Storie originali > Drammatico
Segui la storia  |       
Autore: SirioR98    01/03/2019    2 recensioni
In fisica, un sistema isolato è un sistema posto così lontano dagli altri da non interagire con loro, oppure un sistema chiuso che non ha scambi con l’ambiente circostante.
È un sistema perfetto, in equilibrio, costante.
Mi chiamo Noah e mi hanno costretto in un sistema isolato.
Noah è un sedicenne nato e cresciuto in una piccola comunità di mormoni nello Utah. Apertamente omosessuale e fiero di esserlo, si ritrova a convivere per cause di forza maggiore con Alex, la sua “persona preferita”, che si identifica come nonbinary. Esplorando la comunità LGBTQ+ di Salt Lake City e sopravvivendo alle sfide della città natale di Joseph Smith, Noah si vede costretto a crescere prima del tempo e a cercare la sua voce.
Genere: Azione, Dark, Triste | Stato: completa
Tipo di coppia: Het, Slash, FemSlash
Note: nessuna | Avvertimenti: Contenuti forti, Tematiche delicate
Capitoli:
 <<    >>
Per recensire esegui il login o registrati.
Dimensione del testo A A A
*Angolo dell'autrice*
Buonsalve a chi è rimasto finora ad aspettare. Una sola domanda: perché?
Scherzi a parte, il brano di questo capitolo non è altro che la bellissima Blowin in the wind, di Bob Dylan, un classico che, sicuramente, conosceranno tutti i nostri genitori. Non mi dilungherò, stavolta, a parlare della canzone o del suo autore, perché ci sarebbe molto da dire e non vorrei tediarvi conuna lunga introduzione. Vi invito solamente a indossare delle cuffie, far partire la canzone, e godervi il capitolo.
Ancora una volta, vi auguro una buona lettura.

ATTENZIONE: "Sistema Isolato: Mitch" è ora disponibile sui siti Mondadori Store, Feltrinelli, IBS, Lbreria Universitaria e altri, basta cercare il titolo. Per aggiornamenti su presentazioni, web series e simili seguite la pagina ufficiale di Sistema Isolato: Mitch su Facebook e Instagram.

 


Capitolo 18

 
Non passano secondi tra il botto con cui la portiera si chiude e il momento in cui l’auto parta. Non ha avuto neanche bisogno di spegnerla, mi ha preso al volo.
Sono le undici passate, abbiamo ancora un’ora e mezza di strada da fare, e se non vogliamo arrivare in ritardo al processo non possiamo perdere altro tempo.
Pagata la stanza, nonostante la mia mezza giornata scarsa di permanenza, mi sono fiondato a testa bassa verso la Ford nera che conosco fin troppo bene. Dodici anni e ancora funziona a meraviglia, a quanto pare.
Usciamo dalla città e prendiamo l’autostrada.
Nessuno dei due osa parlare.
Nessuno dei due sa cosa dire.
Mio padre accende la radio, per alleggerire il silenzio che si è creato nella macchina.
Blowin’ in the wind, di Bob Dylan, inizia a suonare.
La chitarra acustica si presenta timidamente all’inizio, pronta ad accompagnare una voce delicatamente nasale. Singole note basse si alternano ad accordi un po’ più decisi, che ripetono lo stesso ritmo per quasi tutto il brano.
«How many roads must a man walk down, before you call him a man?», si unisce mio padre, cantando insieme all’autore.
Lo ascolto in silenzio, continuando a guardare fuori dal finestrino verso un passato più sicuro, quando tutti e tre, insieme, viaggiavamo verso le montagne, verso i laghi, in altri stati. E ricordo le voci dei miei genitori, che intonavano in sincrono una richiesta di pace risalente a qualche anno prima che nascessero.
I miei non hanno vissuto le guerre a cui la canzone si rivolge, ma sono cresciuti con il suo messaggio.
