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Autore: SirioR98    29/04/2019    2 recensioni
In fisica, un sistema isolato è un sistema posto così lontano dagli altri da non interagire con loro, oppure un sistema chiuso che non ha scambi con l’ambiente circostante.
È un sistema perfetto, in equilibrio, costante.
Mi chiamo Noah e mi hanno costretto in un sistema isolato.
Noah è un sedicenne nato e cresciuto in una piccola comunità di mormoni nello Utah. Apertamente omosessuale e fiero di esserlo, si ritrova a convivere per cause di forza maggiore con Alex, la sua “persona preferita”, che si identifica come nonbinary. Esplorando la comunità LGBTQ+ di Salt Lake City e sopravvivendo alle sfide della città natale di Joseph Smith, Noah si vede costretto a crescere prima del tempo e a cercare la sua voce.
Genere: Azione, Dark, Triste | Stato: completa
Tipo di coppia: Het, Slash, FemSlash
Note: nessuna | Avvertimenti: Contenuti forti, Tematiche delicate
Capitoli:
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*Angolo dell'autrice*
Buonsalve, ladies and gentlmen, e ben tornati. La storia di Noah sta per concludersi, il prossimo capitolo pubblicato sarà l'epilogo. Devo ammetterlo, in confronto a Mitch, questa storia è stata un parto, fortunatamente non tanto per blocco dello scrittore, quanto per impegni lavorativi che m'impedivano di scrivere. A proposito, ricordo che il primo libro della saga Sistema Isolato, "Sistema Isolato: Mitch", è ancora disponibile sul sito ufficiale della Feltrinelli! Affrettatevi, perché rimangono poche copie disponibili online. 
Pubblicità a parte, il brano di oggi è Get it Rightdel duo indipendente Oh Honey. La canzone è stata usata nel film di Gren Wells The Road Within (Viaggio verso la libertà), con protagonisti Robert Sheehan, Dev Patel e Zoe Kravitz, la storia di tre adolescenti scappati da un istituto mentale in viaggio verso l'oceano.
Senza aggiungere altro, vi lascio alla lettura del capitolo.

 


Capitolo 19
 

«Ne conto due.» Afferma Marlene, allungando la testa per vedere meglio.
Sayid le da un colpetto con il gomito, indicando la curva della strada.
«Tre, se ne sta aggiungendo un altro.» Ci informa con tono neutro.
«Secondo voi quanti se ne presenteranno oggi?» Chiede annoiata Heather, tamburellando le dita sulle ginocchia a ritmo di una canzone che può sentire solo lei.
Audrie inizia a contare sulla punta delle dita.
«Tre giorni fa erano solo i Paget e se ne sono aggiunti…»


Una mano si poggia sulla mia spalla, risvegliandomi dal ricordo.
Le immagini dei ragazzi svaniscono a una a una, lasciandomi da solo in una stanza vuota.
«Ecco dov’eri finito. Ti stavamo cercando dappertutto.»
Sbatto velocemente le palpebre, cacciando le emozioni di quella giornata.
Avevamo scommesso su quante persone sarebbero venute a protestare. Il montepremi riempiva un quarto della scrivania, chissà chi avrebbe vinto se Winterfield non ci avesse fermati.
Se dovessi indicare uno dei primi giorni della disfatta, quello sarebbe in cima alla lista, insieme, ovviamente, al litigio fra Audrie e la vicina.
Non so nemmeno che fine abbiano fatto i coniugi Paget, è da quasi due mesi che non li vedo.
Giro lentamente il volto verso la mano, sorridendo pensieroso alla mia persona preferita.
«Stai bene?» Mi chiede Alex, un accenno di apprensione nella sua voce.
Scrollo le spalle.
«Ho passato giorni migliori.» Mormoro, chinandomi a prendere lo scatolone contenente i miei vestiti.
«Non posso darti torto.» Concorda, sistemando la spallina dello zaino.
Ha sempre avuto questo brutto vizio di indossarne solo una, la destra, costringendo il corpo in una posa non del tutto naturale per bilanciare il peso.
«Ti si storcerà la schiena a furia di continuare così. Indossa anche l’altra.»
