noi in tre anni.»
James puntava tutto su Logan, che ancora non si era espresso. Certo, significava lavorare il doppio – anzi il quadruplo – perseguire un obiettivo fisso, ammettere un eventuale fallimento, ma sarebbe stata la prima volta in cui impegnarsi davvero in qualche cosa, qualcosa che ne valesse la pena.
Logan incrociò il suo sguardo, il viso imperturbabile. Poi annuì, facendo tintinnare il ciondolo attorno al collo. «Sì, va bene. Ci sto.»
L’altro lo raggiunse sul materasso con un salto quasi acrobatico, per poi passargli un braccio attorno alle spalle e stringerlo a sé. E così, erano sempre loro due contro il mondo.
«Non avete nemmeno un posto in cui provare», disse Jason.
Ma James era già partito per la tangente e riversava idee su idee addosso al suo migliore amico, che intanto strappava un foglio dal bloc-notes, cercando inutilmente di stargli dietro.
«Allora, ci serviranno dei volantini, dei foglietti, qualunque cosa per sponsorizzare le audizioni. Dobbiamo attaccarle su ogni bacheca che troviamo, dentro e fuori l’Arcadian. Poi, abbiamo bisogno di un posto in cui tenerle, queste audizioni, e… di biscotti.»
La penna rimase ferma a mezz’aria, mentre Logan lo scrutava con la fronte aggrottata. «Biscotti?»
«Sì, da offrire alla gente che si presenterà! I candidati, insomma.»
Gli assestò una gomitata decisa, incitandolo a continuare a scrivere.
Daphne si massaggiò le tempie, stiracchiandosi appena sulla poltroncina. Concentrarsi su altro le avrebbe impedito di ricordare la nottata trascorsa, tenendo fuori quei – schegge di vetro tutt’intorno, stoviglie in frantumi, una pioggia d’argento sul suo capo, la giacca di Melanie – pensieri intrusivi.  
Interruppe l’elenco disordinato di James e gli scarabocchi confusi di Logan.
«Ragazzi, le uniche cose che vi occorrono sono: un batterista, un bassista e un tastierista. Al resto penseremo dopo.»
James prese a saltellare sul letto; un calderone scoppiettante che si caricava con l’entusiasmo e l’energia degli altri. Aveva bisogno di sentirsi supportato, viveva per quello.
Un paio di timidi colpi alla porta interruppero le sue acrobazie.
Il viso gentile della signora Woods fece capolino da dietro l’uscio, fulminato all’istante da un’occhiata di Logan. Detestava essere disturbato nella sua camera, nel luogo che da sempre considerava un personale fortino.
«Cosa c’è, ma’?»
«Scusate l’interruzione,» un sorriso compiaciuto, «vi rubo solo un minutino. Ho promesso ai colleghi di mio marito una torta alle ciliegie, così oggi ho voluto farne una di prova. Qualcuno si offre come cavia per assaggiarla?»
Con un salto perfetto James abbandonò il letto, atterrando in piedi di fronte alla padrona di casa. «Signora,» dichiarò in un serissimo tono da cadetto, «aveva già tutta la mia attenzione a “ torta”.»
Lui e Travor si precipitarono giù per le scale come segugi da caccia. Jason li raggiunse insieme alla signora Woods qualche secondo più tardi, preoccupato di doversi accontentare solo delle briciole.
Era incredibile, pensò Daphne, il modo in quei tre riuscivano ad illuminare qualunque ambiente in cui sostassero per più di dieci minuti. Si trattava di un vortice, un uragano di vivacità, composto da mille ali svolazzanti di farfalle: da quando aveva conosciuto lo strampalato trio, un pizzico di invidia si era impossessato di lei. Lei che non riusciva a costruire niente di solido, nessuna certezza, nessun rapporto a lungo termine.
Tutto ciò a cui si attaccava con disperazione era il bagliore di Alyssa, senza nemmeno crederci fino in fondo.
Provava ribrezzo per se stessa, per l’incapacità di trasmettere luce o anche solo di crearne di propria. Rimaneva una specie di vampiro; un pallido vampiro che si nutriva delle vite altrui.
Nemmeno si accorse dello sguardo penetrante di Logan, fermo sula sua figura da due minuti ormai.
Lo incrociò casualmente, sentendo uno strappo al petto nel momento in cui le loro iridi si trovarono. Giunse una domanda che non le aveva mai posto in tutti quegli anni.
«A che pensi?»
“Ai campi magnetici. A come non so crearli, ma solo sfruttarli.”
Daphne scrollò le spalle, evitando il confronto diretto.
«Nulla di specifico. Sono solo stanca.»
«Tua madre è ancora di sotto», rimarcò lui.
L’altra annuì piano, consapevole di quanto fosse inutile sottolinearlo.
