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Autore: ___Page    28/02/2019    3 recensioni
«Allora, cosa mi raccontate?!» tiene un braccio sulle mie spalle mentre ci avviciniamo al tavolo. «Il lavoro? Il trasloco?».
«Abbiamo una piccola divergenza di opinioni sul citofono» racconta Ace con un sorrisone.
«Al lavoro tutto bene. Un po’ presi da un nuovo progetto. I Cloth Tattoo vanno alla grande».
«E al Castello?»
Law ghigna, come sempre orgoglioso del suo ospedale pediatrico.
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Ora al posto dello sterrato c’è una gittata di asfalto, per agevolare il transito di macchine e della linea di autobus che il comune di Raftel ha attivato apposta per collegare l’ospedale al centro città, ma, come quasi mai accade, non è una brutta visione. Questa strada è il preludio di qualcosa di così bello da rendere i miei ricordi su questa collina ancora più preziosi.
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«Oh santo…»
«Non t’azzardare» lo ammonisce la voce da dentro la maschera. «Pesa quanto me e caccia un caldo allucinante»
«E dire che sembra così confortevole» commenta bastardo Law.
«Grazie al cielo il resto del costume non mi va. Ma non si poteva dire ai bambini che il Dugongo Kung Fu si è slogato una caviglia. No. Perché avrebbero perso fiducia nelle arti marziali. Capisci, Law?! S’è slogato il cervello, altro che la caviglia!»
Genere: Commedia, Introspettivo, Sentimentale | Stato: completa
Tipo di coppia: Het, Shonen-ai | Personaggi: Altro Personaggio, Izou, Koala, Sabo, Sanji | Coppie: Nami/Zoro
Note: AU, OOC | Avvertimenti: nessuno
Capitoli:
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Ogni quartiere di Raftel ha un parco e in ogni parco di ogni quartiere di Raftel, prima o dopo, qualcuno apre un bar o una caffetteria.
I bar e le caffetterie sono luoghi molto più utili di quello che si possa valutare a una riflessione poco approfondita. Sono luoghi di ristoro per turisti assetati, inestinguibile fonte di indicazioni stradali se ti perdi e, se hai girato tutta Raftel in una caleidoscopica visita e non ti ricordi più qual era il parco e il quartiere dove il tuo non-ancora-all’epoca-ragazzo ti ha fatto innamorare, con una mezza fiaba su una panchina e l’attesa di un sogno, basta cercare su Google Maps il caffè che ha sede nel medesimo parco, che invece ricordi per il suo evocativo nome.
Bar Tispenno.
Non fatico a capire perché mi sia rimasto impresso, nonostante la quantità di informazioni di cui il mio cervello è stato bombardato quel giorno. È certo che se non mi fossi ricordata il nome del bar, non so se avrei mai indovinato il parco giusto, tanti ce ne sono in questa benedetta città.
Ma ora sono qui, che avanzo a passo di carica sull’erba e sotto il sole, diretta non so bene dove visto che evidentemente quella famosa sera ero così stanca che ora come ora non riesco a individuare neppure la panchina giusta. Il punto è che non sono tante e sono tutte vuote e la delusione mi attanaglia al pensiero che, alla fine, Sabo deve essersi stancato di aspettare.
Mi sposto ancora di qualche passo, allungando il collo verso l’ultima seduta a tre posti che rientra nel mio campo visivo, ma anche su quella non c’è nessuno ed è con un profondo respiro che mi lascio cadere sulla panchina a me più vicina. Mi viene il legittimo dubbio che forse, dopotutto, Caribou il cellulare glielo ha davvero rubato, e dovrei agitarmi e cercarlo come una pazza per paura che lo abbiano aggredito ma la mia parte razionale ha subito la meglio, e mi fa notare che nessuno è così idiota da rispondere a un cellulare sottratto con la forza e pure presentarsi.
Neppure Caribou, che sembrava parecchio scemo a onor del vero.
Mi abbandono con la schiena contro la panchina e inclino spalle e testa all’indietro, gli occhi chiusi per godermi l’effetto rigenerante dell’ombra e della brezza estiva, un attimo di pace, prima di ripartire con la mia ricerca. Giro il viso di lato e apro gli occhi, squadrando la struttura del bar, un po’ nascosto dagli alberi. Potrei andare a chiedere ma non so esattamente che domanda porre per non sembrare completamente pazza. Forse potrei fare come nei film polizieschi, mostrare loro una foto di Sabo e chiedere se lo hanno visto. Magari mi scambieranno per una detective. Sarebbe stato figo fare la detective.
Chissà perché non ci ho mai pensato. Certo la mia vita sarebbe stata totalmente diversa e forse mi sarei anche dovuta inventare un’identità alternativa.
