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Autore: _Lightning_    25/02/2019    8 recensioni
L’unica reazione di Tony è un respiro leggermente più sonoro del normale, ma i suoi occhi sembrano solidificarsi in due lastre scure e opache.
Contemporaneamente Thor si avvicina ancora, passando da osservatore esterno a potenziale partecipante, e Rhodey scatta a sua volta in piedi con fare allarmato. Nataša scruta i presenti con sguardo attento, come un felino in agguato, e Bruce non abbandona il suo atteggiamento ostile e incupito.
Steve sente la situazione precipitare.
La percepisce quasi sfuggirgli tra le dita come sabbia mentre cerca freneticamente un modo, una frase, un’azione che possa arrestarne la caduta inesorabile.

Dopo lo schiocco, Steve si trova alle prese con una squadra distrutta dalle perdite, spezzata dall'interno e incapace di far fronte unito. Toccherà a lui radunare i pezzi, suoi e degli altri, per prepararsi allo scontro finale. E molti di quei pezzi sono rimasti in Siberia, in un bunker gelido.
[post-Infinity War // Introspettivo // PoV Steve // Civil War fix-it // scritto prima di Endgame]
Genere: Drammatico, Introspettivo, Song-fic | Stato: completa
Tipo di coppia: Het | Personaggi: Bruce Banner/Hulk, Natasha Romanoff/Vedova Nera, Steve Rogers/Captain America, Thor, Tony Stark/Iron Man
Note: Missing Moments, What if? | Avvertimenti: nessuno
Capitoli:
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- Questa storia fa parte della serie 'Schegge'
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8. Schegge
 

 
And I'm on my knees
And the water
Creeps to my chest
 
 
 
Dimentica sempre quanto sia estenuante piangere.
Non è un gesto che si permette spesso, se non in situazioni in cui è universalmente accettato – ovvero, per quanto ne sa, solo ai funerali. È consapevole che i canoni di comportamento del Ventunesimo secolo sono più flessibili di quelli che era abituato a rispettare da ragazzo, ma è ancora propenso, per istinto, a imbottigliare le lacrime e riservarle per momenti in cui nessuno vi fa caso.
È un soldato, ed è Capitan America: i simboli non piangono.

Adesso, nella penombra confortante del corridoio, viene meno a quel proposito e si sente meno colpevole di quanto dovrebbe, perché non ha una divisa, né uno scudo, e non è più Capitan America da un pezzo. Ha provato inutilmente a frenare il flusso che gli è salito agli occhi, e l’ha lasciato scorrere finché non si è esaurito da solo, lasciandolo svuotato a farsi sostenere da Nataša.
Lei non si è mossa neanche per un istante, come radicata nel pavimento di fronte a lui, e se da una parte trova imbarazzante essere crollato a quel modo in sua presenza, dall’altra è sollevato che non l’abbia lasciato da solo, anche se non è certo di poter trovare la voce per ringraziarla. Si scosta da lei, passandosi una mano sul volto ormai asciutto e ruvido di sale. La sua vista è ancora sfocata, ma almeno non rischia di traboccare ad ogni battito di palpebre.

Rimangono in silenzio, quello stesso silenzio che ha continuato a parlare tra tutti loro fino ad ora e che Steve scopre di odiare più di ogni altra cosa, persino più della cenere. Si strofina la tempia, corrugando le sopracciglia e tirando le labbra quando una nuova fitta lo stordisce.

«Cos'hai?» indaga subito Nataša, sospettosa come sempre.

«Niente, ho mal di testa,» si lascia sfuggire lui tra i denti, senza l'inventiva per accampare scuse plausibili.

Lei non commenta quell'informazione, ma la sua perplessità è innegabile.
Steve fa per rialzarsi di scatto per sfuggire alla sua vista, sentendosi improvvisamente vulnerabile, ma lei lo trattiene, poggiandogli fermamente i palmi sulle ginocchia. Potrebbe vincere senza sforzo la sua resistenza, ma asseconda il movimento, incrociando i suoi occhi impassibili che nella luce fioca sembrano grigi, quasi metallici.

«Dove vai?»

La domanda, nella sua semplicità, gli sembra priva di una risposta sensata.

«Non posso rimanere qui,» replica, senza esporsi ulteriormente e sapendo quanto suoni patetica quella scusa.

«Dovresti, invece,» ribatte lei. «Distruggere sacchi da boxe non è una soluzione,» aggiunge, e Steve si chiede se sia davvero così semplice da leggere, visto che il pensiero di fare a pezzi qualcosa l’ha sfiorato: semplice, invitante e inutile.

Ha sempre trovato i pugni più terapeutici delle lacrime, che fossero contro un gruppo di bulletti, gli scagnozzi dell’HYDRA o un sacco da allenamento. Il volto di Thanos gli balena davanti, ricordandogli a fuoco vivo contro chi dovrebbe indirizzare quella rabbia.

«Tu hai forse altre soluzioni?» chiede senza risentirsi, troppo stanco per contestare la sua obiezione e allo stesso tempo cosciente che non riceverà risposta.

