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Autore: Avareil    20/02/2019    2 recensioni
Mitologia greca Au!
Fosse esistito qualcuno in grado di rendergliela, restituirgliela, magari avrebbe anche creduto, forse sperato.
Fosse esistito qualcuno in grado di ascoltarla, di ascoltare lei e la sua preghiera addolorata, allora l’avrebbe scongiurato quell’essere, inginocchiata ai suoi piedi avrebbe supplicato per la madre tanto amata e tanto presto strappata alla vita.

Un terribile incidente stravolge la vita di Cora Terrafranca, giovane signorina a modo di un Ottocento intriso di religiosità e misticismo. Scettica per indole, ma disperata per colpa dell'atroce lutto, ella desidera con morbosa follia il più scandaloso dei ritorni. Nascosto nei suoi pensieri e celato dalle ombre, solo un essere deciderà di scendere a patti con lei.
Del resto si sa, bisogna far attenzione a ciò che si desidera...
[🌻Storia terza classificata al contest "Patti oscuri, alleanze di ferro e promesse vincolanti" indetto da Shilyss sul forum di EFP, e Vincitrice del Premio Speciale "Miglior Personaggio Femminile".🌻]
Genere: Angst, Dark, Drammatico | Stato: completa
Tipo di coppia: Het | Personaggi: Ade, Persefone
Note: AU | Avvertimenti: nessuno
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Il dubbio del diavolo
 
Cosa desideri? Cosa brama il tuo cuore addolorato?
 
Diavolo, Mefistofele, Satana: il signore dei morti ha molti nomi.
Terribile, inquieto e algido, dal silenzio delle ombre egli bisbiglia perverse domande al cuore sofferente: “Cosa desideri?” chiede mellifluo mentre la coda serpentina lambisce le gambe del povero sventurato; “Cosa ti manca?” indaga interessato; “Cosa vorresti oltre ogni ragione?” sussurra seducente e maligno.
Nessuno resiste al richiamo suadente della voce roca.
Nessuno distoglie il volto impaurito dall’ombra nera che si staglia imponente contro il cielo appestato di zolfo e fumo denso.
L’osceno figuro, che batte un piede contro il pavimento con fare infastidito, resta in attesa di una risposta tremolante; ha tutto il tempo del mondo, il signore dei morti, eppure freme, si agita, è irrequieto: la lingua lambisce le labbra quasi a voler pregustare la succulenta rivelazione umana; perché egli gode delle sofferenze profonde, delle disavventure nobili, dei sacri intenti e dei profani risvolti, e mentre il fuoco dell’inferno scoppietta ai suoi piedi, egli soppesa, riflette, contempla quasi la possibilità di ingannare ancora, intrecciare altri fili, altri piani, schernire il trapassato con misterici scenari e alternative brillanti per poi sprofondarlo nelle fiamme della pena eterna e della delusione angosciante.
Ha molti nomi, il feroce sovrano dell’aldilà, molte facce, molte voci: è cattivo, perfido, irrequieto, ed anche dolce, sensuale, ardente. I folli, coloro che lo cercano nel buio della notte, dicono che i suoi occhi siano vitrei e che algidi osservino l’animella fluttuante al suo cospetto; altri, invece, più timorati, li descrivono simili a tizzoni ardenti, fumosi e cupi come il sangue versato presso gli altari nascosti di cui è il santo; è un essere perfetto nella sua decadenza, il Diavolo, e consumato da un tempo avvelenato, patisce un’eternità greve fatta di lamenti, urla e solitaria contemplazione del male.
Di lui si raccontano molte cose, ma non si ha il coraggio di proferirne l’antico nome.
Esso è andato perduto, strappato dalla bocca che ora sa solo di oro, incenso e mirra.
 
 
Δ
 
 
“Lei è solo una ciarlatana!”
 