Dell’irruzione a casa Woods, del cortocircuito di telefonate, dell’apprensione con cui sua madre contagiava chiunque capitasse a tiro, preferiva non parlare. La situazione appariva talmente assurda da destabilizzarla. Almeno le aveva dato la possibilità di rintanarsi lì, nella stanza di Logan, senza dover assistere al teatrino degli orrori che si stava svolgendo al pianoterra.
Notò che l’amico faceva per avvicinarsi, magari accovacciarsi a terra, ma glielo impedì. Schizzata in piedi a propria volta, lo superò in un paio di falcate.
«Dai, raggiungiamo gli altri.»

*  *  *
 
 
 
La camera appariva più buia del solito.
Valeva a poco o a nulla l’unica lampada accesa, sulla scrivania, con una campana d’orzo bruciato intorno.
Ethan si lasciò scivolare sul pavimento, sul tappeto persiano che avevano comprato secoli fa, durante un viaggio in India. Quel tappeto era entrato in casa anni prima della sua nascita e rimaneva più padrone del luogo di quanto lui sarebbe mai potuto essere. Diritto di primogenitura o qualcosa di simile.
Tapparelle abbassate, porta chiusa, si concesse di abbassare anche le palpebre, per un istante o due. 
La superficie del persiano era terribilmente scomoda. A differenza degli altri normali tappeti, quello era l’unico con dei villi ispidi che raschiavano guance, mani, polsi, caviglie, ogni centimetro di pelle scoperta.
Non gli piaceva proprio. In netto contrasto con l’arredamento spoglio, con il poster di Che Guevara - che lo scrutava con rimprovero dalla parete di fronte – e con quelli incorniciati dei The Clash; in netto contrasto con l’intera sfera di valori che si proponeva di mantenere intatta, quel tappeto arabescato aderiva al resto della stanza come un occhio nero, tumefatto al centro di un viso candido.
Lo disturbava terribilmente un pensiero simile.
Il suono della televisione, dalla cucina, fu l’interferenza finale.
Lo scroscio di applausi e risate in un quiz a premi di pessima qualità teneva incollata Yvonne, la cui risata risaliva il corridoio fino a lì. L’accendeva sempre, quando aveva finito di preparare la cena.
Alla sua compagnia Ethan si era ormai abituato. Non lo infastidivano più le dita grassocce, i modi sbrigativi con cui accumulava oggetti sparsi per rimuoverli da un tavolino, creando un’accozzaglia indistricabile di cianfrusaglie.
Non si poteva dire lo stesso di sua madre: non c’era stato verso di farle andar giù l’intera storia del trasferimento in casa loro.
Troppo buona, Yvonne, a tollerarla nei momenti in cui si imbizzarriva e s’impuntava su questioni di poco conto, come il ritrovamento delle chiavi di casa – assurdo davvero – in un luogo diverso dal solito.
Spostava le cose, e allora? Spostava anche suo padre, se era per quello, mentre Mrs Sallinger si voltava da un’altra parte e faceva finta di niente.
Ethan accostò l’uscio, evitando di fare rumore.
Quella sera, però, era toccato a lui sollevarlo, il padre; aveva dovuto prenderlo di peso, con entrambe le braccia, rischiando di farsi spuntare qualche ernia precoce alla schiena. Non era mai stato un tipo forzuto, lui.
Per la prima volta aveva apprezzato il fisico nerboruto di Yvonne e la dedizione che metteva nella fatica, nel dolore, pensando che si doveva nascere così devoti al prossimo, con una sorta di particolare empatia, per svolgere un simile lavoro.
O quello oppure le ristrettezze economiche; ma a lui piaceva credere nell’idea di un’umanità solidale.
Si avvicinò alla scrivania, sfogliando in modo svogliato il libro scolastico, per poi aprire un cofanetto che teneva su una delle mensole più alte, a cui nemmeno sua madre arrivava senza tacchi o in punta di piedi.
In mezzo a qualche regalo d’infanzia miniaturizzato, trovò la bustina che cercava, quasi del tutto vuota ormai.
Si rollò l’ennesima della settimana, la prima ed unica della giornata. Aveva preso a fumare più spesso, negli ultimi mesi, un po’ su consiglio di alcuni vecchi amici – o piuttosto conoscenti – e un po’ perché gli avevano concesso uno sconto sul recente acquisto.
Di nuovo supino sul pavimento, Ethan si concesse una boccata profonda, lasciando che il sapore acidulo dell’erba gli riempisse le guance, penetrando fin negli alveoli. Riaprì gli occhi solo per espirare, per osservare il fumo che si rivoltava nell’aria in spirali come un cavatappi.
Accese lo stereo poco distante e l’ultimo disco che vi aveva abbandonato riprese a suonare.
Il volume doveva tenerlo basso, ma a lui bastava un accompagnamento lieve ai propri pensieri, forse per foderarli, forse per anestetizzarli; la voce di John Lennon prese ad accarezzarlo soavemente.