Sto ancora riflettendo su possibili nomi e su come le cose sarebbero potute andare se fossi entrata in polizia anziché a medicina quando la vedo. Una panchina, a pochi metri dal bar, nascosta quasi completamente da un albero, spunta una spanna appena. E insieme alla spanna di panchina, due piedi scalzi e un pezzo di gamba nuda.
Il cuore mi si ferma mi giro anche con il busto, afferrando la testata di quella su cui sono seduta io.
Oddio, oddio ti prego, fa che…
Mi alzo, già lanciata in avanti e pecorro di corsa i pochi metri che mi dividono da lui.
Se è effettivamente lui.
Per favore dimmi che è lui, dai deve essere per forza…
«Sabo!» lo chiamo appena entra nel mio campo visivo, steso sulla panca, un braccio a coprirgli gli occhi e il resto del corpo inerme. Mi viene il dubbio che stia dormendo ma appena chiamo il suo nome sposta l’arto e mi guarda e appena i suoi occhi incrociano i miei piego il busto e gli circondo il viso con le mani. Non che lui dia segni di riconoscermi ma ora non ho tempo per questo. «Ehi, stai bene?» porto due dita al suo collo, sulla carotide e con l’altra mano scendo a tastargli il petto. Ha l’aria tirata e sfatta, lo sguardo un po’ vacuo e le labbra screpolate. «Sabo? Mi senti?! Da quanto sei qui e… e che fine hanno fatto le tue scarpe?!?!»
Non so nemmeno io perché mi focalizzo su un dettaglio così stupido in un momento del genere ma, ehi, non è mica normale che non abbia le scarpe!
E poi, inspiegabilmente, la domanda sembra sbloccarlo.
«Mh? Oh» si acciglia e solleva il capo a guardarsi i piedi coperti solo da un paio di fantasmini. «Oh sì!» si ricorda tornando a sdraiarsi completamente. «C’era un tizio, una con una lingua lunghissima, una roba pazzesca giuro, sembrava retrattile o una roba del genere, comunque questo tizio mi ha chiesto il cellulare ed è stato supereducato e mi faceva brutto non darglielo e poi mi ha chiesto anche le scarpe e siccome gli avevo già dato il cellulare gli ho lasciato anche le scarpe. Insomma mi sembrava carino e poi è stato davvero davvero gentile. L’ho già detto che è stato supereducato?» si copre gli occhi con le mani, come se la luce lo infastidisse, forse ha mal di testa.
Osservo attenta, ascolto come parla strascicato.
«Sei ubriaco o…» spalanco appena gli occhi, occhiando di nuovo le sue labbra rotte. «…disidatrato. Sei disidratato!» capisco e, agitata, avvicino le mani alle sue tempie. «Hai mal di testa vero?!». Potrebbe essere un principio di insolazione e il medico che è in me prende il sopravvento. «Okay, arrivo subito» decido, muovendomi decisa verso il bar. «Prendo dell’acqua e poi troviamo un posto fresco, tu non muoverti da qui» ordino prima di voltargli le spalle per entrare.
«Non c’è pericolo… Io sto aspettando…» mugugna e io mi domando dove cavolo lo porto in queste condizioni e senza neanche le scarpe.
È il caldo a colpirmi appena metto piede nel bar. Non si muove una foglia, ce n’è quasi più che fuori e per un attimo mi domando se gli avventori seduti all’interno, nonostante i tavolini esterni siano tutti vuoti, non siano masochisti. C’è un signore con capelli bianchi e lunghi al bancone che legge il giornale e lancia occhiate insistenti alle due cameriere, che si danno almeno trent’anni se non trentacinque l’una con l’altra, due tizi seduti a un tavolino che giocano a carte e una coppia accoccolata su una panca, lei si da lo smalto alle unghie dei piedi e lui fa le parole crociate.
Mi basta una rapida occhiata per capire. Il loro atteggiamento, addirittura la loro posa me lo dicono. Non sono semplici avventori, sono gli habituè. Quelli che non è che semplicemente lo frequentano, quelli per cui questo bar è una seconda casa, un appuntamento quotidiano, un pezzo di vita.
Non che al momento le dinamiche logistico-sociali di questo bar siano un primo pensiero per me. Non sono neppure un terzo o un quarto.
«Buongiorno» avanzo rapida al bancone mentre apro la zip della mia piccola tracolla in cerca di spicci. «Vorrei una bottiglietta d’acqua naturale, per favore» ordino alla cameriera più anziana, una bella donna mora sui cinquanta, forse cinquantacinque, che mi guarda con occhi liquidi e un sorriso saputo. «Subito dolcezza. Fredda?»
«Temperatura ambiente» scuoto subito il capo. Fredda non va bene se è disidratato. La cameriera si volta e piega e io intravedo mio malgrado il signore di una certa che posa il mento sulla mano e occhia platealmente il didietro della mora. Abbasso gli occhi e sorrido.
Insomma, buon per loro!
