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Autore: Sarane    21/02/2019    2 recensioni
"Ho pensato che, forse, riguardare il resoconto degli ultimi dieci anni della mia vita - le impressioni più oneste gettate su carta senza uno scopo, le riflessioni, le sciocchezze infantili - potrebbe aiutarmi a tirare le fila del mio essere momentaneo.
Riguardare ogni mio appunto per ritrovare un senso.
Magari, ritrovare anche un dialogo in queste sedute di nulla, dove mi smarrisco in intrecci di linee nere e mi disegno le mani, come i bambini, inseguendo pensieri che a voce non so esprimere."
Genere: Malinconico | Stato: in corso
Tipo di coppia: Nessuna
Note: Raccolta | Avvertimenti: nessuno
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22-08-15

 

Avevamo grandi progetti.

Ne abbiamo sempre avuti, forse è così che funziona, è da qui che si snoda ogni vita, da progetti falliti, futili e dimenticati. La nostra amicizia è stata il più grande fallimento, ma se ce lo avessero detto anni fa, o anche solo l’altro giorno, non lo avrei creduto possibile.

Invece ora ci guardiamo negli occhi e sento che quello che ti sto dicendo è la fine di ogni cosa, ogni parola mi allontana da ciò che siamo state e da te.

Sembri un cucciolo, i tuoi occhi sono lucidi di un rimpianto che non ha più valore. Non lo hai capito, che ti sto salutando come un addio. Proprio qui, in questa città che è la mia città. È sera, e Budapest brilla di luci nel velluto della notte. Sedute sul ponte illuminato, guardiamo i traghetti che infrangono la superficie dell’acqua nera, smerigliata, pronta a riflettere la meraviglia di una città che prende vita, al buio. È un mese che viaggiamo ormai, con uno zaino in spalla e poche ore di sonno tra un treno e l’altro, una capitale e poi un’altra, eppure proprio quest’avventura, che avrebbe dovuto riunirci, mi ha mostrato con una decisione imbarazzante che ormai siamo diventate due persone troppo diverse, così diverse che, anche se lo vorrei davvero, non posso più procedere su una via parallela alla tua senza allontanarmi da me stessa.

Prima, in camera, sul letto a gambe incrociate come nell’infanzia, ti sei sfogata, mi hai raccontato il tuo rancore, cose piccole che prima ti pesavano poco ed ora invece ti fanno soffrire, ed ho provato per te la medesima tenerezza che da piccola mi spingeva ad abbracciarti, a sottrarti alla tua casa, a quella vita incasinata che poi era specchio della mia, perché era bello che fossimo uguali, era bello che qualcuno potesse essere salvato, anche fossi stata solo tu e non io.

Per la prima volta, ti ho raccontato fragilità che non credevi, debolezze nelle quali mi sono crogiolata per una vita, combattendo contro una me stessa inetta e debole, infantile, che si sentiva facilmente mortificata e non sapeva uscire dal proprio baratro. Certe verità non te le avevo mai dette non per mancanza di fiducia, ma per proteggerti. Perché nonostante le similitudini tra noi, sono sempre stata io il muro portante e non volevo caricarti di dolori che non potevi reggere, non volevo che ti crollasse tutto addosso, non volevo farti sentire inutile. Mi chiedo come tu non abbia capito che questa ammissione improvvisa è stata in realtà un congedo, volevo solo darti le ragioni per cui, in qualche modo, quest’amicizia è diventata per me insostenibile.

Eppure ti guardo ora e ridi, ti scatti molto foto, altre ne facciamo insieme, ti lamenti di me, di questo taccuino che mi porto sempre appresso.

E restiamo insieme, nel silenzio, a fissare il buio.

Sei sempre stata ingenua a modo tuo, non sei mai riuscita a vedere quanto oscura e torbida sia la mia anima, le mie azioni e i miei pensieri ti sono rimasti estranei nonostante il tempo trascorso.