«Un paio,» lo sorprende lei, inclinando la testa di lato con un piccolo scatto. «Per esempio fare in modo che la prossima “riunione” sia una riunione e non un processo pubblico,» continua, ancora a voce bassa, ma più sferzante.

«Stai dicendo che è colpa mia?» sbotta Steve, senza nascondere la propria irritazione latente.

«È colpa nostra. Nessuno escluso,» puntualizza lei, senza demordere.

«Io ho tentato di arginare la situazione, ma…» si interrompe per un istante, per poi continuare con più veemenza, stanco di reprimere le accuse che gli salgono spontanee alle labbra.
«Ma Stark continua a farla precipitare,» conclude seccamente, coi pugni contratti.

Nataša si concede un debole sospiro, senza negare quell’affermazione.

«È arrabbiato, Steve,» mormora infine. «Come lo siamo tu, e io, e Thor e Bruce e tutti gli altri. Siamo tutti arrabbiati, ed è più semplice prendersela con qualcuno che può reagire, piuttosto che con la cenere,» ragiona lucidamente, e lui non può che tirare le labbra, muto, perché capisce fin troppo bene quello che vuole dire.

«Se continuiamo a darci addosso…» Steve non completa la frase e scuote la testa, stropicciandosi le palpebre umide.

«Noi non lo stiamo facendo,» gli fa notare lei, strappandogli l’ombra di un debole sorriso. «È già qualcosa,» conclude, e parrebbe quasi ottimista, se non la conoscesse abbastanza da leggere lo sconforto nei suoi occhi ora meno freddi del solito.

«E neanche tu e Banner,» osserva lui, a suo rischio e pericolo.

Nataša comprime le labbra, quasi a precludergli una risposta.

«Abbiamo… risolto,» rivela poi. «Sempre che ci sia mai stato qualcosa da risolvere,» offre, vaga come suo solito. «Adesso tocca a lui e Thor,» prevede infine, catturando la sua attenzione.

«Bruce ti ha detto qualcosa?» chiede, memore della loro chiacchierata in mezzo al torrente.

«Poco e niente, in realtà,» si stringe nelle spalle lei. «Solo che Thanos ha sconfitto Hulk, e poi ha ucciso Loki davanti al fratello. Si sente responsabile e…»

«E Thor non aiuta,» conclude Steve, amaramente.

«Ha perso il suo intero popolo,» gli ricorda lei. «Puoi davvero biasimarlo?»

Steve scuote la testa, tacendo e cercando di non pensare a Londra e alle macerie, alla cappa di morte e devastazione, che lo opprimeva allora come adesso. All’epoca riusciva almeno ad avere conferma visiva della morte: le case sventrate, i crateri, i cadaveri per le strade che sembravano sempre troppi per appartenere tutti a quel mondo, le corazze plumbee degli ordigni inesplosi. Ora ha solo l’eco intangibile di uno schiocco, e quel dolore martellante alla tempia che sembra gridare con la voce di chi non c’è più.

«Stanno parlando?» chiede invece, consapevole di quanto sia fragile il suo tono, come se qualcuno gli stesse scuotendo le costole dall’interno mentre parla.

«Spero di sì, e spero che non vada a finire come stamattina,» commenta Nataša, accigliandosi.

Steve concorda in silenzio, continuando a massaggiarsi gli occhi di tanto in tanto, nonostante siano ormai asciutti. Lei sembra non avere intenzione di spostarsi; rimane lì in ginocchio, il volto alla sua altezza, una mano a stringergli discretamente il braccio e l’altra in grembo.
La pioggia, breve e violenta, ha smesso di tempestare la vetrata in fondo al corridoio, fiocamente illuminato dalla luce cianotica di un crepuscolo prematuro.

«Anche voi dovreste parlare,» afferma Nataša sottovoce, e nel dirlo sembra quasi sovrappensiero, come se quello fosse un concetto passeggero in cui non ripone troppa fiducia.

Steve se l’aspettava e non ha bisogno di ulteriori specifiche da parte sua, ma non può fare a meno di irrigidire il proprio volto, contrariato.

«Adesso non mi sembra il momento giusto per affrontare…»

«Steve, non c’è più un momento “giusto” per fare nulla,» lo interrompe lei, sollevandogli il viso che aveva inconsciamente abbassato con una mano sotto al mento. «Bruce forse ha ragione: ormai un giorno in più o in meno non fa differenza; ma più aspettiamo, più tutto questo diventa definitivo,» continua, con più energia.

«Abbiamo già parlato, Nat,» rincara lui, con un velo di risentimento.

«Di cosa?» lo incalza lei, senza dargli tempo di continuare.

«Di tutto,» ribatte, e nel dirlo si rende conto che non è vero, e anche lei glielo legge nello sguardo.