Alex alza gli occhi al cielo ed esce dalla stanza. Non è la prima volta che rimprovero questa sua abitudine.
«Parli come mio nonno. Il riformatorio non ti ha fatto granché bene, vero? Stai diventando noioso.»
Seguo la mia persona preferita in corridoio, lanciando un ultimo sguardo alle pareti spoglie, prima di chiudere la porta.
«Ha parlato Jim Carrey.» Sbotto, arrancando in corridoio per non far cadere i capi penzolanti dallo scatolone.
«Oggi è particolarmente piacevole parlare con te, sai?» Ribatte con sarcasmo, facendomi sospirare.
«Scusa… sono nervoso. Piuttosto, tu come fai a mantenere la calma in una situazione del genere?»
Alex si stringe nelle spalle, facendo ballare lo zaino.
«E che dovrei fare? Disperarmi? Ormai la decisione è stata presa, non si può tornare indietro.» Sostiene con amarezza, scendendo le scale.
«E poi, io sono molto più simpatico di te.» Aggiungo, urlando verso la sua direzione.
«Ti piacerebbe.» Risponde la sua voce.
Corro al piano di sotto, ricongiungendomi con il resto del gruppo.
«Perché non chiediamo il parere di un esterno, allora? Sayid…», chiamo il ragazzo, impegnato in una conversazione con Trevor, precedentemente chiamato Shane, conosciuto una volta come Marlene.
«Chi è più simpatico, io o Alex?» Gli domando, posando lo scatolone sull’ultimo gradino.
Il ragazzo guarda me e la mia persona preferita.
«Noah.»
Sorrido trionfale, indicandolo con la mano.
«Vedi? Si è espressa la voce della verità.»
Alex sbuffa, alzando nuovamente gli occhi al cielo.
«Ma che voce della verità, ha scelto te solo perché è il tuo ragazzo.»
Alzo una mano per fermare le sue proteste.
«Questo è un dettaglio completamente ininfluente. Giusto?»
Mi giro verso Sayid, trovandolo tentennante.
«Non rispondere.» Sussurro, scherzando.
«Il tuo ragazzo? E questo quand’è successo?» Domanda indiscreta Audrie, lasciando saettare lo sguardo fra me e Sayid.
«Sei seria? Non parlo d’altro da, tipo… due settimane? Almeno mi segui sui social? Insomma, donna, informati.» Si lamenta il ragazzo, alzando drammaticamente gli occhi al cielo.
«Avete preso tutto?» Ci interrompe Winterfield, uscendo dalla cucina insieme a Emma.
La donna guarda per terra, non ha la forza di star dritta. Mestamente, si scusa ed esce dalla casa. Passandomi accanto, noto che si scansa per non toccarmi.
La situazione dev’essere peggio di quello che pensi… e, onestamente, non le do alcun torto.
«Noah, puoi aiutarmi a posare questi scatoloni in macchina?» Mi chiede quello che è stato il mio tutore, indicando due contenitori di cartone.
Annuisco, obbedendo in silenzio alla sua richiesta.
Sul vialetto, sento già gli sguardi dei vicini addosso.
Li sento giudicarmi, analizzarmi, spogliarmi dalla testa ai piedi. Si rivolgono con superiorità, come se stessero assistendo al risultato di una disinfestazione andata a buon fine.
Molti non sono rivolti esclusivamente a me.
Con certi occhi freddi, paradossalmente, l’inverno dello Utah m’infonde un tepore piacevole.
Poso lo scatolone nel portabagagli dell’auto di Winterfield.
«Mi dispiace.» Sussurro, mentre l’uomo chiude il portellone.
Josh si appoggia un attimo alla macchina, sospirando sonoramente. Chiude gli occhi, scuote la testa, e si gira verso di me sorridendo.
«Non hai di che scusarti. Non è stata colpa tua», risponde.
Le sue parole sono accompagnate da uno sguardo ambiguo rivolto ai dintorni.
Chino il capo, poggiandomi alla macchina e incrociando le braccia.
«Sì, invece. Se non avessi…»
«Non sarebbe cambiato niente», m’interrompe Emma, posando uno scatolone sul sedile posteriore.