«Ecco qua. Sono quattro berry e cinquanta» annuncia e io quasi mi strozzo con la mia saliva.
«C-come?»
«Quattro berry e cinquanta, cocca»
«Ma non…» rido nervosa, lievemente accigliata. Non è da me tirare sul prezzo e non dovrei perdere tempo per questo ma... «…non è un po’ tanto?»
La cameriera giovane mi lancia un’occhiata urgente e scuote impercettibilmente il capo ma ormai è tardi. La mora posa la bottiglietta sul bancone senza lasciarla andare e si piega verso di me. «Mia cara, immagino tu non sia ben informata su quella piaga conosciuta come “privatizzazione dell’acqua”. Se vuoi, posso aiutarti a colmare la lacuna»
«Oh ti prego Shakky, no!»
«Jude non contraddirla»
«Ma Pete, non ne posso più di sentire sta tirata ogni volta!»
«Fate silenzio voi o volete che smetta di farvi credito?» li riprende la mora, Shakky se ho capito bene, prima di tornare su di me, ancora in attesa della risposta. «Ebbene?» mi sorride materna e, in qualche modo, inquietante. Non il materno-inquietante di Praline, però.
Spaesata, cerco con gli occhi la cameriera giovane che di nuovo mi fa un lieve cenno di diniego con il capo.
«Non per mettere il becco ma fossi in te le risponderei» interviene anche il vecchio signore, indicandomi con un cenno del capo e un sorriso gentile Shakky, e io mi volto a guardarlo presa in contropiede.
«Ah ecco, i-io…»
«Ma sono lentiggini quelle?» si piega appena verso di me.
«Ray, vecchio marpione, distanza di sicurezza» lo riprende Shakky ma c’è una nota maliziosa e giocosa nella sua voce. «Che altro che il becco vuoi mettere e so io dove» aggiunge e io punto gli occhi nel vuoto. Che ha detto?! «Allora, bambolina, la privatizzazione dell’acqua?»
«Ne so abbastanza» annuisco convinta. «Ecco qua cinque berry, tenga pure il resto» le allungo una banconota e afferro la bottiglietta, voltandomi con impazienza per tornare fuori.
«Grazie mille tesoro. Rica, puoi andare a controllare Sabo per favore?»
«Subito Shakky»
Mi blocco a metà strada verso la porta, così di botto che la ragazza che si sta dando lo smalto alza gli occhi, curiosa, su di me.
«Come ha detto?» mi rigiro verso Shakky.
«Mh? Oh nulla! Non so se lo hai visto ma c’è un ragazzo sdraiato sulla panchina qui fuori e…»
«Da quanto è qui?» torno indietro in tre falcate, guardandola con urgenza. «Da quanto non beve? Credo abbia preso un’insolazione ma potrebbero anche averlo aggredito e io… sono un medico!» chiarisco alzando le mani. «Mi serve solo sapere da quan…» la voce si spegne quando mi accorgo di come Shakky mi sta guardando, con un sorriso famelico, come se avesse trovato l’ubicazione dello One Piece. «Che?»
«Quindi sei tu»
«Sono io cosa?» domando confusa mentre Rica, la cameriera giovane, si porta una mano alla bocca e mi guarda con occhi brillanti.
«Oh mio dio, è arrivata davvero. Enishida, Enishida è lei!» saltella e io mi volto sempre più spaesata verso la ragazza dello smalto, che si è alzata in piedi e mi fissa a occhi sgranati.
«È davvero lei?»  
 «Sì, sì!»
«Sono io cosa?!» ripeto.
«Sabo è arrivato qui un paio di giorni fa» spiega Shakky.
«Domenica per la precisione!» si avvicina ancora Enishida, con euforia. «Vero, Duck?!» cerca poi conferma dal proprio ragazzo che risponde prontamente “sì, sì” con l’aria di uno che non sa nemmeno a cosa sta rispondendo.
«Domenica?»
«A-ah» riprende la parola Shakky. «Si è seduto sulla panchina ed è rimasto lì per tre ore»
«Io avevo proposto di chiamare la polizia» interviene Ray a cui lancio, mio malgrado, un’occhiata assassina.
«A un certo punto ho provato a chiedergli se potessi essergli d’aiuto, perché aveva proprio l’aria di essere in attesa ma anche di essere non so… perso» abbassa gli occhi Rica ma quando li rialza, portando le mani alle guance, brillano. «Ed è allora che ci ha raccontato la sua storia»
«Storia?» 
«Ci ha detto ogni cosa» continua Rica, trasgonata, e comincio a chiedermi se non sia il caso di marcare il territorio. «Del Dugongo, dei giochi di prestigio, della Megalo a righe, il giro di Raftel, la lotta con la vernice»
«È andato avanti un bel po’» interviene uno dei due tizi che stavano giocando a carte.
«Credo che mi si siano cariati quattro o cinque denti» sogghigna Ray.