Quando da bambine provavamo disperazione, fare progetti, vivere di speranze, era la nostra salvezza. Non posso dimenticare l’immagine di una te infantile, piccola e triste, rattrappita dal dolore, che si presentava davanti alla porta di casa mia quando tua madre ti cacciava di casa, più spesso di quanto sarebbe lecito ammettere. Arrivavi sempre con il tuo cuscino giallo e la copertina della tua infanzia, stretti tra le braccia. Ci attraversavi il paese, con quei tuoi cimeli, per venire da me.

Di tutte le cose che potevi recuperare, quelle erano le uniche due che non mancavi mai di avere, poco importava se era inverno, se non avevi la giacca o eri ancora parzialmente in pigiama. Ti infondevano calma, erano la tua salvezza nello smarrimento del rifiuto.

Non posso dimenticare il panico che provavi quando invece ero io ad essere cacciata, e non potevo darti rifugio e non potevo cercarlo da te, e allora erano i miei parenti più prossimi a raccogliermi come un randagio e temevi sempre di non vedermi più. I nostri sogni erano tutto ciò che avevamo.

Quando fossimo state più grande, tu saresti andata a studiare in America, io avrei pubblicato il mio libro, lo avremmo dovuto fare insieme, doveva essere il nostro riscatto contro una vita che ci sputava in faccia tutti i giorni il suo schifo.

Il tempo però è trascorso, tu rimandavi, io rimandavo.

Siamo sempre state due inconcludenti ma, al di là di tutto, non dimenticherò come, in quella fase nera della vita in cui non abbiamo avuto nulla tranne noi stesse e due famiglie indifferenti, ci siamo supportate. Non dimentico che tra figure paterne inesistenti e madri problematiche, nelle serate di solitudine in cui non potevamo vederci, passavamo il tempo io sul balcone, tu alla finestra del bagno mia dirimpettaia, e urlavamo per sentirci e facevamo le idiote per farci sorridere.

Sono sempre stata più simile a Narciso, precisa, misantropa, studiosa, raccolta in mille personali elucubrazioni; tu sei un Boccadoro, hai bisogno delle persone, del contatto, di calore, non ti è mai importato di come ottenerlo, anche se i metodi che sceglievi spesso entravano in conflitto con la mia natura. Eppure, al di là di tutto, sei stata una sorella per me, e per te ho nutrito una tenerezza sconfinata. Mi hai tenuta legata ad un brandello di umanità che, non ci fossi stata tu, avrei perduto, perché il rancore senza l’affetto come contraltare consuma, ed io mi sarei consumata.

Perciò domani rientreremo, sedici ore di treno, le ultime che trascorreremo insieme. So che quando capirai, quando d’improvviso ti accorgerai che non risponderò più alla tua voce, dalla finestra, non visualizzerò più i tuoi messaggi e il mio cancello non sarà più aperto per te, mi odierai. Penserai che avrò torto, non capirai che le tue bugie, l’ultimo anno, mi hanno logorata, perché non te l’ho detto, non so dirle le mie debolezze, non potrò mai dirti quanto mi hai mortificata.

So questo e che fingeremo di non vederci per strada, finché alla fine non ci vedremo più per davvero.

So anche che, in realtà, è stata la nostra amicizia a frenare tutti i nostri progetti. Non hai mai avuto nulla qui, tranne me, e non partirai mai finché avrai me. Ma andartene è l’unica cosa che puoi fare per te stessa, per non essere fagocitata dalla melma in cui sei nata. D’altro canto, io non vedrò mai me stessa se continuerò a vedere prima te, a curarti per curare la mia anima che invece, alla fine, continua a sanguinare imperterrita e ignorata. Paradossalmente, è il nostro legame ad averci reso inconcludenti e, forse, da domani saremo entrambe libere.

Forse, quando un giorno lo capirai- e chissà dove sarai allora- il mio ricordo ti farà sorridere ancora, non ti avvelenerà del rancore che ti ho instillato dentro. Mi ricordi Le braci di Marai, mi ricordi Konrad, non per la sua creatività ma per quell’acredine, per il suo fucile. Ecco, questo mi ricordi, e penso che solo tra molto il tempo attenuerà tutto questo, ma quando rimarranno solo braci sotto la cenere, allora forse anche noi parleremo del male che ci siamo fatte senza più odiarci.

   
 
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