Un momento di completo relax, alla fine di quella giornata allucinante, se l’era meritato.
Avrebbe dovuto ricordarsi di aprire la finestra e far arieggiare dopo, ma il tempo non gli mancava: sua madre era andata a ballare quella sera, non sarebbe tornata prima delle tre di notte.
Yvonne lo sapeva che fumava di nascosto. Forse era anche per quello che tra loro si era venuta a creare una reciproca tolleranza, un telo di condiscendenza: a lei i suoi drink occasionali davanti alla tv, a lui una canna ogni tanto in camera propria.
Si voltò su di un fianco, per raccattare l’ultimo libro che aveva preso in prestito dalla libreria scolastica. A dire il vero, quella doveva essere la terza o quarta volta che rileggeva Madame Bovary, ma al di là del fascino che esercitava su di lui, doveva consegnare il saggio entro lunedì ed era rimasto terribilmente indietro sulla tabella di marcia.
Stringendo il filtro fra i denti, Ethan recuperò dal letto anche quaderno e matita, per poi sistemarsi meglio sul tappeto. Aprì il libro a pagina trentadue, ma qualcosa gli atterrò sul petto come un missile.
Un semplice pezzetto di carta. Lo dispiegò perplesso, leggendo le brevi righe impresse sopra.
E tu? Perché non hai il coraggio di aprirla?
Riconobbe la propria calligrafia, ma il ricordo della citazione che vi aveva impresso lo colpì soltanto in un secondo momento, lasciandolo senza fiato. L’aveva del tutto rimosso.
Si sentì uno sciocco per aver scritto frasi insensate, per aver trascritto una citazione che risuonava fin troppo in basso nella propria gabbia toracica per poter essere condivisa. Non pensava che qualcuno l’avrebbe mai trovato o preso sul serio.
E invece, appena qualche rigo sotto, c’era una risposta.
Mi assicuro che qualcuno la tenga ben chiusa. Auto-sabotaggio.
La tua è aperta?

Ad Ethan si incresparono le labbra, un sorriso sgretolato. Gli restava difficile definire come si sentiva in quel momento; non era sorpresa a corrucciargli la fronte, ma curiosità.
Per qualche secondo rimase del tutto immobile, la matita a picchiettare sul foglio bianco, ma poi, dato un ultimo tiro allo spinello, si tirò a sedere, meditando su una possibile replica.
La porta in fondo al corridoio. Un corridoio buio, un futuro tetro.
Ci aveva riflettuto più volte, su quella banalissima citazione, chiedendolo più a se stesso che ad un ipotetico interlocutore, se avesse il coraggio di aprirla. Ogni volta che la rileggeva, gli pareva ripetesse sempre lo stesso concetto.
Infine, prese a scrivere. Sarebbe finito nel vuoto, nel nulla, quel messaggio; già pareva incredibile che fosse riuscito a raggiungere qualcuno per poi tornare direttamente a lui. Non avrebbe vissuto un secondo giro di danze, tanto valeva essere onesti.
Credo che lasciarla chiusa sia inevitabile.
Flaubert, secondo me, non parlava davvero di un corridoio, ma di una specie di tunnel. Il futuro è come un tunnel: oscuro, freddo, senza luce in fondo; lo prosegui dritto per dritto, ma una volta che arrivi in fondo quel che trovi è solo una porta sbarrata, che concede poco spazio all’illusione di scovare un’uscita.
La mia porta sul futuro è chiusa, ma in fondo è meglio così. Consiglio sempre agli altri di tenerla aperta, di non precludersi la libertà di vivere, ma il mio caso è diverso. È come se ci fosse qualcosa ad ostruirla, qualcosa di più forte a riassorbire ogni luce, ogni fessura d’aria.
La cosa davvero divertente, però, è che appare ineluttabile: lo devi percorrere, quel tunnel; lo devi per forza attraversare, il futuro. Perché l’alternativa è comunque il buio e allora tanto vale allungare la strada.
Però, caro Anonimo, ti confido che preferirei non avere la certezza di trovarlo così oscuro.
Abbandonò la matita a terra e, riposto il biglietto nel libro, andò a sollevare le persiane e a spalancare le finestre. Le tende profumate, sollevate da un vento notturno, gli avvolsero il corpo, schiacciandogli il viso.
Ethan chiuse gli occhi di nuovo, affidandosi a quello strano abbraccio.
Non avrebbe capito. Ammesso che potesse ricevere il messaggio criptato, non avrebbe capito, l’Anonimo, di che cosa diamine stava parlando. Si rendeva conto da solo che era un ammasso di frasi insignificanti, di riflessioni che lasciavano il tempo che trovavano, eppure quel pensiero non lo consolava.
L’idea che giungessero a qualcuno, le sue parole , gli regalava l’illusione di essere meno solo.
E forse, in fondo, nemmeno voleva essere capito, perché come avrebbe potuto spiegare – con quali vere parole, con quali espressioni pregne di significato – quello che aveva provato quel pomeriggio?