L’urlo belluino squarcia le delicate cavità del suo essere per infrangersi contro le pareti finemente arredate con preziosi quadretti.
Furiosa, oscenamente offesa come un animale al quale abbiano appena ghermito una zampa nella tagliola, Cora Terrafranca si scaglia come un’Erinni contro la donna al suo cospetto che, ora terrorizzata, cerca di farsi scudo con le mani protese in avanti. A pagare il prezzo di quell’ira irrazionale sono le suppellettili eleganti, le fini pergamene e i fantomatici pendoli magici posti a mo’ di ornamento sull’immensa scrivania al centro della stanza, barriera tra le due.
Il braccio esile, infine, sollevato rigidamente, l’indice sottile puntato contro Eusapia Palladino, la sensitiva grassottella e pacchiana al suo cospetto, sanno di maledizione, condanna che perseguita.
 
“Voi siete una megera, una megera che si nutre del dolore delle persone! E pagherete, spregevole essere, pagherete in questa vita e nell’altra che certamente segue!”
 
Sei braccia la sollevano di peso, sei braccia d’uomo ne afferrano con mal grazia le membra e, come un sacco, la trascinano via dal salottino in fretta e furia prima che la rabbia animalesca e disperata mieta altre inanimate e preziose vittime.
Condotta all’esterno della garbata villetta nobiliare tra morsi e calci sfrenati, Cora non perde un istante e, appena libera dalla stretta altolocata, grida al piccolo e malsano mondo del suo quartiere tutto l’odio, la disperazione e l’angoscia lacerante in maledizioni scandalose contro Eusapia Palladino, se stessa e quel dio inesistente che le ha strappato via tutto in un sol colpo.
Era stata una stupida, una sciocca a fidarsi, a dare ascolto a quella proposta suggeritale nel più nero dei momenti, quando ancora il corpo di sua madre giaceva caldo sul tavolo dell’anatomista.
Delle bestie, bestie senz’anima e prive di dignità, l’avevano sedotta con promesse che sapevano di speranza celeste e lei, misera e tapina, aveva preferito fidarsi di quelle, false benefattrici, piuttosto che rincorrere l’ancora flebile filo della ragione.
La seduta spiritica, ovviamente, non aveva alleviato alcuna sofferenza: al buio, circondata da un carosello di signorotte ingioiellate, Cora aveva immediatamente percepito la menzogna di quegli sfioramenti ultraterreni, l’inganno degli ululati sommessi, l’impostura di quelle strane, stranissime coincidenze spiritiche partorite dalla mente scaltra e terribile della sensitiva; alla già fievole e sciocca speranza era seguita l’angoscia soffocante.
Soldi? Avevano voluto soldi, sì, ma non per quelli si avvilisce mentre volti ignoti e penosi le si avvicinano lungo il viale alberato nel vano tentativo di aiutarla a risollevarsi dal suolo polveroso. Non le importa delle monete rubate, dei monili ceduti né, tantomeno, della fama di quella sorta di postribolo imbiancato in cui lei, signorina per bene, si era dovuta recare per incontrare la spiritista famosa: odia quella donna per averla illusa, odia se stessa per essersi lasciata ingannare da un desiderio tanto impossibile e sciagurato, odia sua madre per averla abbandonata… e odia anche quei dannati cavalli.
 
Come si può dire addio a una madre?
 
Le gonne sporche, logore, strappate in più punti, l’abito nero dall’orlo scucito e sudicio: indossa ancora l’abito funebre – quello nuovo, relegato, fino a qualche giorno prima, nell’angolo più nascosto dell’armadio – la veletta, invece, non sa che fine abbia fatto.
Il ricordo di condoglianze indistinte, udite distrattamente dopo la semplice celebrazione, si è fatto brusio barbarico, eco risonante da una sponda all’altra della mente stanca; le immagini sorridenti del volto materno, invece, abitano gli occhi gonfi di pianto e si scontrano con violenza con quell’ammasso di carni martoriate e a stento riconosciute abbandonate sul tavolo medico.
 
Era quella, sua madre? Corpo distrutto e scomposto, calpestato dalla furia di animali imbizzarriti?
Era veramente quello, ciò che rimaneva dell’essere a lei più caro?
 
La casa familiare, ora deserta e buia, la osserva silenziosa, quasi a lutto anch’essa: non risuonano risa per i lunghi corridoi preziosi né battute divertenti riscaldano il salone lussuoso ed elegante; nessun 
saluto materno l’accoglie dal piano superiore con un “Come state, figlia mia?” tanto lontano da sembrare eterno, effimero, sfuggente.
 