«E com’è possibile? Sono tutti finti, vecchio!»
«Comunque alla fine ci ha detto della panchina. Che non si sarebbe mosso di lì, non importava quanto ci sarebbe voluto» Shakky comincia a svuotare la lavastoviglie, estraendo tazzine del caffè ancora fumanti sotto il mio sguardo scioccato.
«È così romantico» sospira Enishida per poi girarsi verso Duck, le mani sui fianchi. «Tu non fai mai niente di così romantico per me!» lo accusa e in altre circostanze lo troverei anche piuttosto comico ma ora come ora c’è una sola cosa a cui riesco a pensare. 
«Sabo è sulla panchina da quasi quattro giorni?» domando quasi con sofferenza.
«Non preoccuparti, mia cara» Ray mi guarda sornione, piegando il capo contro il proprio pugno. «Esistono gli piscofarm… ouch» protesta e sghignazza quando Shakky si allunga a malmenarlo sul coppino.
«Quattro giorni, bambina. Senza mai levare le chiappe dalla panchina. Una persistenza e una fiducia impressionanti» commenta parlando più con se stessa che con me. «Comunque. Ovviamente lo abbiamo subito adottato e ci siamo presi cura di lui. Colazione, pranzo e cena, acqua a intervalli regolari e lo abbiamo anche lavato due volte con la canna. Non so che fine abbiano fatto le sue scarpe» alza le mani a sottolineare la propria estraneità con il fattaccio. «Per dire che non penso sia un’insolazione. Tutt’al più ha bisogno di fare una dormita decente e di qualcuno che si prenda cura della parte non fisica del suo malessere» mi guarda eloquente. «Qualcuno nello specifico»
«Io sono Ishley» ribatto, senza logica.
Shakky scuote il capo. «Non ha mai fatto nomi. A parte il proprio»
«La storia era “Mago Mingherlino e Liquirizia”»spiega Rica e mi scappa da ridere. È la cosa più idiota e stucchevole e… e tenera che abbia mai sentito.
«A onor del vero non eravamo nemmeno certi che Liquirizia fosse una donna» annuisce saputa Enishida.
«Eh?!»
«Io ero sicuro fosse gay »
«Ray»
«Quindi vi ha detto che aspettava “Liquirizia”?» insisto ignorando i continui lievi litigi della coppietta stagionata e felice.
«No» nega ancora Enishida, strappandomi un sospiro. «Ci ha raccontato la storia per passare il tempo, intrattenerci un po’. Che stava aspettando è stata la prima cosa che ci ha detto quando ci siamo avvicinati» spiega e io pendo letteralmente dalle sue labbra. «Ma non ha fatto nomi nemmeno lì. Ha detto solo che stava aspettando il resto della sua vita»
Il cuore accelera, i polmoni si allargano e ricomincio a respirare.
«Okay» annuisco, appena un po’ frastornata. «Okay» ripeto, avviandomi con determinazione per uscire.
«Ehi aspetta, dove…»
«Va da lui»
«Ma certo che va da lui»
«Oh com’è romantico!»
Non sento quasi i loro commenti mentre esco dal bar, di nuovo nel parco, e raggiungo la panchina. Apro la bottiglietta e mi accovaccio accanto a lui. «Sabo, bevi» gli chiedo con calma e lui non si fa pregare. Afferra la bottiglietta, butta giù una bella sorsata, poi un’altra e torna a sdraiarsi con un sospiro stanco.
«Grazie Rica» sorride a fior di labbra e apre gli occhi, che si spalancano come due fondi di bottiglia. Tossicchia per una goccia d’acqua andata di traverso, solleva il busto, mi guarda come se nemmeno fossi vera e io mi sento ribollire la pelle, come pastella nell’olio. Potrei morire sotto questo sguardo. «Ish…» soffia quasi che avesse paura che io possa scomparire da un momento all’altro, se, per dire, anche solo sbatte le palpebre. «Sei arrivata davvero…» allunga un braccio, la mano tesa verso la mia guancia, ma quando realizza cosa sta per fare lo ritrae. Scatto con la mia di mano, gli prendo il polso e guido il suo palmo sul mio viso.
«Ciao» lo saluto con un sorriso. «Mi hanno detto che sei qui da un po’»
Muove il pollice contro la mia pelle, mi studia e manda giù. «Ishley, io… mi dispiace per Bibi, io…»
«No» lo fermo decisa e sussulta appena. Mi inginocchio tra l’erba per potermi avvicinare. «È a me che dispiace. Sono andata nel pallone perché non mi era mai capitato prima, ho pensato… non lo so cos’ho pensato, io…» mi interrompo e faccio un bel respiro. «Avresti dovuto dirmelo. Ci siamo detti tutto. Ma io non avrei mai dovuto lasciarti per un motivo così idiota»
«Non era idiota, non…»
«È il tuo passato» lo interrompo e gli accarezzo il volto. «E per quanto vorrei possederlo, non posso. Volevo conoscerlo ma non può essere mio, io non c’ero e questo non può cambiare. Non voglio il tuo passato, non voglio essere il tuo passato. Voglio essere il tuo presente, p-possibilmente…» abbasso gli occhi e scuoto il capo. Questi discorsi non sono da me, se Law mi sentisse mi disconoscerebbe e quasi mi scappa da ridere. «…possibilmente per il resto delle nostre vite»
Registro vagamente un brusio alle mie spalle e una serie di “awwww” esalati sottovoce. Le dita di Sabo scivolano sotto al mio mento, fanno leva per sollevarmi il volto.