Ed eccomi là: avrò avuto sei o sette anni al massimo, l’unica voce stonata del gruppo, più alta delle altre, che impone la sua presenza per un’esuberante voglia di aggregazione, di sentirsi parte della magia. Non avevo idea di cosa fossero le note a quell’età, e adesso che le conosco, non riesco comunque ad accordare ciò che esce dalla mia bocca con quello che sento.
«The answer my friend is blowin’ in the wind, the answer is blowin’ in the wind», continuano mio padre e Dylan, seguiti da un’armonica a bocca che chiude il verso. L’uomo accanto a me la imita fischiettando, perché non ami una canzone se non canti anche le parti strumentali.
 «Yes, and how many years can a mountain exist, before it is washed to the sea?», chiedo io, rispettando la mia entrata stabilita anni e anni fa. Questa volta riesco anche a prendere qualche nota giusta, con mia grande sorpresa.
Da quanto tempo non mi fermo a cantare? Da quanto tempo non sento quel volto della mia voce?
Dovrei farlo più spesso, allenarmi a cantare.
«Yes, and how many times can a man turn his head and pretend that he just doesn’t see?», domandiamo tutti e tre, creando un’armonia di tre toni differenti, tutti accordati su intonazioni simili, non proprio la stessa.
Come ho detto, il canto non è il mio forte.
E, nonostante ciò, continuiamo al meglio delle nostre potenzialità, cercando di rendere onore a una canzone che mi ha visto crescere.
Presto arriva il ritornello finale, due strofe ripetute tre volte, prima della schitarrata finale, probabilmente creata per scherzo da un giovane Dylan.
Come al solito, io e mio padre ripetiamo il ritornello ancora una volta, fingendo un’intonazione lirica che non ci appartiene, una tradizione comica nata dalla stanchezza.
Conclusa l’ultima nota, fra noi cala nuovamente il silenzio, mentre una canzone a noi sconosciuta suona alla radio.
Le nuvole, lassù nel cielo, si muovono incuranti di ciò che accade sotto di loro, come se non avessero alcuna preoccupazione e me lo rinfacciassero.
Tempo fa ricordo di aver provato nostalgia del cielo.
«Mi dispiace.», mormoro, maledicendo mentalmente le nuvole per i sensi di colpa aggiunti.
Mio padre non risponde, aspetta che vada avanti.
«Io… non so che mi sia saltato in mente. Non stavo pensando, a quanto pare. Non so…», non trovo le parole. O meglio, le trovo, però mi sembrano inutili.
«Lascia perdere, mi sembro un disco rotto.», borbotto, riaggiustando la fasciatura alla mano. La frattura si sta rimarginando bene, credo. Non fa più tanto male.
Probabilmente mi sono solo abituato al dolore.
«In che senso?» Domanda finalmente mio padre.
Alzo le spalle.
«Mi pare di aver già affrontato questo discorso. Forse l’ho solo immaginato, non ricordo, in ogni caso la discussione mi sa di trita e ritrita. Ormai ho la sensazione di essere il personaggio di un video gioco e di avere, con certe persone, le stesse caselle di azione: scusati, arrabbiati, ignora, evita. E so pure che è colpa mia, perché potrei fare lo sforzo di mettere da parte il risentimento e parlare con te, parlare veramente… ma è difficile. Sai cos’ho passato in questi anni, papà?» Chiedo stanco, voltandomi verso il diretto interessato.
Lui non risponde, continua a guardare la strada. Tuttavia, mi accorgo della sua presa sul volante che si fa un poco più stretta, mi accorgo della mascella serrata, della volontà di non guardare altrove.
Come si fa, dopo anni, a riallacciare un rapporto spezzato così bruscamente?
Non esiste un tutorial, o delle istruzioni, o anche una pagina di wikiHow? Per quest’ultimo immagino di sì, su quel sito c’è di tutto.
E se anche ci fosse, non penso sia così specifica da aderire al nostro caso.