Come si può dire addio a una madre?
 
Cammina lentamente, sorta di marcia funebre domestica, mentre lembi di tessuto sdrucito e sudicio abbandonano, ad uno ad uno, il corpo gracile e consumato: cinta solo di una sottile sottoveste e ammantata di disperazione, Cora non è capace di sollevare il capo verso la camera matronale: squarcia lo stomaco, il dolore, spezza il fiato, la consapevolezza di non saperla più lì, abbigliata come una nobile sovrana d’Oriente e pronta per la notte serena.
Al cospetto di quell’assenza oscena di cui non riesce ancora a comprendere il senso, Cora desidera credere per maledire, sapere dell’esistenza di un dio onnipotente e bestemmiarlo per averle strappato la madre così, per diletto, congiura o punizione; ma l’orologio, impietoso, segna già l’ora coi suoi rintocchi: la signora Terrafranca è morta, oramai, da tre giorni, e nessuno ha saputo dirle “perché”. Un sorriso sciagurato, forse folle, le stira le labbra secche e spaccate in più punti: perché di quella ignobile morte è nota la dinamica, scritta e riscritta sulle prime pagine dei rotocalchi locali, scivolata poi di bocca in bocca nei saloni raffinati; la signora madre, la nobile Demetria Terrafranca, ha trovato la morte nella più sfortunata delle maniere, travolta da cavalli imbizzarriti e senza padrone quando il piede aveva già intrapreso la via dell’attraversamento del viale principale. Distratta, forse, da chissà quale chiacchiera, era stata colpita, investita, calpestata; di lei, madre amata, rimanevano solo dei cocci, pezzi violati e martoriati che Cora, unico membro della famiglia, aveva dovuto riconoscere, ricomporre, rivestire.
Anche allora, al cospetto di un imbarazzato e addolorato medico, aveva sorriso impercettibilmente, sempre con quella strana luce delirante nello sguardo umido: si domandava, infatti, come fosse possibile, anche solo lontanamente immaginabile, rivestire un corpo distrutto da cavalli inferociti, sciolti in corsa dissennata; fortunatamente, però, a distrarla dalla riflessione macabra, era bastato un riflesso laterale: qualcosa brillava, lì, in quella camera appestata dal tanfo della morte.
Eccolo, l’unico superstite dell’infelice incidente, monile sacro per la madre tanto legata alle tradizioni familiari: l’anello d’oro, quello tramandato di madre in figlia di generazione in generazione e antico più del tempo stesso, era rimasto ferocemente attaccato a quello che, un tempo, era stato l’anulare della povera donna.
Con mano ferma, mossa da una lucida sragione, Cora lo aveva afferrato con delicatezza, sfilandolo dal dito insanguinato e rotto: il gioiello, impreziosito dal motivo di una spiga rigogliosa e ora lordo di sangue, rappresentava loro, donne di Terrafranca, che del suolo libero e rigoglioso erano le signore da secoli.
 
Vita derisoria: loro, padrone di fondi verdeggianti, venivano rase al suolo, estirpate, una ad una, come erbe cattive.
 
Orfana adesso, figlia di un padre assente, conteso tra sua madre e mille altre donne, mille altre famiglie, Cora era rimasta sola, padrona di una casa enorme, signora di ricordi angoscianti, donna giovane, troppo giovane per far fronte alle terribili voci che, nel buio della notte, si insinuano dolci come il miele nelle orecchie e scivolano fino al cuore per ghermirlo in una trappola appiccicosa e soffocante…Eusapia Palladino, le dicono, potrebbe aiutarla a mettersi in contatto con la madre, è una 
famosa spiritista, stupisce salotti benestanti, turba le menti dei presenti: “Se andrai da lei saprai di tua madre” le dicono.
 
“Lei è solo una ciarlatana!”
 
Piange al ricordo dell’ignobile inganno, mentre mani feroci artigliano la chioma brunita e le sue sfortunate ciocche: in ginocchio, adesso, ai piedi del talamo materno, si ritrova a pregare, pregare dissennatamente perché se solo fosse esistito qualcuno in grado di rendergliela, restituirgliela, magari avrebbe anche creduto, forse sperato.
Fosse esistito qualcuno in grado di ascoltarla, di ascoltare lei e la sua preghiera addolorata, allora lei l’avrebbe scongiurato quell’essere, inginocchiata ai suoi piedi l’avrebbe supplicato per la madre tanto amata e tanto presto strappata alla vita.
 