Alzo gli occhi, scrutandola.
Non sembra arrabbiata, nemmeno delusa.
È solo… avvilita. Il che, di certo, non è meglio.
«Come fai a esserne sicura?» domando scettico.
Alza le spalle.
«Lo so e basta. Me lo sentivo.»
«Sono abbastanza sicuro che un reato in meno riguardante un minore a vostro carico avrebbe fatto la differenza…», commento, non accorgendomi di Winterfield che mi segnala di smettere di parlare.
Emma chiude gli occhi con aria sofferta e si massaggia la fronte.
«Cosa vuoi che ti dica, Noah? Che hai ragione? Che non avresti dovuto aggredire quell’uomo? Che avremmo avuto più possibilità di vincere la causa se tu ti fossi trattenuto?» Sbotta, lasciandomi senza parole.
Non l’ho mai vista così… sconfitta. Solo una volta ha alzato la voce con uno di noi ragazzi, ma era accompagnata da preoccupazione. Questo che sento, invece, è un sentimento totalmente diverso.
«Sarebbe facile prendersela con te per com’è andata a finire, facilissimo, te lo assicuro. Scaricarti tutta la colpa e non rivolgerti più la parola. Ma non è colpa tua, e io non riuscirei mai a odiarti.» Prosegue, avvicinandosi a me.
«In parte lo è.» Mormoro, abbassando nuovamente lo sguardo.
Emma mi alza il mento con un dito, finché non mi obbliga a guardarla negli occhi.
«Ha importanza? Ormai è fatta: tu hai pagato per i tuoi errori, noi seguiamo le direttive della corte. Non possiamo tornare indietro e cambiare il passato, dobbiamo solo andare avanti. Abbiamo altro a cui pensare, Alex è ancora sotto la nostra custodia, tu ti stai trasferendo e non ci vedremo più così spesso. A che serve portare rancore?» Bisbiglia dolcemente, con un sorriso negli occhi.
Questa donna è un enigma: prima sembrava adirata, fuori di sé, non riusciva a guardarmi… e adesso cerca di rallegrarmi.
Non la capirò mai.
Eppure, credo sia una delle sue qualità migliori, questa sua ambiguità.
Dal mio vantaggio di qualche pollice in altezza, di cui uno acquisito solo durante la mia ultima detenzione, la tiro in un abbraccio.
La donna ricambia affettuosamente, anche se non stringe come al solito.
«Tranquillo, Noah. Un giorno si sistemerà tutto, sii paziente.» Mi sussurra all’orecchio, sciogliendo l’abbraccio.
Mi poggia una mano sulla guancia. Inclino la testa cercando quel contatto, prendendole delicatamente il polso nella mia mano in segno di ringraziamento e la guardo negli occhi.
Lei, la donna che ha rappresentato l’unica figura materna in questi mesi, di cui sentivo una disperata mancanza. Lei, che ha cercato di consolarmi nei momenti di maggior nervosismo.
«Noah?»
Lei, che mi chiama come se fossi davvero suo figlio.
«Noah?»
Lei, la cui voce si fa adesso stranamente profonda, mascolina.
Una voce che sembra più quella del suo consorte, che appartenere alla sua persona. Eppure, sono le sue labbra che si muovono.
«Noah?»
Lei, la cui immagine ora svanisce lentamente, lasciandomi a contemplare una strada residenziale, abitata da occhi giudicanti e spietati mormorii di vittoria.
E un paio di dita che mi schioccano davanti al naso.
«Sei ancora con noi?» Domanda Winterfield, riportandomi alla realtà.
Sbatto velocemente le palpebre, prendendo coscienza di cosa stia realmente succedendo.
«Sì, io…» Balbetto, cercando Emma con gli occhi.
La donna si è allontanata dalla macchina, sta rientrando in casa. Osservo le sue spalle scomparire dietro la porta, che chiude con un botto.
Il rumore mi fa sobbalzare appena.
Josh se ne accorge, mi posa una mano sulla spalla.
«Tranquillo, Noah, le passerà. Un giorno si sistemerà tutto, sii…»
«…paziente. Già.» Concludo amaro, tornando a guardare a terra.