Che non hanno parlato di nulla, in realtà1. Che un paio di frasi colme di sottintesi, di risposte allusive, accuse latenti e non detti tra le righe, non equivalgono a parlare. Che lasciar cadere il discorso perché entrambi erano troppo stanchi, troppo logorati dalle perdite per addentrarvisi davvero, non equivale a risolverlo.
Non era perdono, gli aveva detto Tony, e lui ha voluto interpretare quelle parole come uno spiraglio, quando invece gli è ormai chiaro che sono una corazza, una delle tante dietro le quali si è sempre nascosto l’ingegnere.
Butta fuori un lungo sospiro, consapevole di essersi nascosto a sua volta, e chiedendosi se abbia peccato d’ingenuità o di vigliaccheria nel farlo. Sa bene quale possibilità lo disgusterebbe di più.

«Lo sai che ho ragione,» commenta Nataša, inflessibile di fronte al suo breve silenzio.

«Non è detto che parlare migliorerà la situazione,» si costringe a rispondere infine. «So di non aver sbagliato due anni fa, e anche potendo non cambierei la mia scelta,» proferisce poi, rialzando del tutto il volto.

È vero. Rifarebbe tutto, dalla prima all’ultima azione; proteggerebbe Bucky, entrerebbe in clandestinità e si rifiuterebbe di sottostare a una legge sbagliata alla radice.

«Pensi che a Tony farebbe piacere se gli dicessi che, secondo me, ha ancora torto marcio?» sbotta poi, con una vena di scherno.

«Adesso di cosa stai parlando?» lo rimbecca Nataša, impassibile. «Gli Accordi non mi sembrano affatto “faccende personali”,» insinua poi, con la consueta acutezza, e Steve stringe appena i denti sentendosi improvvisamente colto in fallo.

Perché, a pensarci bene, forse non rifarebbe proprio tutto, e, potendo, cancellerebbe la Siberia e tutto ciò che l’ha causata. E sa che il nòcciolo del discorso è di nuovo il silenzio; il suo silenzio. Gli Accordi non c’entrano: sono lo scudo e la corazza oltre i quali si rifiutano entrambi di guardare.

«No, non lo sono,» ammette, con un filo di voce, e si frena dal dire altro.

Nataša lo fissa per quello che sembra un minuto intero, con gli occhi seri e penetranti che non si distolgono dai suoi, quasi sperasse di leggervi quello che ancora le sfugge.

«Vai da lui,» proferisce infine, riscuotendolo con una lieve pacca sulle ginocchia.

Steve trasalisce, sbattendo le palpebre appesantite.

«Cosa?»
«Mi hai sentito: vai da lui. Adesso, prima che ci vada io e vi costringa a risolvere la questione su un ring,» aggiunge minacciosa, e Steve non è sicuro che stia davvero scherzando.

«Perché ho il sospetto che finirà comunque così?» ribatte, con quieta rassegnazione.

Nataša non risponde subito e si rialza in piedi, offrendogli poi una mano per aiutarlo. Lui la accetta con lieve titubanza, sentendosi le gambe di piombo e le articolazioni rigide come argani arrugginiti e mal oliati.

«Sarebbe comunque un miglioramento,» sbuffa Nataša, con un’occhiata eloquente. «Vogliamo tutti la stessa cosa e siamo tutti dalla stessa parte. Cerca di farglielo capire,» conclude, con più fiducia di quanto si sarebbe aspettato.

Annuisce, pur senza convinzione, e si sfrega la barba con fare distratto, a prendersi tempo. A questo punto la giornata può solo finire nel peggiore dei modi, ma gli riesce difficile prevedere anche quello che succederà tra pochi minuti, figurarsi le sorti dell’universo. Guarda Nataša, e di nuovo realizza quanto le sia grato. Non era tenuta a interessarsi, non era tenuta a mettere da parte il suo dolore per occuparsi del suo, e non era tenuta ad assumersi quel ruolo di mediatrice che aveva già rifiutato categoricamente a Tony. Le cerca gli occhi, che si impegna a mantenere sfuggenti quasi potessero tradirla nonostante gli anni di addestramento, e di nuovo gli sembra che abbiano perso la loro trasparenza neutrale, caricandosi di ombre fin troppo scure ed evidenti.

«Tu stai bene?» le chiede, odiando quelle frasi fatte di cui farebbe volentieri a meno, come quando annunciava delle brutte notizie ai soldati o alle loro famiglie.

Lei scrolla le spalle, incrociando le braccia, e non gli serve un libretto d'istruzioni sul linguaggio non verbale per interpretare il gesto come una barriera.

«Passerà,» asserisce, atona. «Alla morte ci si abitua. Tu dovresti saperlo,» aggiunge poi, attaccando per difendersi come fa spesso e lasciando trapelare il suo sconforto oltre la maschera speranzosa che ha mantenuto finora.

«Non ci si abitua mai davvero, nemmeno in guerra,» la contraddice, con gentile fermezza.

«Forse,» concede lei, e freme appena, quasi a reprimere un brivido. «Ma è inutile pensarci. Hai quello che hai quando lo hai. E io non l'ho più2,» sciorina lei tranquillamente, abbassando lo sguardo.