«Non sto cercando di addossarti la colpa delle mie azioni, te lo assicuro, non è quello il mio intento. È che… sono stanco di sentirmi male. Sono stanco di non potermi fidare di nessuno, di essere sempre arrabbiato, di sentirmi solo… perché non sono solo! Insomma…»
Mi massaggio le tempie, cercando di alleviare un dolore persistente, con il quale convivo ormai da due anni.
Sono stanco.
Sono solo incredibilmente stanco.
«Vorrei riuscire a lasciarmi il passato alle spalle, insieme a tutto quello che lo accompagna. Vorrei riuscire a superare il risentimento, eliminarlo e vivere serenamente.
Io non sono una persona violenta, so di non esserlo. Ho semplicemente imboccato la strada sbagliata, tutto qui.»
Mi aggiusto sul sedile, a disagio per il silenzio che incontrano le mie parole.
«Una cosa è certa: mi sono pentito di aver colpito quell’uomo. Non me ne pento per la pena che dovrò scontare, ma per il solo fatto di aver reagito in quel modo. Non è giusto, merito di essere punito, su questo siamo tutti d’accordo. E mi dispiace anche essere scappato, è stata una scelta stupida, impulsiva. Non posso scappare per sempre, è ora di accettare le conseguenze e affrontarle a testa alta.»
Un sospiro proviene dalla mia sinistra.
Mi volto a guardare mio padre, gli occhi ancora sulla strada, la schiena un po’ più curva di prima.
«Dispiace anche a me.» Ammette senza voltarsi.
Lo guardo interdetto.
«In che senso?»
Si schiarisce la voce, cercando di eliminare quell’istinto orgoglioso che lo contraddistingue.
È una caratteristica di famiglia, a quanto pare.
«Mi dispiace… per tutto quello che è successo. Per tutto quello che ti abbiamo fatto.»
…Non ho capito, si sta scusando?
«Non avremmo dovuto reagire in quel modo, buttandoti fuori di casa. Insomma, sei nostro figlio, non importa se sei…»
Gay.
Un finocchio.
Un peccatore.
Dillo, papà, chiamami con quei nomignoli che mi ha dato mamma quel giorno, quando tu sei rimasto a guardare.
No. Basta, Noah, non è l’atteggiamento giusto.
L’uomo sta cercando di scusarsi, ascoltalo.
Se voglio ritrovare la fiducia nel prossimo, devo cambiare atteggiamento.
Tanto vale iniziare da qui.
«Se hai aggredito quell’uomo, è anche colpa nostra. Ti avremmo dovuto insegnare a reagire in modo adeguato, invece…»
Sospira nuovamente, cercando la forza per continuare il discorso.
«Vorrei poter dire di aver seguito gli insegnamenti della mia religione. Vorrei poter dire di aver fatto ciò che un mormone che si rispetti avrebbe fatto, ma non è così. La nostra religione chiede di amare e aiutare il prossimo, non di abbandonarlo nel momento del bisogno. Il mio… nostro comportamento è stato ingiustificabile, è inutile cercare scuse nella religione, nella nostra educazione, nella nostra comunità. Non ci siamo comportati come dei genitori dovrebbero fare, ci siamo lasciati accecare dal nostro amore per le apparenze, in realtà.»
Si ferma un momento, soppesando pensieri che credo abbia formulato anni fa.
Ha vissuto davvero per anni con i sensi di colpa? O è solo fantasia?
«Il dolore che hai patito… ho paura a chiederti cos’hai passato, ma se un giorno tu volessi parlarmene, sappi che ti ascolterò. Non posso tornare indietro nel tempo e impedire che quella notte accada, ma posso cercare di rimediare alle mie azioni. Saresti disposto a darmi un’altra possibilità?”
Non so che rispondere, mi ha preso in contropiede. Ho immaginato così tante volte un discorso del genere da non credere che sia realtà.
Lo è?
...sì, lo sto sicuramente immaginando.
Mi sporgo sul sedile per toccargli il viso con un dito, giusto per assicurarmi della realtà della situazione.
