La sveglia mi tirò qualche schiaffo col suo pigolio incessante. Aprii gli occhi e sprofondai nel buio.
Grugnii, pigiai un tasto e la cacofonia morì nel silenzio. Scorsi la mano lungo la parete, la superficie
liscia come seta, e incappai nella sporgenza dell'interruttore della luce. Sbattei le palpebre, il
candore del neon un altro schiaffo.
Come ogni mattina compii azioni nel limbo tra sonno e veglia, come se fossero eseguite
da uno sconosciuto di cui ero spettatore e immortalavo la vita con scatti fotografici.
Così mi ritrovai a uscire di casa e salire in auto, seguiva la fotografia del viaggio tra il
traffico, il grigio borbottio della città; i minuti evaporavano in un'altra fotografia, quella dei passi
svelti verso l'ufficio tra facce sconosciute e volti noti, persone di cui non conoscevo il nome ma che
comparivano ogni tanto negli sfondi degli scatti. Girai la maniglia e accesi la luce: la stanzetta aveva
il suo solito profumo, o meglio quell'odore impossibile da riconoscere che non può infastidire col
suo anonimato. Anche gli altri dettagli sbiadivano: un tavolo ordinario con fogli e penne,
fermacarte, cassetti; niente effetti personali, nemmeno un simbolo, un ricordo. Cosa sono i ricordi?
Alcuni colleghi conservavano nel portafogli testimonianze di amicizie e parenti, sgualcite tracce
cristallizzate nel tempo. Quei volti erano facce di un diamante e riflettevano quella del loro
possessore attraverso le memorie segregate in tasca. Ricordo solo che il mio capo entrò in ufficio,
aveva dei fogli in mano e avanzò verso il centro della stanza. Sobbalzò. Lei chi è?, chiedeva. Dov'è
Festrini, le devo chiedere di abbandonare l'edificio o chiamerò le forze dell'ordine. Festrini non lo
avevo mai sentito nominare, poteva essere un mio parente, un rinomato uomo di scienza, un
attore, un vecchio compagno di scuola. Potevo essere io. Sta di fatto che per il mio capo
quell'asettico buco era di Festrini e io, come quando sfogliando un album fotografico si gira di
scatto una pagina e ne si strappa un angolo, rinsavii e mi soffermai sull'istantanea di quel volto
paonazzo, viaggiavo con lo sguardo tra scartoffie, stilografiche, la scialba tinta delle pareti e i tre
ciuffi sopravvissuti sulla nuca di quell'uomo adirato. Mi alzai, uscii dall'ufficio e con quei gesti inserii
una nuova foto nella raccolta, una che stonava con le altre e saltava subito all'occhio.
Lo smog della metropoli mi pizzicò il naso e alzai la sciarpa fino a coprire le labbra. Persone scorrevano davanti a
me come diapositive e il loro chiacchiericcio scompariva e si ripresentava a intermittenza
ammutolito dal vento assordante. Presi il portafogli, lo aprii e scartabellai tra gli scomparti: carte,
scontrini sbiancati dall'usura, qualche banconota e, nella sua protezione di plastica, la carta
d'identità. Da quanto tempo non la tiravo fuori dal suo mausoleo in pelle? Quando sbirciai al suo
interno la plastica schioccò, le due facce incollate. Quello ero io? La foto era vecchia, si intuiva dai
bordi ingialliti e dai colori smorti. Mi chiesi che senso avesse possedere un documento
identificativo se lo si lasciava marcire nel taschino dei pantaloni. Alcune persone fanno appiccicare
una loro immagine su carta, tutto viene timbrato e riconosciuto a norma di legge; poi iniziano a
perdere i capelli oppure iniziano a vederli sbiancare, o ancora iniziano a mettere gli occhiali,
oppure vedono i segni del tempo deteriorare quei lineamenti. Perciò mi chiesi se quello fossi
davvero io e posai lo sguardo sui dati anagrafici: un cognome prestato da un genitore e un nome
che, magari, era stato scelto da un altro. Nessun segno particolare, niente di niente, informazioni
quali il colore degli occhi e dei capelli, un tiro di dadi di madre natura su cui non abbiamo voce in
capitolo. Erano solo dati che apparivano sbiaditi come il volto a fianco. Camminavo tra i passanti,
alcuni rigidi nella loro andatura, altri di fretta, altri ciondolavano le braccia e ridevano, altri ancora
guardavano in basso, le mani in tasca. Chiesi a una signora se mi conoscesse e mi scoccò
un'occhiataccia. Lo chiesi a un ragazzino e rise. Lo chiesi a un uomo anziano che strascicava i piedi
contro il manto cementato del marciapiede e si accigliò. Se non sapevo chi fossi, magari lo avrebbe
saputo qualcun altro. Sapevo di non essere Festrini e ogni tanto controllavo la carta d'identità per
averne conferma, salii in macchina e la accesi, i vetri appannati mi isolavano dal mondo esterno e il
fiato evaporava di fronte ai miei occhi. Festrini. Ricontrollai i documenti per l'ennesima volta. Rimisi
coltre di umidità. Aprii il portafogli, il fiato corto e le mani sudate intrappolate dai guanti. Usai i
denti per sfilarne uno, l'altra mano occupata nella ricerca dei documenti. La tasca era vuota. Dove
erano spariti? La mente viaggiava a ritroso verso i negativi delle fotografie appesi nella camera
oscura della memoria. Nome, cognome, dati letti poco prima precipitavano nell'abisso del passato.
Spannai il finestrino al mio fianco con la manica del giubbotto: altre persone perse nel loro album
di fotografie personale. Anche io avevo il mio, ma non sapevo più dove fosse, così abituato a darlo
per scontato da dimenticarne l'ubicazione nei recessi della mente. Chissà se qualcuno conservava
una mia fotografia in qualche angolo della sua casa, magari persa tra fogli e inchiostro, libri e
cianfrusaglie. Lo pensai e lo trovai uno scherzo beffardo: essere nei ricordi di qualcuno senza
trovarsi nei propri, smettere di conservare immagini perché uguali alle precedenti, scorrere pagine
senza scorgere un colore acceso.
Se avessi trovato il mio album e fosse stato completo, cosa ci avrei visto all'interno? Saltai all'ultima
pagina, scorsi tra foto di me che cercavo i documenti, che setacciavo i meandri della mente in cerca
di quei dati letti e riletti in precedenza, che cercavo le chiavi dell'auto e poi quelle di casa, che
pensavo di essere in auto e invece ero in ufficio, che pensavo di essere in ufficio e invece ero a
casa; e scorrendo non riuscii a rispondere alla domanda insinuata nella mia testa da quella figura
che potevo ritenere il mio capo, ex capo o chiunque fosse. Un dubbio che scoloriva ogni immagine,
un quesito instillato goccia dopo goccia come un veleno a effetto ritardato: chi ero?