Ma non esiste più nulla per lei, ora che la madre è morta.
 
Chiusa in un mutismo addolorato, serrato da labbra riarse dalla sete e dalla fame, Cora, infine, spranga la porta della dimora familiare.
 
Che il sonno eterno si porti anche lei, via per sempre.
 
 
Δ


È la notte il palcoscenico del male, è tra le sue tenebre che si insinuano i diavoli tentatori, nelle sue spire fumose danzano gli incubi, esseri malevoli travestiti da dolci sogni. Quando il sole ha oramai compiuto il suo giro e, stanco, si stende sul fondo dell’Oceano, ecco risorgere patimenti voraci, tentazioni frenetiche: soffre la follia, Cora, deprivata di qualsiasi nutrimento e, non più lucida, trema nel corpo, vacilla nel cuore, mentre gli occhi, disperati e serrati con forza, cercano la cara figura materna nelle ombre dietro le palpebre.

“Madre…”

Il bisbiglio umido si perde nella notte, attutito dalle ginocchia strette contro il petto:

“Madre, vi imploro, venitemi in sogno, baciatemi sulla fronte, carezzatemi il viso un’ultima volta.”

Ripete la preghiera, strana nenia avvilita, cullandosi avanti e indietro sull’immenso letto: stretto tra le dita sottili e gelide riposa ancora l’anello materno, quello che ha dovuto sfilare dal dito consumato; quello che, ancora caldo e sporco di sangue, ha portato alle labbra per un bacio devoto.
Sono passati giorni e il maledetto non ha ancora smesso di raccontarle la storia terribile e rivoltante: se lo osserva, vede il corpo sfatto della madre, se sfiora la spiga, ne ricorda le interiora rovesciate; se gratta via il sangue, percepisce il tanfo di morte appiccicato sulla pelle. È con l’immagine degli amabili resti di sua madre scolpita nella mente che abbandona freneticamente il letto per raggiungere il catino vicino la finestra socchiusa: rimette l’anima in quella bacinella di fine porcellana, riversa ogni dolore, ogni liquido residuo per poi, sfinita, crollare al pavimento rannicchiata su se stessa.

L’anello, dimenticato a pochi centimetri da lei, l’osserva muto.
 
 
Δ


Un brivido sinistro ed ecco che l’illusione fumosa del sonno si disperde; ancora rannicchiata mollemente vicino alla toletta, Cora ha in dono dal fato solo pochi istanti, finiti attimi di calma prima che la ferita del cuore, in un nuovo squarcio, la dilani con il peso della conoscenza: sua madre non è più e a lei non rimane che una casa vuota e un anello sozzo di sangue.

L’anello.

Rapida, quasi con sragionata frenesia, si protende verso il pavimento nella disperata speranza di trovare il monile perso solo qualche istante, minuto o ora prima per colpa dell’improvvisa nausea; ma è ancora buio e ombre troppo spesse, quasi surreali, soffocano qualsiasi ricerca.

“Cosa cercate con tanta dedizione, giovane signora?”

Una voce, sussurro spettrale sottile e sibilato, serpeggia ad un tratto tra le pieghe delle lenzuola e i risvolti delle tende per, infine, correre maligno lungo le gelide vene dei polsi di Cora; immobile come una lepre braccata e con ancora le mani protese in avanti, ella trattiene il flebile respiro.

“Cosa desiderate, piccolo, sfortunato essere? Cosa brama il vostro cuore addolorato?”

È successo, alla fine.
Era stata avvisata, avvertita e lei, piccola sciocca, non aveva voluto prestare ascolto a nessun consiglio. Pazza, completamente fuori di senno e persa nel vortice della follia addolorata, adesso ode voci surreali di esseri inesistenti che, preoccupati, o forse semplicemente derisori, la seducono con domande gentili, la confortano con tono carezzevole, la provocano con interrogativi taglienti.
Che sia un’illusione? Consolazione partorita dalla mente sfinita? O, piuttosto, un becero ladro introdottosi in casa, sicuro della sua enorme solitudine?
Il capo brunito, sollevato dal suolo a fatica, rivela occhi gonfi, rossi, cerchiati da ombre scure ed incapaci di scorgere alcunché in quella camera buia, dove nemmeno una fiamma di candela è stata accesa per lei.