Gli lacerava il cuore, gli faceva stridere le budella, svuotava i sacchi lacrimali l’immagine che martellava dietro le palpebre.
Di suo padre, suo padre, riverso sul pavimento.
Lì, proprio lì l’aveva trovato. Sul pavimento dell’ingresso, il viso affondato nelle mani a coppa, squassato dai singulti. Suo padre che lo sollevava dalle ascelle o per la vita, suo padre che lo faceva roteare in aria come fosse stato lui il padrone del cielo; suo padre che lo teneva saldamente con un solo braccio, indicandogli un punto in fondo all’orizzonte, sopra il mare.
Suo padre che non tratteneva le lacrime, umiliato e debole come un verme.
Si era pisciato addosso.
Non trovava il bagno, imboccava stanze come in un labirinto – vi entrava e ne usciva in un secondo, disperato, anche se la loro casa si stendeva tutta su di un piano e contava al massimo cinque locali.
Era successo altre volte, un’infinità di volte a dire il vero, che scambiasse un luogo per un altro e ribaltasse la pianta dell’abitazione, fermo davanti al frigorifero convinto che fosse l’armadio e viceversa.
Sollevarlo era stata un’impresa, perché nemmeno ricordava come ci si alzasse.
Lui ci aveva provato, ma senza collaborazione diveniva impossibile.
«Coraggio, coraggio pa’,» gli aveva ripetuto trascinandolo sul pavimento come uno straccio, «un piccolo sforzo. Arriviamo al tavolo, d’accordo? Almeno alla sedia.»
Inutile. Tutto inutile.
E lì per lì, concentrato com’era su quella meccanica essenziale – puntare un piede, fare forza su una gamba, piegare l’altra – a malapena aveva registrato l’idea che avrebbe dovuto cambiarlo.
Fortunatamente Yvonne era rincasata in quel momento e ci aveva pensato lei ad accudirlo, mentre Ethan rimaneva a guardare apatico.
Si era sentito un verme. Chissà quanti pannolini gli aveva sostituito il padre, nel corso degli anni, e adesso lui non raccoglieva una briciola di coraggio per pulirlo.
Si faceva schifo.
Per lui, il futuro aveva la forma di una porta bianca, in legno, che si chiudeva su una stanza illuminata da cui uscivano cinque parole in una voce preoccupata, tinta d’imbarazzo: «Yvonne, chi è quel ragazzo?»
 
 

*   *   *
 



La partita terminò con un inaspettato pareggio.
Il fischio dell’arbitro decretò anche la fine degli allenamenti. La coach Britts, però, sembrava aver ancora qualcosa da aggiungere.
Si accostò loro a braccia incrociate.
«Siete troppo spompate oggi, ragazze. Cosa vi è successo?»
Ronnie fece un passo avanti, un sorriso malevolo sulle labbra. «Sarà l’assenza di Cindy, coach.»
All’unisono rapide occhiate furono scoccate a convergere sulla maglia numero sette.
«L’importante è che stia bene. Si unirà di nuovo a noi non appena le sarà possibile», decretò l’istruttrice. «Per oggi è tutto, ma voglio che cambiate questa attitudine. Chiaro? Meno mogie, più grinta, che ci servirà.»
Prese a battere le mani, l’abituale gesto per indirizzarle agli spogliatoi.
Melanie raccolse la borraccia d’acqua, asciugandosi il sudore dal viso.
Preferì indugiare in campo, fingendosi indaffarata a raccogliere i propri effetti. Il confronto con le sue compagne, nello spogliatoio, era proprio ciò che desiderava evitare quel giorno.
Da quando aveva messo piede all’Arcadian quella mattina, si era meritata una carrellata di sguardi di rimprovero, qualcuno perfino minaccioso. Non che la intimorissero, ma sentiva che erano legati all’incidente di sabato sera e non voleva ripensare alla festa di Cindy.
Avevano archiviato la questione con leggerezza: qualche teppista aveva scavalcato la sicurezza e si era divertito a scaricare la pistola sui presenti. La polizia si stava già occupando del caso, le telecamere avevano registrato tutto. Cosa c’entrava lei con tutto questo? O con il fatto che Cindy Butler fosse rimasta a casa, traumatizzata dagli avvenimenti quanto i genitori?
Che se la cavassero per conto loro.
La coach si era ritirata nel proprio studio, chiudendo un occhio sulla sua presenza prolungata in campo.
Avrebbe atteso che fossero uscite tutte per entrare. Odiava quelle limitazioni, il fatto che un mucchietto di ragazzine di sedici anni potesse condizionarla in quel modo, ma non aveva proprio voglia di litigare stavolta.
Nessuno le avrebbe scampato una sospensione, se si fosse azzuffata di nuovo.
«Melanie?»
Sollevò il capo, ancora accucciata a terra.