Sorride malinconicamente.
«Sei un bravo ragazzo, sai? Non darti più colpa di quanto ne abbia veramente, sii più gentile con te stesso.» Mi consiglia, allontanandosi dalla macchina e imboccando il vialetto di casa.
«Vieni?» Mi chiama, non vedendomi accanto a lui.
Con un respiro profondo, mi separo dalla macchina e lo seguo.

«Largo!», mi avverte Trevor, la faccia censurata da uno scatolone.
La sua voce si è abbassata un poco, da quando ha iniziato a prendere il testosterone, ma non è diventato un baritono da una notte all’altra. Sarà una transizione graduale, mi ha istruito il ragazzo, durante una delle sue visite al riformatorio.
I cambiamenti già si vedono, in ogni caso, e non solo quelli fisici, come quel baffetto da preadolescente che sfoggia senza alcun pudore sopra il labbro.
Davvero, vedendolo non sembra proprio la persona che ho conosciuto quando sono arrivato al rifugio. Da quella ragazza introversa che mi hanno presentato durante la mia prima cena in questo nuovo posto sconosciuto, è rinato quel ragazzo sicuro di sé che adesso mi trovo davanti a fissarmi impaziente, nell’attesa che mi tolga di mezzo ai piedi per farlo passare.
«Noah, ti sei bloccato? Guarda che la scatola pesa, muoviti», mi richiama alla realtà, spingendomi di lato con un fianco.
In silenzio, lo guardo uscire dalla porta.
Non so nemmeno se si sia riappacificato con Audrie… ho quasi paura a chiederlo, potrei toccare un nervo scoperto.
Sono un maestro nel dire la cosa sbagliata nel momento sbagliato, sarebbe meglio chiederlo a un esterno.
O farmi gli affari miei.
E forse opterò per quest’ultima scelta.
«Noah, tutto bene?», mi domanda una voce femminile, accompagnata da una mano poggiata delicatamente sulla mia spalla.
Parli del diavolo…
Annuisco ad Audrie, ancora perso nei miei pensieri.
Il trasloco, l'abbandono della casa, il senso di colpa… oggi non è la giornata giusta per prendere decisioni.
«Sì, va tutto bene. Sono solo sovrappensiero» spiego, voltandomi verso la ragazza.
Lei mi sorride dolcemente, guardandomi negli occhi.
«Non so che dire in queste situazioni, è lo stesso se ti abbraccio?»
«Anche meglio, onestamente.» Rispondo, tirandola fra le mie braccia.
Lei dolcemente ricambia.
«Non ci siamo capiti, stringi più forte.» La esorto.
Gli abbracci così molli mi danno fastidio quando sono in questo stato d'animo.
Lei mi accontenta, costringendomi in una morsa che potrebbe infastidire la maggior parte delle persone, ma è perfetta in questo caso.
Ecco ciò che mi servirebbe per calmarmi, quando entro nel vortice: un abbraccio serrato.
Poggio la guancia sulla sua spalla, rilassando un po' la schiena.
«Grazie», biascico, le labbra spinte in una posizione innaturale dalla sua spalla.
«Nessun problema» risponde, passandomi ritmicamente una mano sulla schiena, con quel movimento così familiare che mio padre usa fare in queste circostanze. Che gliel'abbia consigliato lui?
Il solo pensiero mi fa sorridere.
Ed è così che ricordo quanto Audrie si trovi a disagio in certe situazioni. L'ho vista altre volte scappare alla vista di tristezza e rifugiarsi nel bagno più vicino.
Solo con Marlene… intendo, Trevor, non si tirava indietro.
Chissà perché ha deciso di confortarmi.
“Perché siete amici”, mi sussurra una vocina dentro di me.
È vero, perché siamo amici.
Io sono suo amico.
Certo, sono quell'amico che ha contribuito a farle perdere la casa, un pessimo amico sotto questo punto di vista.
Ma lei si è messa a litigare con i vicini... Eppure, ha solo reagito a intimidazioni, proprio come me.
Lei è stata la goccia che ha fatto traboccare il vaso, io il colpo che lo ha fatto cadere e rompere in mille pezzi.