“Se siete un ladro, signore, non disturbate il riposo di chi soffre un lutto. Prendete il denaro dalla stanza ad ovest e andate via da questa casa; ma se siete un fantasma, sciagurata proiezione della mia mente, allora vi imploro di mostrarmi per un’ultima volta mia madre.”

La risposta folle, feroce in quella lucida razionalità toccata dalla sventura, fuoriesce secca dalle labbra riarse. Cora, figurina asciutta e ancora prostrata al suolo, scruta il buio con occhi sbarrati: non teme più nulla. Non ha più nulla da perdere.
Una risata roca, quasi gemito gutturale, riempie la stanza avvolta dall’ inviolabile mantello della notte.
 
“Voi siete un essere particolare, sfortunata Cora.”

Il tono di voce basso, morbido e sinuoso la invita a prender parte alla danza perversa del Demonio: vuole insinuarsi nei pensieri disperati di quella, terribile essere, ghermire i suoi sospiri strozzati, abbracciarne le sofferenze più profonde per stritolarla tra le fauci fameliche.

“Chi siete?”
 
Nessuno e molti”

“Come conoscete il mio nome?”

“Conosco molte cose.”

“Non rispondete ad alcuna domanda.”

“Mi avete invocato a lungo, terribile signora, è bene che ora siate voi a prender parola: cosa desidera il vostro cuore turbato?”

L’ombra, di cui non si scorge che una sagoma di fianco all’uscio della porta socchiusa, sembra il frutto di un’allucinazione partorita dal corpo sfinito dalle deprivazioni: per tale motivo, esausta e avvilita, Cora risponde con rabbia e dolore, rivelando, scioccamente, la profondità della propria sofferenza.

“Mia madre, voglio indietro mia madre”, geme mentre lacrime rotolano lungo le guance morbide.

“Perché?”

“Non ho nessun altro. Sono sola al mondo, adesso.”

Non ha fretta, lo spettro, non forza la risposta, non proferisce verbo mentre quella, che ondeggia pericolosamente sul filo della consunzione, cerca di frenare i gemiti angosciati che le squarciano il petto.

“Qual è il vostro nome, signore?”

“Io possiedo molti nomi.”

La risposta ambigua, proferita con tono carezzevole, è accompagnata da un leggero svolazzare di tende: l’aria della stanza si è fatta irrespirabile, ammorbato palcoscenico per le ombre spettrali ora lunghe contro le pareti finemente arredate. Trema il cuore umano, freme la mente debole.

“Con quale nome posso io invocarvi?”

“Lucifero lo devo al padre mio, Belzebù agli ebrei eletti e Satana ai miei nemici. Mefistofele, invece, fu per la minuziosa precisione nel tener conto dei miei adepti e Principe delle Tenebre lo scelsi da me, dolce signora, per sbandierare alle schiatte angeliche il vero sovrano di voi mortali.
Nascosto, sempre nascosto nell’oscurità di cui sono il signore, odo le preghiere ardenti e rispondo.
Io rispondo sempre.”
 
“Ecco. Voi non esistete. Non potete esistere.”

Spezza l’incanto, la giovane scettica, non crede più a nulla di esoterico. Sua madre è morta. Eusapia Palladino ha già infranto ogni illusione.

“Mi offendete, signora. Non credete alle mie parole?”

“Assolutamente no, signore. Voi vi prendete gioco di me.”

Il Diavolo è stupito, quasi piacevolmente stregato da quella cosa fragile ancora aggrappata alla ragione. È affascinato dall’aspetto consunto, dal profumo di sofferenza, dal fremito delle carni infreddolite.
 