Mio padre mi lancia un’occhiata di traverso, perplesso per la mia azione.
Ritorno immediatamente a sedermi composto sul sedile.
Dovrei dargli la possibilità di rimediare ai miei errori?
Io, se fossi al suo posto, la vorrei sicuramente. Sto letteralmente andando a chiedere una seconda possibilità al tribunale di Salt Lake City.
La mela non cade lontana dall’albero, vero?
Ormai ho deciso: questa è la fine del mio risentimento. O almeno, l’inizio della fine, l’inizio del mio cambiamento.
Mi stringo nelle spalle e annuisco, ancora incapace di dare il mio consenso a voce.
Mio padre vede e capisce.
“Allora, pensiamo a come affrontare il processo di oggi, che ne dici?”

Il tribunale svetta sulla strada, uno dei pochi palazzi pseudo-storici in vista. Non so se sia veramente antico, certamente lo sembra. Si accorda bene con il palazzo municipale dirimpetto.
È, senza ombra di dubbio, più elegante della sua controparte poco distante, ovvero il tribunale federale: un parallelepipedo di vetro, molto somigliante a un edificio di Men In Black che a qualcosa di reale.
L’atrio circolare del tribunale del terzo distretto, con le sue colonne bianche e pavimento decorato da un disegno a stella in marmo bianco e nero, mi fa comprendere realmente la gravità della mia situazione. Con la mente torno indietro di qualche mese, quando non avevo casa e i Winterfield erano soltanto una coppia di mormoni che mi avevano fatto arrestare. Sembra passato un secolo da quei giorni, ma la sensazione è la stessa.
Una fitta al petto… no, un improvviso vuoto mi si materializza nel petto e mi toglie il fiato, lasciandomi incapace di formulare qualche sillaba o di guardare in altre direzioni se non i miei stessi piedi.
Ci son momenti in cui le mie labbra sembrano serrate, chiuse insieme da una qualche sorta di super colla. Nella mia testa urlo, mi dimeno, mi fiondo sulle sbarre e mi ordino di parlare, di dire qualsiasi cosa, anche solo un saluto alla prima persona che passa. All’esterno sono impassibile, nulla accade e nulla sembra turbarmi, lontano anni luce dalla realtà.
Non importa quanto la mia coscienza mi preghi di parlare, non ci riesco.
Posso solo continuare a guardare a terra e sentire quel formicolio alle labbra, un ordine ignorato volontariamente dai muscoli.
Quando mi coglie un attacco di ansia, perché di questo penso si tratti, sono prigioniero del mio corpo.
Passando sotto la cupola, come tradizione nata durante la prima gita al tribunale, di anni e anni fa, alzo gli occhi per ammirare la decorazione a cassettoni azzurri e l’oculo stellato, con i suoi colori stranamente rassicuranti. Nonostante avessi solo sette anni, durante quella mia prima visita, ricordo ancora la descrizione che ne ha fatto la guida e lo stupore nello scoprire il blu, l’azzurro, il bordeaux e il beige, tutti in pacifica coesistenza tra di loro.
Quella cupola riesce a farmi evadere, anche se per qualche secondo, dal timore della sentenza.
«Noah!»
La voce della mia persona preferita mi fa abbassare gli occhi, riportandoli ad altezza d’uomo.
Alex si avvicina a passo svelto per non correre in un luogo severo, quale l’ambiente dove ci troviamo, e si ferma a qualche passo da me.
Istintivamente, tiro il suo braccio e stringo la mia persona preferita come se la guerra ci avesse separati.
«Mi dispiace, Alex, avrei dovuto darti ascolto, sono un idiota!» Affermo, immergendo la testa fra i suoi capelli.
Alex ricambia l’abbraccio, insieme iniziamo a dondolare impercettibilmente a destra e a sinistra, come facciamo solitamente.
«Almeno lo sai. Però sono felice che tu l’abbia capito in tempo.»
Sorrido al suo insulto indiretto.