Steve intuisce di nuovo un qualcosa di trattenuto, uno di quei non detti che finiranno per mandarlo al manicomio, ma lascia correre, come ultimamente sta facendo spesso.

«E hai il coraggio di dire a noi due che non parliamo,» la rimprovera soltanto, per poi attirarla a sé senza riflettere, stringendola in un abbraccio.

Lei non lo ricambia, ma non vi si sottrae e si poggia appena a lui, accettando quel supporto che non avrebbe mai chiesto esplicitamente.

«Non c’è niente da dire,» mente comunque, ostinata fino all’ultimo.

Steve non ribatte, perché in fondo ha già detto abbastanza così.

 
***
 
 
Nella brezza, mischiato al penetrante odore di ozono, è sospeso un profumo mellifluo di fiori notturni. Steve inspira a pieni polmoni l’aria umida e limpida dopo il temporale, e punta gli occhi sull’orizzonte ancora delimitato da una sottile striscia verdastra, pronta a cedere al buio incombente.

La sala comune era deserta, con suo sollievo. Si è spinto sul ballatoio che corre attorno al perimetro dell’edificio, camminando a passi lenti nel tentativo di sgombrare la testa accaldata, che sembra adesso piena di un liquido denso e ribollente, quasi vi stessero sciabordando tutte le lacrime che non ha versato. Ha deciso di fare un giro del palazzo per rinfrescarsi la mente, prima di provare a bussare alla porta di Tony, anche se sa già che finirà per aspettare il mattino.

Si sta giusto avvicinando al primo angolo, quando capta un brusio smorzato e si ferma d’istinto. Tende l’orecchio, ma anche così il chiacchiericcio è indistinguibile – riconosce solo due voci familiari, e prega di sbagliarsi. Muove dei passi cauti, poggiando i piedi leggermente di sbieco per non far rumore, anche se è consapevole che dovrebbe fare esattamente il contrario per annunciare la propria presenza, ma gli istinti da soldato sono ardui da reprimere. Si sporge appena oltre l’angolo, e conferma i propri sospetti quando mette a fuoco Rhodes e Tony, seduti uno accanto all’altro sul pavimento del ballatoio, coi piedi penzoloni nel vuoto e le braccia poggiate contro la barra trasversale della balaustra metallica. Tony sta apparentemente parlando a ruota libera, gesticolando svogliatamente, e se non fosse per il contesto e la sua voce roca ed esausta potrebbe quasi sembrare un discorso preso da una giornata qualunque all’Avengers Tower.

«... delle fragole. Di tutto ciò che potevo portarle, ho scelto l'unica cosa a cui era allergica. Se questo non è un segno…» sta raccontando, e dal tono sembra sorridente a dispetto della situazione.

«Un segno della sua infinita pazienza?» ribatte Rhodes, con uno sbuffo ironico.

«Sempre dalla mia parte, eh?» commenta l’altro, scuotendo la testa.

Steve si ripara di nuovo dietro il muro, escludendo dalle proprie orecchie quella conversazione fin troppo privata che continua serratamente in sottofondo. Sta per andarsene, rimandando in modo definitivo il confronto al giorno dopo, quando si blocca a metà movimento nell’udire il proprio nome.

«… come prima con Rogers; bell’amico che sei!»

«Avrei dovuto lasciarvi prendere a cazzotti?»

«L’idea era quella, ed era anche ottima.»

Steve esita. Sa che dovrebbe andarsene, sa che origliare è sbagliato – era lui che da bambino rimproverava Bucky quando lo faceva ed era lui che mal sopportava il concetto di “spia” nell’esercito – ma allo stesso tempo è cosciente che quella sarebbe una mossa strategica. Un modo per aiutarlo ad evitare passi falsi e finire su un ring come ha predetto Nataša.

«Ottima per finire dissanguato, certo,» sbuffa Rhodes, chiaramente esasperato. «Non so come tu abbia il coraggio di alzarti dal letto con quella ferita.»

«Non mettertici anche tu; mi è bastata Nat a farmi la ramanzina. E scusa se non ho voglia di perdere altro tempo a lamentarmi e frignare,» sbotta d’un fiato l’altro, troppo velocemente e con voce traballante in contrasto con le proprie parole.

C’è un breve vuoto nel discorso, e Steve si pietrifica nel gesto di poggiarsi contro il muro, timoroso di far rumore; lo completa solo quando riprendono a parlare, coperto dalle loro voci e dall’insistente frinire di un grillo solitario:

«Hai già fatto molto, Tony. Puoi anche concederti un momento di…»

«No, non posso,» ringhia subito in risposta lui, e c’è un sordo suono metallico a concludere le sue parole, come se avesse dato un colpo alla ringhiera. «Non hai sentito? Il nostro… il mio piano è campato in aria e non ci porterà da nessuna parte, a detta del boss,» continua causticamente, e Steve trattiene a forza un sospiro di fronte a quell’astio non più represso. «Quindi dovrò scervellarmi un altro po’, cavar fuori qualcosa di sensato e poi potrò…» si interrompe di colpo con un respiro spezzato, di nuovo un istante prima di perdere il controllo della propria voce.