Anche Audrie, come me, starà provando un profondo senso di colpa.
Anche Audrie, come me, avrà vissuto queste settimane come una tortura.
La abbraccio più forte, massaggiandole la schiena a sua imitazione.
Questo gesto di conforto serve tanto a me quanto a lei.
«Lo sai che non è colpa tua, vero?» le sussurro, senza spostare la testa di un centimetro.
«Nemmeno tua.» Ribatte, poggiando il mento sui miei capelli.
«Non è colpa di nessuno di voi due.» Commenta Alex, interrompendo il momento di tenerezza creatosi tra due auto-riconosciutisi colpevoli.
Sciogliamo l'abbraccio in sincrono, girandoci verso la mia persona preferita.
«Ve lo ripetiamo da settimane e ancora non vi è entrato in testa. Credeteci. Adesso, qualcuno mi può aiutare a portare gli scatoloni? Manca solo questo» dice, alzando lo scatolone che porta fra le mani, mostrandomelo, «e uno simile in cucina», conclude, accennando con la testa nella direzione indicata.
«Vado io, ancora non ho portato nulla.» Si propone la ragazza, avviandosi verso la cucina senza aspettare una mia lamentela.
Lamentela che non avrei alzato, visto che è da una mattinata che faccio avanti e indietro con scatole, scatoline e scatoloni.
“Sii gentiluomo, non far andare una donna“, potrebbe pensare qualcuno.
Si dia il caso che quella donna in particolare riesce perfettamente a prendermi in braccio, non si farà di certo problemi per una scatola di stoviglie.
Che pensiero maschilista, precludere a una donna la possibilità di partecipare a un’attività fisica come il sollevamento pesi.
…Va bene, sono stanco, lo ammetto. Mi voglio riposare, me lo merito.
E quindi Alex, con al seguito la ragazza, porta gli ultimi contenitori in macchina.
Io, dal mio canto, entro nel soggiorno, il pavimento ancora di un colore diverso laddove si trovavano i mobili in legno, il tavolino, i divani, le poltrone e i vari cuscini messi a terra, a creare sedute per una quindicina di ragazzi.
La moquette è macchiata permanentemente proprio accanto a uno di questi segni, proprio in quel punto dove Heather aveva fatto cadere del succo a causa di una risata troppo animata, durante una di quelle serate cinematografiche a cui Emma tiene tanto.
E lì, sopra quella chiazza enorme che segna la posizione di uno dei due divani, mi sono seduto alla prima “riunione di famiglia”, come le definiva Sayid, a cui ho preso parte.
Quando il mio attuale ragazzo era stato accusato da Audrie del furto del suo diario.
A proposito del diario, ho smesso di scrivervi quasi subito, più o meno quando le mie giornate si sono fatte così nevrotiche da non lasciarmi la forza di esprimermi. È buttato da qualche parte negli scatoloni dentro la macchina di mio padre, dovrei riprenderlo una volta arrivato a casa.
Casa…
Mi siedo al centro della stanza, accarezzando la vissuta moquette. Ritiro subito la mano, velatamente disgustato dalla sensazione di polvere sulla pelle.
Tiro le gambe al petto, abbracciandole, e poggio il mento sulle ginocchia.
Dopo anni, sto tornando in quella che ho definito casa per la maggior parte della mia vita. Sto tornando come una persona diversa, estranea a quelle mura.
Cosa dirò a mia madre? Come le racconterò quello che mi è successo dopo che mi ha cacciato di casa?
Come si fa a riconciliare un rapporto dopo una frattura del genere?
Di sicuro non potremo tornare come prima, ma spero almeno che, questa volta, mi accetti.
No, non potrei raccontarle quello che ho vissuto, il senso di colpa sarebbe insopportabile. La vergogna mi ucciderebbe.
Nessuno dei due riuscirebbe a guardare l'altro nella stessa maniera.
No, è meglio di no, è meglio tenerla all'oscuro di tutto. Nemmeno papà sa nei dettagli cos'ho passato.
La psicologa sì, a lei ho dovuto dire tutto, ma le ho chiesto di mantenere il silenzio.
Per ora va bene così, io riesco a mettere da parte il passato, a non farci caso, a ignorarlo e andare avanti. Ci sono abituato.