Alla fin fine, me lo merito.
Oscilliamo per qualche altro secondo, come se stessimo ballando un lento al ballo di fine anno che, probabilmente, non avrò mai la possibilità di sperimentare. Per ora mi basta essermi ricongiunto alla mia persona preferita.
Ci sciogliamo lentamente e mi allontano quanto basta per accorgermi della presenza, in questa stanza circolare, di altre persone a me care.
Sayid corre ad abbracciarmi.
Sayid: il ragazzo che ha assistito a uno dei miei momenti peggiori, che ha cercato di frenarmi dal prendere la scelta sbagliata e che adesso accoglie con gioia il mio ritorno.
Quando mi lascia andare, mi dà un colpo sulla nuca, al quale non rispondo.
«Sei un coglione immane, lo sai vero?»
Annuisco, tuttavia sorrido sotto i baffi.
Il ragazzo, accorgendosene, alza la mano in un gesto minaccioso, ma il suo sorriso mi fa capire che sta scherzando.
Invece di colpirmi di nuovo, mi posa la mano sulla guancia, premendola a intermittenza, come se volesse schiaffeggiarmi senza farmi male.
«Mi trattengo solo perché siamo circondati da poliziotti, sappilo.» Commenta, continuando a tormentarmi.
Dando un’occhiata in giro, vedo solo un agente di sicurezza nei paraggi… non proprio l’armata di cui parla.
Il ragazzo continua a toccarmi la faccia per darmi fastidio, parlando ininterrottamente in arabo.
Non so cosa dica. Di sicuro, visto il tono, non mi sta complimentando.
«La prossima volta che farai qualcosa del genere», mi prende il viso con tutte e due le mani per costringermi a guardarlo negli occhi, «bo’brak.», conclude minacciosamente, lasciandomi andare.
Va bene, ora non ho più paura della pena.
Devo comprare un dizionario arabo, giusto per capire a cosa vado incontro.
I Winterfield si avvicinano silenziosamente, Emma tiene fra le braccia un completo nero.
Non riesco a guardarli negli occhi, ho tradito la loro fiducia ancora una volta.
Mi scuso a testa bassa, incapace di aggiungere altro.
L’uomo non risponde, fa segno alla moglie di porgermi il completo.
«Preparati. Di quello che è successo, ne parleremo a casa.» Ordina grave.
Accetto i vestiti e mi avvio verso il bagno.
Passando accanto ad Emma, mentre Winterfield guarda altrove, lei mi poggia delicatamente una mano sulla guancia e mi sorride incoraggiante.
È un gesto che dura un attimo, eppure riesce a rincuorarmi quel tanto che basta per rialzare la testa.
«Togliti le dita dalla bocca, Noah. E smettila di agitare la gamba.» M’istruisce mio padre, tentando di farmi stare fermo.
Di sicuro darmi ordini non è il modo giusto, ma ci sta mettendo la buona volontà.
Mancano pochi minuti al processo, ormai, e mi sento più ansioso dell’altra volta.
Forse, stavolta, ho qualcosa in più da perdere.
Forse, stavolta, la decisione del giudice non influenzerà solo il mio destino.
Già so che è uscito un articolo sull’aggressione, ma non mi sono informato più di tanto… ero troppo occupato a scappare per controllare i miei tag.
Non sono riuscito nemmeno a salutare tutti, visto che la maggior parte dei ragazzi del rifugio sono ancora a scuola.
Fortunatamente, questa volta ho una famiglia affidataria, quindi, anche se mi dovessero dare quei tre mesi di riformatorio, mi faranno passare quei giorni di attesa a casa, invece di mandarmi direttamente all’istituto.
Il sistema affidatario americano è fatto male.
Nella panca accanto alla nostra si siede un uomo. Porta sul viso qualche cerotto e sulla nuca si intravede un bernoccolo.
Ci scambiamo uno sguardo veloce, prima che abbassi nuovamente gli occhi per la vergogna.