Nessuno la chiamava più per nome, tra i suoi coetanei. Se avveniva, era una rarità assoluta.
Riconobbe la figura slanciata di Alexandra Foster davanti a sé. Da quella posizione, appariva ancora più alta.
«Sì?»
«Credo che questa sia tua.»
Le stava tendendo una fascia per capelli di un blu elettrico.
Melanie si mise in piedi, annullando l’irrazionale senso di soggezione che provava.
«Non ci posso credere! L’avevo data per dispersa ormai. È da più di una settimana che la cerco.»
Se la rigirò fra le dita; il tessuto liscio scivolava piacevolmente sui polpastrelli. Ci teneva molto, a quella fascia. Non l’avrebbe mai ammesso davanti a degli estranei, ma era un regalo del fratello e capitava di rado di riceverne. Gliel’aveva comprata proprio in vista degli allenamenti, suscitando nella zia Lydia una crisi di coscienza: cosa sarebbe stato peggio? Vedere sua nipote con quell’orribile coso antiestetico spiaccicato sulla fronte oppure pensarla con i capelli fradici di sudore?
«Dovresti tagliarli», aveva decretato, come se la decisione spettasse a lei.
Melanie guardò la propria compagna con ammirazione. «Dove l’hai trovata?»
«Era nell’ufficio della coach, dietro un armadio. L’abbiamo scoperta per caso, a dire il vero.»
Senza accorgersene, si ritrovò ipnotizzata dalla voce cristallina di Alexandra. C’era qualcosa, in quella ragazza, che suscitava l’invidia di qualunque coetanea, ma definire con esattezza un motivo sarebbe stato impossibile. Si aveva l’imbarazzo della scelta: media altissima, portamento aggraziato, fisico asciutto, capitano della squadra di pallavolo femminile, pacata e sempre composta. E nonostante tutto, risultava anche popolare con i suoi modi di fare spontanei e aperti al mondo. Le restava impossibile immaginare sentimenti negativi depositarsi sul viso buono, gentile, di Alexandra Foster.
Così, le credette al volo.
«Beh, grazie.»
«La porti sempre, durante gli allenamenti», spiegò l’altra. Si sentiva come in dovere di proseguire la conversazione, ma Melanie non necessitava di altre delucidazioni.
«Ci tengo molto», tagliò corto.
Datele le spalle, ritornò al proprio minuzioso lavoro di raccolta di oggetti inesistenti. Alexandra, però, non dava segno di volersi allontanare. Piantata dietro di lei, le mani conserte e la chioma d’ebano raccolta in una coda, poteva percepirne lo sguardo indagatore sulla schiena.
Non poteva continuare quella pantomima. D’accordo, avrebbe affrontato gli spogliatoi.
Prima, però, che potesse allontanarsi, una notazione la pietrificò sul posto.
«Ho saputo della festa di Cindy Butler.»
Bingo.
Pareva destinata a sostenerla, quella dannata conversazione.
Senza il coraggio di fronteggiarla direttamente, Mel si mordicchiò un labbro. «Ah sì?»
«Ne parlano tutti a scuola», proseguì Alexandra con tono enigmatico. «Ma girano anche molte sciocchezze.»
Per quanto le doti di discernimento della compagna la rallegrassero, a Melanie non importava niente delle voci che circolavano. Sperò di liquidare la faccenda in fretta. «Una sparatoria fa notizia.»
«Già, ma vuoi sapere cosa penso?»
In realtà non lo voleva sapere, ma sentiva che si trattava di una domanda retorica.
Come previsto, Alexandra proseguì sul proprio binario.
«Penso che ci vuole coraggio, a fare quello che hai fatto.»
Silenzio.
Nella palestra solo il ronzio della corrente elettrica, di un paio di lampadine giunte ai minimi termini, e più distante il fruscio di docce e conversazioni tra ragazze.
Melanie sentì dilatarsi il cuore, ma contrarsi i polmoni.
Cercava un accenno, uno sputo, di ironia o rimprovero nel tono di voce, ma non lo trovò.
Era sincera?
Alexandra parve cogliere quel senso di diffidenza e lo ammorbidì, manovrandolo con delicatezza.
Provava, in punta di piedi, a scrutare il viso della compagna di squadra, di indovinare cosa le stesse passando per la testa in quel momento, ma Melanie era eclissata.
«Non è da tutti, mettere a repentaglio la propria vita in quel modo. Ti ammiro. Io non sarei stata capace.»
“Ti ammiro”.
Funzionò come un cacciavite, sbloccando qualche ingranaggio contorto. Melanie si voltò verso di lei.
«Dovevo farlo», replicò semplicemente.
«Ti sei lanciata senza esitazione, hai rischiato di prenderti un proiettile in pieno petto», Alexandra era concitata adesso, agitata al solo pensiero. «Credimi, non è da tutti,» ripeté scandendo le parole, «sfidare la morte per una persona qualunque.»
