22-08-15
Avevamo
grandi
progetti.
Ne
abbiamo sempre avuti, forse è così che funziona,
è da
qui che si snoda ogni vita, da progetti falliti, futili e dimenticati.
La
nostra amicizia è stata il più grande fallimento,
ma se ce lo avessero detto
anni fa, o anche solo l’altro giorno, non lo avrei creduto
possibile.
Invece
ora ci guardiamo negli occhi e sento che quello
che ti sto dicendo è la fine di ogni cosa, ogni parola mi
allontana da ciò che
siamo state e da te.
Sembri
un cucciolo, i tuoi occhi sono lucidi di un
rimpianto che non ha più valore. Non lo hai capito, che ti
sto salutando come
un addio. Proprio qui, in questa città che è la
mia città. È sera, e Budapest
brilla di luci nel velluto della notte. Sedute sul ponte illuminato,
guardiamo
i traghetti che infrangono la superficie dell’acqua nera,
smerigliata, pronta a
riflettere la meraviglia di una città che prende vita, al
buio. È un mese che viaggiamo
ormai, con uno zaino in spalla e poche ore di sonno tra un treno e
l’altro, una
capitale e poi un’altra, eppure proprio
quest’avventura, che avrebbe dovuto
riunirci, mi ha mostrato con una decisione imbarazzante che ormai siamo
diventate due persone troppo diverse, così diverse che,
anche se lo vorrei
davvero, non posso più procedere su una via parallela alla
tua senza
allontanarmi da me stessa.
Prima,
in camera, sul letto a gambe incrociate come
nell’infanzia, ti sei sfogata, mi hai raccontato il tuo
rancore, cose piccole
che prima ti pesavano poco ed ora invece ti fanno soffrire, ed ho
provato per
te la medesima tenerezza che da piccola mi spingeva ad abbracciarti, a
sottrarti alla tua casa, a quella vita incasinata che poi era specchio
della
mia, perché era bello che fossimo uguali, era bello che
qualcuno potesse essere
salvato, anche fossi stata solo tu e non io.
Per
la prima volta, ti ho raccontato fragilità che non
credevi, debolezze nelle quali mi sono crogiolata per una vita,
combattendo
contro una me stessa inetta e debole, infantile, che si sentiva
facilmente
mortificata e non sapeva uscire dal proprio baratro. Certe
verità non te le
avevo mai dette non per mancanza di fiducia, ma per proteggerti.
Perché
nonostante le similitudini tra noi, sono sempre stata io il muro
portante e non
volevo caricarti di dolori che non potevi reggere, non volevo che ti
crollasse
tutto addosso, non volevo farti sentire inutile. Mi chiedo come tu non
abbia
capito che questa ammissione improvvisa è stata in
realtà un congedo, volevo
solo darti le ragioni per cui, in qualche modo,
quest’amicizia è diventata
per me insostenibile.
Eppure
ti guardo ora e ridi, ti scatti molto foto, altre
ne facciamo insieme, ti lamenti di me, di questo taccuino che mi porto
sempre
appresso.
E
restiamo insieme, nel silenzio, a fissare il buio.
Sei
sempre stata ingenua a modo tuo, non sei mai riuscita
a vedere quanto oscura e torbida sia la mia anima, le mie azioni e i
miei
pensieri ti sono rimasti estranei nonostante il tempo trascorso.
Quando
da bambine provavamo disperazione, fare progetti,
vivere di speranze, era la nostra salvezza. Non posso dimenticare
l’immagine di
una te infantile, piccola e triste, rattrappita dal dolore, che si
presentava
davanti alla porta di casa mia quando tua madre ti cacciava di casa,
più spesso
di quanto sarebbe lecito ammettere. Arrivavi sempre con il tuo cuscino
giallo e
la copertina della tua infanzia, stretti tra le braccia. Ci
attraversavi il
paese, con quei tuoi cimeli, per venire da me.