Sono stato io a ridurlo in quello stato, i lividi, i graffi… tutta opera mia.
Non sembra vero, mi pare solo una delle mie fantasie, qualcosa che vorrei fare, ma immagino solamente, mantenendo la mia solita calma esteriore.
Calma che, a quanto pare, non mi appartiene da molto.
Trovo sempre più difficile distinguere l'immaginazione dalla realtà. Sento quei sogni ad occhi aperti come le mie esperienze più vivide.
E guardando nuovamente quell'uomo, mi appare sfocato, come se il senso di colpo spingesse la mia mente a censurare le conseguenze delle mie azioni.
Forse dovrei seriamente entrare in terapia.
L'uomo ricambia nuovamente il mio sguardo, ma non riesco a comprendere la sua reazione. Cosa starà pensando?
Starà rivedendo il mio viso mentre lo aggredivo? Starà ricordando la ferocia con cui mi sono scagliato su di lui?
Per esperienza, quando guardavo Bennet sentivo nuovamente ogni colpo, ogni insulto e maltrattamento… gli starà succedendo la stessa cosa?
Senza accorgermene realmente, come se quell'altra parte di me avesse preso, ancora una volta, il sopravvento, mi alzo e mi avvicino a lui.
L'uomo drizza la schiena, preparandosi, non conoscendo il mio intento, a qual che sia l’interazione.
I nostri trascorsi, di sicuro, non gli faranno pensare che gli stia per offrire un caffè.
Forse dovrei offrirgli un caffè, sarebbe un bel gesto. Tuttavia, credo che possa aspettare, ci son questioni più importanti da risolvere.
Eppure, adesso che mi trovo di fronte la mia vittima – la mia vittima – non trovo le parole adatte per esprimere ciò che provo.
L’unica frase che la mia mente riesce a formulare è: «Mi dispiace…»
Mi esce in un sussurro che lascia l’uomo perplesso.
«Mi dispiace…», ripeto.
Ci guardiamo un secondo a disagio, lui incapace di comprendermi, io incapace di esprimermi in modi più complessi.
L’incomprensione è la base delle guerre, o almeno della maggior parte.
Provo ancora una volta a combattere quel blocco mentale in cui mi ritrovo, ma non ottengo chissà quali risultati.
Frustrato per la situazione, sospiro, scuoto la testa e mi allontano lentamente, tornando a sedermi accanto a mio padre.
Sento ancora il peso dello sguardo dell’uomo, m’inchioda alla seduta.
Faccio sprofondare il viso tra le mani, mentre qualcuno cerca di rassicurarmi massaggiandomi una spalla.
«Il giudice ha finito, potete entrare.» C’informa Emma, sporgendosi dalla porta.
Mio padre scatta in piedi, mentre io, cercando di scrollare di dosso l’avvilimento, mi alzo a fatica. Sistemo il completo, un po’ più corto di quanto Emma si aspettasse, ed entro in aula.
L’odore del legno mi riempie le narici.
Questo luogo mi ha sempre ricordato un’aula universitaria, ha quell’aria di austerità che riesce sempre a mettermi in agitazione. Fortunatamente ho in tasca un blocchetto e una penna, così posso comunicare con mio padre, nel caso l’ansia diventi insopportabile.
Alla fin fine, uno dei miei diritti è chiedere una pausa in caso di bisogno.
Il giudice è già in sala, sta analizzando delle carte, probabilmente riguardanti il mio caso.
Con il permesso della corte, ci sediamo, così che il processo possa iniziare.
Le parole del giudice mi arrivano ovattate, come se qualcuno mi stesse coprendo le orecchie per “proteggermi” da quello che sta accadendo.
In compenso, sento benissimo il battito del mio cuore. Il resto mi appare come rumore di fondo, un brusio continuo che accompagna le vibrazioni emanate dal calo temporaneo di corrente dell’illuminazione.
Una in particolare, a metà tra me e il giudice, pare compiere una fastidiosa onda perpetua che mi causa un leggero mal di testa.