«… riabbracciarli,» conclude Rhodes, a voce più bassa e insolitamente delicata, per un qualcuno di così schietto e poco incline a sentimentalismi.

Tony non risponde e tira seccamente su col naso.

«Tu ci credi? Credi davvero che sia reversibile?» chiede poi a bruciapelo, e Steve coglie tutto il suo scetticismo in quella domanda alla quale anche lui ha avuto paura di rispondere.

Si sente gelare, come se qualcuno gli avesse rovesciato una secchiata di neve nello stomaco. Ha continuato ad aggrapparsi inconsciamente alla sicurezza di Tony, a come sembrasse sapere come risolvere tutto, al suo piano scartato che ha offerto comunque un fioco spiraglio. Sentirlo ora così dubbioso gli pesa più di quanto dovrebbe; lo lascia a chiedersi quanto debba essere disperata situazione per costringere qualcuno come Tony Stark ad arrampicarsi sugli specchi e millantare soluzioni troppo fragili basate su dei progetti di Howard di cinquant'anni prima.

«Devo crederci. Tu no?» Rhodes sembra altrettanto sorpreso dalla sua domanda.

«Secondo un calcolo probabilistico, abbiamo una possibilità su 14.000.605 di vincere,» enuncia lui, a colpo sicuro. «Scusa se non ho grandi speranze al riguardo,» conclude, con debole sarcasmo.

«È una stima affidabile o stai solo dando i numeri?»

Uno sbuffo indecifrabile è tutto ciò che Tony offre in risposta.

«Di sicuro le nostre possibilità aumenterebbero se tu e Rogers la smetteste di prendervi a testate,» riprende allora Rhodes, e Steve, tra sé, non può dargli torto.

«Cristo, allora sei davvero dalla sua parte,» bofonchia Tony, strascicando le parole.

«Tony, piantala. Pensi che esistano delle "parti", adesso?»

«Non sono così stupido. Sono stato il primo a dirgli che non me ne fregava più nulla di ciò che è successo con gli Accordi.»

«E quindi?»

C’è un secondo sospeso di pausa, e Steve si rende conto di star trattenendo il fiato.

«Quindi ho mentito,» replica lui, tagliente, senza mezzi termini. «Lo faccio spesso, ormai dovresti averlo imparato,» continua con arroganza.

Steve si costringe a controllarsi, piantandosi pollice e indice nelle palpebre irritate, perché il primo istinto sarebbe quello di uscire allo scoperto, prenderlo per la collottola e dirgli che è un emerito imbecille, nonostante quello che sta ammettendo sia in realtà ovvio. Perde per un attimo il filo del discorso, ma anche Rhodes si è accalorato, mettendo da parte il suo fare comprensivo.

«… invece di continuare a tenervi il broncio e bisticciare come…»

«Domanda: perché sto ancora parlando con te?»

«No, la domanda è perché non avete parlato voi!»

«Perché io ho ragione, e anche lui ha ragione!» sbotta infine Tony, quasi affannato.

C’è di nuovo una parentesi di quiete, interrotta solo da quel grillo indiscreto. Steve è abbastanza certo di aver capito male, ma il silenzio sconcertato di Rhodes è una valida conferma di non aver avuto un’allucinazione uditiva, perché in sei anni Tony non è mai stato neanche vicino a dargli ragione, se non per scopi derisori e con parole traboccanti di supponente sarcasmo.

«L’hai detto,» osserva Rhodes, comprensibilmente spaesato.

Il sospiro di Tony potrebbe decisamente scatenare un tifone.

«L’ho detto,» gli cede il punto, con stizza. «È un paradosso coi fiocchi, ma non abbiamo tempo per risolverlo. Gli Accordi adesso non servono a nulla e questo schifo di situazione è più importante de–...» la frase viene troncata di netto, e Steve può quasi immaginarsi Tony che si rimangia quella parola in sospeso tra loro da giorni.

«Della Siberia?» completa Rhodes, in bilico tra il sarcasmo e l'esasperazione.

«Sì. Più o meno.»

Steve percepisce un deciso vuoto allo stomaco, e si ritrova la bocca improvvisamente arida come carta vetrata.

«Tony, che diavolo è successo, laggiù?»

Steve sa che adesso dovrebbe voltare i tacchi e andarsene.

«Non ha senso parlarne adesso. E non ha senso parlarne con te

Cerca la forza di muovere il primo passo, ma è come se qualcuno l’avesse inchiodato sul posto, per poi rendersi conto che è lui a voler rimanere lì, a voler sentire sentire l'altra campana.

«Non sono qui per giudicarti,» continua intanto Rhodes, di nuovo in tono misurato. «Quando fai qualcosa di stupido mi incazzo, e credimi, mi fai incazzare spesso. Ma non ti mollo, Tones. Non l’ho fatto in trent’anni e non lo farò adesso.»