«Ish, tu…» esala e abbassa gli occhi, un sorriso malinconico e tirato. «Hai tolto le chiavi di riserva» non un’accusa ma una presa di coscienza.
La paura che volessi davvero chiuderlo fuori per sempre, una paura che ancora non lo abbandona.
«No» scuoto forte il capo. «Non sapevo dove altro nasconderle ma ho dovuto togliere il vaso perché il nuovo gatto dei vicini ci continuava a fare pipì dentro e, per inciso, riesce a entrare dalla finestra della cucina, la apre proprio e me lo ritrovo ogni due per tre in casa! È inquietante, fa scricchiolare il parquet, sembra che ci sia qualcuno in casa, tipo presenza, e invece è lui! Ma non era un qualche messaggio in codice per te. Io… non ero nemmeno a casa domenica» Sabo mi guarda con occhi pieni di speranza, incredulità e amore. «E non ho mai pensato sul serio di chuderti fuori dalla mia vita, e questo mi rende anche più capricciosa e infantile, lo so, ma se pensavo a te stavo male però se pensavo di non vederti più stavo anche peggio, mi mancava l’aria e mi sentivo morire, proprio qui, al centro del petto, perché tu sei tutto, tutto per me, e io ti amo» dico tutto d’un fiato, puntando gli occhi nei suoi.   
Sabo mi fissa. Con un’espressione indecifrabile. Mi fissa con un’espressione indecifrabile così a lungo che mi sorge il dubbio di non aver detto affatto “Ti amo” ma qualcosa del tipo “Sono un’ermafrodita e non ho ancora deciso se voglio essere un uomo o una donna”. E quando apro bocca per richiamarlo e chiedere per davvero – perché ora il dubbio mi attanaglia sempre più – che cosa ho effettivamente detto, uno spostamento d’aria mi zittisce prima ancora che possa emettere alcun suono e mi ritrovo a fissare gli stinchi nudi di Sabo.
«WOOOOOOOOOOOHOOOOOOOO!!!»
Scioccata, alzo gli occhi di scatto verso di lui,  in piedi sulla panchina, le braccia al cielo, la schiena un po’ inarcata mentre urla, di felicità e sollievo, un urlo liberatorio.
«Sabo cos…» mi alzo rapida.
«SONO IL RE DEL MONDO!!!»
Mi ritrovo i polsi bloccati tra le sue mani che mi sollevano di peso per farmi salire in piedi sulla panchina insieme a lui. «MI AMA!!! Ragazzi, ragazzi!!!» chiama verso il Tispenno e il gruppo riunito subito fuori dalla porta, mentre mi tira su. «Ha detto che mi ama!!!»
«Awwwwwwwwww!»
«Ha bisogno degli psicofarmaci anche lei»
«Ray!»
Io a malapena li sento, fisso senza parole né fiato Sabo che si passa le mani sul volto e poi nei capelli, e cerca di riprendere il filo della situazione, dei suoi pensieri, della sua vita. «Ommioddio, ommioddio, io… io, tu…» mi prende il viso tra le mani e io sorrido, e sento qualcosa dentro di me che si tende, si tende, si tende e poi…
«SONO IL RE DEL MONDO!!!» la mia voce riecheggia nel parco e quando riapro gli occhi Sabo mi fissa più allibito ma anche più felice ed euforico che mai e scoppia a ridere insieme a me, e insieme ai nostri amici del bar e insieme, credo, a tutto il mondo o almeno per me è così quando finalmente mi attira verso di sé e mi bacia fino a togliermi, di nuovo, il fiato.
«Prendi la canna dell’acqua Rica, credo che dovremo spegnere i bollenti spiriti tra poco»
«Ray!»
Mi separo da lui ridendo, senza davvero lasciarlo andare. Mi è mancato così tanto, mi sembra passata un’eternità, e non intendo solo emotivamente. Mi è mancato tutto.
«Andiamo a casa?» propongo, prendendogli il viso tra le mani e sì c’è poco di casto nella mia proposta ma c’è anche tanta voglia di cominciare subito questo resto delle nostre vite.
Sabo trema appena, manda giù a vuoto e prende fiato. «Quale casa?»