Chiudo gli occhi per alleviare il dolore e cercare di concentrarmi almeno su un senso.
Va bene, Noah, concentrati sul tuo respiro e conta a ritroso a partire da dieci.
Dieci.
Nove.
Otto.
Sette.
«... carico? Noah?»
Mio padre mi posa una mano sulla spalla per attirare la mia attenzione, interrompendo il mio conto alla rovescia.
Riapro gli occhi, mi ritrovo al centro dell’attenzione.
Il giudice mi sta guardando preoccupato, come se dovessi scoppiare da un momento all’altro.
Il che non è del tutto falso.
In silenzio chiedo l'aiuto di mio padre, il giudice se ne accorge.
«Comprendi le accuse a tuo carico?» Chiede nuovamente, cercando il mio sguardo.
Risvegliato dal mio stato di semi-coscienza, mi avvicino impacciato al microfono e mormoro in assenso.
«E come si dichiara il minore?»
Mio padre si alza in piedi.
«Colpevole, vostro onore.» Afferma al microfono, come da patto.
Riguardando il caso, non c’era altra soluzione. Oltre ai tre testimoni oculari e le telecamere, i segni su quell’uomo non si possono negare.
In più, la mia coscienza non mi permette altrimenti.
Il giudice annuisce, sistemando nuovamente le carte.
«Allora non penso ci sia bisogno di interrogare i testimoni. Per quanto ti riguarda, Noah…»
Sento il rumore di una sedia che si chiude, dietro di me. Qualcuno si alza interrompendo il giudice.
«Mi scusi, vostro onore, potrei spendere solo qualche parola per l’imputato?» Chiede la voce di Cox, non molto distante da me.
Il giudice è interdetto, tiene il martello in aria, pronto a richiamare all’ordine l’aula.
Eppure, tentenna.
Ci sta pensando.
Guarda tutti, sento un mormorio da parte dell’accusa, fra la mia vittima e il suo avvocato.
Quest’ultimo, dopo un breve colloquio con il suo cliente, comunica il proprio consenso.
Il giudice posa il martello e, con un cenno della mano, dà la parola a Cox.
«Noah ha sbagliato, quella sera, è vero… ma di quello si tratta: di uno sbaglio. In quel poco tempo che l’ho conosciuto, mi ha provato la sua forza di volontà, ha dimostrato una voglia incredibile di aiutare gli altri e si è fatto carico di un peso che le spalle di un ragazzo della sua età non dovrebbero provare. Ho seguito il suo caso in televisione, prima di assumerlo, e ho assistito in prima persona ad eventi che l’hanno turbato, siano essi il ritorno a sorpresa del padre, avvenuto nel mio negozio, che una minaccia con vernice ed esplosivi, di cui mi ha raccontato la mattina del reato. Noah non è una cattiva persona, ha solo intrapreso la strada sbagliata, tutto qui. Ma sono certo che si possa ancora aiutare, credo con fermezza che abbia compreso il suo sbaglio.»
Sento una mano di mio padre posarsi sulla mia schiena, passandola ritmicamente per confortarmi.
Sento quello che, ormai, è il mio ex-superiore tornare a sedersi, mentre il giudice soppesa le sue parole.
Poi unisce le mani avanti a sé e si sporge appena appena sul banco, per guardarmi meglio.
«Noah, hai qualcosa da aggiungere?» Mi domanda direttamente, guardandomi negli occhi.
Io cerco aiuto in mio padre, chiedendogli silenziosamente consiglio. L’unica risposta che ottengo è, ancora una volta, il passare ritmico della sua mano sulla mia schiena.
Mi volto verso il giudice e scuoto la testa.
L’uomo in toga sospira, tornando a guardare le sue carte.
«Di sicuro hai qualcuno disposto a spezzare una lancia in tuo favore, qualcuno che, tra parentesi, hai derubato qualche mese fa. Ci sarebbe da chiedersi perché, ma il tuo superiore ha risposto per te.» Commenta, frugando tra i documenti.