Loro no.
Forse è meglio proteggerli, almeno all'inizio.
Dobbiamo ricostruire il rapporto, diventare nuovamente una famiglia. Quando avremo raggiunto di nuovo uno stato di semi-equilibrio rivelerò tutto.
O almeno quando sarò pronto.
Sempre se lo sarò.
Per ora, siamo all'inizio di un lungo cammino.
«Pronto ad andare?» Chiede Sayid, abbracciandomi da dietro, facendomi sussultare per la sorpresa.
Ero così immerso nelle mie decisioni da non sentirlo arrivare.
E lui se ne accorge.
«Ti ho spaventato?» Domanda, con una preoccupazione tinteggiata di divertimento.
Scuoto la testa.
«A che stavi pensando?»
«A casa…» rispondo in un sussurro.
«Casa, eh? Bei giorni ti aspettano, vero?» commenta sarcastico, conoscendo tutta la situazione.
«Già… non stai scomodo?» Domando, notando solo ora la sua posizione: è accovacciato sulle mezze punte, ha le ginocchia sui miei fianchi e le braccia intorno al mio collo. Poggia il suo peso metà sui piedi, metà sulla mia schiena, piegato in una posizione innaturale per l'uomo occidentale.
«No, ma quale, sono comodissimo.»
Sorrido, spostando testa e busto di lato per guardarlo in viso, causando un'alterazione nel suo baricentro.
«Sarcasmo?»
«Indovinato.» Ribatte, poggiando una mano a terra per ritrovare l’equilibrio.
«Siediti accanto a me.» Gli propongo.
«Dobbiamo andare…» Protesta, cercando di farmi resistenza.
«Solo un attimo», insisto, tirandolo giù.
Dalla posizione instabile in cui si ritrova, non ha altra scelta che assecondarmi.
«Va bene, ma solo qualche minuto, poi dobbiamo andare.» Mette in chiaro, sedendosi comodamente.
Sorrido, guardando la scoloritura della moquette.
«Ti ricordi quando Audrie ti ha accusato di averle rubato il diario?» Domando nostalgicamente.
«Quando vi siete trasferiti qui?»
Annuisco.
«Vagamente. Ricordo di averti visto per la prima volta e aver pensato…»
«”Ecco il mio prossimo ragazzo”?» Lo interrompo cercando di anticiparlo.
Scuote la testa.
«”E questo chi diavolo è? Cazzo guarda, che vuole da me?”» Finisce, trattenendo un sorriso di scherno.
«Finissimo!» Commento, ridendo.
«Poi ti ho guardato bene, e ho deciso di farci un pensierino.» Aggiunge, spingendomi leggermente con la spalla.
Alzo gli occhi al cielo.
«Parlando seriamente, sai che anche io tornerò a vivere a casa?» M’informa di punto in bianco.
Mi volto verso di lui con tutto il corpo.
«Davvero?» Chiedo incredulo.
Il ragazzo annuisce.
«Sì. Un paio di settimane fa mi ha cercato mia sorella, siamo usciti a mangiare qualcosa e abbiamo parlato di quello che era successo, della mia situazione, del rifugio. Le ho chiesto se potesse parlare con mamma e papà per convincerli a farmi tornare e, a quanto pare, ci è riuscita.» Mi racconta, lasciandomi sbalordito.
«Sei serio? È magnifico, perché non me l'hai detto subito?»
Si stringe nelle spalle.
«Volevo esserne certo.» mormora, guardando il pavimento.
«E tu non sei felice? Non mi sembri contento, non vuoi tornare a casa?» chiedo perplesso.
«Si… cioè, sono felice. Però, adesso dobbiamo affrontare ciò che è successo… sai com’è, no?»
Sospiro, conoscendo perfettamente la sensazione.
«Eh… hai ragione.»
Penso sia comune a chi torna a casa dopo essere stato cacciato.
Quel senso di disagio che si crea dopo una rottura così brusca.
«Invece, sai gli altri dove finiranno?» Domando, cercando di sviare l'argomento verso qualcosa che non lo impensierisca.