È la sua ultima possibilità per allontanarsi, perché sa che quando Tony inizierà a parlare, rievocando quel bunker gelido, non ne sarà più in grado.

«Grazie, WarMachineRox,» dice Tony, e si intuisce un lieve sorriso nella sua voce.

«Di nulla, signor Stank,» replica pronto l’amico.

C’è una sorta di sbuffo soffocato da parte di Tony, come un principio di risata troppo debole per lasciare davvero le sue labbra e attutito da un velo che sembra ostruirgli la gola.
Steve rimane al suo posto, le orecchie tese sin quasi allo spasmo e il cuore che gli martella nel petto senza un motivo apparente.

«La Siberia era una trappola,» esordisce d'un tratto Tony, e il suo è quasi un colpo di tosse che lacera l’aria serale.

Prima che Steve possa rendersene conto, ha già iniziato a raccontare, partendo dalla sua visita alla RAFT. È fattuale, stringato, nonostante la voce costantemente sul punto di sfaldarsi. Non aggiunge un singolo commento personale e si astiene anche dall’uso dell’ironia. Gli sembra di sentire uno degli speaker dei cinegiornali di guerra; riesce quasi a vedere la pellicola granulosa scorrergli davanti agli occhi, di pari passo con gli eventi narrati. Quando arriva alla lettera che gli ha spedito si sente stremato quanto lui, e con un principio di nausea a chiudergli la gola.

Ha narrato il tutto in modo asettico, impersonale, ed è proprio in quella scelta ponderata che Steve percepisce quanto quelle schegge che si sono lasciati dietro siano ancora conficcate in profondità nelle carni di entrambi, perché ciò che Tony ha omesso è esattamente ciò che lui stesso non vorrebbe sentire. Per un istante, è paralizzato dal sospetto che Tony sappia che lui è in ascolto; sospetto che viene dissipato dalle successive parole che pronuncia, le prime che infrangono la lastra di silenzio attonito interposta tra lui e Rhodes:

«Non ho perso la sanità mentale solo perché c’eravate tu, Pepper e Peter a impedirmelo,» mormora, a stento udibile. «Altrimenti non so cos’avrei fatto. Non lo so davvero.»

C’è un lungo sospiro da parte di Rhodes, comprensibilmente preso in contropiede da ciò che ha appena sentito. Steve rilassa le dita che ha involontariamente conficcato nei bicipiti, sentendosi un condannato in attesa del verdetto.

«Dio…» proferisce infine, ancora sconcertato. «Mi sarei aspettato di tutto, ma questo…»

«Non dirlo a me,» borbotta Tony, senza alcuna inflessione. «E dire che ero andato lì da amico,» continua, adesso con un respiro sforzato, sinonimo di una rabbia a malapena trattenuta. «Ma a quanto pare, se non sei un soldatino di novant’anni pronto a metterti sull’attenti e scodinzolare, sei escluso dalla cricca di Rogers.»

Steve deve far appello a tutto il suo autocontrollo per non uscire allo scoperto e fargli rimangiare quell’insulto – ed è consapevole che in realtà sarebbe proprio Bucky a trattenerlo e liquidare la questione senza darvi peso. Si lascia fermare dal suo ricordo – perché dopotutto origliare è sbagliato e lui non dovrebbe essere lì.

«Tony... non odiarmi per quello che sto per dire,» dice intanto Rhodes, pesando accuratamente le parole.

«Lo so da me che quello che è successo ai miei è colpa dell’HYDRA,» sbotta l’altro, interrompendolo. «Pensi che questo cambi qualcosa?» continua, in tono esausto e frustrato.

«Infatti non è qui che volevo arrivare,» lo contraddice Rhodes, con insolita pacatezza. «Non riesco neanche a immaginare come ti sia sentito, in Siberia. Ma… tentare di ucciderli con le tue mani?» Rhodes tace per un attimo, esitante. «Lucidamente?» lo incalza poi, e c’è una sfumatura preoccupata in quella domanda.

«Non ero “lucido”,» ribatte Tony, con la collera che gli fa vibrare la voce. «Tu saresti lucido, dopo aver visto strangolare tua madre in diretta?» continua seccamente.

«No, e non pretendo che tu mantenessi la calma. Ma non voglio neanche immaginare che il mio migliore amico possa diventare un assassino,» ribatte piattamente Rhodes.

Tony risponde con un sospiro snervato.

«Veramente?» sibila poi. «Mi stai facendo la paternale?»

«Ti ho detto che non ti sto giudicando. Provo solo a rimanere obbiettivo,» ribatte Rhodes.

«Certo, perché accettare che io abbia ragione è sempre troppo difficile,» osserva lui, con scherno.