Melanie la guardò con le labbra serrate.
Era bastato un attimo. Un attimo, nell’uscire dalla toilette, per notare un uomo armato che puntava la pistola nella loro direzione; un attimo per agire e spingere Daphne dietro al bancone mentre il colpo partiva e fendeva l’aria, sfrecciava sulla specchiera, frantumava il cristallo che trovava in un fragore stridulo.
Ricordava solo di aver pensato che sembrava un fiore. Tutti quei vetri dispiegati sopra di loro come la corolla di un fiore, di una ninfea che sbocciava. Che ci potesse essere così tanta grazia nella distruzione, non l’avrebbe mai immaginato.
Una smorfia amara le piegò le labbra, mentre scuoteva il capo.
«Beh, non era esattamente “una persona qualunque”.»
Alex sollevò un sopracciglio. «Ah no? Vi conoscevate?»
«Sì…», riusciva appena a strascicare le parole. «Diciamo che… ci conoscevamo.»
«Comunque ti fa davvero molto onore, un gesto simile.»
«Grazie. Sei la prima a dirmelo.»
“E probabilmente anche l’unica”, pensò con una tinta più aspra, ma preferì tenerselo per sé.


 
*   *   *
 
 
 
«Non ci posso credere. Lo state facendo per davvero.»
Travor era rimasto sbalordito davanti alla bacheca, davanti l’aula di fisica, ricoperta di volantini gialli.
Jason, accanto a lui, ne staccò uno con disgusto. «Ma poi… cos’è questa roba? Giallo canarino? E dai, sul serio?»
Li avevano fatti stampare la sera prima in una copisteria del quartiere e sparsi per l’istituto da quella mattina.
«Hey, non criticare l’estetica», protestò James, riafferrando il volantino. «Saltano all’occhio.»
Logan si accostò loro estraendo un’altra pila di locandine e puntine da disegno. «Otterremo un successone.»
Travor mugugnò qualcosa come “contenti voi”.
La comparsa del professore di Fisica catturò l’attenzione di tutti, facendo scivolare il discorso sulla gita imminente.
«Si è fissato con questa stronzata», spiegò James. «Vallo a capire.»
«Lui e uno di biologia si sono messi d’accordo», disse Logan. «Vogliono fare quest’escursione, non ho capito nemmeno bene dove.»
La gita in questione, prevista per quella stessa settimana, avrebbe dovuto ampliare gli orizzonti degli studenti – a detta del Professor Jeggins – e permettere loro di riconnettersi con il mondo vegetale e il paesaggio.
Una riserva naturale, situata ad un paio di ore di pullman da Norwall, immersa nel verde: il luogo perfetto per annoiare una scolaresca sulle caratteristiche geomorfologiche del territorio.
Jason domandò cosa c’entrasse la Fisica con altre scienze coinvolte più direttamente.
«Jeggins ha detto che è un progetto multilaterale», rispose James con uno sbuffo.
«Multidisciplinare», lo corresse Logan. «Amico, credevo nemmeno conoscessi il significato di “multilaterale”.»
«Anch’io», confermò l’altro in una scrollata di spalle.
Daphne li raggiunse alcuni minuti più tardi, trovandoli intenti a tappezzare i corridoi di plastica gialla.
«Di nuovo all’opera, eh?»
James fece battere i tacchi delle scarpe, portandosi una mano alla tempia: «Sempre, Generale Barnett.»
«Ne ho distribuiti un paio anch’io, a lezione.»
Logan si scambiò un’occhiata complice con gli altri due: «A chi? Ad Alyssa?»
«Se lo sapesse, la tua reputazione sarebbe morta. Caput.»
L’altra gli restituì una smorfia e con essa i manifesti restanti, prima di assestargli una gomitata allo stomaco.
«Vieni anche tu in gita?», le domandò James.
«Se intendi quella alla Turtle Rill Reserve, sì. Ci sarò purtroppo.»
Travor, appoggiato ad un armadietto, ridacchiò ironico. «L’unica riserva sulle tartarughe che non presenta gli omonimi esemplari.»
Alle occhiate inquisitorie di tutti, rispose con un semplice: «Mi ci hanno portato da bambino.»
«Eviterei volentieri le ore di pullman e la levataccia», sospirò Daphne.
«Sempre così pigra», la rimbrottò Logan e, strappata una delle tante locandine per attività formative pomeridiane, la rifilò all’amica quasi fosse stata una cura miracolosa. «Dovresti provare questo.»
Daphne la spianò con estrema pazienza. Su uno sfondo carminio spiccava un logo fin troppo ambizioso, costellato da un paio di maschere e delle stelle cadenti. Un proiettore illuminava una fetta di palcoscenico dal quale un giovane di esile costituzione si atteggiava in una posa plateale davanti ad una fila di poltrone oscurate.