«La nostra» rispondo senza esitazione. «Il frigo fa un ronzio strano, dobbiamo capire se chiamare il tecnico  o cambiarlo e ho sistemato i cassetti e l’armadio, ora c’è tutto lo spazio per i tuoi vestiti, possiamo anche appendere tutte le tue giacche in ordine cromatico, con le cravatte già abbinate se vuoi…»
«Se voglio io?» si acciglia Sabo a sottolineare che sono io quella con le fisse strane.
«Oh e devo avvisare Law! Facciamoci un selfie!» esclamo euforica.
«Sì dai, selfie mentre ti limono, così vede che è tutto a posto»
«Sabo!» scoppio a ridere.
Quando torno su di lui, il modo in cui mi guarda mi mozza il fiato. Sospira e si passa una mano tra i capelli. «Cavolo, mi sa che sono fregato a vita» scende con il dorso di due dita ad accarezzarmi il naso. «Non penso di poter sopravvivere se non vedo questo sorriso almeno una volta al giorno»
Il cuore si ferma, il cervello va in corto, mi ributto su di lui, tra le sue braccia, sulle sue labbra, vagamente consapevole, mentre lo limono per davvero, che questi schiocchi di sottofondo sono gli spennati che ci paparazzano. Me ne farò girare una da mandare a Law. E forse darò a Shakky il numero di Praline.
Il bacio si fa meno impetuoso, più lento e dolce, mica che a Ray venga in mente di bagnarci con la canna dell’acqua – la stessa con cui, realizzo di colpo, Perona aveva legato Ace –, e quando ci separiamo abbasso gli occhi. «E dove andiamo che non hai le scarpe» soffio, ancora aggrappata a lui.
«Duck può prestargli le sue!»
«Cosa?!? Chi ha mai detto che gliele presto?!»
«Io!»
Sabo scoppia a ridere tra i miei capelli, io lo imito, appoggiando il viso al suo petto. «Posso farmene portare un paio di riserva da qualcuno. Da Robin» propone Sabo, baciandomi tra i capelli. «O camminare scalzo, tanto sto volando»
«Ish, Ish! Ci racconti la tua versione di “Mago Mingherlino e Liquirizia”?» Rica si avvicina praticamente saltellando.
«Di nuovo?!»
«Così mi si caria anche l’altra metà di dentiera»
Guardo il gruppo che ricomincia a battibeccare e sarà l’estate, sarà che sono tra le braccia dell’uomo che amo, sarà ancora l’effetto benefico del tè di nonna Tsuru, ma mi sento così rilassata e serena che potrei anche addormentarmi in piedi qui sulla panchina.
«Chiama Robin» decido, rimandando la nostra rinconciliazione completa. «Non ci metterà molto, conoscendola…» per fortuna. «…ma c’è un po’ di tempo e ho proprio voglia di una limonata» sorrido a Rica.
«Ah ma basta dirlo!» esclama Sabo, riavventandosi sulle mia labbra.
Sgrano gli occhi, colta alla sprovvista ma subito li richiudo e rispondo, e mi aggrappo a lui, e mi perdo.
Ah cavolo. Mi sa che sono fregata anche io.
Se è questo il “resto delle nostre vite”, non penso di poterne più fare a meno.

 
§

 
«È pazzesco! Avrebbe potuto chiederti un rene con i prezzi che ha e tutta l’acqua e il cibo che ti ha dato e invece ti ha fatto tutto a credito!» esclamo, ancora incredula, mentre svoltiamo verso casa, mano nella mano.
Alla fine al Tispenno ci abbiamo passato il pomeriggio, Robin ha portato le scarpe a Sabo e si è fermata per un caffè, caffè che Shakky non le ha fatto pagare perché “gli amici dei miei amici sono miei amici e io agli amici faccio tutto a credito”.
«Mi ha anche ridato i cinque berry della bottiglietta!»
«È generosità selettiva» si stringe nelle spalle Sabo. «Spenna i passanti e coccola gli habituè»
«Basterebbe far pagare tutti e potrebbe tenere un listino normale»
«Eh ma poi dovrebbe cambiare il nome al bar» mi fa notare Sabo, mentre si ferma e mi fa voltare verso di sé. Mi guarda intensamente, con un sorriso e gli occhi socchiusi, così intensamente che rischio di sciogliermi ai suoi piedi.  «Sei stanca?»
Abbiamo lasciato le macchine a Sabaody, si sta così bene che era un crimine non approfittarne per una passeggiata una volta sceso un po’ più di fresco, per quanto possa essere fresco in questo periodo. Ma no, non sono stanca anche se abbiamo camminato praticamente un’ora e mezza.
«No» soffio tirandomi sulle punte a reclamare l’ennesimo bacio.