«Il punto è un altro, e lo sai. Qui stiamo parlando di omicidio, e tu non…»

«Io non posso essere sempre l’eroe!» sbotta a quel punto Tony, inalberandosi. «Cosa pensi che abbia fatto dei terroristi che mi hanno rapito? E cosa pensi che farò quando mi troverò davanti Thanos?» la sua voce si spezza sul quell’ultimo nome, e Steve si trova a sua volta coi pugni serrati e tremanti, come se il solo pronunciarlo potesse evocarne la presenza.

«Quindi dovresti essere contento che adesso Barnes sia morto, no? Almeno una buona notizia in questa tragedia!» recita sarcastico Rhodes.

Steve si obbliga a rilassarsi e a controllare qualunque reazione potrebbe scaturire dalla risposta di Tony.

«Non posso esserne contento. Ma non posso neanche dispiacermi,» replica dopo qualche secondo, affannato, come se la domanda l’avesse colto alla sprovvista. «E Barnes non è comunque la parte peggiore,» con un tono venato di falso divertimento, sulla soglia di una risatina isterica.

Steve si irrigidisce, sostituendo lo spaesamento per le prime, inaspettate parole con un sottile timore. Pensava di averla già ascoltata, la parte peggiore, e il pensiero che agli occhi di Tony non sia tale gli fa desiderare di andarsene adesso, e allo stesso tempo di rimanere inchiodato al suo posto.

«E quale sarebbe?»

«La parte peggiore è che Rogers, dopo avermi mentito mi ha ucciso

Steve si sente spremere l'aria dai polmoni, e il cuore si congela a metà di un battito. Si chiede se la sensazione sia equiparabile a quella di avere uno scudo infisso nel petto.

«Stavo per morire,» continua piano Tony, di fronte al silenzio attonito dell’amico.

«Stavi… dove? In Siberia?»

Steve può dedurre che Tony abbia annuito, perché Rhodes non chiede altro.

«Sai com’è avere il petto collassato?» sospira poi, deglutendo a fatica. «È più o meno come avere un reattore che ti trapassa lo sterno. O uno scudo che ti spacca le costole. Ti sembra di annegare.»

C’è una pausa così intensa che Steve potrebbe sentire i propri pensieri affondare nel buio circostante. Fa più freddo di quanto dovrebbe; sa che è un’impressione, ma non trattiene un brivido involontario.

«Se ne sono andati, Rhodey,» butta fuori l’aria dal naso lentamente, a calmare il respiro. «Ero lì, col petto fracassato, con una cazzo di armatura rotta che non potevo togliermi, a sputare sangue e crepare di freddo, e se ne sono andati,» conclude, in un mormorio che ha dell’incredulo. «Di cosa dovremmo parlare, esattamente? Del fatto che va tutto bene solo perché sono ancora vivo?»

«Cosa vuoi che ti dica?» risponde Rhodes, in fretta ma altrettanto piano. «Che hai ragione? Che fai bene a non voler parlare con Rogers e a comportarti così?» continua, più pressante, senza cavar fuori una risposta da Tony, adesso chiuso in un ostinato mutismo. «Tony, questo è il momento in cui devi decidere se parlarne con lui o lasciar perdere per sempre. Lo so che non ti piace pensare in bianco e nero, ma stavolta non puoi rimanere nel mezzo,» gli fa notare, cercando di riscuoterlo.

«Vorrei dire che me ne frego,» proferisce infine Tony, impassibile. «Di tutto. Di Rogers, di Barnes, degli Accordi, della Siberia… ma adesso quelle sono le uniche cose che posso risolvere. Preferisco pensare alla Siberia, piuttosto che a… al resto

Non può vederlo, ma sente la sua voce spezzarsi con un singulto sforzato. Cade nuovamente nel silenzio, e Rhodes lo rispetta, senza aggiungere altro.
Steve a questo punto vorrebbe solo allontanarsi, ma teme che ogni minimo movimento potrebbe attirare la loro attenzione, in quell'assenza di suoni così intensa da essere assordante. Si sente frastornato, con una decisa morsa di senso di colpa ad arpionargli lo stomaco, ma non riesce a formulare alcun pensiero coerente. Le parole di Tony gli rimbombano in testa prive di senso, in una cacofonia di suoni sovrapposti ed echeggianti che gli è impossibile mettere a fuoco. Di nitido, vede solo il volto insanguinato del compagno, nell’istante congelato in cui stava per spaccargli la testa con lo scudo.

«Rhodey, li ho persi,» la voce di Tony rompe debolmente la quiete, distante e completamente priva d’inflessione, quasi stesse enunciando un suo nuovo teorema appena elaborato e del tutto astratto, slegato dalla sfera emotiva. «Non ero lì con lei perché l’ho lasciata sola, come sempre… e il ragazzino mi è sparito davanti, e non…»

“Steve…”

Chiude gli occhi, ma la cenere non scompare, rimane sospesa tra loro.