“Divertiti per divertire, commuovi per commuovere! Un atto di puro piacere, in cui scegli tu che parte avere. Vieni nell’Aula Rossa per una prova senza impegno.”
Sollevò lo sguardo basita, un’espressione di puro disgusto.
«Il club di teatro?»
«Perché no? Ti ci vedo a fare Giulietta», ironizzò l’altro.
Daphne l’accartocciò in uno sbuffo, facendola scivolare nello zaino.
In quel momento, Logan assestò una gomitata all’amico, accennando con il capo ad una figura in disparte intenta a trafficare con il proprio armadietto. «Hey, Jay, ma non è quella la tua fiamma?»
Jason si mise sull’attenti come un segugio che abbia fiutato una pista e Travor gli diede manforte.
«Come, come, come?»
«La tua fiamma?»
Daphne gli assicurò un lieve pizzicotto al braccio: «Non ci starai nascondendo qualcosa, Jay?»
Il diretto interessato si limitò a fulminare il proprio storico amico con un’occhiata particolarmente truce. Logan sollevò le mani, decidendo di togliersi d’impaccio. «Non guardare me, amico. Sei tu quello cotto.»
Alla fine James fu costretto a cedere.
Sosteneva di aver conosciuto Frances Hurst, la nuova arrivata, l’estate scorsa, durante la permanenza in Florida. Si erano incontrati casualmente ad una serata in spiaggia, lui l’aveva puntata da qualche giorno ormai, ma lei trascorreva i pomeriggi in isolamento a leggere e la sera diventava impossibile separarla dal gruppo di coetanee con cui ballava.
«Jay, non dirmi che questa è quella storia», lo interruppe Jason.
«No, è tutto vero, ragazzi.»
La debole protesta strappò a Travor una risata sarcastica. «Certo, come no. Soprattutto se è quella storia.»
«Quale storia?», s’informò Daphne.
 «La storia di come James ha perso la sua verginità», spiegò Jason ridacchiando. «Ovvero, del suo buco nell’acqua, questa estate.»
James parve risentirsi. Era il primo a scherzare, naturalmente portato alle buffonate, ma quell’argomento era fin troppo serio per poter essere ridicolizzato.
Non ricordava il suo nome, d’accordo; quella notte era totalmente sballato, d’accordo, e la nuova studentessa portava i capelli molto più corti rispetto alla ragazza con cui si era scatenato in pista, ma non aveva dubbi che fossero la stessa persona. In pista erano rimasti per la maggior parte della nottata, almeno fino alle due, e quando lui aveva tirato fuori dell’erba, lei aveva semplicemente fatto un paio di tiri, prima di chiudere le sue labbra tra le proprie: difficile scordare una così. Per non parlare poi, del bagno notturno…
«Intanto non è stata la prima,» si sentì in dovere di puntualizzare, «e poi quale buco nell’acqua? È stata una cosa da niente, una fiamma estiva. Pensavo che non ci saremmo più incontrati, dopo quella volta.»
«Talmente da niente che nemmeno ricordi il suo nome», osservò Logan.
Daphne continuava ad essere perplessa. «Fatemi capire meglio: Jay ha incontrato questa ragazza, storia breve ma intensa, e adesso lei riappare nella nostra scuola?»
«Improbabile, vero?», terminò Travor.
«Certo che è improbabile, perché non è vera!», esclamò Jason.
I due ricominciarono a discutere, senza preoccuparsi di alzare la voce e dare spettacolo nei corridoi.
Fu Daphne a provare a districare la faccenda.
«D’accordo, Jay, ma non ti sembra un po’ strano? Dalla Florida fino a qui?»
«Che c’entra? Era in vacanza. Anch’io ero in vacanza a Miami, eppure vivo qua. Adesso sono proibite le vacanze in un altro Stato? Cos’è questa stronzata?»
A furia di agitare braccia e gambe, una notevole porzione di volantini gli era sfuggita di mano e planata a terra, disseminando piume di canarino sul pavimento.
«Ecco vedi? Questo è il Karma, James. Smettila di raccontare cazzate», lo sfotté Jason.
Mentre i due ragazzi riprendevano a spintonarsi, la sagoma che prima era per metà nascosta dagli armadietti si era avvicinata e adesso, piegatasi a raccogliere il mazzetto di volantini, li porgeva a Logan.
«Vi siete persi questi.»
«Oh… oh, grazie», Logan accettò ancora frastornato. «S-sei.. per caso interessata ad un’audizione?»
Frances Hurst posò le lunghe unghie laccate sul bordo di un annuncio, rigirandolo per leggerne la scritta.
«Cercasi tastierista, batterista e bassista… wow, siete musicisti?»
James si voltò di scatto, quasi traballando e incespicando sulle proprie scarpe. «Noi? Sì! Suoniamo da un po’. Abbiamo una band.»