Si sta così bene. Si sta così bene così con Sabo, a camminare, ridere, baciarci perché sì. È come quando da bambina andavo al mare e con papà facevo le escursioni subacquee. Mi sono sempre sentita così a mio agio in acqua e con Sabo è la stessa cosa ma anche meglio. È come essere sommersa in acque limpide senza neanche bisogno di trattenere il fiato.
Sono nel mio elemento.
«Siamo arrivati» mi avvisa quando si stacca da me e guarda oltre la mia spalla e io mi giro e trattengo il fiato, quasi non mi aspettassi di vedere un’immobile là dov’è sempre stato.
Casa. Siamo a casa e questo significa che finalmente potrò riaverlo tutto. Solo a pensarci il mio corpo pulsa in ogni fibra, vena e cellula. Gli afferro la mano e marcio decisa verso la porta, mi metto quasi a correre e lui si mette a ridere ed è il suono più bello del mondo.  Suono più bello del mondo che viene bruscamente interrotto quando, una volta davanti alla porta, dei rumori da dentro casa ci zittiscono.
Da dentro casa.
Mi scambio un’occhiata con lui e ci accostiamo di più al legno, gli occhi bassi e le orecchie tese ad ascoltare, le sue braccia che mi circondano, pronte a proteggermi.
«Non sembra Lindbergh» bisbiglio quando un nuovo rumore risuona oltre la porta.
«Lindbergh?» mi guarda corrucciato. «Hai dato un nome al gatto dei vicini?» mi fa girare appena verso di lui. «Gli hai dato il nome del mio peluche?»
Ecco dove l’avevo sentito!
«Te l’ho detto che vive da noi!» protesto con una stretta di spalle. «Che avrei dovuto fare? Chiamarlo “gatto”? È impersonale e si è guardato tutto The Guardian insieme a me»
«Sì ma… hai guardato The Guardian
«Due stagioni e mezzo» affermo fiera, facendo anche il segno con le dita. «E non cambiare argomento. Il gatto resta!»
Sabo sgrana gli occhi incredulo e apre bocca per dire qualcosa che però non fa in tempo a lasciare le sue labbra quando un nuovo rumore, stavolta un bel tonfo, ci fa scattare e ricorda perché siamo ancora qua fuori e parliamo sottovoce.
Precisamente come chi è dentro.
«Aisa ma che fai? Attenta!»
Perona?!  E Aisa? Che cosa stanno…
«E scusate! Mica è colpa mia se questa casa è un campo minato! Credevo che il mal d’amore l’avesse resa più ordinata, io!»
«È durata poco» sospira Reiju e io sgrano gli occhi indignata.
Io non sono disordinata! Sono… sono… entropica!
«Ehi, ehi, che succede? Non obbligate la zia Praline a intervenire. Ish sta per arrivare e dobbiamo essere pr…» Praline si blocca quando infilo le chiavi nella serratura. «Arriva, arriva! In posizione!» continua a bisbigliare.
Come se ormai potessi non sentirla!
Chissà che cavolo avranno in mente! Nessuno degli scenari che riesco a immaginare è confortante, se devo essere sincera. Se non che quando apro nessuno degli scenari che avevo immaginato mi si para davanti.
«TA-DAN!!!»
«Preparati Ish!!! Stasera si fa fes… Oh! Sabo!»
Le guardo allibita, in posa nell’ingresso. Perona con codini, lecca lecca e occhiali a cuore con le lenti rosa, Reiju stupenda con il top a frange e la fascia con la piuma, Praline con un atroce boa viola che credo arrivi dalla clown therapy e Aisa in calzoncini, fascia nei capelli, top corto e…
«Sono le mie luci di Natale quelle?!»
«Le ho trovate in una scatola qui in ingresso» si giustifica Aisa, sistemandosi meglio addosso il filo luminoso, a mo’ di accessorio. «Cosa ci facevano all’ingresso tra l’altro?»
«Erano nell’armadio e le ho tirate fuori per portarle in cantina»
«E quando pensavi di portarle in cantina?» si informa Sabo.
«Dopo Natale!»
Che domande! Mancano solo cinque mesi, che senso avrebbe metterle via?
«Ah ecco»
«Ma che ci fate qui? E come siete entrate?»
«Praline ha fatto un calco delle tue chiavi l’ultima volta che siamo state qui e si è fatta fare una copia da un tipo losco che conosce lei»
Sbatto le palpebre interdetta. Che cosa?!?!?!
«E volevamo portarti fuori a divertirti, così ti tiravi su» spiega Rei, scostandosi il ciuffo. «Ma mi sa che hai altri programmi» sorride maliziosa, mentre alza gli occhi su Sabo.
«Praline perché non ci hai detto che stava arrivando con lui? L’hai tenuta d’occhio dalla cucina!»
«Non l’ho notato» si stringe nelle spalle Praline, con un sorriso inquietante che quando dice le cose con quel sorriso non ci può credere nessuno.