«Non è colpa tua,» lo interrompe Rhodes, adesso tremante. «Non è colpa tua e nessuno di noi poteva…»

«Li ho persi,» ripete Tony in un soffio, ignorandolo. «E non so più cosa fare. Non ho mai davvero avuto un piano e non so più come… dovrei essere in laboratorio, non qui a…»

«Tony,» Rhodes interrompe il suo parlare concitato e sconnesso, e lui ammutolisce. «Ehi, guardami. Farai e faremo tutto il possibile per riportarli indietro, ma adesso hai bisogno di riposarti, perché in questo stato non concluderai nulla. Devi ricaricare le batterie e resettare i neuroni,» gli dice con voce pacata, nel tentativo di calmare il suo respiro fattosi affaticato.

Steve lo sente alzarsi, e i suoi passi fanno vibrare la balaustra metallica.
«Vieni, ti accompagno in camera. Non sei ridotto bene,» dice schietto, e Steve scorge la sua ombra nel riquadro di luce proiettato dalla finestra alle sue spalle, la mano tesa verso Tony.

«Ce la faccio,» replica questi, sollevandosi pesantemente senza aiuto e facendo per un istante capolino da oltre l’angolo.

Steve si irrigidisce, appiattendosi ancor di più con la schiena contro il muro, ma sa di essere in ombra e invisibile, e Tony sembra troppo assente per mettere a fuoco chiaramente ciò che lo circonda.

«Intanto vai. Io voglio stare un po’ da solo,» afferma, con fare spento.

«Tony, ti prego…» comincia l’amico, implorante.

«Non farò nulla che potrebbe farti incazzare, o almeno ci proverò,» lo rassicura subito lui, con appena un guizzo di sorriso nelle sue parole.

Il rumore di un lungo sospiro, unito allo scatto della porta-finestra che si chiude dietro Rhodes segna la fine della conversazione. Tony si mette di nuovo a sedere, soffocando un lamento, e Steve fa lo stesso a pochi metri da lui, lasciandosi scivolare contro il muro. Forse spera di trovare il coraggio per farsi avanti. Forse spera solo di essere scoperto. La sua testa rimane muta, vuota, come se fosse riempita d'elio.
Rimangono seduti lì a lungo, con gli occhi persi in punti diversi della steppa disseminata di ceneri davanti a loro.

Dopo quelle che sembrano ore, sente Tony alzarsi pesantemente. Non lo vede, ma scorge la sua ombra nel riquadro della finestra: si è appoggiato alla balaustra. Sente uno strattone di paura allo stomaco nel realizzare che sono ad almeno venti metri d’altezza e che Tony si è appena proteso verso il buio sottostante, come a volerne scorgere il fondo. Prima di poter scattare in piedi – e fermarlo, trascinarlo al sicuro oltre il bordo, afferrarlo col terrore di lasciarsi sfuggire anche quella mano – lo sente prendere un paio di respiri profondi, per poi scostarsi zoppicante dal parapetto e rientrare sbattendo la porta.

Steve non si muove, con un sollievo caustico che gli scioglie le viscere. Si porta una mano alla tempia e poggia la nuca contro il muro, con lo sguardo rivolto al cielo spento.
Sente l’oscurità premergli sulle orecchie.
Il mal di testa è peggiorato.


 

Note:

1Tutto il passaggio si riferisce alla one-shot Speaking Terms.
2Citazione da una scena tagliata di Civil War, quando Steve e Nat parlano dopo il funerale di Peggy. Ringrazio T612 che tempo fa mi aveva consigliato di guardarla (e so che la interpreterai nel giusto modo <3)



Note Dell'Autrice:

Salve!
No, la storia non è defunta, è solo che questo capitolo ha avuto una genesi estremamente travagliata...
Prima di venir linciata: no, Cap non origlierebbe mai una conversazione se fosse nel pieno delle sue facoltà mentali.
Rendere Tony senza la sua mimica facciale è stata una delle cose più complesse che abbia mai fatto, ma spero gradiate il risultato :) Le reazioni di Steve sono "limitate" per una questione di realismo: nell'ascoltare una conversazione si ha molto poco tempo per riflettere, e ho reputato fuori luogo inserire flussi di coscienza troppo lunghi, anche per timore di rendere il dialogo tra Tony e Rhodey ostico da seguire.

Detto ciò, ringrazio tantissimo _Atlas_, shilyss, serica e T612 per aver commentato lo scorso capitolo, e tutti coloro che hanno aggiunto la storia alle preferite/ricordate/seguite <3
Ringrazio in particolar modo la mia cara Atlas, che è stata di grande aiuto nella gestione di Rhodey, uno dei miei storici talloni d'Achille che a questo giro ha fatto ammattire tutte e due. Infatti, caso ha voluto che dovessimo affrontare entrambe l'argomento "Siberia" accoppiato a Rhodes nei rispettivi nuovi capitoli, quindi potreste trovare qualche somiglianza per i temi trattati nella sua (splenderrima) Drowning Man, che vi invito caldamente a leggere ;)

Grazie per aver letto, e spero come sempre di aggiornare presto.
A proposito, mancano due capitoli :D
Ossequi,

-Light-

P.S. Steve che piange è colpa del primo trailer di Endgame, sapevatelo.

 
   
 
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