Di
tutte le cose che potevi recuperare, quelle erano le
uniche due che non mancavi mai di avere, poco importava se era inverno,
se non
avevi la giacca o eri ancora parzialmente in pigiama. Ti infondevano
calma,
erano la tua salvezza nello smarrimento del rifiuto.
Non
posso dimenticare il panico che provavi quando invece
ero io ad essere cacciata, e non potevo darti rifugio e non potevo
cercarlo da
te, e allora erano i miei parenti più prossimi a
raccogliermi come un randagio
e temevi sempre di non vedermi più. I nostri sogni erano
tutto ciò che avevamo.
Quando
fossimo state più grande, tu saresti andata a
studiare in America, io avrei pubblicato il mio libro, lo avremmo
dovuto fare
insieme, doveva essere il nostro riscatto contro una vita che ci
sputava in
faccia tutti i giorni il suo schifo.
Il
tempo però è trascorso, tu rimandavi, io
rimandavo.
Siamo
sempre state due inconcludenti ma, al di là di
tutto, non dimenticherò come, in quella fase nera della vita
in cui non abbiamo
avuto nulla tranne noi stesse e due famiglie indifferenti, ci siamo
supportate.
Non dimentico che tra figure paterne inesistenti e madri problematiche,
nelle
serate di solitudine in cui non potevamo vederci, passavamo il tempo io
sul
balcone, tu alla finestra del bagno mia dirimpettaia, e urlavamo per
sentirci e
facevamo le idiote per farci sorridere.
Sono
sempre stata più simile a Narciso, precisa,
misantropa, studiosa, raccolta in mille personali elucubrazioni; tu sei
un Boccadoro,
hai bisogno delle persone, del contatto, di calore, non ti è
mai importato di
come ottenerlo, anche se i metodi che sceglievi spesso entravano in
conflitto
con la mia natura. Eppure, al di là di tutto, sei stata una
sorella per me, e
per te ho nutrito una tenerezza sconfinata. Mi hai tenuta legata ad un
brandello di umanità che, non ci fossi stata tu, avrei
perduto, perché il
rancore senza l’affetto come contraltare consuma, ed io mi
sarei consumata.
Perciò
domani rientreremo, sedici ore di treno, le ultime
che trascorreremo insieme. So che quando capirai, quando
d’improvviso ti
accorgerai che non risponderò più alla tua voce,
dalla finestra, non
visualizzerò più i tuoi messaggi e il mio
cancello non sarà più aperto per te,
mi odierai. Penserai che avrò torto, non capirai che le tue
bugie, l’ultimo anno,
mi hanno logorata, perché non te l’ho detto, non
so dirle le mie debolezze, non
potrò mai dirti quanto mi hai mortificata.
So
questo e che fingeremo di non vederci per strada, finché
alla fine non ci vedremo più per davvero.
So
anche che, in realtà, è stata la nostra amicizia
a frenare
tutti i nostri progetti. Non hai mai avuto nulla qui, tranne me, e non
partirai
mai finché avrai me. Ma andartene è
l’unica cosa che puoi fare per te stessa,
per non essere fagocitata dalla melma in cui sei nata.
D’altro canto, io non
vedrò mai me stessa se continuerò a vedere prima
te, a curarti per curare la
mia anima che invece, alla fine, continua a sanguinare imperterrita e
ignorata.
Paradossalmente, è il nostro legame ad averci reso
inconcludenti e, forse, da
domani saremo entrambe libere.
Forse, quando un giorno lo capirai- e
chissà dove sarai
allora- il mio ricordo ti farà sorridere ancora, non ti
avvelenerà del rancore che
ti ho instillato dentro. Mi ricordi Le
braci di Marai, mi ricordi Konrad, non per la sua
creatività ma per quell’acredine,
per il suo fucile. Ecco, questo mi ricordi, e penso che solo tra molto
il tempo
attenuerà tutto questo, ma quando rimarranno solo braci
sotto la cenere, allora
forse anche noi parleremo del male che ci siamo fatte senza
più odiarci.