«Però, hai anche infranto la legge, e per questo devi essere punito. Adesso, tenendo conto del rapporto della psichiatra con cui hai parlato, della tua fedina penale e della tua storia personale, ridurrei la pena accordata in precedenza a tre settimane di reclusione in un istituto correzionale. Dovrai essere seguito per un anno da uno psicologo iscritto all’albo e dovrai risarcire il signor Newport, qui presente.» Sentenzia il giudice, rivolgendosi a me e a mio padre.
Tre mesi quest’estate, seguito da un altro avvocato, tre settimane adesso.
Non so cosa mio padre abbia detto durante il colloquio, mentre io aspettavo fuori, o se l’intervento di Cox abbia avuto qualche effetto, o se il parlare e l’aprirmi con una psicologa abbia prodotto davvero qualche risultato… ma, di sicuro, è andata meglio di quanto credessi.
Il giudice chiude il caso e ci dà il permesso di uscire dall’aula.
Passando accanto al tavolo dell’accusa, saluto con un cenno l’uomo, Newport, e mi accingo a raggiungere Cox.
Non lo faccio parlare, lo abbraccio e basta, prendendolo di sorpresa, riesce solo a darmi a disagio delle pacche di “fine abbraccio”.
Il fatto che non abbia del tutto perso la fiducia in me, come altrimenti pensavo, mi rincuora.
Lo lascio andare ed esco dall’aula, accompagnato da Alex e Sayid.
«Poteva andare peggio. Alla fin fine, tre settimane passano velocemente.» Commenta la mia persona preferita, mettendomi un braccio intorno al collo.
«Poteva andare sicuramente peggio. Sapevi che il tuo capo avrebbe parlato?» Replica Sayid, fermandosi in mezzo al corridoio.
Scuoto la testa.
«Bella sorpresa, allora!» Commenta con un sorriso.
«È un peccato che sarai dentro per l’altro processo, quello per la chiusura del rifugio.» Aggiunge pensieroso.
«Forse ti daranno il permesso di venire, se ti chiamano come testimone.» Ipotizza Alex.
Mi stringo nelle spalle.
«In realtà, preferirei non testimoniare. Combinerei più danno che altro, me lo sento.» Mormoro.
Gli adulti ci raggiungono, interrompendoci.
Winterfield si avvicina. Sul volto sembra avere ancora quell’espressione severa di prima, tuttavia, i suoi occhi sono addolciti.
Non sorride, ma nemmeno sembra sul punto di urlarmi contro, il che è un passo avanti.
Mi preparo a un discorso dei suoi che, con mio stupore, non arriva.
Invece, mi mette una mano sulla nuca e scuote la testa.
«Quel che è fatto, è fatto. Torniamo a casa, così puoi salutare i tuoi amici. Domani ti porteremo al riformatorio.» Afferma, accompagnandomi all’uscita.
Arrivato sul marciapiede, mi volto a guardare il tribunale, osservando quella struttura antica popolata di persone che entrano ed escono come formiche lavoratrici.
Questa sarà l’ultima volta che entrerò da criminale, mi riprometto.
L’ultima.
Emma si accorge del mio sguardo pensieroso, mi prende affettuosamente per le spalle.
«Un giorno alla volta, Noah. Un giorno alla volta.» Mi sussurra all’orecchio, accompagnandomi verso la macchina.
Un giorno alla volta, ha ragione.
C’è tempo per pensare al futuro, ma ho soltanto oggi per godermi la serata.
Entro in macchina, prendendo posto accanto ad Alex, e partiamo verso casa.

 
  
Leggi le 2 recensioni
Segui la storia  |        |  Torna su
Cosa pensi della storia?
Per recensire esegui il login oppure registrati.
Capitoli:
 <<    >>
Torna indietro / Vai alla categoria: Storie originali > Drammatico / Vai alla pagina dell'autore: SirioR98