E infatti Aisa solleva il sopracciglio mentre Perona abbassa gli occhiali sulla punta del naso, per guardarla da sopra le lenti Solo Reiju sghignazza, ormai assuefatta alle stranezze della nostra amica.
«È quasi un metro e novanta ed è così biondo che brilla al buio» ribatte un po’ acida Perona.
Mi giro verso Sabo e lo guardo, innamorata. Perona ha ragione, è così biondo.
Oddio, ma che sto facendo? Devo essermi bevuta il cervello.
«Beh, ora che abbiamo visto con i nostri occhi i piccioncini di nuovo riuniti che ne dite di…»
«Oh si andate pure, non voglio trattener…»
«…passare una bella serata a farci raccontare da Mingherlino tutti i dettagli che Ishley ha omesso?»  
Sgrano gli occhi e Perona e Reiju con me quando Aisa si illumina e commenta: «Ehi è una grande idea!»
«Anche no!» protesta Perona, afferrando il suo zainetto e la borsa di Praline con una mano e il polso di Praline nell’altra mentre Reiju sospinge Aisa, sorda alle sue proteste.
«Ehi aspet…»
«Noi andiamo allora! Divertitevi!»
«…ta, Rei! Sono settimane che voglio fare il ter…»
«Passate una bella serata!»
«Domani ti chiamo per i dettagli Ish»
«…zo grado a Sabo e…»
La porta si chiude con un tonfo, lasciandoci qui fermi e allibiti a fissarla.
Queste sono le mie amiche. Le mie migliori amiche.
E cos’era quella di Praline – “ti chiamo domani per i dettagli” –, una minaccia?! 
Sul serio, queste sono le mie migliori amiche?!
Io… io…
«Ish? Amore, tutto bene?» 
«Sabo scusami solo un momento»
... le amo alla follia!
Spalanco la porta e la lascio aperta alle mie spalle, mentre mi precipito in strada dove le trovo a discutere, più che altro Perona con Aisa, ma non presto nemmeno attenzione a quello che si stanno dicendo, mi butto verso di loro, le abbraccio tutte e quattro come posso, avendo solo due braccia.
«Ish?»
«Ehi che succede?»
«Tutto bene?»
«Vi voglio bene ragazze»
Non so cosa farei senza di voi.
Percepisco il sorriso di Reiju contro la tempia, sento Aisa trattenere il fiato, Praline si produce in un verso intenerito che sa un filino di presa per i fondelli e Perona mi risponde che anche loro mi vogliono bene.
Quando ci separiamo, nonostante il buio, ho l’impressione di non essere la sola ad avere gli occhi un po’ lucidi.
«Ma visto che ci vuoi bene, perché non vieni con noi e lasci a casa Sabo con il gatto» prova a propormi Aisa ma io subito scuoto il capo.
«Ah no»
«Eddai Ish! Dai!»
«No no» insisto, indietreggiando verso casa. «Stasera, la qui presente Ishley Isabel Habena farà tanto, sano, agognato, rumoroso, prestante amore, signore mie» le informo, incurante di dirlo a voce molto alta in una strada molto silenziosa.
«Oh! Quindi Sabo è tornato?» domanda una voce da una casa vicina e io mi immobilizzo, viola in faccia e con un fervido desiderio di prendere una pala e darmela in testa senza neanche pormi il problema di scavare prima una buca.
Ci penseranno le ragazze.
«Buonasera, signora Sandersonia»
«Buonasera a te, semmai, tesoro» risponde Sandersonia, facendo sghignazzare le ragazze talmente tanto che alla fine cedo e mi unisco a loro, sventagliando poi un ultimo saluto prima di rientrare in casa.
Chiudo la porta e mi ci appoggio, soffiando via i capelli dal viso, prima di focalizzarmi di nuovo anima, mente e cuore su Sabo, che mi guarda divertito, appoggiato allo stipite della porta del salotto.
Di nuovo noi due, insieme qui, dove tutto è iniziato. Emozioni vecchie e sempre nuove mi pervadono, mi fanno fremere e brillare.
Lo amo.
Lo amo e lo voglio. 
Lo amo così tanto.
«A cosa stai pensando?»
«Ti amo» rispondo senza esitare, lo ripeto e i suoi occhi balenano un istante. Si stacca dallo stipite e si avvicina. «E tu?» chiedo, deglutendo per inumidire la gola.
«Sto pensando…» mi raggiunge, mi inchioda alla porta. «…che voglio sentirti ridere» le sue mani si posano decise sui miei fianchi, mi guidano tra le sue braccia, al suo torace, a un metro da terra, fisicamente e non. Mi stringo a lui, fronte contro fronte, le gambe a circondarlo, i cuori che battono in sincrono. Sento il suo contro il mio seno. Sono certa che lui sente il mio contro il suo petto. «Voglio sentirti ridere per il resto della nostra vita, Ish»
  
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