«Alex rimarrà con i Winterfield, essendo suoi tutori, gli altri che conosco mi pare andranno in famiglie affidatarie, ma non sono sicuro per Trevor. Forse lui andrà in un altro centro del genere, ma dovrà cambiare città, probabilmente. So che a sud ce n’è uno, ma non ricordo precisamente dove.» Spiega come meglio può.
La verità è che, purtroppo, ne sa quanto me.
I ragazzi in affidamento non sanno dove verranno piazzati finché non incontreranno la famiglia. È come una roulette: a volte vinci, e capiti in una famiglia decente, a volte non hai altrettanta fortuna.
E nel caso di ragazzi come noi, rifiutati perché differenti, buttati per strada come oggetti malfunzionanti, la nostra puntata raramente viene piazzata sulla casella giusta.
Chissà quanti verranno piazzati da altri ‘Bennet’, chissà quanti scapperanno nuovamente.
In tutta onestà, spero di non leggere i loro nomi sui necrologi, fra qualche tempo.
Ho paura che la prossima riunione di noi tutti sia a un funerale precoce.
Vorrei tanto star esagerando, vorrei tanto che questa non fosse una possibilità reale.
È per casi del genere che i Winterfield hanno aperto il rifugio. È da un caso del genere che il rifugio sta chiudendo.
L'odio insensato è un'arma potente, quando rivolto verso una minoranza.
Tutti piangono per un ragazzo di alta classe morto per una stupida sfida, lanciata da un membro della confraternita durante una serata particolarmente animata.
Nessuno piange per un ragazzo ucciso perché diverso, secondo i canoni della maggioranza.
Sono entrambe tragedie, perché non si dovrebbe spendere una lacrima per entrambi?
Non lo capisco.
Quando ci si trova in queste situazioni, si deve fare fronte comune. Nessun estraneo ci aiuterà. Se non lo facciamo noi, chi?
Siamo costretti a essere colpiti personalmente per ritenere qualcosa come importante.
Siamo costretti a essere colpiti personalmente per trattare gli altri come esseri umani.
E scatta la mentalità “noi contro loro”, che divide ancora di più la società in una miriade di piccoli gruppi, finché il mondo non sembra un quadro puntinista.
Un insieme di macchie di colore che formano un’immagine più grande.
Ma nel caso della società contemporanea, il quadro sembra essere stato dipinto da un pittore schizofrenico durante un momento di mania.
Non riusciamo a vedere la figura che dovrebbe essere rappresentata, ci concentriamo sulle singole pennellate perché è più facile, più immediato, e dimentichiamo di essere tutti posti sulla stessa tela.
Se solo ci si fermasse e si facesse un passo indietro per osservare meglio, forse anche usare una luce diversa, o guardare il tutto da uno specchio, se si guardassero i colori in accordo con il vicino, allora la figura diventerebbe intellegibile, e il quadro non sembrerebbe più schizofrenico, ma incredibilmente vario e particolare.
Non capisco.
Non capisco davvero.
Eppure, se il mondo si concentra solo su un colore, perché dovrei fare lo stesso?
Perché dovrei dimenticare la figura, quando ho appena iniziato a intravederla?
Anche io mi concentrerò sul mio colore, e su quello vicino, e su tutti gli altri, e farò una foto al quadro per poi condividerla accompagnata dalla spiegazione.
Se gli altri non si mobilitano, cosa m'impedisce di farlo?
Se aspettiamo che qualcun altro pensi ai nostri bisogni, allora aspetteremo in eterno.
Sayid si alza in piedi.
«Quindi, sei pronto ad andare?» Mi chiede, porgendomi la mano.
La guardo un attimo, per poi prenderla, alzarmi in ginocchio e tirarlo verso di me per guardarlo da vicino, naso a naso.
«Sayid, ti posso fare una proposta folle?» Chiedo serio.
Il ragazzo guarda confuso.
«Folle quanto?»
«Così tanto da lasciarti in dubbio sulla mia capacità di intendere e di volere. Totalmente da pazzi. Incredibilmente folle, ma dannatamente soddisfacente.»
Sayid mi guarda sospettoso.
«Che hai in mente?»
Lo guardo negli occhi e ghigno.
  
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