“Cosa sareste disposta ad offrirmi per questo folle desiderio che infiamma il vostro cuore? Cosa sareste disposta a darmi in cambio di un ricongiungimento con vostra madre?
Io posso rendervela, restituirvela…”
 
È sufficiente un unico istante di lucidità e il semplice richiamo di quella formula le fa sgranare gli occhi, accelerare il respiro: quell’essere ambiguo, fatto d’ombra e zolfo, recita la sua preghiera, quella urlata ai piedi del capezzale materno, bisbigliata contro le ginocchia tremanti.

“Avete detto chiaramente che, qualora fosse esistito qualcuno in grado di rendervi vostra madre, di restituirvela, magari avreste creduto… che se fosse esistito qualcuno in grado di ascoltarvi, di ascoltare la vostra preghiera addolorata, allora voi lo avreste scongiurato, quel giusto salvatore. Avete detto che, inginocchiata ai suoi piedi, l’avreste supplicato per la madre tanto amata e tanto presto strappata alla vita.”

È diabolico, Satana, gioca con le parole, turba i sentimenti. Recita la preghiera avvilita e ne stravolge il senso. È conturbante, seducente, feroce nella sua arringa e mentre la osserva, ancora saldamente aggrappata alla parete, sente quasi un fremito arrogante e primordiale scuoterlo dentro. La vuole. Desidera quell’anima.

“Dunque? È tanto forte il desiderio di averla con voi?”

“Sì.”

“E cosa sareste disposta a cedere?”

“Qualsiasi cosa.” bisbiglia in un sussurro che la fa apparire ancora più giovane dei suoi pochi anni.

“Siete certa della vostra risposta?”

Un lungo silenzio gela l’ambiente: solo il respiro accelerato di Cora scandisce il tempo immobile.

“Sì, purché non si arrechi male a nessun altro all’infuori di me, signore.”
 
Piccola, piccola innocente anima: il demone quasi si impressiona per quella lucidità folle che sente battere nelle vene minute e nel cuore incredulo. Brama quell’essere, ne desidera le carni, ne pretende l’anima bella: è strana l’umana al suo cospetto.

“Da troppo tempo patisco l’aridità del mio regno: esso mi svilisce con le urla e gli atroci tormenti e non provo più alcun conforto nella solitudine dei castighi. Esigo una consorte, una sposa, una compagna, Regina d’Oltretomba e dei dannati che lo abitano. Accettereste questa mia offerta? La vostra anima, la vostra mano, in cambio del ritorno della madre?”

Freme nuovamente, Lucifero, ripete più volte la domanda e batte il piede mentre un respiro impaziente solleva il suo petto: non è abituato a patti del genere. Ne ha intrecciati di peggiori, scellerati, ha fatto proposte più ardite, meritevoli di scomunica, ma questa lo tocca da vicino. Esigere la mano mortale significa ammettere la solitudine, il patimento, l’angoscia di un’esistenza tormentata. Proporre una clausola del genere vuol dire confessare una sofferenza antica, una brama famelica e mai sazia: formicolano le mani artigliate, ribolle il ventre demoniaco mentre sordidi, troppo umani 
pensieri, travolgono la mente solitamente scaltra. Ha tutto il tempo del mondo, il Diavolo, ma non vuol attendere.

“Accettereste?”

“Vi prendete gioco di me, sciagurato signore? Con che tempo potrei stare al fianco di mia madre se proprio quel tempo voi lo reclamate per intero per voi?”

Ma le luci dell’alba si fanno più chiare, le ombre fuggono dal cielo e nessuna parola giunge in risposta alla corretta e razionale osservazione della giovane sconvolta: non ama il giorno, il signore dei morti, disprezza i raggi caldi e accecanti; per questo motivo, avvolto in un pesante drappo nero, tergiversa ancora solo pochi istanti, giusto il tempo di assaporare con gli occhi di nebbia, quello strano e sconvolto rossore che ha imporporato il volto e il collo e il petto delicato dell’umana. Le rivolge un inchino rispettoso, quasi dal sapore d’altri tempi, diavolo galantuomo, e con un bisbiglio, che sa di minaccia e promessa al contempo, la gela contro la parete elegante.

“Domani notte vorrò una risposta, mia signora” mormorio basso e carezzevole simile alla buonanotte sussurrata dalle madri contro la fronte dei bimbi addormentati.

Cora ha il coraggio di muovere un passo solo al cantare del gallo.

È mattina.
  
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