Un’unica alzata di sopracciglio. Negli occhi grandi di Frances sembrava incastrarsi una sorta di furbizia latente. «Beh, a giudicare dall’annuncio, ancora non ce l’avete. Vi mancano i tre quarti.»
Nessuno dei presenti fu in grado di trovare una replica adatta.
«Comunque,» riprese con serenità, «io a malapena so suonare il triangolo. Mi spiace, ma sono una frana con gli strumenti. Buona fortuna!»
Si era già distanziata di alcuni metri da loro, allontanandosi con una camminata decisa ma rallentata, quando Logan e Daphne spintonarono James, cercando di convincerlo a seguirla.
«Nemmeno tra un millennio una tizia del genere si interesserà a uno come James», decretò Jason.
«James, non starlo a sentire», s’intromise Daphne. «Vai a parlarle!»
Quello parve indugiare qualche istante – improvvisamente immobile in un prosciugamento dell’abituale energia, come se qualcuno gli avesse staccato la spina, tolto la corrente – ma poi si riscosse.
«Che dite? Ci provo?»
Un coro silenzioso e che non ammetteva ulteriori indugi. Logan lo spinse a svoltare l’angolo, chiamandolo “campione”.
«Frances!»
La ragazza si bloccò sul posto, una pila di libri incastonata nell’avambraccio.
C’era qualcosa di particolare – di elfico, pensava James – che circondava quella sconosciuta. Il taglio così corto che le lasciava scoperto il collo esile come lo stelo di una violetta, la carnagione con strane tinte di albicocca e olivastro, e gli strani piercing colorati che le attanagliavano l’orecchio destro che gli ricordavano una stecca di medicinali in pillola.
Lo osservava appena sorpresa, il solito sopracciglio inarcato.
«Senti, so che ti sembrerà un po’… diretto, ma devo sapere. Tu… ti ricordi di me?»
«Certo,» sorrise l’altra, «ci siamo visti prima a lezione di Mr Jeggins. Segui anche tu Fisica, giusto?»
«No, no, no. Intendevo… prima.»
Una lastra di silenzio troppo spessa. Per James fu come slittare lentamente verso la deriva, trasportato da qualche iceberg: gli occhi gelidi di Frannie.
Notò che arricciava il naso, mentre era pensierosa, e quella caratteristica gli avvitò lo stomaco un po’ di più, facendogli realizzare solo adesso quanto fosse nervoso. Lui, lo showman per eccellenza, spaventato da una performance così banale?
Alla fine, Frannie sciolse ogni dubbio. «No, scusami. Non mi ricordo. Dove ci saremmo incontrati?»
Stava bluffando.
Lo capì al volo, perché era assurdo, inaccettabile, che lei avesse rimosso tutto, riverniciato la parete della mente come se non vi fosse rimasto davvero nulla. No, mentiva.
Ridusse la distanza avvicinandosi di un passo.
Sapeva che i suoi amici lo stavano scrutando, da dietro l’angolo, appollaiati accanto agli armadietti come avvoltoi. Aspettavano un risultato e non voleva deluderli.
«Frances,» riprese a bassa voce, nel miglior tono seducente che possedeva, «dai, non c’è motivo di vergognarsi.»
«Vergognarsi? E di che cosa?»
«E dai, di quest’estate… »
Un gesto allusivo, un’ammiccata. «Dai, perché fingere?»
«Ma di che diamine stai parlando?»
«Noi due, questa estate, bagno notturno, completamente nudi… »
Il sopracciglio sinistro si degnò di fare compagnia all’altro, finalmente. Aveva provocato una reazione.
«Credo che mi abbia scambiata per qualcun’altra.»
«Frances,» insistette lui, «siamo nel ventunesimo secolo. Ormai non devi avere paura di certe etichette. Sai quante, tra le ragazze che ho avuto, non si sono fatte scrupoli?»
La giovane allacciò le braccia al petto, stringendo ancora di più i libri a sé.
«Certe etichette
«Ma sì, praticamente… hai capito, dai.»
«No, non ho capito.»
James si guardò intorno, cercando di guadagnare tempo. Notato qualche professore che sfilava per il corridoio, diretto alla mensa, preferì abbassare ulteriormente la voce, piegandosi sull’interlocutrice.
Fu sufficiente un bisbiglio, un sussurro nell’orecchio, per farla scattare.
«Ah, è questo che pensi?»
Un sorriso compiaciuto gli distese le labbra. «Lo pensano tutti, ma non fa più scandalo.»
«Beh, tu e i tuoi “tutti”, potete anche andare a farvi fottere», terminò lei accompagnando il tutto con un elegante gesto della mano. «Retrogradi del cazzo.»
Si allontanò a passo spedito stavolta, lasciandolo impalato nel mezzo del corridoio.
Quando raggiunse il resto della compagnia, si limitò a scrollare le spalle.
Jason non stava più nella pelle.
«Beh, come è andata?»
«Alla grande. Penso che mi adori.»
 
   
 
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